R: LE STORIE D’AUTORE

La libreria indipendente Le Storie prosegue la sua rubrica letteraria in collaborazione con fiorivivi.com dedicando settembre ai PIRATI

a cura di Gilda Diotallevi

I Pirati

La pirateria esiste da migliaia di anni, anche prima che fosse chiamata così. La storia è piena di episodi di banditismo marittimo, di navigatori che assaltano, molestano e saccheggiano barche e navi, mercantili o non, in mare aperto. Non è un caso che il termine pirata (dal greco antico pειράω) abbia come significato, oltre che tentare, prendere d’assalto.

Notizie su tale fenomeno giungono a noi dall’antica Grecia, dai romani (Cesare fu rapito da essi e nel 67 a.C., Pompeo organizzò una campagna militare contro i pirati definiti hostes gentium, nemici dell’umanità) dalle popolazioni scandinave, flagello dei mari nel V sec., dai vichinghi, eccellenti nella costruzione di navi che dal 700 al 1500 contribuirono a creare la struttura portante del fenomeno. Eppure è solo tra la fine del XVII sec. e l’inizio del XVIII che la pirateria vivrà il suo periodo d’oro.

Le gesta dei corsari durante il periodo elisabettiano, le avventure dei bucanieri nel mar dei Caraibi e le vicende degli scorridori inglesi del XVII sec.: queste le basi su cui una lunga e variegata letteratura ha attinto e di cui si è nutrita per la creazione di personaggi e trame picaresche, piene di misteri e maledizioni. Partendo dalle cronache del tempo, vennero eliminati gli elementi più biechi, crudeli e di sofferenza, per accentuare invece il carattere fascinoso dell’avventura, dell’esotico e della possibilità di scegliere una esistenza libera da legge e costrizioni.

Ma la realtà aveva tutta un’altra allure. Più che da sete d’avventura «A determinare la decisione di diventare pirata erano in genere le due ragione seguenti: da un lato il malessere dovuto a miseria, disoccupazione, condizioni di vita troppo dure e mancanza di prospettive per il futuro; dall’altro sete di guadagno e richiamo dei soldi facili. Un’altra forte spinta veniva dalla necessità di sottrarsi alla giustizia» (P. Lehr, I Pirati. Un ritratto dei predoni del mare dall’antichità ai nostri giorni, p. 13-14). La pirateria cresce in concomitanza dell’ascesa delle potenze marittime, sviluppandosi lungo le rotte commerciali e nelle città portuali, lì dove circolavano «Merci di alto valore, come la sete, le spezie, la porcellana, le pietre preziose, l’oro, l’argento, le pellicce, gli schiavi».

Dalle cronache alla letteratura

In una combinazione perfetta tra storia e leggenda, una certa parte della letteratura è stata, ed è tuttora, ispirata da pirati leggendari e dalle loro incredibili avventure che svelano il lato più audace e selvaggio dell’essere umano. Non essendo possibile elencare tutti i libri che trattano questo tema, ci limiteremo ai classici, provenienti dall’universo narrativo degli autori dei secoli XVIII e XIX e a quelli che più hanno plasmato la percezione popolare sulla pirateria.

Alexander Olivier Exquemelin, nel 1678 pubblicò The Buccanneers of America, uno dei testi più importanti sulla pirateria del XVII sec., in cui vengono narrate le vite, i comportamenti e le incursioni di avventurieri astuti e avidi, capaci di commettere atrocità anche senza motivo. Il libro ebbe un enorme successo, tradotto in diverse lingue, anche se le diverse edizioni differivano non solo per le ulteriori avventure compiute dall’autore, corsaro per la Francia prima e imbarcatosi in navi mercantili poi, ma soprattutto per via delle continue aggiunte degli editori al fine di rendere il libro sempre più avvincente.

