Reflex en voyage. Vernissage di Francesca Consoli

di Gilda Y. Diotallevi

In occasione della mostra fotografica dell’artista Francesca Consoli abbiamo discusso sul valore della fotografia di viaggio. Lo spunto ci è stato fornito da questo lavoro della Consoli che, in tredici scatti, esplora la questione della memoria e del viaggio stesso.

Reflex en voyage, titolo dell’intero progetto, rappresenta un manifesto esemplificativo su passione e metodo. Le differenti tecniche fotografiche sperimentate negli scatti sono funzionali al ricordo, al risveglio di una memoria che da privata diventa essenzialmente una testimonianza condivisa.

La fotografia di viaggio, dalla sua nascita fino a oggi, ha subito profondi cambiamenti non solo riguardo l’aspetto tecnico-scientifico ma anche per ciò che concerne il suo scopo. Nata per assolvere a una funzione documentale, capace di riproporre la natura così com’era senza cioè l’apporto dell’artista che la ritraeva, finisce oggi per essere tramite di un ricordo privato. La sua vocazione iniziale si diluisce attraverso la facilità di scattare e riprodurre immagini. Sembra così che la sua natura venga minata dall’interno e che a prendere il sopravvento sia la moda del viaggio, del presenzialismo, piuttosto che l’unicità e la straordinarietà.

La domanda che vorrei perciò porle Francesca è se oggi sia ancora possibile che una foto trattenga in se stessa sia l’elemento documentaristico che quello dell’impressione personale oppure se questo tragitto della fotografia l’abbia completamente snaturata. Se cioè la foto di viaggio sia ancora capace di trattenere in se stessa quella allure iniziale, quel gusto per l’esotico che pare, anche in correlazione con la nascita del digitale e della riproduzione immediata di scatti, essersi esautorata.

FC: «Se penso alla storia della fotografia di viaggio dai suoi albori certamente sembra essersi snaturata. L’avvento del digitale ha infatti ancor più facilitato un proliferare infinito di fotografie e fotografi che non necessariamente però deve essere visto con negatività. Tutto è diventato più facile, si è persa quella dimensione elitaria iniziale ma allo stesso tempo tutto è diventato ancor più fruibile e con maggiore facilità veicola passione e curiosità. Anche il fatto che sia aumentata, nel tempo, la possibilità di viaggiare ha influito sul cambiamento, anzi sono certa che vada di pari passo. Man mano poi che la tecnologia si è evoluta, si è alleggerita, la fotografia in generale, quindi anche quella di viaggio, è diventata qualcosa di molto più fruibile. 

Oggi si viaggia per piacere, per lavoro, come esperienza culturale, gastronomica con una facilità e accessibilità economica che prima non era pensabile. Ciò permette alle persone di riconoscersi con maggiore facilità nel proprio, di portare a casa ricordi di una precisa esperienza.

Le mie fotografie sono in realtà anche il frutto di questo. In ogni scatto che ho esposto, è come se avessi una madeleine proustiana, perché attraverso la vista di una foto ricordo tutte quelle emozioni, tutti quei profumi, quei momenti che ho vissuto in quel viaggio. Non solo in quella singola fotografia ma in quel viaggio.

Forse anche perché ho tutto il pensiero come racchiuso in un piccolo quadro. Ho una visione del mondo a riquadri e non soltanto quando sono in viaggio ma anche quando cammino, vivo, anche questa sera vedo voi già in foto, pronti al taglio giusto dell’immagine. Mi viene spontaneo, ancor più quando sono in giro con la macchina fotografica che mi permette fattualmente di riproporlo.»

Quindi potremmo sostenere che se da un lato è innegabile che un certo cambio di natura vi sia stato, dall’altro esso stesso è stato l’artefice della creazione di un mondo alternativo.

FC: «È esattamente così. Se l’originale essenza della fotografia di viaggio si è snaturata, questa stessa stortura ha permesso a noi di arricchirci. Ci ha donato qualcosa, ha reso le persone capaci di una condivisione prima inimmaginabile, ci ha avvicinati nel privato, tramite la passione stessa.»

Questa sera lei presenta 13 scatti, ma sarebbero potuti essere altri e di numero molto superiore. Perché proprio questi? Credo la domanda sottesa sia in realtà un’altra, ovvero perché una foto crei un certo interesse e un’altra no. Vorrei riportare un passo di Roland Barthes che, nel testo ‘La camera chiara’, si occupa proprio di questo problema.

«Perché una certa foto crea un interesse? […] è piuttosto un’agitazione interiore, una festa, un lavorio se vogliamo, la pressione dell’indicibile che vuole esprimersi. E allora? Chiamarla interesse è poco. […] allora vorrei sapere che cosa, in quella foto, fa fare tilt dentro di me. Mi pareva che la parola più giusta per   designare l’attrattiva che certe foto esercitano su di me fosse la parola avventura. La tale foto mi avviene, la talaltra no. (pp. 20-21)»

E ancora.

«[…] i due elementi, la cui copresenza sembrava fondare quella specie di particolare interesse che io avevo per quelle fotografie» consistevano, secondo Barthes, l’uno nello studium, ovvero il campo d’interesse, l’altro nel punctum, ovvero in quell’elemento che viene a infrangere (o a scandire) lo studium. «[…] in questo caso non sono io che vado in cerca di lui ma è lui che, partendo dalla scena, come una freccia, mi trafigge. […] infatti il punctum è anche: puntura, piccolo buco, macchilona, piccolo taglio. Il punctum di una fotografia è quella fatalità che, in essa, mi punge, ma anche mi ferisce, mi ghermisce. (pp. 27-28)»

Quindi, una volta stabilito la fotografia di viaggio come suo studium, come cioè ristretto campo di un sapere, che cosa l’ha ferita al punto far cadere la sua scelta su alcuni scatti?

FC «Quando mi sono trovata a dover scegliere ho individuato un filo conduttore. Il colore. Mi sono sorpresa da sola, perché nel momento della scelta, che mi sembrava complessa, posavo di più lo sguardo su alcuni scatti che avevano o esplosioni di colori o un bianco e nero più freddo, con maggiore contrasto. Stavo scegliendo irrazionalmente forse, ma avevo trovato un criterio.

L’essere colpita da qualcosa è raro, ma quando accade è come se ciò che avrei voluto fare si condensasse in un punto. E quel punto rappresenta esattamente come io vedo città e luoghi. Faccio un esempio. Il quadro intitolato Pietralata, che ritrae appunto il medesimo luogo, ovvero un posto che pare diventato una città a se stante e che mi ha trasmesso il senso della duplicità. Da un lato infatti era ancora viva la decadenza, ma dall’altra c’era il contrasto con alcune baracche circondate da tantissimi locali moderni, da luci e suoni.  Cercavo qualcosa che mi colpisse in tal senso e credo di averla trovata. Mentre perciò la foto che ritrae Trastevere potrebbe riferirsi alla Roma di tanti angoli differenti, questa foto indica solo Pietralata, solo quel luogo capace di coniugare insieme modernità e degrado.»

Visto che ha citato proprio questo scatto, vuole parlarcene di più?

