STUPÓRE E FILOSOFIA. Festival Treccani della lingua italiana.

Con interventi di Mario De Caro, Gabriele Pedullà, Gilda Diotallevi

Il 27 e 28 maggio 2023 si è svolta a Garbatella, precisamente a Piazza Damiano Sauli, la VI edizione del Festival Treccani della lingua italiana, ideato appunto dalla Fondazione Treccani Cultura, con la collaborazione dell’Università di Roma Tre e dell’VIII Municipio di Roma. Un appuntamento annuale, pensato per presentare i temi più rilevanti della costante ricerca di Treccani sulla lingua italiana, prestando attenzione al valore delle parole, come mezzo di espressione, di ragionamento e di confronto tra diverse posizioni. Quest’anno il Festival si concentrava sulla parola stupore.

Dopo una breve introduzione sul nesso tra stupore e filosofia, riportiamo un estratto delle lezioni di due grandi filosofi e pensatori italiani: Mario De Caro e Gabriele Pedullà.        

Introduzione. Solo lo stupore conosce

di Gilda Diotallevi

STUPORE s. m. [dal lat. stupor -oris, der. di stupēre «stupire»]. – 1. Forte sensazione di meraviglia e sorpresa, tale da togliere quasi la capacità di parlare e di agire. 2. ant. b. Stato di stordimento, conseguente a cause fisiche o morali. c. Intorpidimento delle membra, torpore fisico.

Se consideriamo lo stupore nella sua accezione di meraviglia è possibile rintracciare il suo legame con la conoscenza già all’esordio del pensiero filosofico.

«Gli uomini, sia nel nostro tempo che da principio, hanno cominciato a filosofare a causa della meraviglia, poiché dapprincipio essi si meravigliavano delle stranezze che erano a portata di mano.» (Aristotele, libro I, Metafisica)

«TEETETO: Per gli dèi, veramente, Socrate, io mi meraviglio enormemente per cosa possano essere mai queste visioni e talvolta, guardandole intensamente, soffro le vertigini. SOCRATE: Non mi pare, caro amico, che Teodoro abbia opinato male sulla tua natura. Si addice particolarmente al filosofo questa tua sensazione: il meravigliarti. Non vi è altro inizio della filosofia, se non questo, e chi affermò che Iride era figlia di Taumante come sembra, non fece male la genealogia.»(Platone, Teeteto, 155d)

Taumante richiama il verbo θαυμάζω, utilizzato sia da Aristotele che da Platone, a indicare come la meraviglia dell’inatteso e non conosciuto, fosse anche angoscia per l’ignoto. Il θαῦμα, nella doppiezza della sua semantica che involve la meraviglia e il timore, è il vero e proprio movente dell’esercizio della filosofia. Esiste una connessione quindi tra lo stupore e la tensione alla conoscenza. Solo lo stupore conosce, scriveva Gregorio di Nissa nel IV sec, come a significare che quel disorientamento improvviso dovuto allo stupore sia ciò che spinga a porre domande. Sullo sfondo dell’inconsistenza del sapere sorge quindi la domanda intorno al senso dell’essere.

Tale posizione è rimasta centrale per lungo tempo, facendo tornare filosofi come Kant, Heidegger o Florenskij per esempio, a riflettere su tale connubio.

Non è un caso che Heidegger, nel corso di lezioni del 1937-1938 sulle Domande fondamentali della filosofia, richiami i passi di Platone e Aristotele sopra citati e definisca lo stupore (Er-staunen), con cui traduce il verbo greco  θαυμάζω, come la tonalità emotiva fondamentale del primo inizio della filosofia. Secondo Heidegger i Greci attraverso lo stupore scoprono il manifestarsi dell’ente, il suo uscire dalla latenza della visibilità. Lo stupore perciò è, in un certo senso, esperienza dell’ἀλήθεια, un dispiegarsi della φύσις.

Lo stupore potrebbe allora dischiuderci ciò che è chiuso? (M. Heidegger, Colloqui su un sentiero di campagna 1944-1945)

«Lo stupore è il nocciolo della filosofia», scriverà più avanti Pavel Florenskij in Stupore e Dialettica. Lo stupore per il filosofo corrisponde sia alla sensazione di mistero che, generando la realtà, vi si manifesta integralmente e compiutamente: «[…] tutte le idee scientifiche che mi stanno a cuore sono sempre state suscitate in me dalla percezione del mistero.» Sia a quella meraviglia, di cui parla Aristotele, da cui scaturisce la vera conoscenza.  La ragione infatti permette un’apertura all’ignoto che, secondo Florenskij, può cogliere la vita del mondo, il significato ultimo, intuito ma mai afferrato, della realtà che viviamo e sperimentiamo ogni momento. 

Ciò su cui dobbiamo riflettere è se anche oggi siamo in grado di stupirci, se può dirsi ancora valido quell’antico connubio tra stupore e filosofia.

Per rispondere a questi e ulteriori quesiti, riportiamo alcuni passaggi di due illuminanti lezioni tenute in occasione del Festival Treccani.

FILOSOFIA, STUPORE E ALTRE COSE STUPEFACENTI

Mario De Caro

Il termine stupore è abbastanza peculiare, perché se si pensa alla sua radice semantica, che deriva da stupire, essa è all’origine di termini molto diversi tra loro. Da una parte stupefacente e stupendo, dall’altra stupido e instupidito. Ci dovremmo chiedere come mai la stessa radice dia conto di due situazioni così diverse. La ragione è che questo termine può essere visto da due punti di vista. Stupendo e stupefacente è ‘qualcosa’, stupito, instupidito è ‘qualcuno che vede quella cosa’, che la contempla. In questa luce si comincia a capire perché Platone, Aristotele, sia altri fino a Heidegger hanno detto che la filosofia inizia dallo stupore. Proprio perché la filosofia è intesa come la contemplazione dei misteri più profondi della realtà.

In questo senso quando ci troviamo a contemplare misteri insondabili restiamo attoniti ma anche instupiditi. In qualche modo l’idea originaria di Platone e Aristotele è ancora con noi. Ed è ciò che accade nella filosofia che, a differenza per esempio problemi scientifici che possono essere difficili, magari irrisolvibili, ma chiari, non risulta così. Pensiamo al libero arbitrio su cui, secondo molti, non abbiamo saputo elaborare nessuna concezione veramente convincente. Non esiste un’alternativa di soluzioni plausibili, ma siamo di fronte a un problema che sembra sfuggire a tutti i tentativi di concettualizzazione.

Quando Platone e Aristotele sostenevano che la filosofia originasse dallo stupore, dicevano qualcosa di diverso dalla filosofia contemporanea, perché al tempo non esisteva ancora una distinzione netta tra la filosofia, le scienze, la matematica, ma tutto era un continuum. Diventa difficile capire oggi come un antico si confrontava con la realtà. Per l’antico il mondo è diverso, è un mondo intrinsecamente valutativo. Per i contemporanei, da Galileo in poi, l’universo fisico è invece molto democratico, è isotropico, le proprietà dello spazio sono identiche, non ci sono parti privilegiate. Nell’antichità non era così, lo spazio era connotato assiologicamente, cioè da valori. Dante, per esempio, quando immaginava l’universo, considerava il centro della terra la cloaca dell’universo, in cui collocare il diavolo, perché essa era il punto più lontano dall’empireo, ovvero da quel luogo sopra la costellazione delle stelle fisse, al di sopra del quale ci sono le gerarchie angeliche fino a Dio. La terra è il punto più lontano da questo universo. Pur essendo una visione cristiana e distante da Platone e Aristotele, condivide però il fatto che l’universo fosse connotato con valori. Pensiamo appunto ad Aristotele secondo cui l’alto vale più del basso e intrinsecamente gli elementi più nobili, come l’aria, tendono verso l’alto, mentre quelli meno nobili, come la materia, tendono verso il basso. Ma non è solo questo.

C’è anche una corrispondenza tra le cose che il pensiero moderno ha sostanzialmente cancellato.  Mi riferisco, per esempio, al pensiero astrologico, secondo cui esistono corrispondenze tra la posizione degli astri rispetto alle costellazioni al momento della nascita di un individuo che svelano chi esso sia. Esistono cioè legami tra le cose che non sono di natura causale ma di somiglianza. Nella elaborazione che ha avuto più successo, l’astrologia, che è rimasta valida fino al Rinascimento almeno e all’inizio dell’età moderna, la nascita di un individuo avviene sotto una particolare configurazione dei pianeti, che provoca un particolare equilibrio dei quattro umori, dei quattro liquidi che abbiamo nel corpo, (sangue, flegma, bile rossa, bile nera) che fa di quella persona una certa persona particolare. Essi potrebbero essere visti come dei tentativi protonaturalistici, tesi a ricercare un senso e a fornire una spiegazione alla natura, al motivo del perché siamo diversi gli uni dagli altri; spiegazione rintracciabile nella corrispondenze tra le cose.

In fondo questo è anche l’assunto del pensiero magico, ovvero che ci siano segrete corrispondenze tra le cose, tra il microcosmo e il macrocosmo, tra noi e l’intero cosmo.

[…]Con la rivoluzione scientifica tutto cambia e qualcuno sostiene che finisca la capacità di stupirsi. Ma credo che questo non sia corretto. Non cambia così radicalmente il nostro atteggiamento stupefatto davanti alla realtà, almeno per chi si impegna a cercare di comprenderla.

Non ci sono più i nessi segreti fra le cose, le cause finali. Secondo Aristotele per esempio se un corpo cade, non è perché esiste un’attrazione di gravità ma perché è nella sua natura tendere al basso, se è una cosa materiale. O il fuoco va verso l’alto, proprio perché è nella sua natura.

Tale mentalità è valsa in biologia fino a Darwin, dopo di lui invece si è cominciato a credere che gli organismi non tendessero più a qualcosa. In biologia, come era avvenuto nella fisica con la rivoluzione galileiana e newtoniana, spariscono le cause finali. Ci sono solo le cause efficienti. Qualcosa accade perché è determinato da qualche altra cosa, secondo le leggi di natura: viene in evidenza il meccanismo.

Non ci sono più le cause finali, le corrispondenze tra le cose e non c’è più, nei pensatori religiosi e nei filosofi l’intrusione di Dio quando si tratta della realtà terrena. Non si è più spiegato un fenomeno terreno con l’intervento divino. Dio, per chi crede, sovrintende a un mondo diverso dal nostro. In qualche modo possiamo affermare che la filosofia si è naturalizzata, ha perso i valori e forse anche i significati; prima la nostra esistenza era legata a un ciclo vitale di natura complessa, ora è una questione naturalistica.