Al di là della verità storica, la popolarità di Exquemelin è da attribuirsi ai racconti tra il 1660 e il 1720 in cui le vite dei pirati e dei corsari, che ben conosceva, si intrecciano a quelle di marinai, coloni inglesi, francesi e spagnoli lungo le rotte commerciali, descritti tutti come fossero eroi. Da quanto narrato, seppur impreziosito da elementi romanzati, si percepisce chiaramente come marinai provetti di nave governative si siano trovati costretti, per necessità, a darsi alla pirateria.

Abbiamo già sostenuto come l’immaginario piratesco si muova tra stereotipi, leggende e fatti realmente accaduti. A metà strada tra cronache di vita e letteratura romanzata Daniel Defoe, con il suo Avventure e Piraterie del Capitano Singleton del 1720, prepara il terreno a tutto ciò che sarà poi prodotto su questo mondo. Il suo antieroe Capitano Singleton, nato ai tempi di Drake e allevato dai gitani sull’Oceano Indiano, pratica più mercantilismo che violenta pirateria.

La stessa sorte di influenzare altri scrittori spetta al capitano Charles Johnson che, nel 1724, pubblica History of the Pyrates, il primo libro interamente dedicato al mondo dei pirati. Non meraviglia così che a quasi cento anni di distanza, Walter Scott scrisse il romanzo storico Il Pirata. Il Bucaniere Clement Cleveland, basato sulla figura di John Gow, pirata realmente esistito nel XVIII secolo, di cui le gesta sono narrate proprio nel libro sopra citato di Johnson. (Nonché a lasciarci una biografia di Daniel Defoe, nel Biographical memoir of eminent novelist del 1719). Anche un autore di tutt’altro genere come William S. Burroghs, nel romanzo La febbre del ragno rosso, riprende la leggenda del capitano Mission, descritta da Johnson nel secondo volume di The History of the Pyrates e della sua inclinazione anarchica.

Chi erano davvero i pirati? Johnson descrive ciurme formate da delinquenti, evasi, perseguitati, disertori e contrabbandieri. Ma anche ex capitani di navi mercantili, ex corsari, o nobili mossi da sete di avventura. Loro si ritenevano ribelli contro la corruzione dei governanti del Nuovo mondo (con cui però facevano affari di continuo). Nel libro si trovano anche descritti alcuni aspetti della loro organizzazione e alcune leggi alla base della pirateria come, per esempio la semidemocrazia, in cui il capitano era scelto dalla ciurma ed era prevista la presenza di un quartiermastro per giudicarne l’operato. Un capitolo è dedicato alla Repubblica di Libertalia, già citata in un altro testo dello stesso autore, A General History of The most Notorius pirates, ovvero a una leggendaria colonia anarchica fondata alla fine del seicento al nord del Madacascar, dove vigeva una sorta di democrazia parlamentare interraziale. «[…] i pirati dividevano tra loro donne, tesori e bestiami in maniera assolutamente equa».

Edgar Allan Poe nel suo Lo scarabeo d’orodel 1843 descrive il ritrovamento del tesoro del pirata William Kidd (1645-1701), personaggio storico realmente vissuto, a cui lo stesso Daniel Defoe dedicò un intero capitolo della sua opera (nel secondo volume della Storia generale dei Pirati).

«Dopo la fine della guerra di Successione spagnola, i corsari si trovarono disoccupati. I più spregiudicati issarono la bandiera nera sull’albero di mezzana e quella rossa sull’albero di maestra e dichiararono una guerra personale a tutto il genere umano». Così leggiamo in Storie di pirati del 1922, il sorprendente libro di Sir Conan Doyle ambientato nel XVII sec., la cui trama avventurosa si intreccia a misteri e leggende. Doyle crea il suo capitano Sharkey, uomo affascinante, crudele e astuto, che naviga con la sua Happy Delivery, sulle coste atlantiche dell’Africa.

Persino John Steinbeck, nel suo unico romanzo storico La Santa Rossa del 1929, cede al fascino dei pirati, pur donandoci un testo che travalica lo scenario topico dell’epoca. Protagonista di questa storia ricca di battaglie per la supremazia dei mari è Henry Morgan, pirata realmente esistito, che da giovane garzone del Galles, dopo aver ricevuto una profezia, parte per le Indie Occidentali nella speranza di diventare un bucaniere e conquistare una bellissima donna chiamata ‘la Santa Rossa’.