FC «Lo scatto intitolato appunto Pietralata, è quello che forse assomiglia di più a un quadro. Una insegna caduta per il maltempo e comunque mai riparata. I suoi frammenti, così tanto luminosi, mi hanno fatto vedere qualcosa. Quella era per me Pietralata, i frammenti di luce nel nero della strada, nella povere della pioggia. I pezzi si trovano da soli così, così ha fermato quella casualità che sembrava racchiude il tutto.»  

Pietralata

Lei ha citato il rapporto con la pittura. In realtà la fotografia, come ha perfettamente premesso, non può essere trattata alla stregua della pittura, che vive di tecniche e di parametri già consolidati nel tempo. Nella fotografia il discorso è differente. Per tornare al testo di Barthes, che in un certo senso ci sta guidando in questa nostra discussione, il filosofo rivendica nella fotografia, rispetto alla pittura, un infra-sapere, la possibilità cioè di accedere a qualcosa. «Poiché la Fotografia è contingenza pura e poiché non può essere altro che quello […] essa consegna immediatamente quei particolari che costituiscono precisamente il materiale del sapere etnologico.  […]  La Fotografia può dirmelo, molto meglio dei ritratti dipinti. Essa mi permette di accedere a un infra-sapere». Lei Francesca si trova d’accordo con questa posizione?

FC «Non so dire esattamente cosa differenzi una foto da un quadro, ma ciò che posso asserire con certezza è che per me la macchina fotografica mi permette di esercitare una magia, di racchiudere un pensiero, una sensazione. E che, al contrario, quando osservo le foto dei grandi maestri, di chi è venuto prima di me o quando osservo le foto di mio padre (n.d.r. il grande fotografo Carlo Consoli) è come se qualcosa avvenisse in me. Vengo portata altrove.»

Pensi che la tecnica, tu hai usato in realtà tecniche diverse per questi scatti, possa attrarre l’attenzione, possa fungere da catalizzatore o sei contraria a una eccessiva manipolazione della pellicola.

FC «Per rispondere prendo ad esempio il fotoritocco che oggi ti permette di fare praticamente tutto su una foto e che però al tempo stesso può snaturare anche tutto. La pellicola riesce ancora a mostrare il suo valore. Io faccio sempre un paragone un po’ forte. Penso alla formula uno di venticinque anni fa in cui le macchine era già forti ma era il pilota a fare davvero la differenza. Così nella fotografia con la pellicola era più difficile ingannare, ciò che riuscivi a fare con lo sviluppo potevi aggiustarla con la saturazione, la luce, ma non potevi tornare indietro. La foto era lì, era quella. Non potevi migliorarla.

Adesso la formula uno è diventata tutta macchina, e la tecnologia supera le abilità del pilota. Non che il divertimento sia minore ma è diverso. Nello stesso modo il fotoritocco permette, da una singola foto, di creare l’impossibile. Aggiungere persone, cambiare ambientazione. È divertente ma non è la fotografia.

Certo, con il digitale è tutto più semplice, anche il lato della comunicazione della foto. La loro possibilità di girare è quadruplicata, ma nulla è paragonabile a toccare con mano una foto.»

Quale è, sempre che ci sia, una foto che vorrebbe fare ma che ancora non ha fatto?

FC «C’è una foto che vorrei scattare, i colori in India. Da tanto studio e colleziono libri di fotografia sull’Idia che regalano scorci e colori unici. È un viaggio che non ho fatto, nonostante abbia avuto la fortuna di viaggiare tanto nella mia vita. Sarà il mio prossimo tema di lavoro, perché c’è qualcosa di preciso che vorrei fare, è nella mia mente, ma ancora non so cosa sia.  Con me è sempre così, rimango estasiata dal Taj Mahal ma magari poi fotografo il sasso sotto il tempio che per me è simbolo del tutto.»

Dopo aver visto i quadri, alcune persone hanno rivolto a Francesca alcune domande. Ne riportiamo alcune.

Quanto conta l’improvvisazione quando scatti una foto o quanto invece ti fermi a studiare il soggetto.

FC «L’immediatezza dei miei quadri mi assomiglia. Sono istintiva. Ci sono due scuole di pensiero nella fotografia. Chi crea un set; quella foto deve essere così e crea uno spettacolo. E poi c’è chi come me improvvisa. Coglie quel momento. Posso attendere, anche molto tempo, ma non costruisco. Spero che quella fotografia rispecchi quel momento che ho intravisto. Perché in un secondo può cambiare tutto, la luce, il colore, il soggetto stesso. Esemplare in tal caso è lo scatto intitolato Madrid, a cui sono molto affezionata. Ricordo come fosse oggi quel momento. Faceva freddissimo in quella piazza in cui si era ricreata come una luce soffusa e offuscata, mia attenzione è stata rapita da una insegna rossa. Mentre la osservo è passata una ragazza con la valigia rossa. In un istante, prima ancora che riuscissi a decidere, già avevo scattato. Quella ragazza stava passando in quel momento, solo in quel momento.»

Madrid

Mentre ci siamo conosciuti prima, mi ha detto di essere poco incline alla pubblicità, al parlare e mostrare gli scatti in pubblico. Quanto la intimidisce mostrare questa parte intima.

FC «Ha ragione. Ma la mia è ritrosia, forse dovuta anche al fatto che sono una foglia d’arte e che mi sento in continuo confronto con chi è venuto prima di me. Il mio modo di guardare il mondo è tale, proprio perché sono cresciuta attraverso al fotografia, è un codice personalissimo. Non sono timida di mio, vale solo per la fotografia che ricrea perfettamente il mio mondo interiore e che quindi mi metto a nudo.»

Amsterdam

Conclusione

Per tornare alla foto di viaggio e alla evoluzione e trasformazione che questa specifica categoria della fotografia ha subito nel tempo, potremmo concludere sostenendo che l’’accessibilità al sapere e la facilità nello scatto che la tecnologia ci ha donato lasciano nelle mani dell’individuo la possibilità altissima di conoscere mondi o quella, più banale, di fotografarli solamente.

In fondo le foto banali sono quelle che non riescono a esprimere il non detto, che sprecano la grande possibilità dell’arte, quella di far venir fuori l’indicibile.

Garbatella, Roma.
Trastevere, Roma
Budapest

Città del Vaticano
Vienna
Cesenatico
Mare e plastica
Stoccolma

Ischia

Fiori vivi ringrazia:

  • Francesca Consoli per i suoi splendidi lavori.

https://www.instagram.com/fr.consoli

  • La libreria Le Storie per il suggestivo allestimento.
  • Tutti coloro che, sfidando un tardo pomeriggio di pioggia a Roma, ci hanno onorato della loro numerosa e partecipe presenza.

La mostra è ancora visitabile per tutto il mese di dicembre presso la libreria Le Storie, Via Giulio Rocco 27/39 00154 Roma https://www.lestorie.it/

In prospettiva

di Francesca Consoli

Chi per primo in un quadro fissò sul suo orizzonte i punti di convergenza del vario gioco delle linee orizzontali, trovò il principio della prospettiva.
(Johann Wolfgang Goethe)

Esistono diversi fattori che influenzano la riuscita o meno di una fotografia e sicuramente la prospettiva della inquadratura è uno degli elementi essenziali con cui spesso il fotografo gioca per catalizzare il punto di vista dell’osservatore.

