Grazia Deledda. Viaggio tra luoghi interiori.

di Flavia Sorato

«Il rimedio è in noi», sentenziò la vecchia, «cuore bisogna avere, null’altro…»

G. Deledda, Canne al vento.

La scrittura della Deledda ha in sé un principio d’immutabilità che, prendendo forme diverse, si presenta nella sua opera come tenacia, a volte si traduce in invariabilità, a volte poi una magica eternità si combina ad un senso di tragica consapevolezza di ciò che si consuma, che non arriverà mai, ineluttabili bagni di realtà che trasmettono l’esperienza del dolore. A tutto questo si accompagna, poi, un certo senso dell’altrove, d’un’altra dimensione che assume differenti e nascoste declinazioni. Luoghi vicini e discosti, quelli della sua penna.

Gli scritti dell’autrice compongono un sistema eterogeneo che da sempre l’ha resa difficile da incasellare, fortunatamente, perché ricondurla ad uno od altro “ismo” non la potrebbe descrivere e forse non aiuta appieno nel comprendere il suo lavoro.

Buona parte della critica ha sempre additato un certo immobilismo alla Deledda, che fa riferimento ripetutamente ad alcune realtà e simboli, in uno stesso modo, ribadendo immagini, come i giunchi argentei lucenti alla luna, un colore e una presenza, la luna, che tornano spesso nelle sue opere, insieme a personaggi e scenari. Ma è questo stesso mondo, crudele, sofferente ed avvolto da incantesimi e presenze soprannaturali, che ripresentandosi ogni volta nella sua precisa sincerità riavvicina il lettore e lo lega alle parole evocatrici della scrittrice.

Accanto, però, a certe interpretazioni che si sono succedute, contrapposte, l’altrove anche è un tema che ritorna nei suoi testi, sia soprattutto perché quelle dei suoi personaggi sono ricerche di approdi interiori, sia perché di certo la questione assume molte altre sfumature ed infatti si declina su più livelli e come un filo attraversa fasi, intenzioni e scelte della scrittrice.

La Deledda, così fortemente legata ai suoi luoghi e allo stesso tempo attraversata dal desiderio d’uscire dai confini dell’isola, fin da giovane cerca di condurre il più possibile con intensità la sua vita, dedicandosi alla scrittura e circondandosi di persone legate all’ambiente letterario, alla ricerca di quel terreno fertile per coltivare sogni e speranze. In quel contesto conosce uomini con cui intesse relazioni, a volte «preda di una di quelle passioni fantastiche che avranno una meravigliosa funzione compensatoria durante tutta la sua vita». Uno dei suoi primi amori è Antonino Pau, un amico del fratello Santus: la Deledda ne è rapita tacitamente, è affascinata dalla sua cultura, lui che legge poeti, adora d’Annunzio, bello e appassionato, viaggiatore.

Ma questi rapporti della giovinezza, anche a causa della famiglia, non porteranno ad unioni stabili, visto che i genitori della ragazza auspicano posizioni sociali migliori per la figlia e lei stessa, che ormai sente il desiderio di lasciare la Sardegna, spera in qualcuno con cui poter partire una volta sposata. Ecco, allora, che un’occasione tra amici le dà la possibilità di conoscere il suo futuro marito, Palmiro Madesani, che vive e lavora a Roma, una meta da tempo sognata dalla giovane donna: così, dopo il matrimonio, la coppia salpa subito per la capitale.

Viaggio tra il soprannaturale

Un’aura ancestrale pervade le storie deleddiane. L’accostamento tra naturale e soprannaturale è così presente nei suoi libri che non possono dunque questi essere confinati nell’ambito del solo Verismo, etichetta molto spesso apposta all’autrice. È, infatti, un suo forte tratto quello di inserire e trattare l’elemento fiabesco: leggende ed elementi della tradizione sarda popolano i suoi testi, intrisi di cultura religiosa ed etnografica dell’isola. La sua potenza immaginifica attinge molto e profondamente al mondo del folklore, riuscendo a raccogliere e tramutare quella ricchezza di contenuti in un universo suggestivo e magnetico: la si tocca quell’atmosfera sospesa, prodigiosa, è come un tessuto sottilissimo che si apre e svela una notte fatta di presenze antiche, magiche. Nei libri della Deledda accade come di attraversare una soglia, le parole si fanno porta ed ogni volta la lettura diventa un passaggio, schiudendo un mondo in cui è possibile esplorare un paesaggio misterioso ed arcano.