Anche l’Italia annovera un grande scrittore di storie di pirati. Emilio Salgari, con il suo primo romanzo Le tigri di Mompracem, ma anche con l’Isola di Tortuga e i Pirati della Malesia, crea una figura leggendaria: Sandokan, da cui elimina la radice più gratuitamente malvagia, restituendogli un aspetto più umano. Sandokan è sì un pirata ma un gentiluomo, è affascinante e fedele ai suoi, combatte il colonialismo britannico e si vendica solo verso chi ha ucciso la sua famiglia.

Dalla penna di Barrie prende vita un personaggio incredibile: Captain James Hook, ovvero Capitan Uncino. Sia nell’opera teatrale, portata in scena nel 1904, sia nel romanzo Peter e Wendy del 1911 troviamo una figura lontana da come spesso viene rappresentato nei film. La sua iconografia è magnifica, con un uncino di ferro al posto della mano destra (un coccodrillo pare avergliela mangiata), in Peter e Wendy, è descritto come un uomo alto, ‘cadaverico’, con occhi blu e riccioli lunghi e scuri che sembrano ‘candele nere’ se visti da lontano. Ha un’aria elegante, una buona dizione e «Nel vestirsi imita molto Carlo II». «In una parola, il più bell’uomo che abbia mai visto, sebbene, allo stesso tempo, leggermente disgustoso», ammetterà lo stesso Barrie (J. M. Barrie, Capitan Hook at Eton, in Mconnachie & JMB Speeches By J M Barrie). Capitano di una nave di malvagi e cruenti pirati, in passato si dice sia stato il nostromo di Barbanera e l’unico uomo che il pirata Long John Silver abbia mai temuto. Il fascino di questo pirata fuori dal comune è attribuibile alla sua ambiguità. Spietato a volte e compassionevole altre. Freddo e crudele ma al contempo gentile ed educato. Di carattere malinconico, amante della poesia e dei fiori, è anche un detestabile e solitario individuo.

Abbiamo poc’anzi nominato Long John Silver, il leggendario pirata con una gamba di legno, imprevedibile e crudele. Ad aver creato forse l’immagine più emblematica del pirata è stato Stevenson che, con la sua L’isola del tesoro ci regala il vero archetipo delle avventure marinaresche. Tale sarà la forza di questo personaggio che molti anni dopo Björn Larson pubblicherà La vera storia del pirata Long John Silver. Una biografia del pirata che riappare, dopo essere sparito nel nulla nel romanzo di Stevenson, vivo e ricco nel 1742 nel Madagascar, intendo a scrivere le sue memorie.

Quella di Stevenson è una storia eterna, con tutti gli elementi dell’avventura e del mistero, scritta in maniera sapiente, con l’utilizzo del gergo dei marinai e un ampio e colorito uso delle metafore. L’ispirazione, contrariamente a quanto ci si immagini, viene a Stevenson quando è in vacanza in Scozia con il figlio e si ritrovò a dipingere un’isola, elemento di partenza e fulcro del suo lavoro. Dell’isola, una fitta giungla di giorno e sommersa nella nebbia al mattino presto, c’è una mappa, nell’isola esiste un tesoro. E poi c’è lui, Long John Silver che con la sua potente descrizione ha segnato la nostra immaginazione riguardo i pirati. Alto, con una gamba di legno e l’immancabile pappagallo sulla spalla. Ma anche altri pirati, i cui nomi risuonano nel tempo. Pensiamo a Israel Hands (che fece realmente parte della ciurma di Barbanera), Billy Bones, Black Dog. La capacità di Stevenson è senza dubbio quella di aver attinto dalla realtà molti aspetti e particolari ma di averli modellati in modo tale da creare figure mitiche, brutali ma al tempo stesso romantiche.