A volte alcuni soggetti ripetuti in serie nella inquadratura creano una prospettiva ideale, pensiamo all’effetto che producono le rotaie di un treno, o un colonnato; in altre occasioni invece il fotografo cerca di rappresentare la profondità creando una interazione spaziale tra i soggetti, come ad esempio la messa a fuoco dell’elemento più vicino all’obiettivo e la sfocatura di un altro più lontano e viceversa.

Spesso sfruttare la prospettiva, naturale o ricercata che sia, dona alla foto pulizia, simmetria ed ordine e l’effetto è ancora di più amplificato con l’uso del bianco e nero.

In realtà, anche un sapiente utilizzo dei colori, come ad esempio quelli caldi e/o accesi in contrasto con tonalità fredde e/o tenui contribuiscono a creare una prospettiva ideale nella composizione della immagine, sviluppando una pluralità, fittizia o reale che sia, di piani spaziali.

Non ci sono regole assolute per una inquadratura efficace ma, a mio avviso, ciò che regala dinamicità ad una fotografia è proprio la rottura della rigida prospettiva creando una anomalia che inevitabilmente affascina e cattura l’occhio dell’osservatore.

Un modo semplice per creare la prospettiva è quello di inquadrare, ove possibile, i soggetti dal basso o dall’alto oppure sfruttare ombre e giochi di luce; in questo modo anche un fotografo alle prime armi potrà cimentarsi in inquadrature d’effetto, scegliendo di volta in volta, quella più adatta.

Quando ho iniziato a fotografare naturalmente anche io mi sono lasciata tentare dalle forme pulite di colonnati e palazzi, con vie di fuga esasperate e distorte dal mio obiettivo grandangolare ma quando ho preso più dimestichezza con le forme mi sono resa conto che inserire un elemento di disturbo rendeva il lavoro più interessante ed originale.

Forse questa predilezione per la dissonanza e non uniformità mi deriva dalla concezione che ho del fotografare visto come espressione di creatività, anche se, solo dopo aver studiato gli elementi essenziali della tecnica fotografica, ci si può avventurare nel loro stravolgimento per creare un proprio stile. «La prospettiva è ciò che deve imparare prima di tutto un giovine pittore, per saper collocare ogni cosa a suo luogo, e per dare a ogni cosa la giusta misura che aver deve nel luogo ov’è», sosteneva Leonardo da Vinci.

La ricerca della prospettiva, sia essa reale o solo ricreata idealmente attraverso artifici di cui ho parlato poc’anzi, scaturisce dalla esigenza di creare una profondità, di ciò che viene rappresentato, su una piattaforma schiacciata di per sé, dal punto di vista dello spazio, come è appunto una foto; così come è accaduto nel campo dell’arte pittorica con le innovazioni di Giotto il quale ha operato una rivoluzione sorprendente per la sua epoca e che ha inevitabilmente influenzato tutta o gran parte della pittura contemporanea e successiva.

Quando ho menzionato l’interazione spaziale tra i soggetti rappresentati nella inquadratura, la prima e più ovvia, ancorché involontaria, operazione che il nostro cervello opera consiste nella osservanza della distribuzione dei soggetti nella inquadratura nonché il relativo raffronto e comparazione tra di essi sotto il profilo delle dimensioni reali.

Sulla scorta di ciò, mi sono spesso trovata a sfruttare il divario sia spaziale che di grandezza, per esempio tra un soggetto in primo piano e ciò che si trova davanti o dietro di esso; naturalmente, come accade anche nella realtà, i soggetti più lontani risultano molto meno nitidi rispetto a quelli in primo piano e ciò può essere riprodotto e sfruttato anche attraverso un sapiente utilizzo della profondità di campo.

Quando mi sono cimentata nelle mie prime esperienze di composizione fotografica ero molto attenta ad applicare le tecniche che avevo studiato e visto adottare da fotografi professionisti e ciò mi ha aiutata non solo ad acquisire maggior dimestichezza con i fondamenti della fotografia ma anche ad abituare il mio occhio ad una percezione della realtà racchiusa in un confine definito, Eppure con il passare del tempo e con l’incremento della mia esperienza pratica mi sono divertita a sperimentare nuove ‘prospettive’ sia in senso tecnico che figurato al fine di creare un mio stile, il più possibile versatile e personale.

Torino

La foto che qui proponiamo tenta, riuscendoci, di presentare il realismo, nel modo personale di cui parlavo. Nello scatto della fotografa Alessandra Tascini infatti l’inquadratura richiama una certa geometria descrittiva imperfetta che rende il tutto incisivo, facendoci immergere nel suo particolare sguardo.

Lo scatto si intitola Torino e riporta alla mente le suggestioni de Le Città invisibili di Italo Calvino.

La città di Moriana è una città a due facce, la prima è splendente con le sue porte di alabastro trasparenti alla luce del sole, le colonne di corallo, le ville tutte di vetro, la seconda è squallida con distese di lamiera arrugginita, assi irte di chiodi, mucchi di barattoli e telai di sedie spogliate.
Marco dice che questa differenza può essere colta solo al secondo viaggio, quando l’uomo va oltre la prima immagine che la città dà di sé.
L’immagine ricorda molte delle nostre città dove il contrasto tra il centro e la periferia è talmente evidente da apparire come il dritto ed il rovescio.
Ma tale contrasto è possibile riscontrarlo anche nelle mille piccole contraddizioni che popolano la vita in città, contraddizioni talmente inconciliabili da poter essere considerate come delle immagini poste sulle due facce dello stesso foglio di carta che non possono né staccarsi né guardarsi ma costituire solo l’una il dritto e l’altra il rovescio.

 Foto: Alessandra Tascini

L’Arte della ceramica. Intervista a Martino Cappai

di Giovanni Corrasi

Come Fiori Vivi, qualche giorno fa, siamo riusciti a intervistare Martino Cappai, un giovane artista sardo di talento che per anni ha vissuto in Giappone, dove è stato iniziato all’arte della ceramica. Le foto che accompagnano lo scritto ritraggono alcune sue opere e ci svelano i luoghi che più lo hanno segnato artisticamente.

Senza indugiare oltre, in questo afoso pomeriggio d’agosto, iniziamo con qualche domanda introduttiva. 

L’idea di questa intervista è nata dall’aver potuto apprezzare le tue creazioni ceramiche tramite canali divulgativi come Instagram, dove hai la tua pagina chiamata Maru-Yakimono. Intanto la scelta di questo nome, da cosa deriva?

Maru sarebbe il diminutivo in giapponese del mio nome, Martino. Termine a cui sono particolarmente affezionato in quanto rimanda al cerchio Zen chiamato Ensō (円相), simbolo sacro utilizzato in numerose opere calligrafiche come firma o soggetto stesso dell’opera ad indicare la ciclicità della vita, la forza, l’universo, l’armonia del vuoto e del pieno. Mentre Yakimono è uno dei nomi con cui i giapponesi indicano l’arte ceramica ovvero l’oggetto bruciato (yaki – bruciato; mono – oggetto, cosa). Ci tengo a precisare che in Giappone la ceramica è considerata la regina delle arti, la più antica, e tutt’ora occupa un ruolo di primaria importanza. Riviste mensili, trasmissioni televisive, materiale letterario, fiere e negozi specializzati si occupano costantemente di questa disciplina artistica tutt’altro che marginale, diversamente dall’Italia che la relega ancora, come fece il Vasari, ad Arte Minore. Tornando al Giappone, una casalinga di Kyoto o di Fukuoka, che normalmente utilizza in cucina le stoviglie, è perfettamente in grado di capire la qualità e la pregevolezza di un oggetto in terracotta quasi come un ceramista stesso. In Giappone le ceramiche hanno un loro mercato e un giro economico non indifferente. Esistono scuole, famiglie e tradizioni di ceramisti che da secoli si tramandano segreti e le cui opere sono battute all’asta. 