Era il sospiro delle canne e la voce sempre più chiara del fiume: ma era soprattutto un soffio, un ansito misterioso, che pareva uscire dalla terra stessa: sì, la giornata dell’uomo lavoratore era finita, ma cominciava la vita fantastica dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti […] e i nani e le janas, piccole fate che durante la giornata stanno nelle loro case di roccia a tesser stoffe d’oro in telai d’oro, ballavano all’ombra delle grandi macchie di fillirèa, mentre i giganti s’affacciavano fra le rocce dei monti battuti dalla luna, tenendo per la briglia gli enormi cavalli verdi che essi soltanto sanno montare, spiando se laggiù fra le distese d’euforbia malefica si nascondeva qualche drago…(Canne al Vento).

Sicuramente la Deledda rimane una delle guide principali della Sardegna, dato che le descrizioni di certi luoghi riempiono le pagine della sua narrativa:

un orizzonte favoloso circondava il villaggio: le alte montagne del Gennargentu, dalle vette luminose quasi profilate d’argento, dominavano le grandi valli della Barbagia, che salgono, immense conchiglie grige e verdi, fino alle creste ove Fonni, con le sue case di scheggia e i suoi viottoli di pietra, sfida i venti e i fulmini (Cenere)

Prima bozza autografa

Una certa geografia è fortemente presente anche nei suoi scritti incentrati sul fantastico: ci si trova, ad esempio, sulle montagne del nuorese o in luoghi ai più sconosciuti, come le nurras, cavità calcaree nelle cui profondità si pensava dimorassero creature malefiche ed il diavolo stesso.

Ci si avventura in zone di confine, in castelli, santuari, si attraversano territori e ci si ferma in riva a fiumi, come il Coghinas, presso cui è ambientata una storia sarda che parla di una donna che per un amore infelice si fa trasformare in una coga, (strega o maga malefica), e dove appare il classico elemento del tesoro nascosto.

Tra fiabe e leggende trasmesse, rivisitate e riscritte con varianti, dunque, «è possibile ritrovare la Sardegna mitica della Deledda, ovvero quella terra di per se stessa leggendaria e misteriosa, dove ogni chiesa campestre, ogni rovina di castello o di chiostro, ogni villaggio, ogni cussorgia, ogni grotta, ogni dirupo, ogni montagna, ogni landa ha la sua leggenda; ma anche il mistero della favola, quel silenzio finale, grave di cose davvero grandiose e terribili, il mito di una giustizia sovrannaturale, l’eterna storia dell’errore, del castigo, del dolore umano, ossia tutti quei motivi su cui poggia la poetica della scrittrice». (Fiabe e leggende sarde, Indibooks)

Torna alla mente una storia di Stevenson Thorgunna. La donna abbandonata «un racconto d’Islanda, l’isola delle fiabe…». La distanza è tanta, la terra sarda è così diversa dalle spiagge nordiche. Ma i silenzi, la spuma che s’infrange con forza sugli scogli, i segreti sotto i ghiacci e tutta la magia che pervade quei luoghi, ricorda in qualche modo le forti passioni, i misteri e l’atmosfera di sortilegio o maleficio che la Deledda dipinge nelle sue pagine. E poi quella affinata capacità che la scrittrice ha di restituire i mondi interiori, donne e uomini che vivono con dolorosa complessità i propri moti intimi, si respira similmente in quest’opera dello scrittore scozzese, se pur con tutte le ovvie diversità.

Il racconto di Stevenson è una storia di psicologie femminili, di animi, oscuri e bianchi, di menti e di cuori che si macchiano di colpe o che riescono a salvarsi.

Si ritrova qui il tema del viaggio, un’eco di avventure lontane: la vichinga Thorgunna, una donna che esplora mari e terre da sola, arriva a Snowfelness, trasportando con sé bauli colmi di vestiti e ninnoli degni di una regina. Il titolo originale del racconto è The waif woman inizialmente pubblicato in Italia con la traduzione ‘La randagia’, che se pur meno letterale, in parte rendeva meglio quel senso del vagare e di un cammino individuale sì difficile e faticoso, ma anche immagine d’una libera non appartenenza.

Thorgunna approda in un nuovo regno e la signora del maniero, Aud, frivola e preda di avidità ed invidie, vuole stringere a sé tutti i preziosi averi della straniera. Come è possibile prevedere, proprio questa fame esagitata di ricchezze ed il bisogno di ammirazione, la porteranno su una strada oscura e solo la giovane figlia Asdis, esempio d’intelligenza che sa renderla prudente in quella dimensione che obbliga al rispetto di forze più grandi di sé, avrà la lucidità alla fine di compiere ciò che era necessario per riportare equilibrio.

Strade interiori

Ambizione, colpa, senso del peccato, commettere errori: tutti temi, questi, che costellano gli scritti della Deledda. Come anche i forti amori, spesso rincorsi e desiderati.