Vale la pena citare un altro romanzo, molto più recente, L’isola dei pirati di Michael Crichton del 2009, fosse solo perché rielabora alcuni temi tipici del mondo piratesco: un vascello spagnolo carico d’oro, un piano diabolico ideato dal capitano Hunter e l’ambientazione caraibica. Centrale diviene Port Royal, tra i più famosi porti dei pirati, i cui vicoli nascondono taverne in cui si tessono intrighi e sono popolati di avventurieri, tagliagole e donne di malaffare, tutti in cerca di fortuna.

Degno di nota, fosse solo perché da questo romanzo viene tratta la trama del film Disney del 2011 Pirates of the Caribbean: On Stranger Tides (alcuni ulteriori passaggi vengono utilizzati per il sequel La vendetta di Salazar del 2017) oltre che l’ispirazione per la serie di avventure grafiche Monkey Island della società di George Lucas, Mari stregati di Tim Powers è un romanzo davvero sui generis. La sua particolarità è dovuta al fatto che l’opera, pur ambientata nella Giamaica del 1718 con chiari richiami al reale mondo piratesco (pensiamo ai mari Caraibici, alle ciurme feroci, alla presenza di pirati realmente esisti come Barbanera, a riti voodoo e superstizioni su navi e mari), è contaminata da elementi puramente fantasy. In particolare si parla di voodoo, una pratica sviluppata fra gli schiavi neri di Hispaniola deportati, frutto di una mescolanza di credenze di culti religiosi dell’Africa Occidentale, del Cattolicesimo e del cerimoniale magico dei Grimoires, (testi di stregoneria francese), seguita da molti pirati che si diceva stringessero patti con le forze oscure. Se tutto questo fosse vero o meno, certo è che questo elemento magico ha da sempre caratterizzato il mondo dei pirati e i testi da questi ispirati.

Concludiamo questa breve rassegna con il manga One Piece (ワンピース), scritto e disegnato da Eiichirō Oda. Gli elementi topici ci sono tutti. È la storia del giovane Monkey D.Rufy che, insieme alla sua ciurma, va alla ricerca del leggendario tesoro One Piece (chiara la citazione a Capitan Kidd e al suo tesoro narrati da Poe), inseguendo nel frattempo il sogno di diventare il nuovo Re dei pirati. L’antagonista questa volta è una donna, la piratessa Albida, la cui storia si ispira alla vera vita di Awilda, figlia del re scandinavo e grandissima piratessa del V sec. In quel periodo gli scandinavi erano un vero flagello per i mari del Nord e l’abilità di Awilda era insuperabile. Una volta che scoprì il suo imminente matrimonio combinato con il principe ereditario di Danimarca Alf, la donna si ribellò e, insieme ad altre donne, si travestì da marinaio e partì con una nave lungo le rotte del Mar Baltico. Toccò al suo promesso sposo combatterla in mare e solo dopo averne riconosciuto il valore in battaglia, decise di sposarlo, ponendo fine alla sua vita avventurosa.

Ma Alwida non è la sola donna pirata a essere considerata leggendaria. Forse la più famosa di tutte fu Ching Shih (1775), meglio conosciuta come la vedova Ching. La sua incredibile storia ispirò Jorge Luis Borges che la inserì nel suo Storia universale dell’infamia 1935(Un pirata: la vedova Ching è il capitolo che le dedica).

Dalla letteratura al mito

Esistono alcuni elementi che dal mondo reale della pirateria sono confluiti nella letteratura per rimanere, a loro volta, impressi nella nostra mente come qualcosa di leggendario, di mitico, di imprescindibilmente connesso alla pirateria stessa.

Il Rhum

Fifteen men on a dead man’s chest. Yo-ho-ho and a bottle of rhum. Drink and the devil had done for the rest.