Fin dall’inizio, quindi, nell’arte della ceramica si nota una preponderante influenza della realtà giapponese, puoi dirci di più?

Io mi sono avvicinato alla ceramica proprio mentre ero in Giappone, nel periodo in cui vivevo presso una piccola isola nel Sud del Giappone, Yakushima, nella regione del Kyushu. Mi sono, infatti, ritrovato a gestire un laboratorio d’arte irregolare con malati psichiatrici occupandomi sia della parte laboratoriale sia di quella curatoriale della galleria, ospitata all’interno di questo centro chiamato Yaku-no-sato. In maniera alquanto casuale, mi è stato proposto di curare il settore ceramico del laboratorio previo un periodo di apprendistato presso i laboratori ceramici tradizionali, con forni a legna (Nobori-Gama), del Maestro Yamashita situati nella piccola cittadina di Ambo.

Il maestro Yamashita nel forno a legna noborigama, isola di Yakushima

In contemporanea ho avuto la fortuna di conoscere a Kamakura un grande artista italiano che da decenni opera in Giappone: Sergio Maria Calatroni. 

Kamakura

Con Calatroni ho avuto la possibilità di approfondire un universo magico fatto di silenzi, ascolti e riflessioni sulla potenza della natura giapponese, sugli input della tradizione e dell’innovazione, sulla bellezza dei materiali, sulla ricchezza delle forme e sulla filosofia Zen di cui è intrisa Kamakura.

Casa del maestro Calatroni e forno a gas presso la valle di Okoku-ji a Kamakura

I risultati sono stati davvero decisivi. 

Come descriveresti lo stile delle tue ceramiche?

Avendo appreso i rudimenti di questa disciplina in Giappone parto da basi estetiche che nulla hanno a che vedere con la tradizione occidentale, ma partono appunto da questo mondo estetico dell’Estremo Oriente: le cui forme, colori e materiali ho avuto il tempo di metabolizzare in anni di vita nel Sol Levante. È proprio una questione di introiezione delle immagini degli oggetti d’uso. Se dovessi fare un esempio, persino nei ristoranti o nei luoghi quotidiani si è circondati da tutta una miriade di forme e di contenitori a cui un occhio occidentale non è abituato. Lo stesso servizio di piatti che in Italia si compone tendenzialmente di pochi elementi, in Giappone viene triplicato o quadruplicato dal momento che un pasto giapponese è composto da numerosi “assaggi” e ognuno di questi ha il suo contenitore di diversa dimensione e fattura.

Ciò detto, l’esperienza tradizionale giapponese, in termini di arte ceramica, ha rappresentato un punto di partenza a livello di studi e di primi lavori dalla quale, però, mi sono allontanato immediatamente per intraprendere un percorso più intimo che riguardasse la mia persona, le mie visioni. In particolar modo, la carica dinamica al mio linguaggio è stata arricchita in maniera determinante dall’esperienza laboratoriale dell’Art Brut (n.d.a. movimento introdotto dal pittore Jean Dubuffet nel 1945, basato su una produzione artistica spontanea, realizzata perciò da autodidatti, pensionanti ospedali psichiatrici, psicotici, prigionieri…) facendomi scoprire tutto un ventaglio di grammatiche estetiche completamente aliene alla tradizione nipponica. Su tutte un procedere per automatismi, per ripetizioni decorative, poi l’uso del colore che cozza un po’ con gli stili ceramici più tradizionali: si pensi alle tazze della cerimonia del tè, con colori molto tenui e sfumati, affinché occhio e mente non si distraggano da un colore particolarmente acceso o non coerente con il contesto meditativo di questo rituale. 

La tua incursione nel mondo dell’Arte Irregolare deve essere stata davvero particolare. Raccontaci qualcosa di più a riguardo, ad esempio: concretamente in che modo sei stato influenzato da questa esperienza lavorativa e umana?

Devo tanto a queste persone speciali, al progetto laboratoriale di Yakunosato dove lavoravo, coì come devo tanto alle visite e frequentazioni dei grandi laboratori artistici giapponesi come Shobu Gakuen e Yamanami Kobo. Da loro ho imparato l’importanza di inseguire un’idea, l’ostinazione su un determinato linguaggio espressivo che è squisitamente intimo, prettamente privato. L’accanirsi sull’espressione sotto forma di ripetizione gestuale, meccanica e sistematica di piccoli tocchi di stecche e mirette, il riproporre un motivo sino a sformarlo, a farlo diventare altro. Per queste persone quel che conta è unicamente la gioia insita nel processo creativo. Il fare è tutto. La vita che c’è dietro l’opera vale più dell’oggetto finale,a ribadire la lezione del monaco Hakuin secondo cui «quando la virtù splende, l’abilità non è importante». Il processo creativo, la fase operativa come cardine dell’arte a scapito del risultato è un concetto che ho poi ritrovato nelle Konfession di Paul Klee. Klee, artista per me imprescindibile, fondamentale per il Novecento intero e per chiunque si approcci all’arte, fu il primo a capire la potenza espressiva dei casi psichiatrici. Ricordo di aver letto che in gioventù pagava i custodi di alcuni manicomi svizzeri per osservare o spiare le cartelle dei lavori di quelli che venivano apostrofati come pazzi.

Abbiamo notato poi che un tratto caratteristico dei tuoi lavori è una certa imperfezione delle forme, delle linee alla quale l’occhio occidentale non è così aduso.  

Le mie forme non hanno nulla a che vedere con tutta la tradizione simmetrica occidentale: la simmetria, per me, non è un valore. Ma lo è sicuramente per i maniaci del tornio, per coloro che ancora vedono la ceramica unicamente come una prova d’abilità tecnica… La simmetria è il simbolo del giogo umano sulla naturache viene idealizzata, perfezionata, rivisitata e dominata. Un approccio che dalla Venere di Willendorf all’incipriato Wilkemann, ha tiranneggiato sulle manifestazioni estetiche umane, almeno sino al secolo scorso. Roba puntigliosa, che oggi lascio volentieri ai geometri o agli integralisti della tecnica. Molto più interessanti sono le forme preistoriche, i disegni rupestri, Chauvet, Laxaux, Val Camonica… Per me quel che conta è osservare le forme che continuamente la natura offre; spunti e input asimmetrici irregolari: le colature della resina sugli alberi, le cortecce, le concrezioni marine, le pietre, le macchie sul vello dei cerbiatti, il caos di aculei di un riccio, le muffe… queste cose qui ecco! Di recente, mi sono recato in Gallura e ho assistito ai risultati d’intarsio sulle rocce granitiche dovuti all’azione incessante degli agenti atmosferici, le così dette “sculture alveolari”. È stata la mia personale Cappella Sistina [ride]. Altro non sono che numerosi buchi in delle pareti di roccia; cavità sferiche, ma pur sempre irregolari, svasate, meravigliosamente imperfette. Ecco gli elementi a cui presto la mia attenzione/devozione. Tutto un mondo di energie perché le forme sono energie… forze potenziali cui l’estetica Zen ha rivolto le sue attenzioni da millenni, molto prima che in Occidente ecco! In Giappone c’è tutto un gusto complesso e profondo affinato in secoli di raffinatezze pazzesche, si pensi al concetto dell’Iki, del Wabi-Sabi, dello Yūgen si approda in universi estetici davvero molto diversi dai nostri.