Da una favola ad un’altra, c’è un racconto dell’autrice che svela molto di lei e del suo rapporto con la scrittura, una malinconica piccola opera che approfondisce i motivi della vicinanza e distanza da sé stessi.

Il rifugio è una storia di un percorso interiore, della ricerca di un nuovo approdo esistenziale che possa offrire se non la salvezza, forse, un riparo vitale.

La principessa Alys vive in un bel castello, senza nulla che materialmente le manchi. Dopo aver sposato un vero e proprio principe azzurro, ideale dell’uomo che riscatta e salva dalla povertà lei e sua nonna, aveva creduto di poter vivere felicemente. Ma il tutto, ipoteticamente idilliaco e perfetto, si mostra essere sofferentemente diverso nella quotidiana realtà. Non c’è vero amore nel cuore della donna, che vive come inconsolabile assenza la mancanza di un sentimento che la vitalizzi, tanto da finire costretta in un’ovattata dimensione di noia e torpore. La sua resa, ad una vita priva di ciò che conta, di ciò che potrebbe animarla, la rinchiude in una prigione emotiva che diventa luogo dalla duplice valenza: nascondiglio e memorandum di ciò che non c’è.

Essere moglie amata, madre, padrona di tutto, non colma quello spazio percepito come posto interiormente non giusto. Alla fine, l’unico altrove in grado di poterla accogliere e dar voce alla sua natura, in cui trova casa la sua identità, è la scrittura:

e lei si rifugiò e si affondò con tutta l’anima e tutti i sensi inquieti nella sua opera: e le sembrava di scrivere quella lettera d’amore che non era riuscita ad incominciare. Lettera per uno e per tutti, che parla di chi scrive e di chi legge e non domanda nulla, ma vuole tutto, e si sfoga, e si vendica del dolore sofferto, dell’amore non avuto, ma che potrà venire, che anzi è già nell’anima della pagina creata; e supera le ingiustizie della vita, e inghirlanda coi fiori della speranza, della gioia, dell’immortalità (Il Rifugio).

Lettere nel mondo

Amore e sorte. Due grandi forze dell’universo deleddiano, presenti non solo nella sua narrativa ma anche in quello che è il grande corpus di lettere da lei scritte: l’autrice ha intessuto degli intesi rapporti epistolari nel corso della sua vita e come ben approfondisce la studiosa e docente Rossana Dedola, molte lettere forse sono ancora custodite in un qualche archivio, nel mondo, in attesa di essere scoperte. La Dedola, proprio in un suo lavoro “Grazia Deledda”. Lettere e cartoline in viaggio per l’Europa”, dà spazio ad una parte della produzione epistolare dell’autrice nuorese, che ancora non era affiorata ma che racconta molto della sua vita privata e dello sviluppo di alcune sue opere, come “Elias Portolou”, “L’edera” e “Canne al vento”.

Insieme alla variegata produzione che deriva dall’assidua collaborazione con le riviste, la cospicua corrispondenza popola e compone in buona parte l’universo della scrittura deleddiana. Di lettere ne sono state trovate tante in archivi vari e la Dedola stessa, infatti, ne ha scoperte e rintracciate alcune a Zurigo, Weimar, Vienna e suppone pure ce ne possano essere ancora d’inedite, anche in Giappone. Non v’è dubbio, in ogni caso, che quelle conosciute siano delle importanti eredità che restituiscono anche una mappa dei suoi luoghi e delle sue trasferte, in posti e città come Parigi, ad esempio: scrive nel 1910

Carissima Signora ed amica, ella ha ben ragione di credere che una gita a Parigi non può cambiarmi! Passato il momento, io sono ritornata alla mia solita vita di lavoro e sogno: la città immensa e rumorosa mi fece una grande impressione, ma ritornata a Roma ho gustato meglio la relativa quiete, la luminosità e la solennità di questa nostra eterna città sempre bella.

Solita vita di lavoro e sogno. È in quest’immagine forse, l’essenza della Deledda e della sua opera. 

Bibliografia di riferimento:

R. DEDOLA, Grazia Deledda. Lettere e cartoline in viaggio per l’Europa, Il Maestrale, Nuoro 2021.

R. DEDOLA G. DELEDDA. Gli amori, i luoghi, le opere, Avagliano, Roma 2016.

G. DELEDDA, Il rifugio, Alter Ego, Viterbo 2020.

G. DELEDDA, Canne al vento, Mondadori, Milano 2018.

G. DELEDDA, Amore lontano. Lettere al gigante biondo, 1891-1990, Feltrinelli, Milano 2010.

R. L. STEVENSON, Thorgunna, la donna abbandonata, Alter Ego, Viterbo 2018.

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