(Stevenson, l’Isola del Tesoro)

La vita in mare era per i pirati tutt’altro che facile, non solo psicologicamente ma soprattutto fisicamente. Dovendo poi affrontare lunghi mesi in mare senza scali, il problema principale consisteva nell’approvvigionamento di cibo e acqua dolce. Non potendo infatti bere acqua salata e non potendo desalinizzarla, erano soliti imbarcarla in grosse botti che però, dopo poco si ricoprivano di alghe, rendendo l’acqua impura. Ma i Pirati scoprirono che era possibile salvare l’acqua aggiungendo dell’alcool al suo interno. Così prima la allungarono con la birra, con l’inconveniente però, una volta aperta, di doverla in bere in breve tempo. Poi verso la metà del 1600 aggiunsero Rhum. La scoperta fu sorprendente perché in tal modo l’acqua si preservava a lungo dalla proliferazione di batteri, risultando anche gradevole da bere. Con l’aggiunta poi di limetta o succo di limone, ovvero con l’assunzione di vitamina c, potevano prevenire lo scorbuto, la malattia più comune sulle navi, le influenze e lo stress. Leggenda vuole che i pirati miscelassero rhum con polvere da sparo, per darsi carica prima degli assalti alle navi.

Negli anni d’oro della pirateria il Rhum divenne un elemento imprescindibile, facilmente reperibile nei porti caraibici e poco costoso, utile e soprattutto piacevole. Stevenson, nel suo L’Isola dei Pirati, cita proprio il rhum allungato con l’acqua, il grog, come bevanda offerta ai marinai della Hispagnola. Nel 1756 l’assunzione giornaliera di rhum entra addirittura nel regolamento della Royal Navy che ne prescrive l’assunzione due volte al giorno per ragioni mediche (non scordiamo che anche l’Angostura nel XVIII secolo veniva usata dai missionari in Bolivia per curare le febbri tropicali), ma soprattutto per rendere più audaci gli uomini, fossero al servizio dell’Inghilterra o semplici pirati. Sempre Stevenson narra di come, prima di essere scoperto dal giovane Jim Hawkins, Long John Silver e il suo compagno Israel Hands, convincono l’equipaggio all’ammutinamento proprio persuadendoli con l’alcool. L’uso smodato però, tipico dei pirati, ne accentuava l’aggressività, la rissosità sulle navi e divenne centrale nei giochi di forza tra comandati e marinai. Una delle prime punizioni da infliggere alla ciurma era infatti la sottrazione dell’alcool, così come un regalo era proprio lasciarsi andare in libagioni selvagge. Nei diari di bordo di Edward Teach (Barbanera) si legge come, insieme ai forzieri d’oro, era considerato un tesoro scovare idromele, brandy e vino rosso, così come fosse normale distillarlo da loro stessi.

Non è perciò un caso che uno dei cocktail più famosi al mondo fosse stato inventato da un pirata e che fosse soprannominato coraggio liquido. Il diabolico antesignano del Mojito era proprio el Draque. Creato da Sir Francis Drake quando scoprì che l’herba buena (ovvero la menta selvatica cubana) poteva essere usata come rimedio alla dissenteria, la aggiunse alla sua bevanda. Essa consisteva in Ruhm fresco (o aguardiente de cana, l’acquavite distillata dallo zucchero di canna), acqua, zucchero, lime, e infine menta.

La cucina creola

Le difficoltà sull’approvvigionamento non si limitavano all’acqua ma anche al cibo. Gli alimenti a lunga conservazione erano pochi e le razioni scarse. Ma forse proprio per questo il contributo dei pirati all’arte culinaria è indubbio. Oltre ad una sapiente capacità di adattarsi con i pochi elementi a disposizione, la loro cucina era basata sulle contaminazioni tra diverse culture. Di necessità virtù e così oltre alle famose gallette, composte di acqua e farina e di ricette a base di pesce, troviamo un sapientissimo uso di aromi e spezie. Dall’aglio che oltre le sue capacità antibatteriche eliminava l’odore di putrido a bordo, al limone, con le sue proprietà benefiche, alla cipolla, al timo per macerare e rendere più gradevole la carne di squalo. Fino alla creazione di piatti tipici, come la turtle soupe, uno stufato di tartarughe verdi che venivano catturate e conservate in stiva vive ma capovolte per evitare che vagassero per la nave.