Come lavori? Dove avviene il tuo rituale creativo?

Lavoro in un tavolo sotto un albero. Il tornio è nello scantinato. Tutto molto monacale, tutto ridotto all’essenziale, al midollo. Potrei sbaraccare le mie cose in uno scatolone e spostarmi in altro luogo. Forse sono il primo ceramista nomade della storia [ride]. Un iter che fa parte di una certa visione di lavoro quasi ascetica, sicuramente meditativa, che poteva germinare unicamente in un contesto come quello giapponese. 

Ho un Haniwa sacra presa da un rigattiere di Kamakura, una statuetta della tradizione Jomon giapponese, protettrice del fuoco e del forno che mi sorveglia durante la reclusione in laboratorio. Lavoro cercando l’incontro con l’imprevisto, mettendomi nelle condizioni di gestire il caso, l’incidente, l’inaspettato, la sorpresa… quindi Dio. Il brivido sta tutto qui. Ho pochi strumenti, pochissimi, fatti da me. Ad ogni strumento corrisponde un segno, un taglio d’argilla, un’impronta. Sono io il creatore della mia grammatica. I laboratori strapieni di strumenti e oggetti da lavoro fanno da rete, bloccano i pensieri, ostruiscono le intuizioni. Pochi strumenti ti permettono di concentrarti di più, di mettere a frutto l’immaginazione. È importante far fruttare al massimo poche cose selezionate; complicarsi la vita, crearsi degli handicap è decisivo. Troppo comfort e troppa scelta intorpidiscono il cervello.  

Pezzi unici e solo alcune serie, perché questa scelta? 

Sono a favore del pezzo unico. Non saprei ripetermi proprio perché in corso d’opera cerco la sorpresa, l’imprevisto che stravolge il progetto iniziale. È tutto un gestire gli incidenti, far fruttare quello che per i più è un problema, un danno, un errore… la vecchia storia del movimento contro la stasi, della fluidità contro la fissità. Non è una questione di fatalismo, ma un altro modo di intendere il mondo, un altro modo di avere a che fare con l’accadere delle cose, in cui non è più la volontà dell’artefice a dettare le regole ma una serie di circostanze e d’incidenze che bisogna imparare a cogliere e gestire. Per dar vita a un oggetto che sfugga alle codificazioni e sia in grado di aprirsi al nuovo, alla possibilità stessa di esistere nella sua diversità. Questo rende il tutto davvero elettrizzante. Roba da funamboli. 

Forse leggo più poesia che cataloghi d’arte, questo mi aiuta a inserirmi nel cuore e nell’essenza delle forme, che conservano sempre una certa traccia d’immediatezza; sono il più possibile semplici, essenziali, con una armonia interna diversa per ogni pezzo. Ogni pezzo ha il suo armonico cosmo diverso dal precedente e dal successivo.

Mentre l’idea delle serie nasce dal fatto che ogni tanto mi areno in qualcosa: una lettura, un film, la vita di un personaggio… come il giorno in cui rimasi sconvolto da quell’enorme poesia cinematografica che è il film Blue di Derek Jarman il suo testamento prima di morire di AIDS. 

Ciotolona delle serie Derek Jarman, terra bianca con ossidi vari, doppia cottura, 17,4×6,2 cm

Quando sentii il pezzo: pescatore di perle in mari azzurri. Acque profonde che lambiscono l’isola dei morti. In baie di corallo anfora trabocca oro sull’immobile fondo marino etc. (https://www.youtube.com/watch?v=d_owGuU-fgY) gli dedicai una serie che ebbe davvero tanto successo. 

Come risponde il mercato italiano a queste tue opere?Inaspettatamente, ho trovato davvero tante persone interessate a queste forme, a questo concetto di fare ceramica lontano dall’idea classica che si ha del ceramista in bottega, con occhiali e grembiule alle prese con tazze e piattini. Per me la ceramica è uno strumento espressivo svincolato e libero, che tocca e dialoga con le discipline artistiche più disparate, dalla poesia al cinema, dalla scultura alla fotografia.  La tradizione nostrana la rispetto, ne conosco storia iconografica, evoluzione stilistica, materiali, ma non m’interessa. Il mio occhio è rivolto a chi ha avuto la forza e il coraggio di porsi oltre per mettere in discussione la tradizione, ripensando il concetto stesso di fare ceramica. Se devo fare dei nomi penso a quelli degli innovatori giapponesi dei gruppi Sodeisha o Mingei, poi agli americani che ruotavano intorno alla figura di Peter Voulkos, sino alle delicatezze di un Bernard Leach. Per quanto riguarda l’Italia, ora mi vengono in mente solo i nomi di Tasca e Melotti. Il panorama attuale è pieno di sorprese, vedo tanti artisti interessantissimi, su tutti le elegantissime e bianchissime porcellane di Federica Macciotti.

小さい青花 Little Blu Flower, terra bianca e ossido di cobalto, doppia cottura, 12,3×6,7 cm
Tazza da té in terra rossa giapponese, cotta con il forno a legna di Yakushima, 15,2×8 cm circa.
Total White n.3 terra bianca semi porcellana, crudo. 11,3×6,4 cm

UNO SGUARDO INCORNICIATO

di Francesca Consoli

#2 Luce: alleata o nemica

La fotografia è un’arte; anzi è più che un’arte, è il fenomeno solare in cui l’artista collabora con il sole.

(A. de Lamartine)

L’ispirazione

Come spesso accade, soprattutto nelle serate estive, si esce a fare delle passeggiate e così è capitato a me girovagando per il quartiere Garbatella a Roma dove l’architettura cosi variegata e le luci dei lampioni che illuminavano in maniera fioca e soffusa gli androni dei palazzi rendevano l’atmosfera ancora più suggestiva.

La mia attenzione è stata catturata dal gioco di luce e ombra su un cortile e un portone di ingresso e mi sembrava di essere stata catapultata indietro nel tempo di 60 anni.

In quel  momento non vi era nessun elemento intorno a me che poteva indicarmi se mi trovassi nel 2020 oppure in una Roma che io ho solo potuto vivere attraverso altre fotografie d’epoca, libri e film.

La luce

E qui mi ritrovo a riflettere sulla luce, un elemento fondamentale per un fotografo, direi uno dei suoi più grandi alleati, anche se a volte si può trasformare in un vero e proprio elemento invalidante tale da rovinare in modo irreparabile una foto. In fondo, come ci ricorda John Berger, «Ciò che rende la fotografia una strana invenzione è che le sue materie prime principali sono la luce e il tempo».