Ma in tal modo, per utilizzare un termine di Max Weber, l’uomo risulta disincantato? Non c’è più quell’incantamento che ci stupefaceva, perché non c’è più quel misterioso rapporto tra le cose che si somigliano. Tutto è retto da meccanismi di causa ed effetto. Ma allora non c’è più da stupefarsi?

Io non lo credo, ma non lo credeva neanche Kant che nel Settecento, ben consapevole della rivoluzione scientifica e pur avendo aderito al newtonianesimo, scrive un passo famosissimo nella Critica della ragion pratica,

«Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me.»

Dividiamo il discorso in due parti:

Il cielo stellato, anche se non più fatto da sfere mobili mosse da gerarchie angeliche, è comunque qualcosa che ci lascia attoniti, stupiti. […]Kant parlava, in senso tecnico, di sublime, quando contemplando la natura e ci rendiamo conto della nostra piccolezza.

Se guardiamo il mondo senza preclusioni e senza barriere ideologiche ci rendiamo conto di quanto il mondo sia stupefacente, pensiamo alla relatività e al modo in cui ha cambiato la nostra concezione del tempo. O che nella meccanica quantistica si dicano cose incredibili, tipo che due particelle subatomiche che entrano in contatto, due elettroni ad esempio, anche quando si allontanano continuano a comunicare. Sembra proprio che si ritorni al vecchio legame intrinseco tra le cose. Si dice infatti che se qualcuno pensa di aver capito la meccanica quantistica allora non l’ha capita. Perché capire significa legare questa disciplina alle intuizioni chiare e distinte del pensiero comune. E questo è infinitamente difficile. Il mondo non sarebbe più deterministico, ovvero che ciò che avviene sia determinato dal passato secondo le leggi della natura. A livello subatomico non sarebbe così. Ciò che avviene, avviene perché era provabile in una certa misura ma sarebbe anche potuto non avvenire. Non è determinato.

Ieri ero a un convegno a Taormina parlavo del libero arbitrio insieme a Roger Penrose, premio Nobel per la fisica nel 2020. E Penrose sostiene proprio ciò, che il nostro libero arbitrio dipende da quei misteriosissimi fenomeni dell’indeterminismo quantistico. Se si guarda alla scienza i misteri che ci possono stupire sono infiniti.

Ma poi Kant parla della legge morale dentro di noi e il discorso si complica. Kant è un pietista (una forma di puritanesimo religioso che viene dal protestantesimo) e crede fermamente che le leggi morali siano scritte dentro di noi in modo chiaro. L’imperativo categorico è qualcosa che chiunque voglia prestare attenzione non può non notare. Abbiamo dei doveri che sappiamo essere assolutamente vincolanti. Una posizione, la sua, a sostegno dell’etica deontologica.

Perché però si stupisce? Perché non c’è più una chiara origine religiosa. Kant tenta allora un’altra operazione, un’analisi trascendentale. (Quando vedo gli altri non posso non capire che alcune volte si comportano bene e altre male. Non posso non attribuire loro una responsabilità che oggi diremmo morale. Nel film Schindler’s List, il capo dello sterminio di Auschwitz è razionale, ha il controllo delle sue azioni, ma è un sadico che usa la sua empatia per godere della sofferenza altrui. Per Kant quella persona non obbedisce all’imperativo categorico e il filosofo non ha nessun problema a condannarlo.)

Ma esiste anche un’altra posizione contrapposta a Kant e alla sua legge morale che ci stupisce ovvero una forma radicale di relativismo morale, di chi sostiene che non esista una etica oggettiva. Quando cioè si sostiene che qualcosa è ingiusto, si sta in realtà solo esprimendo una preferenza. Non è cioè possibile dimostrare che Göth (per rimanere all’esempio del film di cui sopra) fosse moralmente in errore, così come si dimostra che i corpi cadono secondo la legge di gravità. Non c’è alcuna valenza oggettiva delle nostre tendenze morali. Questa è una forma di relativismo morale molto diffusa che però ci rende un po’ incapaci di comprendere la realtà. Il discorso di Kant si complica, perché si dovrebbe dimostrare che esistono dei principi universali e contemplarli con ammirazione e meraviglia. Ma è cosa davvero complessa.

Vorrei ora parlare un altro aspetto, di cui lo stesso Kant parla, ovvero dello stupore che viene dall’arte, però legandolo alla morale. Kant si riferisce al sublime naturale, ma esiste un’altra forma di sublime legata alla grande arte. Se pensate a Stendhal, quando si reca in Italia e si trova di fronte le opere che aveva visto solo riprodotte ha dei mancamenti (la sindrome di Stendhal).

Succede che la grandezza dell’arte ci ricorda che esiste qualcosa di enorme che siamo in grado di fare e che ci sopravviverà sfidando la grandezza della natura.

Per approfondire questo punto mi servirò della forma d’arte più influente dell’ultimo secolo, il cinema.

Quando assistiamo a un’opera cinematografica ben riuscita ci succede una cosa strana, immediatamente ci dimentichiamo la finzione. Pensiamo al cosiddetto paradosso dell’orrore, noi ci spaventiamo mortalmente, rimaniamo paralizzati, pur sapendo che è finzione. Perché ci stupefacciamo? È una strana forma di identificazione.

Se però andiamo sul piano morale le cose si complicano. Se anche assumessimo come vera la posizione di Kant sulla legge morale, succede che a volte al cinema ci affezioniamo a caratteri moralmente negativi. Parteggiamo per i cattivi. Cosa succede?

Per rispondere dobbiamo prima brevemente inquadrare la questione della rappresentazione del bene e del male al cinema. C’è tutta una fase aurea del cinema, in particolare di Hollywood, almeno fino agli anni ’60 in cui risulta lampante chi sia il buono (Hero) e chi il cattivo (Villain).Per esempio i film Western classici presentano questa chiara contrapposizione tra l’eroe (Henry Fonda, John Wayne, Gary Cooper) che generalmente lo è perché non è vigliacco e affronta da solo il cattivo che lo è lo radicalmente, irrimediabilmente. Anche esteticamente sono facilmente identificabili (i cattivi sono brutti, ubriaconi, senza barba fatta).

Ma il cinema va avanti e comincia a emergere una figura nuova, quella dell’antieroe, che ha cioè degli aspetti più umani rispetto alla figura dell’eroe classico che non ha mai paura. Ha delle debolezze. Penso a James Stewart che in alcuni film di Alfred Hitchcok (L’uomo che sapeva troppo, La finestra sul cortile o La donna che visse due volte) ha paura, in Vertigo si paralizza, è eroe per caso.

Oppure a Humphrey Bogart in Casablanca con i suoi molti aspetti negativi. Per la prima metà del film è scontroso, poco generoso, tratta male tutti, incontra l’amore della sua vita che gli chiede di andare a cena e lui risponde “non faccio mai piani a così lunga scadenza”. Invece poi si dimostra l’eroe che è. Forse parteggiamo per lui ancora di più, proprio per le sue debolezze.

Mi piace citare anche un altro esempio, del cinema italiano però. Ne Il Sorpasso di Dino Risi il personaggio di Bruno Cortona, magistralmente interpretato da Vittorio Gassman è megalomane, chiacchierone, profittatore, ha molti difetti, ma ti accorgi alla fine della sua fragilità, che è sostanzialmente buono e infelice e finisci per parteggiare con lui, l’antieroe, con un trasporto emotivo.

Però, già alla fine degli anni ’50, emerge un’ulteriore categoria, il Rough Hero, che nel libro che ho scritto con Terroni (Valori al cinema) abbiamo chiamato l’eroe brutale, l’eroe cioè cattivo, che ha dei tratti negativi tali da non poter essere definito buono e tuttavia patteggiamo per lui. Potrebbe essere per esempio Michael Corleone, ovvero Al Pacino ne Il Padrino parte I e II, è un personaggio affascinante ma negativo. Allora perché ci attrae?

Secondo la teorica americana Ann Wescott Eaton, questi personaggi ci attraggono, nonostante siano assolutamente irredimibili, e ci identifichiamo con loro perché capaci di illuminare quella parte negativa di noi, quella parte brutale che teniamo nascosta. Come diceva Freud la civiltà serve a questo, a contenere le nostre pulsioni negative, ma quando le vediamo rappresentate al cinema allora simpatizziamo con questi personaggi perché parlano di noi e di queste tendenze intrinseche.

Secondo Eaton, Alex il protagonista di Kubrick di Arancia Meccanica appartiene a questa categoria.

Alex è molto intelligente, è sensibile, apprezza moltissimo, in un clima di degenerazione culturale umana, la musica di Beethoven, apprezza la grande arte, sa cogliere il bello. Allo stesso tempo però usa la sua intelligenza per orchestrare crimini tremendi, ruba, tortura, violenta, uccide e gode nel farlo. Secondo la Eaton noi simpatizziamo per lui perché appunto è capace di illuminare quella parte di nascosta di noi.

Credo che, soprattutto rispetto a questo personaggio, non sia così e che Arancia Meccanica non voglia dire questo. Noi simpatizziamo per una ragione diversa.

A un certo punto Alex viene condannato a 15 anni di carcere, simula di essere diventato buono e gli si presenta un’occasione. Viene a sapere di una terapia sperimentale chiamata Ludovico, in cui si inducono alcuni condannati a diventare persone diverse. Vengono indotti a vedere immagini violente per giorni, senza possibilità di distogliere lo sguardo al punto da avere ripugnanza per il male. Allo stesso tempo però queste immagine sono accompagnate dalla musica di Beethoven (che potrebbe avere un senso rispetto a questa terapia perché a un certo punto si vedono le immagini dei nazisti che consideravano Beethoven come un antesignano della grandezza tedesca.) Alex si sottopone a questa cura ed esce dal carcere impossibilitato a fare il male; appena cerca di aggredire, di insultare qualcuno ha un incredibile senso di nausea e non può fare nulla. Ma la stessa cosa gli succede quando sente la musica che prima tanto apprezzava, non riesce più ad apprezzarla. Metafora fortissima che viene chiarita in due dialoghi centrali nel film tra un bislacco cappellano della prigione, che Kubrick stesso definisce il personaggio positivo, e Alex. Quando Alex gli chiede di essere sottoposto alla terapia, alla fine della quale prevedeva la scarcerazione, il prete gli dice che però in quel modo sarebbe diventato una macchina per fare il bene. Non riuscendo più fisicamente a fare il male, gli dice, agirai meccanicamente nel fare il bene, perdendo la capacità di scelta. Perderà il libero arbitrio. E ciò vuol dire perdere l’umanità, perdere ciò che ci rende umani, la possibilità di scegliere di essere buoni. La morale disturbante di questo film ci dice che è preferibile Alex quando è sadico e cattivo che quando diventa una macchina per fare il bene, perché perdendo la libertà, anche di fare il male, perde anche quella di fare il bene. Il male è il prezzo che dobbiamo pagare per avere la possibilità di fare il bene, senza libero arbitrio non sarebbe il bene.