Interessantissimo un volume, pubblicato da Elèuthera, La cucina della filibusta, a metà tra ricettario e libro storico «in cui le ricette si alternano alla narrazione in un’armonica composizione di sapori e vicende». L’autrice è Melani Le Bris, figlia del più noto storico francese della pirateria Michel Le Bris che, nel tempo, ha ripubblicato anche alcuni scritti inediti di Stevenson.

La mappa del tesoro

di Flavia Sorato

A rendere famose ed eternamente avventurose le storie di pirati è da sempre una certa immagine, iconica, che nel tempo, costituendosi come genere, ha contribuito nel dare vita ad una vera arte, la cartografia letteraria, un mondo immaginifico che ci porta lontano, su isole e terre alla scoperta o alla ricerca di qualcosa.

La mappa del tesoro è ciò che ci viene mostrato da piccoli, mentre ascoltiamo o leggiamo racconti di mare e d’avventura, e che ci consegna quella magia dell’altrove, potente e ammaliatrice, senza cui non potremmo pensare un certo tipo di storia.

La più rinomata è probabilmente quella de L’Isola del tesoro, di Louis Stevenson, la più conosciuta, forse, tra le tante che popolano diversi altri libri e che potremmo collezionare visivamente, come ad esempio nel caso del racconto di Edgar Allan Poe Lo scarabeo d’oro (The Gold-bug). Qui assistiamo ad una sempreverde caccia al tesoro, basata su un messaggio cifrato e su un mappa ad esso collegata, e la cui narrazione, oltretutto, fa riferimento proprio al tesoro di un vero pirata, forse uno dei corsari più famosi della storia, William Kidd.

La mappa di Stevenson è, però, il disegno piratesco per eccellenza. In una bella raccolta di saggi che compongono un atlante di viaggi letterari Le terre immaginate, di Huw Lewis-Jones, vi è uno scritto dedicato proprio alla mappa in questione. Robert Macfarlane racconta della sua passione per lo scrittore scozzese e di come quel disegno in particolare abbia fatto sorgere in lui la passione per un certo mondo fantastico, d’isole e carte misteriose.

L’isola del tesoro nasce, dunque, proprio dalla mappa creata da Stevenson. Il tutto accadde, poi, in modo inaspettato perché lui la disegnò la prima volta per intrattenere un bambino, il suo figlioccio, e da quella suggestione poi presero mano a mano vita i personaggi, la trama e tutta la storia. «Da quel pezzo di carta piatta scaturì uno dei luoghi immaginari meglio convincenti e
compiuti di sempre».

Nel nostro immaginario questa cartina è una chiave d’accesso, per l’avventura, il mistero, il viaggio. Ci educa a pensare ad un altrove non vago, ma preciso, popolato da dettagli e particolari. “Mostra un’isola dalle coste frastagliate con boschi, vette, paludi e insenature. Ci sono segnati solo pochi nomi e parlano di avventure e disastri: La Collina del Cannocchiale, Le Tombe, L’Isola dello Scheletro. La calligrafia è abile, sicura; alla punta sudorientale dell’isola c’è una rosa dei
venti e uno schizzo di un galeone a vele spiegate. Alcune cifre segnano la profondità del mare circostante e ci sono avvisi ai naviganti Mare forte, Secche.

E nel cuore dell’isola c’è una croce rossa come il sangue accanto alla quale è vergata la scritta Qui c’è la cassa del tesoro (Bulk of treasure here).

In una sola mappa è racchiuso un mondo, c’è un dentro e un fuori, e la storia che su di essa si fonda o che ad essa porta è definita visivamente dall’includere dettagli, simboli, segni. La X, come certe scritte, fanno parte di un linguaggio eterno, mentre altri aspetti si trasformano e portano a innumerevoli rielaborazioni (come quella di Monro Orr del 1934)

Se Jim Hawkins e una figura come quella di Long John Silver ci accompagnano tutt’oggi ne La più nota storia di pirati è grazie ad una mappa, ad una geografia fantastica che è diventata reale, e come diceva lo stesso Stevenson:

«Ci sono persone a cui non interessano le mappe, ma trovo difficile crederlo».