Nello scatto qui pubblicato la luce era calda e circoscritta, non diffusa, regalandomi già essa stessa una inquadratura che io dovevo solo procedere a ritagliare mentalmente, per accompagnare l’occhio dell’osservatore dove volevo che più si soffermasse.

La scelta del bianco e nero poi è stata, oserei dire, obbligata in quanto i colori in questa cornice avrebbero potuto distogliere lo sguardo.

La foto che ho scattato è stata difficile da realizzare poiché il contrasto tra la luce e il buio era davvero forte e nessuno dei due elementi doveva prevalere sull’altro, ma il mio intento era quello di farli cooperare per riprodurre la stessa suggestione che quella immagine mi aveva creato dal vivo.

Spesso nelle mie fotografie mi sono trovata a fare i conti con luci sbagliate o per lo meno che non rendevano l’effetto desiderato, tanto è vero, si può dire, che dai grandi fotografi ho cercato di carpire il segreto del loro saper piegare questo elemento, tanto basilare eppur in grado di rendere una semplice foto un vero capolavoro.

Bianco e nero

Sicuramente in molti scatti usare l’effetto del bianco e nero è un valido aiuto per affinare quei giochi di chiaroscuro che rendono una fotografia dinamica, preservandola dalla staticità perché, a mio avviso, spesso si rischia, per paura di esagerare, di appiattire e uniformare ciò che invece dovrebbe essere lasciato nella sua dimensione di puro movimento.

Mi è capitato di discutere anche animatamente con alcuni miei colleghi fotografi che criticavano l’uso smodato che spesso viene fatto nelle mostre fotografiche di scatti in bianco e nero, nel tentativo di catturare maggiormente l’attenzione dello spettatore per via di contrasti visibilmente più marcati.

Questo discorso non mi ha mai trovata molto d’accordo in quanto, nonostante sia innegabile il fascino di una foto in bianco e nero, io penso che la creazione di una emozione, suscitata da una fotografia, risieda non solo nell’occhio del destinatario, ma anche in quello del fotografo e nella sua capacità di barcamenarsi e districarsi tra apertura e chiusura del diaframma e tempi più o meno lunghi di esposizione* per riprodurre in modo fedele ed enfatizzato la realtà. «Una differenza molto importante tra il colore e la fotografia monocromatica è questa: in bianco e nero suggerisci; a colori affermi». (Paul Outerbrige)

[n.d.a.*esposizione= intensità luminosa per tempo, dipende dalla combinazione tra le impostazioni del diaframma , che regola l’intensità luminosa e il tempo di esposizione]

Canal Grande Lockdown

di Eva Maria Ohtonen

Durante il lockdown moltissime città si sono svuotate, Venezia non ha fatto eccezione. Ha ritrovato il silenzio ed è tornata ad essere dei “Venexiani”, di coloro che la amano e vorrebbero proteggerla dal turismo di massa, di tutti quelli che ancora si stupiscono quando la guardano. Una bellezza senza tempo. Una sfida costante alla natura. Ogni volta Venezia offre una nuova immagine di sé. Finora dovevo aspettare l’inverno per vagabondare per le calli e cogliere l’attimo con la mia calma scandinava. Il lockdown mi ha facilitato il lavoro e “ispirato” per così dire. Lo scatto giusto è arrivato come un’apparizione: Canal Grande abbandonato a mezzogiorno. Un miraggio? Un sogno? Perché Venezia è da sempre tutto questo.

“Ma quando siamo usciti, stanchi e intontiti, dalla stazione di Venezia e abbiamo visto il Canal Grande e i palazzi marmorei che sfioravano l’acqua melmosa, quel gioiello di cultura che si dondolava sui canali fetidi e muffosi, abbiamo improvvisamente compreso quanto forte e tenace è l’uomo e quanto meraviglioso è il suo spirito, e si è destato in noi un tale amore per l’umanità, l’umanità con le sue pene e le sue epidemie; e siamo penetrati ad occhi aperti dentro un sogno, perché Venezia è il sogno di ogni città…” (Abraham Yehoshua)

Eva Maria Ohtonen, fotografa finlandese, ha studiato fotografia in Germania, dove si è diplomata nel 1992.

Innamorata di Venezia e della sua bellezza, ha deciso di vivere e lavorare nella città lagunare: ha fondato lì, nel 1995, il suo studio fotografico STUD-IO IMMAGINO VENEZIA, trasformando Venezia nel suo studio a cielo aperto. Lavora con tutti i formati; ama la fotografia classica, analogica; predilige il Bianco e Nero. Si è dedicata soprattutto alla fotografia matrimoniale e alla ritrattistica, al fashion e still-life; ha collaborato con numerose riviste e gallerie d’arte.

Sito web: http://www.studioimmaginovenezia.com
Facebook: http://www.facebook.com/studio.immagino.venezia
Instagram: stud.io_immagino_venezia

“Il colore nascosto delle cose”: la storia di un Gioiello d’Arte

di Santa Loffredi

Gioielli d’Arte

Per me il Gioiello è la forma materica della poesia interiore che l’Orafo/Artista porta dentro di sé e cerca di esprimere al meglio: un vero e proprio fatto culturale, carico di ricerca, di significati e viaggi interiori; si parte sempre dalle infinite meraviglie della materia che la natura produce e l’uomo trasforma per poi arrivare all’espressione piena del proprio sentire. Usare diversi tipi di materiali e sperimentare tecniche di lavorazione sempre nuove mi permette di dare “forma” a ciò che sento, alle mie idee e alle mie emozioni, senza preoccuparmi delle richieste del mercato.

Non mi interessa la quantità di gioielli che creo o la frequenza con cui li realizzo, né il tempo impiegato per elaborare le mie creazioni. Ognuna di esse è unica e irripetibile.

Mi interessa solo sapere che chi sceglie di indossare qualcosa che creo, lo fa per condividere il mio modo di “vedere e sentire” il mondo, facendolo suo! Così nasce la magia di un “Gioiello d’Arte”.

“Il colore nascosto delle cose”

 “Il colore nascosto delle cose”: così si chiama il piccolo ciondolo in argento, che ho realizzato con la tecnica orafa della cera persa e che rappresenta semplicemente una farfalla … in realtà per un occhio attento ai dettagli c’è molto di più da scoprire! Un invito ad andare oltre alla realtà, come essa ci appare, a soffermarci sui particolari e ad apprezzare il “colore nascosto delle cose”, sull’esempio dei protagonisti dell’omonimo film di Silvio Soldini del 2017, per me, in questo caso, fonte di ispirazione (cfr. Il colore nascosto delle cose. Reg. Silvio Soldini. Att. Valeria Golino, Adriano Giannini. Videa. 2017).