Quindi noi non ci identifichiamo con Alex per quegli istinti brutali che abbiamo nascosti in ognuno di noi, ma perché esprime quella idea del libero arbitrio.

Alex rappresenta la dualità, è cattivo, perfido ma è anche in grado di apprezzare il bello, l’arte perché può scegliere, ma dopo perde tutto, non può neanche più apprezzare il bello.

Una persona pur malvagia, proprio perché dotata di libero arbitrio, ha la capacità di scegliere il bene, di redimersi. Perciò, secondo il mio parere, quando ci identifichiamo nel personaggio cattivo di un film, come in Alex, è perché speriamo che per quel personaggio, potenzialmente, si possa aprire un futuro diverso. Che abbia dentro di sé qualcosa di bello che possa dare una svolta alla sua vita, che quindi sia redimibile.

Speranza che non riguarda solo il singolo ma l’umanità intera, che possa avere un futuro migliore.

BELLEZZA E STUPORE

Gabriele Pedullà

Qual è il ruolo dello stupore quando incontriamo qualcosa che ci appare bella?

Partirei da alcuni pensatori antichi che si sono interrogati sul ruolo dello stupore, della meraviglia e che non si sono posti in particolare il problema della bellezza, ma che ci aiutano a inquadrare il problema.

Platone, dal Teeteto: «Ed è proprio del filosofo questo che tu provi, di essere pieno di meraviglia, né altro cominciamento ha il filosofare che questo.»

Aristotele, «gli uomini hanno cominciato a filosofare ora, come in origine, a causa della meraviglia.»

Quel non comprendere, il trovarsi di fronte a fenomeni misteriosi, mette in moto il desiderio di sapere. C’è un’altra citazione autorevole «evita di meravigliarti», che sembra in qualche modo entrare in tensione con quello che dice Aristotele, quella del grande filosofo epicureo e poeta romano Lucrezio che, diverse volte nel suo capolavoro, il De rerum natura. Gli studiosi di Lucrezio dicono che questa espressione si ripete perché il poema è incompiuto, non avendo perciò l’autore fatto in tempo a eliminare le ripetizioni.

Ma perché evitare di meravigliarsi? Si capisce che Lucrezio ha risolto le grandi questioni esistenziali, non è più il momento di meravigliarsi per coloro che sono stati illuminati dalla dottrina epicurea e hanno affrontato gran parte delle questioni e anche delle paure che attanagliano gli uomini.  Se il sapere nasce dallo stupore, quando il sapere è stato raggiunto, è del tutto inutile continuare a stupirsi.

Le due posizioni, quella di Platone e Aristotele da un lato e quella di Lucrezio dall’altro non sono perciò incompatibili ma mostrano comunque una tensione sulla utilità o inutilità dello stupore.

Nel tempo infatti lo stupore sarà visto sia come pericolo, rischio che come spinta.

Spostando il discorso su questioni più prettamente estetiche, vorrei partire da una prospettiva quanto più ampia possibile. Mi rifaccio a quella branca dell’antropologia che si interessa dell’estetica delle popolazioni isolate dall’occidente, che studia come si formano i loro valori rispetto alla bellezza. Secondo gli antropologi ci sono tre qualità universali, molto diffuse, della bellezza in queste culture: la simmetria delle forme, la luminosità del materiale, la grandiosità delle dimensioni.

Se noi guardiamo queste tre qualità, simmetria, luminosità, grandezza dal punto di vista dello stupore, ci accorgiamo che la simmetria è un fattore molto comune in natura, che perciò non desta tanta meraviglia, piace ma non è così particolare, è un ordine a cui siamo abituati. Diversa è però la posizione della seconda qualità, la luminosità del materiale, la luce che accompagna le nostre vite ha il potere di meravigliarci e l’apprezzamento per la luminosità coincide spesso con la meraviglia. Questa è una cosa che sanno molto bene i leader politici e religiosi, da sempre, la cosiddetta magnificenza dei sovrani: la lunga tradizione del potere europeo ha spesso a che fare con la luce. La luce serve a persuadere di una superiorità, con argomenti che non sono razionali, contribuisce ad attribuire autorevolezza alle persone, alle cose, è una sorta di attributo del divino e spesso del potere.

(Pensiamo alla Cupola della rocca a Gerusalemme, con la sua cupola interamente d’oro, al Buddha d’oro, la più grande statua d’oro che esiste al mondo del XIII XIV sec, o all’effetto che suscitava la vista delle armi di bronzo sfilare sotto il sole di Roma, come simbolo della protezione degli dei.)

Passiamo ora al terzo elemento, le dimensioni. Il modo migliore per evidenziare il rapporto tra dimensioni ed esperienza della meraviglia basta riportare alla mente la tradizione classica con le sette meraviglie del mondo: la piramide di Cheope, i giardini pensili di Babilonia, la statua di Zeus a Olimpia, il tempio di Artemide a Efeso, il colosso di Rodi, il museo di Alicarnasso e il Faro di Alessandria. Le sette meraviglie dell’antichità sono necessariamente grandi e luminose. Producono stupore per l’impresa delle loro realizzazione e rimandano all’idea del potere.

Grazie allo stupore, a volte, le dimensioni bastano da sole a prescindere dalla qualità architettonica della costruzione, come se esse fossero già di per se stesse significative. Il modo migliore per illustrarlo è con l’architettura americana tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. (Quartiere di Soho, palazzi di mattoni a cui si attaccavo strutture di ghisa, secondo una concezione neoclassica. Sono alti otto, nove piani. L’effetto è di una architettura estremamente convenzionale ma nel momento in cui passa in una riproduzione a scala superiore diventa qualcosa di molto diverso, già le dimensioni trasformano un’architettura banale in qualcosa di sorprendente da un punto di vista estetico)

Vorrei passare a un’altra questione, e parlare del fatto che esistono vere e proprio culture dello stupore. Non tutte le culture della nostra tradizione occidentale hanno scommesso altrettanto sul momento della meraviglia. Ma quella che l’ha fatto più di tutte è senza dubbio il barocco. E famosa rimane la dichiarazione di Giambattista Marino, massimo tra gli esponenti della poesia barocca

«È del poeta il fin la meraviglia, parlo dell’eccellente e non del goffo/chi non sa far stupir, vada alla striglia!»

Tale stupore si ottiene in modi molto diversi. Per esempio parlando attraverso metafore per descrivere in maniera inaspettata elementi semplici. (Un esempio Il canto dell’Usignolo dall’Adone di Marino, per altro uno dei poemi più lunghi della letteratura italiana, in cui un usignolo viene definito atomo sonante, voce pennuta, piuma canora, canto alato).

Ma anche fuori dalla letteratura, con la Galleria di Palazzo Spada, uno degli esempi maggiori di illusione ottica che gli specialisti chiamano prospettiva accelerata, quando cioè con un pavimento in salita e un soffitto in discesa si riesce a far sembrare di grandi dimensioni qualcosa che non lo è (la statua centrale di questa galleria alta circa 60 cm appare a grandezza naturale).

Questo mi porta a riflettere e a volervi far riflettere sulle illusioni della vita terrena e quindi sul un richiamo alla morte, aspetto tipico della cultura barocca. Pensiamo ai fuochi d’artificio, amatissimi in quel periodo, capaci di trasformare la notte in giorno, di creare un incontro di estremi opposti, di riempire il cielo di fuoco e di vita ma destinati a esaurirsi brevemente perché straordinariamente effimeri.

Un buon esempio degli artisti che si confrontano con la morte per generare la meraviglia potrebbe essere l’acrobata Philippe Petit che il 7 agosto 1974 compì un evento spettacolare passeggiando tra i campanili della cattedrale di Notre-Dame su un filo che univa le due parti, senza protezione. E più avanti anche tra le Torri Gemelle di New York, dalla cui performance hanno anche tratto un film.

Un tratto dell’arte che stupisce, a livello estetico, è la paura che non duri, che accada qualcosa a interromperlo. Perché quest’arte è troppo grande e troppo ardita e potrebbe fallire da un momento all’altro.

Vorrei fare un esempio letterario. Nel 1969 il francese Georges Perec pubblicò La Disparition, un romanzo di 300 pagine, non utilizzando mai la lettera e. In realtà la lettera e è molto più preziosa in francese che non in italiano.

Qualche anno dopo scrisse un altro libro, Les Revenentes, utilizzando solo la vocale e, ma anche qui il gioco rimanda ad altro, a un proprio al ricordo d’infanzia in cui racconta indirettamente dei genitori morti nella seconda guerra mortale. Nella dedica sul libro troviamo Per la lettera E. La lettera e, in maiuscolo, che aveva cancellato nel primo libro e che poi torna nel secondo, suona in francese come loro, ovvero i genitori a cui si rivolge il libro senza parlarne. Forse quando rintracciamo questo indizio, capiamo che la storia che ha raccontato su una delle più grandi tragedie, la seconda guerra mondiale, cammina sull’abisso e gioca, con lo stupore, per parlarci della morte.

Fiori vivi ringrazia:

Treccani cultura www.treccani.it/cultura;

Mario De Caro: filosofo italiano, professore di filosofia morale presso l’Università Roma Tre. Dal 2000, insegna anche presso la Tufts University, dove è regolarmente Visiting Professor. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Il libero arbitrio, Laterza 2004; Realtà, Bollati Boringhieri 2020; Le sfide dell’etica, Mondadori 2021; I Valori del cinema. Una prospettiva etico-estetica, (con Enrico Terrone), Mondadori 2023.

Gabriele Pedullà: critico letterario, critico cinematografico e saggista italiano. professore ordinario di Letteratura, Letteratura contemporanea comparata e presso l’Università Roma Tre. Autore di diversi libri di saggistica, con Sergio Luzzatto ha curato l’Atlante della letteratura italiana (Einaudi 2010-12). Tra i suoi libri ricordiamo inoltre Lo spagnolo senza sforzo (Einaudi 2009), Lame (Einaudi 2017) tradotto, o in corso di traduzione, in sette lingue. Biscotti della fortuna (Einaudi 2020).