I porti (covi pirata)

[…] quando si procuravano del bottino immediatamente lo sperperavano, e se avevano denaro o liquore giocavano il primo e bevevano il secondo finché non ne rimanevano privi; e durante siffatta baldoria non vi era distinzione tra capitano e ciurma.

 (Woodes Rogers).

Tra una scorreria e l’altra, anche solo come sosta dopo lunghissimi giorni di navigazione, i pirati solevano rifugiarsi in alcune isole per fare rifornimento di vettovaglie, in alcuni casi per nascondere tesori, in altri per dissiparli completamente in vino, divertimenti e donne. «Il vino e le donne prosciugano i loro averi» (Charles Leslie, History of Jamaica).

Tra queste le più rinomate Port Royal, il più ricco porto dell’era coloniale, ubicato in una posizione strategica atra le rotte del commercio spagnolo a metà strada proprio tra la Spagna e Panama, fondato nel 1655. Soprannominato dai pirati stessi il porto delle orge, la sua città, la «più peccaminosa e sediziosa del mondo», era abitata da pirati, tagliagole e prostitute. Non meraviglia perciò che nel momento in cui un terribile terremoto del 1692 la distrusse inabissando due terzi della città, in molti attribuirono l’evento alla punizione divina per quella Sodoma del Nuovo Mondo. La violenza del maremoto fu tale che la penisola di Palisadoes, dove sorgeva l’antico cimitero in cui, nel 1688, era stato sepolto il corsaro Henry Morgan, si frantumò e divenne un’isola.Oltre Cartagena, Portobello, l’altro luogo entrato nella nostra immaginazione è senza dubbio Tortuga. Piccola isola a forma di tartaruga scoperta da Colombo, era il covo dei bucanieri, frequentata quindi da francesi prima e da olandesi e inglesi poi. Resa famosa da Salgari e dal suo Corsaro nero, la sua nomea torna alla ribalta grazie al famoso film della Walt Disney i Pirati dei Caraibi.

Il ritorno dei pirati

Flavio Carlini

La pirateria nel tempo ha cambiato forma, eppure «Ancora oggi…gli oceani sono un’area grigia priva di normative condivise, perché per i paesi sviluppati la fluidità dei trasporti marittimi è più vitale di qualsiasi regolamento internazionale» Leher (op.cit). Così come invariato rimane il fascino che quel mondo evoca e che, ancora, ispira pellicole cinematografiche, ricerche storiche e nuovi romanzi. Esiste anche chi, per buona sorte di tutti noi, decide di restituire qualche classico sui pirati a nuovi lettori: è questa l’operazione compiuta dalle  Edizioni Haiku.

Abbiamo parlato con Flavio Carlini, curatore, per la medesima casa editrice, della collana Settemari.

Il mondo dei pirati è sempre affascinante e ha spesso il potere di trasformarsi in attualità, prestando simboli e idee a noi contemporanei. Nel corso della storia, infatti, la figura del pirata si è sempre più sovrapposta a quella dell’eretico, del ribelle, di colui che ‘lotta contro tutte le bandiere’ in nome di una anarchia fatta di giustizia opposta alle prevaricazioni della classe dominante.
Celebre è la citazione che fece Fabrizio de André nell’album ‘Le nuvole’ del pirata Samuel Bellamy, che incontrando un ufficiale della marina britannica, disse «Io sono un principe libero e ho altrettanta autorità di fare guerra al mondo intero quanto colui che ha cento navi in mare».
Bellamy era certamente un pirata molto politicizzato, ma nella storia vera e spogliata dalle vesti del romanticismo, la figura del pirata offriva una moltitudine di istanze culturali e caratteriali. I pirati della cosiddetta ‘Golden Age’ si discostavano con prepotenza dalla norma, nel bene e nel male, nella criminalità e nell’idealismo. Creavano società democratiche in un’epoca segnata dall’aristocrazia; si mescolavano tra europei, africani e nativi americani in una cultura comune, quando l’Africa era la miniera d’oro degli schiavisti, i nativi erano considerati dei fastidiosi selvaggi e l’Europa era dilaniata dalle guerre di religione.