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Se si presta attenzione alla mia piccola opera, non si può fare a meno di notare in basso un bruco nel suo bozzolo, tutto rannicchiato dentro se stesso, in attesa che il tempo sia maturo per aprirsi e trasformarsi in farfalla. Non si pensa mai che rompere il bozzolo implichi, per il bruco, uno sforzo enorme, soprattutto dal punto di vista muscolare. Tuttavia sarà proprio tale sforzo a rendere forti e adatte al volo le ali della futura farfalla. Se si intervenisse dall’esterno in questo “processo di trasformazione e cambiamento”, per facilitare la rottura del bozzolo senza aspettare che la maturazione sia portata a compimento, anziché aiutare la farfalla, la renderemmo incapace di volare, e, quindi, di affrontare la Vita e di mettersi alla ricerca dell’armonia e della felicità …  Solo una farfalla che abbia sperimentato la sua resistenza, la sua forza, la sua determinazione, in altre parole che abbia combattuto da bruco per rompere il bozzolo e dare avvio al cambiamento, potrà essere libera del e nel suo volo, fino ad andare incontro agli ostacoli e a danneggiare addirittura le sue ali, se lo vorrà. Amare una creatura non vuol dire sostituirsi a lei, o aiutarla di continuo, bensì regalarle opportunità. Se pensiamo in particolare alle donne, dovremmo parlare di “pari opportunità” in questo senso: ad ognuna di noi dovrebbero essere dati gli strumenti per tirare fuori tutti i colori che ha dentro ed essere orgogliosa, al termine della metamorfosi, del suo volo.

Il corpicino della neo-farfalla è minuto e le sue ali ancora non si sono dispiegate completamente, come si può osservare nel gioiello: l’ala destra non è del tutto distesa, ma piegata e attaccata ancora ai fili del bozzolo appena schiuso, che ne impediscono l’ultimo sforzo per distendersi totalmente e librarsi nel suo volo, ora libero e felice.

bdr

Le ali hanno dei fori, mentre in natura, vi sono macchie di colori: i fori mi hanno permesso di creare giochi di luce e di ombra e di riflettere così, nel metallo argenteo, i colori dell’arcobaleno. Qualcuno di voi si chiederà perché non abbia smaltato di tanti colori le ali della farfalla, dal momento che ho parlato di “colore”…..Beh, la sfida con il lettore/osservatore è proprio questa: lasciare che ci sia solo il Buio del Bozzolo e poi la Luce del Volo in questo mio piccolo oggetto…..Ognuno di voi potrà immaginare di colorare la propria farfalla scoprendo, appunto, “il colore nascosto delle cose” ed arrivando a sentirsi uno di quei “fiori vivi” di cui il mondo ha tanto bisogno!!!

Santa Loffredi è un’artista, scultrice ed orafa, che vive e lavora in Umbria. Ha iniziato la sua attività come restauratrice e decoratrice del mobile antico negli anni Novanta per poi proseguire il suo percorso artistico nell’arte ceramica, in particolare nella ceramica raku. Nel 2013 è approdata al mondo dei metalli, affinando la propria tecnica presso la Scuola OTP “Officine dei Talenti Preziosi” di Roma. Fra le varie esposizioni cui ha partecipato nel corso degli ultimi anni vale la pena menzionare il Palakiss di Vicenza Oro del 2013 e nel 2015 all’Art Shopping del Louvre di Parigi e ad Alta Roma in Town in via Margutta. Ha esposto le sue opere in diverse gallerie d’arte, fra le quali la Galleria Area Contesa Arte di via Margutta a Roma.

Sito web: slgioiellidarte.it

Pagina Facebook e Instagram: SL Gioielli d’arte di Santa Loffredi

Uno sguardo incorniciato

di Francesca Consoli

#1 Morire per una foto

Fotografie, manifesti, filmati, e immagini in genere, sono stati sempre un mezzo per veicolare messaggi e suscitare emozioni, negative o positive che fossero.

Tanto più ciò è accaduto con la guerra, con quelle foto e reportage che hanno dato vita, in un certo senso, a un genere preciso: la fotografia di guerra per l’appunto.

Quest’ultima, categoria estremamente vasta e difficile da definire, ha però alcuni elementi che la contraddistinguono e altrettanti parametri che la costituiscono.

Il primo, tra tutti, è la corrispondenza della foto di guerra al parametro della veridicità. Esso diviene il carattere forte, preponderante, tanto da eclissare anche il parametro artistico, perché in questo caso la foto, prima di essere bella, deve mostrare la verità. Eppure non è stato sempre così, perché all’inizio le foto diffuse non avevano tanto lo scopo di informare quanto quello di manipolare l’opinione pubblica. Come non pensare a Roger Fenton e al suo reportage del 1855 sul fronte di Crimea le cui immagini volontariamente non mostravano gli aspetti più cruenti, rendendo così accettabile da parte dell’opinione pubblica inglese la spedizione stessa. O ancora allo scoppio della Prima guerra mondiale, in cui i racconti e i resoconti di vittorie e sconfitte erano corredati da immagini eloquenti, spesso strumentalizzate dalla propaganda politica per infervorare e rinfrancare gli animi dei civili provati dagli effetti del conflitto oppure per suscitarne sdegno e indignazione e giustificare, in qualche maniera, gli orrori e le atrocità commessi.

Alcune di queste fotografie hanno fatto la storia, una tra tutte quella drammaticamente dirompente e universalmente nota, scattata nel 1936 a Cordova da Robert Capa, che ritrae un miliziano dell’esercito repubblicano spagnolo mentre viene colpito, presumibilmente a morte, da un colpo di arma da fuoco nemico.

Capa può essere definito il primo fotografo di guerra così come lo intendiamo noi oggi, non solo perché con lui l’immagine di guerra assume quel carattere di veridicità di cui parlavamo, ma anche perché si definisce la figura stessa del fotoreporter. All’inizio infatti il compito di scattare tali fotografie era assegnato e lasciato alla inclinazione personale di un soldato piuttosto che di un civile e non si era ancora delineato un ruolo che, in tempi decisamente più moderni, si è praticamente istituzionalizzato.

Un reportage di guerra quindi deve far entrare con violenza in una certa logica, in situazioni che perlopiù ci sono ignote o che comunque non si conoscono per la loro effettiva portata. Informare, fare cronaca e, in un certo senso, risvegliare l’opinione pubblica o il senso di umanità di un individuo passa anche attraverso la crudezza, l’orrore e la sottrazione di filtri.

Come non ricordare la foto che fece epoca della bambina vietnamita, subito dopo l’attacco americano con il Napalm. La piccola è completamente nuda, scappa e piange, con il corpo ricoperto da estese ustioni. La violenza espressiva dell’immagine riesce a descrivere, senza bisogno di ulteriori didascalie, le drammatiche ripercussioni sui civili.

La foto di guerra perciò, e qui veniamo a un suo ulteriore requisito, deve riportare a un tutto generale. Deve, da un particolare, allargare la nostra prospettiva oltre quell’immagine stessa.

La capacità di ricreare questa suggestione è lasciata all’istantanea. Non possono esistere foto costruite, elaborazioni o modifiche sostanziali, perché la foto effettivamente di guerra è lì, esito dell’unione tra il caso fortuito, il pericolo di chi si spinge tanto vicino all’azione da descrivere e l’occhio dell’artista. Perché se è vero che il criterio dell’artisticità è in ombra e la ricerca sulla foto è fatta in studio solo in un momento successivo, esiste una oggettiva capacità del singolo fotografo di cogliere quell’attimo, quell’inquadratura, quel simbolo che rimanda ad altro. Anche oggi, dove la tecnologia ha permesso a chiunque di riuscire a scattare buone foto, esiste una differenza tra chi propone pura cronaca, pedissequa trasposizione di un avvenimento, e chi invece è capace di mostrarci un mondo. Potranno esserci milioni di foto che riprendono un bombardamento, ma nulla potrà farci immergere in quella realtà come la foto di un interno di una casa distrutta in cui compare un tavolo ancora apparecchiato.