La libreria Le Storie www.lestorie.it per averci ospitati nei due giorni del Festival della lingua italiana.

LA STORIA DELL’UNICORNO

di Gilda Diotallevi

L’unicorno è una delle più belle tra le ombre che vagano nelle vaste regioni del pensiero…

O. SHEPARD

La storia dell’unicorno si perde tra realtà e leggenda. Confondendo il piano dei fatti con quello dei simboli e dei significati, essa rappresenta un fulgido esempio di come un’antica credenza abbia attraversato i tempi e lo spazio, lasciando tracce di sé in quasi tutto il mondo per arrivare fino ai giorni nostri.

Seguirne le evoluzioni, le confusioni, le sovrapposizioni di genere e la credenze risulta difficile, perché la storia dell’unicorno si compone e si frammenta di continuo, mettendo in connessione tradizioni diverse, provenienti da oriente e da occidente.

Classificato come animale esistente, l’unicorno ci pone di fronte i limiti epistemologici della scienza antica, la difficoltà di reperire notizie certe e la fondazione del sapere su dati riportati da viaggiatori, scrittori e mercanti. Eppure affascina l’idea che per secoli interi questo strano animale fosse stato considerato esistente. Come a dire che se il dato scientifico non era attendibile, la credenza e il mito che intorno a esso si è andato formando dice molto dei periodi storici e degli approcci conoscitivi del tempo. Simboli e significati, metafore e metonimie avevano valore pari alla realtà dei fatti.

La nascita del mito

La nascita del mito dell’unicorno non risulta affatto chiara e non solo per l’incerta provenienza, divisa tra Cina e India e poi portata in Europa, ma anche per la sua individuazione biologica.

Le prime fonti a nostra disposizioni sono del IV sec. a.C., anche se probabilmente la sua comparsa è molto più antica. Ctesia di Cnido, lo storico greco inviato alla corte di Persia per le sue capacità mediche e uomo di fiducia del Gran Re di Persia Artaserse II, ci fornisce il primo documento europeo in cui si parla di Unicorno che, stando alle indicazioni raccolte, si tratterebbe in realtà di un asino indiano. Nei suoi Indika, giunti a noi in una versione frammentata (qui riportiamo la versione del venticinquesimo frammento di Fozio) troviamo

In India ci sono degli asini selvatici grandi come cavalli e anche di più. Hanno il corpo bianco, la testa rossa e gli occhi blu. Sulla fronte hanno un corno lungo circa un piede e mezzo. La polvere di questo corno macinato si prepara in pozione ed è un antidoto contro i veleni mortali. La base del corno, circa due palmi sopra la fronte, è candida; l’altra estremità è appuntita e di colore cremisi; la parte di mezzo è nera. Coloro che bevono utilizzando questi corni come coppe, non vanno soggetti, si dice, alle convulsioni o agli attacchi di epilessia. Inoltre sono anche immuni da veleni se, prima o dopo averli ingeriti, bevono vino, acqua o qualsiasi altra cosa da queste coppe. Gli altri asini, sia quelli domestici sia quelli selvatici, nonché tutti gli animali con lo zoccolo indiviso, non hanno né astragalo né fiele, ma questi hanno sia l’uno sia l’altro. Il loro astragalo, il più bello che io abbia mai visto, è simile a quello del bue come aspetto generale e dimensioni, ma è pesante come piombo e completamente color cinabro.

Molti mercanti erano riusciti a raggiungere l’India e ad arrivare in Asia centrale, trovandosi di fronte probabilmente degli sconosciuti rinoceronti che, in base alle credenze del tempo, scambiarono per unicorni. La classificazione zoologica di questo nostro animale infatti risulterebbe improvabile, frutto di un ibrido tra specie e caratteri differenti. Odell Shepard, in particolare, nel suo bellissimo testo The Lore of the Unicorn (London 1930) ha pensato all’asino indiano di Ctesia come a una agglutinazione di rinoceronte indiano, antilope tibetana (la Pantholops hodgsonii, detta anche ‘chiru’) e onagro (Equus hemionus onager). Ma Ctesia non fu l’unico a fare confusione circa la sua provenienza. Mentre infatti, come questo ultimo, Aristotele pensava che l’unicorno fosse una specie mista di asino selvatico, Plinio, che inaugurò il termine monoceros con cui anche oggi lo conosciamo, credette che avesse il corpo di un cavallo, la testa di un cervo, i piedi dell’elefante e la coda del cinghiale. Nel Physiologus viene descritto come un animale simile a una capra, mentre per i Persiani era un asino a tre zampe, per gli Ebrei un mostro enorme, grande come il Monte Tabor, per i Cinesi una specie di ariete, di leopardo, di volpe, o di cavallo. Mentre Eliano, lo storico romano del II d.C. pensava fosse una specie di rinoceronte

[…] l’unicorno, che si chiama cartazon (kartazonos). Questo animale è grande come un cavallo adulto e ha la criniera e il pelo rossicci, le zampe simili a quelle dell’elefante e la coda di capra. È velocissimo. In mezzo agli occhi ha un corno singolo, nero, non liscio ma con certi anelli naturali, che si assottigliano per finire con una punta molto sottile. Fra tutti gli animali, è quello con la che gli si avvicinano, ma lotta con quelli della sua stessa razza: non solo i maschi lottano naturalmente tra loro, ma anche contro le femmine, e spingono il combattimento fino ad un esito mortale. È un animale dotato di grande forza fisica, e inoltre è armato del suo corno invincibile. Ricerca i luoghi più deserti, dove erra in solitudine. Nella stagione degli amori diventa gentile con la femmina che si è scelta, e pascolano l’uno a fianco all’altra, ma quando la stagione è finita ridiventa feroce e ricomincia a vagare in solitudine….

«[…] una semplice confusione tra dati zoologici abbastanza esatti; riguardanti il rinoceronte (ma con qualche probabile confusione con qualche altro animale, come l’antilope tibetana o l’orice), e dati forse d’origine mitica passati dalla cultura vedica e da quella mazdaica all’Occidente attraverso Ctesia prima, Megastene e il ciclo leggendario di Alessandro poi. In un certo senso, l’unicorno è il primo segnale della vocazione all’esotismo della cultura occidentale.» (F. Cardini)

Occidente

Tra il II e il III sec. d C, ad Alessandria venne diffuso il Physiologus, un testo scritto in greco allo scopo di aiutare i cristiani d’Egitto a interpretare la natura secondo i principi della nuova religione che si stava diffondendo in tutto l’Impero Romano. Questo volume enciclopedico, che offriva l’interpretazione degli animali e delle loro caratteristiche in chiave simbolica e religiosa, venne poi ripreso nell’Alto Medioevo. Ispirato a esso, cominciarono poi a diffondersi i Bestiari in lingua latina, veri e propri manuali che permettevano l’interpretazione di tutti gli elementi naturali come segni del male o di Dio, secondo le dottrine accettate nel Medioevo.

Fu proprio attraverso questi Bestiari che si diffuse in tutta Europa la tradizione popolare dell’unicorno come elemento allegorico. «Per mezzo di questo animale viene rappresentato il Cristo, e per mezzo del suo corno la sua indomabile forza. Colui che si posò in grembo alla Vergine fu catturato dai cacciatori; ovvero fu scoperto in forma umana dai suoi amatori». (Onorio di Autun, Speculum de mysteriis Ecclesiae) Le antiche credenze, retaggio di mitologie e religioni ancestrali, politeistiche e immanentistiche, non potendosi con facilità eliminare, venivano fatte convergere, attraverso il pensiero allegorico e morale, nel mondo cristiano.

Oltre alla sovrapposizione tra l’Unicorno e Cristo «è divenuto per noi corno di salvezza. Non hanno potuto aver dominio su di Lui gli Angeli e le potenze, ma ha preso dimora nel ventre della vera e immacolata Vergine Maria», viene in risalto il tema della giovane fanciulla, l’unica in grado di catturare l’animale, identificata iconograficamente con la Vergine Madre, soprattutto nel secoli XIII e XIV quando la devozione mariana aumenta significativamente. Il motivo risiedere nel fatto che nell’Antico Testamento, secondo la traduzione greca dei Settanta, viene citato l’Unicorno per ben sette volte, anche se in realtà si tratterebbe di una traduzione errata del termine Re’em. «Nel passaggio dall’ebraico al greco molti zoonimi originali il cui significato risultava opaco ai traduttori (ma in fondo, in molti casi, anche agli stessi membri delle comunità ebraiche) venivano resi con nomi di animali presi di peso dalla tradizione naturalistica greca ed ellenistica.» (A. Angelini, Dal Leviatano al drago. Mostri marini e zoologia antica tra Grecia e Levante)

C’è un animale assai gentile, che i cacciatori non possono catturare, a motivo della sua grande forza. Sulla fronte ha un corno solo. Ma osservate con quale espediente i cacciatori lo prendono. Conducono sul posto una giovane vergine casta e pura, e l’animale, quando la vede, le si avvicina, abbandonandosi in braccio a lei. Allora la fanciulla gli offre il seno e l’animale comincia a succhiare e a comportarsi affettuosamente con lei. Poi la fanciulla, tranquillamente seduta, allunga una mano e afferra il corno dell’animale: a questo punto intervengono i cacciatori, catturano la bestia e vanno con essa al palazzo del re. Similmente il Signore Gesù ha innalzato per noi un corno di salvezza in mezzo a Gerusalemme, nella casa di Dio, una vergine, pura, casta, piena di grazia, immacolata, intatta. (Anecdota Syriaca)

Diverse interpretazioni si aggiunsero a quella cristiana, come quella, apertamente atea, che si trattasse di una simbologia erotica. Nel Bestiaire d’amour di Richard de Fournival del XII sec., che associa gli animali alle diverse forme dell’amore tra uomo e donna, l’unicorno diviene simbolo dell’amor cortese:

Solo in tuo dolce profumo mi ha condotto fino a te, come l’unicorno che si addormenta al dolce profumo della verginità di una damigella. […] si inginocchia davanti a lei e si inchina con umiltà e dolcezza come volesse mettersi al suo servizio. Sicché i cacciatori avveduti che conoscono la sua natura mettono una vergine sul suo passaggio, e l’unicorno si addormenta nel suo grembo; […] e lo uccidono. Così crudelmente Amore si è comportato con me; [..] Amore, abile cacciatore, ha messo sul mio cammino una fanciulla, al profumo della cui dolcezza mi sono addormentato, e così muoio della morte a cui ero destinato.