Si tratta di un periodo storico saccheggiato dalla fiction ma stranamente sottovalutato dalla ricerca storica. Da qui l’idea di pubblicare per la prima volta in maniera integrale la celebre Storia generale dei pirati scritta dal fantomatico Capitan Charles Johnson, forse pseudonimo di Daniel Defoe, in una serie antologica capace di offrire – oltre al testo originale in una nuova traduzione – approfondimenti e divulgazione storica sui pirati citati, in modo da far emergere la realtà dei personaggi spesso romanzati in maniera eccessiva dall’autore del testo. Il progetto è partito come una scommessa e si è rivelato un bel successo, tanto da aver dato il via anche a un podcast che approfondisce molti altri aspetti e personaggi legati al mondo della pirateria ‘Radio Pirata’ che ha già raggiunto la quarta stagione.

Dizionario Essenziale

BUCANIERE: pirata, in particolare predone che depredava le navi spagnole nelle Indie Occidentali durante il XVII sec. Da cui anche spietato speculatore o avventuriero. Il termine bucaniere, deriva dal francese boucanier (chi usa il boucan, ovvero l’intelaiatura di legno per essiccare la carne e conservarla. Metodo insegnato dalle tribù locali Arawak di Santo Domingo, che chiamarono il metodo Barbicoa, da cui prende origine la parola e il metodo Barbecue). Il termine sta a indicare pirati e corsari francesi, inglesi e olandesi del XVII e XVIII sec. attivi nei Caraibi, che colpivano le navi spagnole e gli insediamenti costieri spagnoli. CORSARO: dal francese corsair, a indicare un predatore di mercantili che prende parte alla guerre de course (‘guerre di incrociatori’, l’attacco appunto a navi mercantili). In inglese il termine corsair è usato perlopiù per designare i corsari attivi nel Mediterraneo; il termine generico è invece privateer.

FILIBUSTIERE: dall’olandese virijbutier (in inglese freebooter) indica una persona che pratica la pirateria. Il termine è quindi sinonimo di pirata.

JOLLY ROGERS: bandiera nera raffigurante un teschio e delle ossa incrociate (skull and crossbones) apparsa nel XVIII sec. Precedentemente i vessilli dei pirati erano di diversa foggia, rappresentando spade, diavoli, macabri motti, e colore. Dalla versione precedente di colore rosso, tipica della guerra di Successione spagnola e poi mantenuta come simbolo del sangue da quei corsari che finirono nella pirateria e chiamata appunto Jolie Rouge, si dice abbia preso il nome.

PIRATA: colui che pratica pirateria, ovvero compie rapine, rapimenti o violenze in mare o dal mare per guadagno personale e senza il mandato di un’autorità legittima.

PRIVATEER: termine inglese, derivante dalla combinazione tra private e volunteer, impiegato per indicare una nave da guerra gestita in proprio o una persona con l’incarico di attaccare navi mercantili, vale a dire un pirata su licenza (ovvero corsaro).

LETTERA DI CORSA: anche detta lettera di marca era un documento emesso da un governo di uno Stato che autorizzava il titolare di essa ad attaccare e catturare vascelli di uno Stato nemico. Per lettera di marca si intende anche il permesso concesso dai sovrani ai gentiluomini e ai borghesi ad armare in corsa.

7 MARI: modo per indicare tutti i mari conosciuti. Fu Rudyard Kipling a rendere nota tale espressione figurativa, seven seas, che indicava i mari, tutti, e gli oceani del mondo (Indiano, Artico, Antartico, Nord e Sud Pacifico, NS Atlantico). Nella antica letteratura delle origini indicava sia i mari reali che le distese provenienti dal mito. Sette inoltre era il numero che rappresentava il compimento di un ciclo.

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