Da un punto di vista tecnico l’attrezzatura è ridotta al minimo. Robert Capa portò alla ribalta la Leica, la 35 mm. del 1913, (anche se già nel 1888 la Kodak aveva iniziato a produrre macchine più piccole), la macchina fotografica snella, semplice, leggera. Tutto deve essere maneggevole, gli obiettivi sono pochi, mostrando ancor più l’abilità del fotografo. Quando nel 1863 Timothy O’Sullivan si reca sul campo di battaglia ha pochissimi mezzi a sua disposizione, molti inadatti e lenti per un uso come quello, eppure la sua capacità, il suo occhio attento ci ha regalato un pezzo di storia. Le immagini dei corpi senza vita dei soldati sono l’esempio perfetto di quel grido di umanità che la guerra lancia.

Potrei citare come minimo altre due dozzine di foto sconvolgenti per la loro crudezza oppure per l’immediatezza con cui hanno immortalato un sentimento, un singolo istante significativo oppure una condizione generalizzata.

La maggior parte di esse sono immagini che vengono prodotte casualmente, senza un progetto di inquadratura, proprio perché scattate in situazioni di estremo pericolo, concitazione oppure perché fatte di nascosto.

Storiche le foto pubblicate da Life sullo sbarco in Normandia del 1944 di Capa, che, per motivi tecnici e per la mano tremante del fotoreporter stesso, pur essendo definite “leggermente fuori fuoco”, rappresentarono alcune tra le immagini più iconiche della guerra in generale. (R. Capa, Slightly out of focus, 1947).

Cosa differenzia allora una foto comune da una foto di guerra, un profano da un professionista? Forse la motivazione. Esiste una volontà ferma, un credo nel voler conoscere una realtà, nel volerne mostrare la conseguenza di un atto tanto orribile. E quindi è lì, dove tutto ha inizio, dove la vita è deflagrata che troveremo il fotografo di guerra. Colui che con il suo occhio allenato al bello, all’inquadratura scenica, sarà disposto a lasciare indietro tutto pur di mostrarci quell’attimo irripetibile. Ma il momento cruento, il momento simbolico non può essere raggiunto senza rischio. Alcuni sono morti per scattare quelle foto e ci si chiede se la vita non sia un prezzo troppo alto da pagare. Esistono giornalisti e fotografi che volontariamente e scientemente decidono di recarsi, anche con mezzi fortunosi, in quelle zone dove il conflitto è più aspro e sanguinoso oppure in aree dove la guerra e gli scontri tra etnie opposte ha lasciato desolazione, distruzione e morte o che ancora scelgono di seguire e documentare il viaggio di centinaia di esuli che, a causa proprio della guerra, lasciano  tutto per cercare rifugio  e protezione.

Sarebbe facile dire che si compiono certe scelte per un ritorno economico o per sete di riconoscimenti e fama. Ciò che forse viene sottinteso, o dato per scontato, è il coraggio nel mettere a repentaglio la propria incolumità, la fiducia incrollabile nelle proprie possibilità e la convinzione della necessità di dover mostrare e documentare la verità, o quella che si ritiene tale.

Per alcuni fotografi il loro lavoro diviene una missione di coscienza, un dovere civico di far comprendere ciò che realmente sta accadendo e che invece spesso i poteri forti non vogliono mostrare. Nonostante l’ammirazione per chi sceglie questa tortuosa via, per chi cioè credeva e crede profondamente nella necessità di documentare e denunciare proprio e soprattutto le situazioni più estreme, rimane sempre il dubbio che mettere a repentaglio la propria stessa vita sia un sacrificio troppo grande da sostenere.

Uno sguardo incorniciato

di Francesca Consoli

#Introduzione

Il desiderio di scoprire, la voglia di emozionare, il gusto di catturare, tre concetti che riassumono l’arte della fotografia.
Helmut Newton

Quando ho iniziato a scrivere questo articolo per presentare la rubrica fissa che ho il piacere di curare con cadenza mensile all’interno della categoria INEDITI della rivista FIORI VIVI, ho deciso di inserire una citazione che racchiudesse l’universo fotografia e nessuno, a mio avviso, meglio di Helmut Newton poteva farlo in modo tanto magistrale.

Ho pensato inoltre che ognuno di voi, almeno una volta nella vita, ha provato l’emozione di guardare il mondo attraverso un mirino fotografico e quindi potete comprendere lo stupore e le variegate sensazioni che si provano non solo nello scattare, ma anche nel condividere il proprio lavoro, la propria prospettiva.

Una foto, a volte, è la parte di un tutto più generale e vasto che noi conosciamo o intuiamo, altre invece rappresenta un mondo a sé stante, un universo finito bastevole a se stesso, in altri casi ancora è un riflettore puntato, come a teatro, su un unico soggetto che fa scomparire nel buio ogni cosa che lo circonda.

Il fotografo in qualche maniera influenza il nostro sguardo, suggerendoci dove e cosa guardare, ma di fronte alla stessa inquadratura i sentimenti differiscono in modo sostanziale ed è questo che mi ha sempre affascinata delle produzioni fotografiche in primis, ma più in generale delle arti figurative nella loro totalità.

Secondo le convenzioni, la fotografia nasce in Francia nel 1839, quando viene annunciata l’invenzione di Louis Mandè Daguerre, il dagherrotipo, anche se William Henry Fox Talbot ha contribuito, sempre nello stesso anno, con i suoi studi, a rendere la fotografia più facilmente riproducibile.

In tempi decisamente più recenti abbiamo assistito ad una rivoluzione, oserei definire sociale, con l’introduzione, nel mondo fotografico, del digitale che ha non solo contribuito a semplificare, almeno per quanto riguarda il campo amatoriale, l’accostarsi ad una macchina fotografica, ma soprattutto ha implementato, in modo esponenziale, la condivisione e lo scambio di foto, a mio avviso però, a discapito molte volte della qualità artistica.

Ma è indubbio che la rivoluzione consistente nell’aver reso più facile, immediato ed economico possedere ed usare una macchina fotografica, abbia sdoganato questa forma artistica da ogni chiusura elitaria, rendendola un fenomeno di massa, una forma di comunicazione globale, istantanea, di elementare fruizione e diffusione cambiando per sempre il “sentire comune” riguardo alla fotografia.

Nonostante questa globalizzazione e massificazione, ho avuto il privilegio di poter ammirare alcuni capolavori che mi hanno lasciata senza fiato avvalorando, ancor di più, in me la convinzione che spesso una fotografia non è solo una semplice istantanea, una composizione elaborata o meno, ma è una vera e propria opera d’arte, come un quadro o una scultura e come tale va approcciata.

La rubrica che terrò in questa rivista digitale alternerà, oltre naturalmente a delle mie foto, lavori di fotografi, più o meno noti, e coglierò l’occasione per esporre le mie riflessioni su alcuni temi inerenti le arti visive, nonché suggerirvi o parlarvi di appuntamenti, a mio parere imperdibili, per professionisti del campo, amanti dell’arte o anche solo per curiosi ed appassionati.