Un altro aspetto importante nell’iconografia dell’unicorno è il valore sacro del corno.

Nel 1604 Basilio Valentino spiega la capacità del corno dell’Unicorno, ovvero l’alicorno, di proteggere dai veleni sulla base dell’attrazione dei simili e repulsione dei contrari, «Il vero corno dell’unicorno tutti i veleni da sé rigetta… ma se ad un puro pezzetto di pane non adulterato che nuoti nell’acqua si accosti, lo stesso corno senza contatto subito attirae il pane… è meravigliosissimo che tutte le cose a sé omogenee lo [il corno] seguitino e le contrarie lo odino e lo fugghino» (Basilio Valentino, Il cocchio trionfale dell’antimonio, p. 62) Proprio nelle leggende medievali troviamo l’Unicorno che accorre al fiume dove gli avvelenatori hanno inquinato le acque «coi loro segreti veleni insidiosi» e «affonda il suo corno nell’acqua, ripulendola dal veleno e ridonando purezza al suo corso affinché gli abitanti possano bere dalle sue sponde.»

Oltre a scoprire la presenza del veleno, si credeva che il corno avesse virtù terapeutiche, taumaturgiche e alessifarmacologiche, «chi beve da questo corno è al sicuro da tutte le malattie inguaribili, come le convulsioni e il cosiddetto morbo sacro, e non può essere ucciso dal veleno.» (Claudio Eliano). Di fronte allo sviluppo del metodo del veleno «Si frugò nella farmacopea, si ricercarono gli antichi testi, si resuscitarono superstizioni preistoriche, ma tutto ciò non servì a nulla» (O. Shepard, op.cit. p. 143), se non a farne lievitare il prezzo. Così Re, gran Duchi e i potenti delle corti d’Europa si contendevano gli alicorni, (in realtà erano denti di narvalo e zanne di elefante messi in commercio a partire dal Cinqucento), che esponevano nelle loro wunderkammern, ai poveri era destinato quello polverizzato come medicinale. Il dato più incredibile è che tale superstizione era così radicata che solo nel 1746 l’alicorno andò scomparendo dalle farmacie europee, alcune delle quali invece continuarono a vendere la polvere per molto tempo ancora.

Col tempo si scoprì un altro dato sorprendente. Per creare l’alicorno veniva usato un animale marino, ovvero il narvalo o monodon monoceros. I maschi adulti di questi mammiferi sono infatti provvisti di un dente, o una zanna, d’avorio puro sul lato sinistro della mascella superiore, puntato in avanti e leggermente incurvato verso il basso. Era proprio questo, insieme alle ossa di balena, che i mercanti vendevano al posto dell’alicorno e che i collezionisti custodivano come tesori. (O. Sheppard, op.cit., pp. 312-316)

Oriente

A testimonianza del fatto che la tradizione dell’unicorno si estendesse da oriente a occidente, troviamo molte fonti cinesi. Alcuni scrittori sostenevano che l’unicorno (il K’i-lin), avvistato per la prima volta nel 2697 a.C., non fosse originario del loro paese ma che venisse da molto più lontano. Secondo un’antica tradizione il nostro animale apparve alla madre di Confucio poco prima della nascita di quest’ultimo. Come i buddisti più perfetti, il K’i-lin «non mangia creature viventi, né animali, né vegetali…non calpesta mai nemmeno un insetto o un filo d’erba… E nell’aspetto fisico risplende dei cinque colori sacri, simbolo della perfezione […] distingue il bene dal male. A differenza dell’unicorno occidentale, il K’i-lin non ha mai valore commerciale e non si fanno medicine con alcuna parte del suo corpo: esso esiste per se stesso. […] Esso verrà in forma d’uomo incomparabile, svelatore di misteri, soprannaturale e divino, che porterà amore a tutta l’umanità.» (O. Shepard, op.cit., p.104)

Risultano così evidenti, nonostante alcune varianti, le stesse simbologie messianiche, capaci di accomunare oriente e occidente.

Gli unicorni nell’arte

Now I will believe that there are Unicorns, That inn Arabia there is one tree, the phoenix trone….

W. SHAKESPEARE La Tempesta, atto III

Nell’arte, soprattutto quella Rinascimentale, l’unicorno assume un ruolo di grande rilievo. Questa incredibile creatura fantastica, indipendentemente dalla sua controversa origine, costituirà un immaginario ben preciso, capace di giungere fino ai giorni nostri. I riferimenti sono davvero tantissimi, sia in letteratura che in pittura. Qui ne verranno citati solo alcuni, capaci di mostrare la lunga storia del suo mito.

Tra le prime rappresentazioni medievali, troviamo l’unicorno presente nel Bestiario di Rochester del XII sec. Tranne qualche rara eccezione infatti, fino al XII sec. gli unicorni raffigurati su capitelli, affreschi, vetrate e arredi sacri, corrispondono tutti ad allegorie cristologiche.

Verso la metà del Duecento l’unicorno inizia a essere raffigurato vicino a una giovane, a testimonianza della leggendaria cattura dell’animale, possibile solo per mezzo di una vergine capace di attirarlo e renderlo mansueto.

Arazzi Millefleur de La caccia all’Unicorno tessuti intono al 1480 per Francois de la Rochefoucauld. I pannelli originali erano sette e già dai loro titoli (I cacciatori entrano nel bosco; L’unicorno viene trovato; L’unicorno viene attaccato; L’unicorno si difende; L’unicorno viene ucciso e portato al castello; La mistica cattura dell’unicorno; L’unicorno in cattività) capiamo che l’ambientazione è quella tipica della caccia aristocratica medievale, anche se qui l’animale non è un cervo ma appunto l’unicorno. Quest’ultimo viene qui raffigurato come un cavallo bianco, che ricorda il candore, ma di dimensioni più piccole. Ricchi di dettagli naturalistici, vi sono tessute più di cento piante, la maggior parte delle quali identificabili. Nonostante compaiano anche le iniziali A.M. (Ave Maria) la scena è di impronta laica, tanto che l’interpretazione sarebbe duplice: potrebbe rispondere all’allegoria cristologica o rappresentare, come molti poemi d’amor cortese, il simbolo della fedeltà coniugale.

Arazzid’Aubusson La Dame à la Licorne (nel Musee de Cluny), resi noti dalla scrittrice George Sand che li vide presso il castello di Boussac nel XIX secolo. La scrittrice parlò brevemente degli arazzi nel romanzo Jeanne pubblicato nel 1844 e successivamente, in maniera più estesa, in un articolo pubblicato nel luglio 1847 sulla rivista «L’Illustration», con disegni realizzi dal figlio Maurice Sand.

Considerati gli arazzi più eleganti del Medioevo, hanno un fondo rosso e una lavorazione che segue un disegno gotico ricco di particolari. La serie di arazzi, la cui trama e dimensione è impressionante, è costituita da sei pannelli, cinque dedicati ai sensi (le goût; l’ouïe; la vue; l’odorat; la touché), mentre l’ultimo, A mon seul désir, più grande e di stile differente. Esso raffigura una dama, di fronte una tenda con la scritta Al mio unico desiderio, mentre ripone in un cofanetto una collana, con accanto un unicorno e un leone.

Il tema della Dama capace di ammansire l’unicorno, inizia a diffondersi nel Medioevo per confluire, iconograficamente, fino in età moderna. All’inizio infatti la giovane veniva identificata con la Vergine Madre del culto mariano, per poi identificare il valore della castità, fino a rappresentare il simbolo dell’amore e della fecondità. Dal mondo religioso, che si fonda sull’incarnazione del figlio di Dio nel grembo di una Vergine, si arriva quindi a quello di carattere prettamente erotico. A testimonianza di questa evoluzione del binomio Dama e Unicorno:

Santa Giustiniana del Moretto, dipinta verso il 1530, ora alla Galleria Belvedere di Vienna. La particolarità di questo dipinto risiede nel corno dell’animale che qui viene rappresentato di colore nero, così come era stato descritto da Plinio. Alla sinistra della Santa è seduto un unicorno dal manto chiaro, simbolo di purezza verginale, derivato dall’antichità ma molto usato nel Rinascimento.

Dama con Liocorno, opera di Raffaello Sanzio del 1505, anche qui il simbolo è quella della purezza verginale. L’animale è anche associato alla famiglia Farnese e al suo stemma araldico. Non si hanno notizie certe sulla committenza del dipinto che raffigura una giovane con lo sguardo fisso che tiene in grembo un piccolo unicorno.

Dama e Unicorno di Luca Longhi, nelle collezioni di Castel Sant’Angelo, realizzato intorno al 1540, raffigura una giovane seduta accanto a un unicorno che la guarda intensamente, il tutto in una ambientazione idilliaca. Si pensa che la fanciulla sia Giulia Farnese, sorella di papa Paolo III, la cui casata aveva come simbolo proprio l’unicorno.

Vergine e Unicorno del Domenichino, affrescata sopra la porta d’ingresso della Galleria di Palazzo Farnese a Roma tra il 1604 e il 1605, presenta la stessa ambientazione di Luca Longhi. Qui però la ragazza abbraccia l’unicorno, in un clima di estrema dolcezza.

Le suggestioni di questa creatura e dell’immaginifico che involve giungono fino a noi. Gustave Moreau, ispirato dal mito degli arazzi de La dama e l’unicorno, dipinge un’opera in cui alcune vergini allevano unicorni.

Per finire Remedios Varo ci regala un suo autoritratto con a fianco un unicorno, Self-portait with a unicorn 1947, rappresentando in tal modo il suo mondo magico-simbolico.

Anche Dalì e tutto il movimento surrealista fu affascinato dal mito dell’Unicorno, così come successe negli anni novanta all’artista newyorkese Will Cotton che, con la sua reinterpretazione, trascende la vera origine del mito e riporta l’unicorno in un nuovo immaginario pop.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

ANNA ANGELINI, Dal Leviatano al drago. Mostri marini e zoologia antica tra Grecia e Levante, Il Mulino, Bologna 2018.

ELIANIO, La natura degli animali, (a cura di) F. Maspero, BUR, Milano 1998.

LUIGINA MORINI (a cura di), Bestiari medievali, Einaudi, Torino 1996.

MARCO RESTELLI, Il ciclo dell’unicorno. Miti d’Oriente e d’Occidente, Marsilio, Venezia 1992.

ODELL SHEPARD, La leggenda dell’unicorno, Sansoni, Firenze 1930.

H.B.TRISTRAM, Natural History of the Bible, London 1867.

BASILIO VALENTINO, Il cocchio trionfale dell’antimonio, (a cura di) M. Gabriele, Mediterranee, Roma 1998.

Jacques Maritain: un ricordo

di Giancarla Perotti

In occasione della ricorrenza dei cinquanta anni dalla morte del grande filosofo e teologo Jacques Maritain, (18/11/1882 – 28/4/1973) la scrittrice Giancarla Perotti, fondatrice del Centro Ricerche Personaliste Raïssae Jacques Maritain, condivide con noi una riflessione sulla vita e il messaggio di questo grande pensatore che, lungi dall’essere relegabile al suo periodo storico, mantiene nelle sue pagine una profonda attinenza con la modernità.

Ritratto di Jacques Maritain del Pittore Otto Van Rees

La formazione del pensiero

Cinquant’anni fa a Tolosa presso la Comunità dei Piccoli Fratelli di Gesù, di cui faceva parte dal 1970, precisamente il 28 aprile 1973 è morto uno dei più grandi esponenti del tomismo del XX secolo: mi riferisco al pensatore Jacques Maritain. Egli aveva 91 anni ed era ancora impegnato nel lavoro di filosofo nella sua ultima opera dal titolo Approches sans entraves (J. Maritain 1973) di cui stava correggendo le bozze. Tale opera infatti uscì postuma alcuni mesi dopo la sua dipartita.

Jacques Maritain nasce in una famiglia protestante, ma non praticante. Inizialmente ateo, giunge col tempo alla fede cattolica che professerà poi con convinzione e forte coerenza. Egli si convertì alla Chiesa cattolica grazie all’incontro con lo scrittore cattolico più furioso d’Europa, Léon Bloy che fu anche il suo padrino di battesimo.

Dopo il liceo, nel 1900, si iscrive all’Università della Sorbona in cui si respira un clima culturale simile a quello dei nostri giorni, dove prevale il relativismo, corrente che nega la possibilità di pervenire a verità assolute.

Nel 1901 Jacques incontra Raïssa Oumançoff, che diventerà presto sua moglie e compagna di vita; anch’essa atea, si sposano dopo tre anni. Jacques e Raïssa sono tutti e due animati da un forte desiderio di ricerca della verità che dia un senso alla loro vita e li aiuta ad abbandonare la delusione del pensiero positivista.

Maritain ha superato tantissime polemiche con gli uomini della cultura, della politica e della religione del suo tempo, che diverse volte lo avevano aggredito per la schiettezza delle sue posizioni sui problemi più delicati della storia contemporanea. Egli era fiero della sua indipendenza e del suo amore per la verità ininterrottamente ricercata e professata.

Nella prefazione al suo libro Ricordi e appunti si presentava così:

Che sono io dunque? Mi domandavo allora. Un professore? Non lo credo; ho insegnato per necessità. Uno scrittore? Forse. Un filosofo? Lo spero. Ma anche una specie di romantico della giustizia troppo pronto ad immaginarsi, a ogni combattimento, che fra gli uomini sorgerà senz’altro il giorno della giustizia come della verità. Forse sono anche una specie di rabdomante con l’orecchio incollato sulla terra, per captare il mormorio delle sorgenti nascoste, l’impercettibile fruscio delle germinazioni invisibili. E forse, come qualsiasi cristiano, nonostante le paralizzanti miserie e debolezze e tutte le grazie tradite di cui prendo consapevolezza alla sera della mia vita, sono anche un mendicante del cielo travestito da uomo del nostro secolo, una specie di agente segreto del Re dei Re nei territori del principe di questo mondo, un agente segreto che si assume i propri rischi a somiglianza del gatto di Kipling girovagante tutto solo.

Al collegio cattolico Stanislao, dove svolse la sua prima esperienza didattica i suoi colleghi tradizionalisti rimasero scandalizzati, non solo per le sue parole ma anche per la peculiarità di quel suo carattere deciso, dolce di cuore ma duro di testa, che lo accompagnerà per tutta la vita e caratterizzerà la personalità di Maritain. La moglie Raïssa descrive le lezioni di filosofia di Jacques riferendo aspetti attuali anche oggi per molte scuole che si qualificano come cattoliche:

In ottobre Jacques cominciò il primo anno del suo corso di filosofia al collegio Stanislao. […] Gli inizi del suo corso allo Stanislao non furono facili. Aveva deciso di fare della filosofia di Aristotele e di San Tommaso il centro del suo insegnamento; ma il tomismo sembrava all’amministrazione del collegio, agli studenti ed alle famiglie, singolarmente dannoso per il successo finale degli studenti agli esami di diploma, cui si limitava tutta l’ambizione del pensiero (dopo il diploma sarebbe venuta la carriera, che importava assai più delle convinzioni filosofiche). Il direttore del collegio, il canonico Pautonnier, guardava Jacques con occhio preoccupato. Era il canonico Pautonnier che gli diceva con sorridente insistenza: «Mio caro amico, passerà, passerà questo ardore di neofita…»

Ma Jacques qualche anno dopo, in risposta alla provocazione di Pautonnier, nella prefazione dell’Antimoderno, scriveva:

Non è passato, al contrario è diventato col tempo più tenace e più determinato, perdendo, almeno lo spero, l’inutile asprezza della gioventù e dell’inesperienza.

Anche oggi costatiamo che il tomismo non va di moda e tanto meno chi mette il tomismo al centro del suo pensiero.

I Circoli tomisti

O Sapientia […] veni ad docendum nos viam prudentiae

Durante tutta la loro lunga vita, in Francia, in Italia, come in America, i Maritain hanno sempre animato, nella loro casa, gruppi di studio. Sono stati per vocazione iniziatori di circoli tomisti e questo lavoro di promozione intellettuale non era un compito facile, perché sapevano di dovere contrastare coloro che asserivano che tali insegnamenti nulla avessero a che fare con la vita. Ma, come suggerisce Piero Viotto (P. Viotto, Introduzione a Maritain), gli studi di Maritain nascono attraverso una riflessione sull’esperienza. «Il tomismo usa la ragione per distinguere il vero dal falso, non vuole distruggere ma purificare il pensiero moderno […] Il tomismo è una saggezza. Tra lui e le forme particolari della cultura debbono regnare scambi vitali incessanti, ma in se stesso nella sua essenza è rigorosamente indipendente da queste forme particolari» scriverà Maritain. Al primo posto delle loro attività infatti primeggiava la diffusione della filosofia di San Tommaso nei diversi campi del sapere, dalla politica all’estetica.

Il pensiero filosofico tomista di Jacques e Raïssa Maritain lo troviamo principalmente in due volumi, il primo di Jacques Il dottore Angelico presenta le grandi linee del pensiero di San Tommaso a confronto con la filosofia moderna, il secondo di Raïssa L’Angelo della scuola è una biografia dell’Aquinate scritta per i bambini e illustrata con disegni del pittore Severini. Siamo nel 1930, proprio nella prefazione al volume di Jacques possiamo leggere le linee basilari del tomismo da lui delineate:

C’è una filosofia tomista, non c’è una filosofia neo-tomista. Il tomismo non vuole essere un ritorno al medioevo. Il tomismo usa la ragione per distinguere il vero dal falso, non vuole distruggere ma purificare il pensiero moderno e integrare tutte le verità scoperte dai tempi di S. Tommaso. Il tomismo non è né di destra né di sinistra. Il tomismo è una saggezza. Tra lui e le forme particolari della cultura debbono regnare scambi vitali incessanti, ma in se stesso nella sua essenza è rigorosamente indipendente da queste forme particolari. Giudicare il tomismo come un abito usato che si portava al XIII secolo e oggi non si porta più, è ritenere che il valore della metafisica sia una funzione di un certo tempo, e un modo di pensare propriamente barbaro. È un modo puerile giudicare la metafisica in funzione di uno stato sociale da conservare. La filosofia di S. Tommaso è in se stessa indipendente dai dati della fede e nei suoi principi e nella sua struttura non si rifà che alla esperienza e alla ragione, per cui questa filosofia, pur restando perfettamente distinta è in comunicazione vitale con la saggezza superiore della teologia e con la saggezza della contemplazione.

A questo giudizio espresso sul valore e sul significato della filosofia tomista Maritain resterà fedele durante tutta la sua ricerca confermandolo ripetutamente nelle opere successive fino al suo ultimo lavoro, già citato, Approches sans entraves del 1973, nel quale è anche presente il concetto all’autonomia del sapere filosofico pur nel suo collegamento con tutte le altre discipline.

I Maritain intanto avevano fatto della loro casa a Meudon, un centro di incontri e di dibattiti culturali ed è proprio da tali incontri che nascono i circoli tomisti per approfondire lo studio della filosofia scolastica. I circoli erano frequentati da filosofi, teologi, letterati pittori, scultori, musicisti alcuni di loro anche atei, e con ognuno hanno intessuto storie di profonda amicizia.

Si può conoscere l’attività dei Maritain nel libro Ricordi e appunti, scritta da Jacques:

Fu dunque a Meudon, come già dissi, che si svilupparono i circoli tomisti e i loro ritiri annuali. Anno per anno venne aumentando il numero dei partecipanti al ritiro ed anche quello di coloro che assistevano alle riunioni mensili. (Negli ultimi anni parteciparono ai ritiri circa due-trecento persone). Questi circoli di studi tomisti si diffusero anche all’estero, soprattutto in Inghilterra, sotto la presidenza di Richard O’Sullivan, e poi in Svizzera, in Belgio… Quando adesso mi capita di ripensare agli anni di Meudon, non so capacitarmi di come facessimo a sopportarne tutte le fatiche. Oltre alla preparazione dei corsi che tenevo annualmente all’Institut Catholique e dei miei libri (senza parlare delle conferenze all’estero), oltre al tempo dedicato agli amici vecchi e nuovi, che costituivano la nostra grande consolazione, ai visitatori sconosciuti che giungevano con speranze imprecisate e che bisognava soprattutto ascoltare, alle conversioni, ai battesimi, alle vocazioni religiose – cose alle quali non ebbi mai l’empietà di dar la caccia: non erano affar nostro, bensì opera della grazia e qualche volta di consiglieri troppo frettolosi; tuttavia non bisognava mai sottrarvisi.

In realtà, i Maritain non si occupavano esclusivamente dei circoli tomisti e dei ritiri, ma avevano tante altre attività, anche quelle che scherzando chiamavano esoteriche. Si trattava di incontri ristretti dove si discutevano tematiche filosofiche complesse. Molte riunioni terminavano purtroppo senza portare a risultati concreti, altre venivano fatte con la finalità di costituire una società di filosofia della cultura, altre per fondare una società della filosofia della natura. Quest’ultime portarono frutti; si costituì la società che inizialmente prese un buon avvio, pubblicando anche tre o quattro libri di valore, ma poi in seguito ai conflitti politici sorti fra i suoi membri si estinse.

Sul nome di Maritain erano piovuti troppi malintesi, tanti gruppi lo volevano dalla loro parte, ed ecco che egli scrive la Lettera sull’indipendenza:

Il filosofo ha una qualche utilità fra gli uomini solo se rimane tale. Ma rimanere filosofo e agire come filosofo, obbliga a tenere ferma in ogni caso la libertà della filosofia ed in particolare ad affermare a tempo e a contrattempo l’indipendenza del filosofo di fronte ai partiti quali che essi siano. Siano essi di destra, di sinistra, non appartengo ad alcuni di essi. L’indipendenza del filosofo è voluta dalla natura propria di un sapere che di per sé è una saggezza e che, anche quando si riferisce nel modo più diretto al contingente, lo domina sempre; l’indipendenza del filosofo testimonia la libertà dell’intelletto di fronte all’istante che passa. L’indipendenza del cristiano testimonia la libertà della fede di fronte al mondo. È tutto l’opposto di una fuga o di una evasione; tutto l’opposto di una defezione davanti al dramma dell’esistenza e della vita, di un rifugio in una curiosità da ‘spettatore’ disinteressato. Si tratta di un impegno tanto più reale e profondo quanto più la libertà interiore è intatta.

Per Maritain la posizione dell’educatore impegnato negli istituti scolastici, non deve mai essere svolta da un uomo di parte.

Nel 1953 in una conferenza tenuta al Graduate College dell’Università di Princeton, Maritain ritornerà sull’argomento del filosofo nella società, puntualizzando quali siano le due grandi funzioni del filosofo nella società. Queste ultime riguardano la verità e la libertà.

Il filosofo, che dedicandosi al suo compito speculativo, affranca la sua attenzione dagli interessi degli uomini, o del gruppo sociale, o dello Stato, ricorda alla società il carattere assoluto ed inflessibile della Verità. Per quanto riguarda la Libertà, egli ricorda alla società che la libertà è la condizione stessa dell’esercizio del pensiero.

Maritain nonostante non fosse stato mai iscritto a un partito e avesse dichiarato apertamente la sua indipendenza dai diversi gruppi politici dovette difendersi da fraintendimenti e incomprensioni, da chi tentava di strumentalizzare il suo pensiero, che invece rimarrà indipendente fino alla fine.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

JACQUES MARITAIN: Approches sans entravers, Fayard, Paris 1973; Ricordi e Appunti, Morcelliana, Brescia 1967; Le Docteur Angélique, Paul Hartmann, Paris 1929; Antimoderne, Édition de la Revue des Jeunes, Paris 1922; Lettre sur l’indépendance, Desclée de Brouwer, Paris 1935; Il filosofo nella società, (1960) Morcelliana, Brescia 1976.

RAÏSSA MARITAIN, Ou Saint Thomas d’Aquin raconté aux enfants, Alsatia, Paris 1957.

GIANCARLA BARRA PEROTTI Amore e Giustizia nel pensiero di Jacques Maritain, Il Cerchio, Rimini 2009.

PIERO VIOTTO Introduzione a Maritain, Laterza, Roma-Bari 2000.

Fiori vivi ringrazia:

Giancarla Perotti, filosofa, scrittrice (ricordiamo il suo Amore e Giustizia nel pensiero di Jacques Maritain, Il Cerchio, Rimini 2009), fondatrice e coordinatrice del Centro Ricerche Personaliste Raïssa e Jacques Maritain (Acquaviva Picena, Ascoli Piceno).

Costituito il 21 aprile del 2007, il centro promuove momenti artistici-culturali-musicali soprattutto delle nuove generazioni per dare loro visibilità aiutandoli e stimolandoli nelle loro ricerche e nella loro creatività. I settori di specializzazione e di ricerca nei quali l’Associazione articola la propria attività sono tutte quelle scienze e rami di attività che si riferiscono alla cultura, alla società, alla politica, all’etica, al diritto, alla religione, alla pedagogia, alla scienza, alla sanità, all’amministrazione, all’economia, all’emigrazione, all’arte, all’informazione, all’emarginazione, alla storia, all’aggiornamento professionale per insegnanti, con particolare riferimento all’ispirazione personalista e alla dimensione locale, nazionale, europea e mondiale.

[21 aprile del 2007, in occasione dell’importante tavola rotonda dal tema ‘La sfida del personalismo oggi’ il Centro riceve ospiti illustri primo tra tutti il prof. Piero Viotto e il prof. Giancarlo Galeazzi, uno dei più importanti filosofi maritainniani. Nella foto da sinistra Giancarla Perotti, Piero Viotto, Giancarlo Galeazzi, Attilio Danese.]

Italia e Giappone: linguaggio e cultura a confronto

di Gilda Y. Diotallevi e Giada Zaccardi

Riproponiamo uno stralcio della tavola rotonda su Italia e Giappone avvenuta in occasione della presentazione, da parte della rivista Fiori Vivi, del progetto culturale Nodo.

Una premessa

Non è stato facile confrontare lingue e culture così distanti tra di loro come l’italiano e il giapponese, né tanto meno discutere su due piani diversi, filosofico da un lato e linguistico dall’altro, ma l’intento era quello di creare connessioni e spunti di riflessione.

Abbiamo affidato questo compito a due studiose: Gilda Y. Diotallevi, per la base teorico-filosofica del problema e a Giada Zaccardi, per i riflessi pratici che una linguista incontra nel proprio cammino.

Ne esce un quadro complesso che, al di là degli approcci metodologici e le necessarie generalizzazioni, pone in risalto l’aspetto antropologico, esistenziale dell’uomo, a riprova che nonostante le molteplici differenze, ognuno di noi partecipa alla stessa dimensione vitale.

Ciò che unisce e ciò che differisce

G.Y.D «L’intento che mi propongo è quello di creare una base teorica/filosofica su cui poi intrecciare un discorso linguistico.

Quando abbiamo fissato il tema della nostra discussione ho cominciato a riflettere su cosa significasse tecnicamente mettere a confronto, ovvero verificare, tra due elementi, ciò che essi hanno in comune (a) e ciò che li divide (b).

(a) La ricerca di qualcosa che unisca lingue diverse, soprattutto due così distanti come l’italiano e il giapponese, richiama alla memoria il concetto di lingua comune.

Molti filosofi si sono interrogati sulla esistenza o meno di una lingua, di una radice comune che potesse racchiudere o da cui potessero poi discendere tutte quante le innumerevoli lingue. Questo tipo di pensiero è alla base di molti miti fondativi, addirittura le Sacre Scritture prevedono nella genesi la nascita di un unico linguaggio che poi, come forma di punizione, verrà dissipato. (Genesi 11: Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole…Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una stessa lingua… Confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro…)

Per avvicinarci alla nostra filosofia citerei Shelling, Kant, Descartes o Rousseau, che discusse ampliamente sull’origine della lingua, benché poi, per sua stessa ammissione si dichiarò incapace di farlo in modo soddisfacente. Il filosofo non aveva gli strumenti adatti per poter continuare questa indagine, che invece sviluppò ampliamente, anche alla luce delle successive scoperte in campo scientifico, psicologico, genetico e biologico Noam Chomsky.

Verso la metà del secolo scorso Noam Chomsky teorizza la grammatica universale generativa, in base alla quale le nostre competenze linguistiche sono determinate da una grammatica innata, da uno schematismo generale che governa il comportamento di ogni lingua.

Ci si chiede come sia possibile accomunare, grammaticalmente parlando, due aree tanto distanti come quella della lingua giapponese e italiana. Chomsky, per rispondere a tale quesito, sposta il problema sul lato mentale della lingua.

La lingua è, secondo Chomsky, prima di tutto un atto mentale. La conoscenza che soggiace alla capacità dell’individuo di poter parlare, ascoltare, porre in essere il linguaggio, è qualcosa che non si apprende ma è innata.

Se è qualcosa di innato, è presente biologicamente in ciascuno di noi e quindi del tutto indifferente risulta l’essere nati in oriente o in occidente.

Per comprendere meglio la posizione di Chomsky, ripartiamo dalla definizione di lingua come un insieme di frasi, ciascuna costituita a partire da un insieme finito di elementi. (N. Chomsky, Syntactic Structures 1957) Si parte da un certo insieme di elementi-base e se ne considerano le combinazioni, perché non tutte le possibili sequenze di tali elementi costituiranno la lingua, ma solo quelle corrette.

Si tratta perciò di costruire un sistema, nel nostro caso la grammatica, che generi nel senso logico-matematico del termine tutte e solo le frasi grammaticalmente corrette. E sarà proprio la mente a costituirsi come sistema e a presiedere tali meccanismi in grado di dire quali combinazioni saranno appartenenti all’ambito della lingua e quali no. Più in generale potremmo dire che la mente si costituisce in sistemi organizzati non solo per quanto riguarda la lingua ma in tutto (pensiamo alla capacità dell’uomo di respirare o di camminare, non la apprendiamo ex-post ma è qualcosa che abbiamo come forma innata).

L’uso effettivo del linguaggio, la capacità di emettere dei suoni, di parlare e comprendere l’altro è possibile solo perché si presuppone un sistema sottostante che regola questa capacità, che conferisce, attraverso la sua realizzazione, la capacità di parlare e di ascoltare.

La conseguenza perciò di tale posizione, ovvero del considerare la lingua come competenza innata, frutto di una internalizzazione del sistema nel cervello del parlante, rende tale competenza astratta e le differenti forme grammaticali come neutrali rispetto al parlante e all’ascoltatore: in altre parole esiste qualcosa che unisce le lingue indipendentemente dall’uso dei singoli parlanti.

(b) Sul versante opposto troviamo invece quelle teorie, per la verità moltissime, che considerano le nostre due lingue a confronto assolutamente non accomunabili. Ne citerei due, utili anche ai fini del proseguo del nostro discorso.

1) – si contrappone, non posso dire che critichi perché temporalmente è precedente, lo Strutturalismo. Ferdinand Saussure crede che il significato non dipenda da concetti che sono dati – idealisticamente e biologicamente – all’interno della mente, ma che esso sia in funzione dell’uso che ne fa una certa comunità. Non ci si deve attenere al sistema, al metodo, alla sintassi (sun taxis, ovvero qualcosa che connetta i vari elementi), ma quello che dobbiamo considerare quando parliamo della lingua sono la significazione e la semantica, ovvero i segni e i significati.

La lingua è composta da alcune parole che hanno valore e senso per quella comunità di riferimento che le usa, non in modo assoluto. Quindi per Saussure il linguaggio è convenzionale, storicamente determinato, perché dipende da quella singola società in cui viene posto in essere, e l’insieme delle regole, dei significati, la semantica e i simboli che valgono per una comunità e sono in essa radicati antropologicamente, non valgono anche per un’altra.

2) – la Sociolinguistica, ovvero quella branca della linguistica che si occupa principalmente della connessione tra individuo società e linguaggio. Descrivendo l’uomo non come identità singola ma come identità sociale, muovono la maggiore critica a Chomsky, in quanto la sua teoria sembra sottovalutare proprio il contesto sociale. Non esiste solo la grammatica, ma esiste tutta una serie di elementi anche extralinguistici che influiscono e differenziano le lingue dentro la categoria lingua. Gli usi e i comportamenti linguistici sono creditori della struttura sociale e dei rapporti sociali, perciò la lingua non riflette soltanto ma crea fatti e rapporti sociali all’interno di una certa e specifica comunità di riferimento. Ciò che varrà per la lingua italiana, non potrà valere per quella giapponese.» 

Ciò che vorrei sapere ora dalla Dott.ssa Giada Zaccardi è se, in base alla sua esperienza di linguista è possibile considerare la lingua come dotata di qualcosa di universale o se invece, lavorando sulla messa in pratica del linguaggio, dobbiamo discostarci dalla prima teoria e ripartire dalla loro giusta separazione.

G.Z «Sono dell’idea che il contesto e la lingua si influenzano vicendevolmente.

Tutta la sociolinguistica, dagli anni Settanta in avanti ha deciso che fosse questo l’approccio più realistico.

Le politiche linguistiche ed educative in Italia prima, erano tutte incentrate sulle lingue morte, sostanzialmente latino e greco e succedeva che la lingua si studiava nello stesso modo della storia. Quando la società è cambiata e si è aperta al viaggio e all’incontro, si è dato il via allo studio delle lingua cosiddette vive e ci si è resi conto che non sarebbe bastato studiare le regole sul libro ma bisognava vedere dove vivevano queste lingue, cosa dicevano e parlavano queste persone. Quali erano i loro usi e costumi, tanto che dagli anni settanta si sono diffusi in Italia anche i nastri per ascoltare i roleplaying, una situazione tipo che veniva simulata per chi non poteva muoversi e apprendere sul posto. Tutto ciò succedeva Dagli anni ‘70 con le lingue europee, le prime che per vicinanza si sono incontrate e poi con le lingue orientali.

All’inizio più difficile anche per i viaggi, ma poi anche grazie all’arte (pensiamo allo Japonisme) ci si è avvicinati sempre di più.

Non so se sia nata prima l’influenza della lingua sulla mente o viceversa, sarebbe come risalire all’origine, ma sono sicura che attualmente chi nasce madrelingua in un luogo si forma anche un pensiero che si esprime in quel modo proprio perché esistono quelle categorie tipiche della sua lingua di riferimento.

Posso fare qualche esempio:

– in giapponese non esiste il genere. Non c’è il maschile e il femminile. In italiano per noi tutto ha genere. Il libro è maschio, la penna è femmina ad esempio. Nella nostra mente perciò si struttura un pensiero che deve organizzarsi coordinando tutto dall’articolo al sostantivo, all’aggettivo, tutto in funzione di quel genere. Oggi si parla anche della e rovesciata che si sta studiando per essere inclusivi nel linguaggio. Al di là della questione politica, riuscire a leggere un testo in italiano con la schwa è difficilissimo, perché siamo abituati in maniera diversa.

In Giappone questa questione non avrebbe senso di esistere perché nessuno in realtà si pone questo problema. È tutto neutro a parte le persone e gli animali.

– non ci sono singolare e plurale, mostrando come la lingua italiana si presenti più dettagliata e precisa al contrario di quella in giapponese che risulta invece piuttosto fumosa.

La struttura della comunicazione è diversa. Se in Giappone dico che ho visto che un amico o più amici, un amico maschio e due amiche femmine, non riesco a capirlo. Non si può dedurlo almeno che non si facciamo ulteriori domande specifiche. Per noi è proprio diverso.

– In Giappone c’è un interesse quasi morbosa per la sicurezza in cui le persone parlano. Tutti vogliono sapere quale sia il grado di certezza con cui si afferma qualcosa. Al contrario dell’italiano in cui sappiamo già tutto. È bello, piove, nevica. Non ci preoccupiamo di come lo esprimiamo. In giapponese ci sono circa una decina di sfumature per indicare il grado di congettura: se una cosa la sai perché l’hanno riferita, l’hai vista, te lo hanno raccontato, l’hai vissuta, c’eri, te l’hanno riferita. Tutta una serie di micro sfumature per rendere all’altro come hai preso quell’informazione quanto ne sei sicuro. Per noi è tutto un presente indicativo!

– in Giappone non esiste il verbo avere. Per noi è centrale. Noi possediamo tutto. Ho un fratello, ho un fidanzato, ho una famiglia. La forma mentis entra in gioco. Come si fa a dire che si ha un fratello senza usare il verbo avere. Senza il senso della possessione. In giapponese si esprime con i verbi di esistenza.
In Asia le cose esistono, non sono mie. Esiste un fratello, una famiglia….

C’è solo un verbo che si avvicina al nostro avere che è traducibile con ho in mano, sto portando ma che manca di quell’animus possidendi tipico del nostra mentalità. (Pensiamo ai diritti reali). È talmente diverso il linguaggio e quindi anche il pensiero si articola diversamente in tal senso. Per noi è difficile trovare come esprimersi senza tradurre letteralmente.

-è una lingua composta da ideogrammi (kanji), i caratteri cinesi per intenderci. Questi caratteri sono disegni, simboli e invece di una parola ci si trova di fronte un simbolo. A noi succede ad esempio con i segnali stradali, il divieto d’accesso è reso, non come una frase ma con un disegno. È molto più d’impatto. Basta vederlo e ci è chiaro.

Loro perciò ragionano per concetti visivi. Il giapponese ha una forma. Se anche non ho capito la frase ho già capito dove è il verbo, quale è il concetto che esprime… in italiano no. Se non leggo tutto il testo non posso orientarmi. Soprattutto nello scritto è molto più forte, accorciano tutto e lasciano solo gli ideogrammi.

Diverso approccio, diverso è il modo di disegnare il pensiero.»

Parlare, ascoltare, comprendere

G.Y.D «Da quanto affermato possiamo dedurre che i problemi nascano proprio nel momento dell’interazione verbale, lì dove cioè la competenza teorico-linguistica si scontrerà con la sua messa in pratica in un contesto specifico.

Tutte le teorie linguistiche contemplano, anche se con nomenclature differenti, una contrapposizione tra l’uso pratico (processo effettivo del linguaggio) e la parte teorico-grammaticale, (competenza linguistica).

D. Hymes negli anni Settanta, in opposizione alla competenza linguistica astratta di un parlante nativo ideale postulata da Chomsky, elabora la competenza comunicativa, “una competenza riguardo a quando parlare, a quando tacere, e riguardo a che cosa dire, a chi, quando, dove e in qual modo.” (D.H. Hymes, On Communicative competence, pp. 269-263, 1972)

È come se al di là e a partire dalla competenza grammaticale, l’interazione verbale richiamasse in gioco fatti linguistici, sociali, antropologici, semiotici, etnografici, psicologici e pragmatici, tutti ugualmente funzionali alla comunicazione vera e propria.

Prendono perciò vita una serie di sotto competenze che dividerei, per praticità, in tre macro aree:

– la conoscenza delle regole della società in cui si vive, la conoscenza delle norme di una comunità

– la conoscenza dei valori simbolici e sociali dei comportamenti linguistici (da cui derivano peraltro problemi di ambiguità e fraintendimenti grandissimi, incidenti diplomatici sulla diversa significazione che si dà a un gesto o a un comportamento)

– la pragmatica, ovvero tutta quella serie di comportamenti e modi (prosodia, movimenti, gesti, atteggiamenti, posture…)»

Il giapponese nello specifico, codifica tutta questa serie di competenze comunicative. Mi piacerebbe che Lei facesse degli esempi di sotto-competenze, che si riferisse cioè a tutta quell’area extra-linguistica che, in realtà, rende possibile il linguaggio e la comunicazione dello stesso.

G.Z «Questo è un argomento centrale. Sicuramente in giapponese non parlare è importante quanto parlare, il non dire quanto il dire. C’è un proverbio famoso 空気を読む (kūki wo yomu, traducibile come leggere l’aria), perché vige una regola non scritta che è quella di non mettere mai nessuno in condizione di essere brusco. Bisogna sempre mantenere un’armonia tra le persone.

Prima di chiamarsi Giappone 日本 (nihon) con i caratteri che usiamo oggi, si utilizzavano altri caratteri大和 (yamato) che sono i caratteri di grande e armonia. Da qui si evince l’importanza di questa dimensione. Non si deve mettere nessuno in difficoltà, non dobbiamo spingere l’interlocutore a rifiutare, ad essere duro nei nostri confronti. Al contrario di come avviene spesso in occidente, per cui si indica qualcuno come sgarbato, in Giappone si comincia da se stessi e quindi sono io che non devo mettere in difficoltà gli altri. Questo significa che devo leggere tra le righe, l’atmosfera, quello che ho intorno e prevedere la situazione e girarci un po’ intorno. Spesso nelle frasi alcune cose non si dicono ma si devono far intendere. Ecco la difficoltà per noi, per chi non è madrelingua, riuscire a entrare in questa dimensione, nel non detto del linguaggio e dei comportamenti. Ci sono tantissimi silenzi, che per altro sono molto accettati e non rappresentano nulla di strano mentre per noi hanno un peso diverso, e in particolare anche quando si comunica non si interrompe mai. Tutti sono in silenzio fino alla fine della tua frase. Ci si chiede se siano quindi tutti molto più educati di noi? In realtà no, e si può qui notare come la sintassi influenzi il comportamento, è che in giapponese il verbo è alla fine della frase. Interrompere significherebbe non capire perfettamente l’interlocutore.

Un altro aspetto che vorrei sottolineare è che in Giappone non si rifiuta mai. Non si dice mai no. Esiste una parola magica ちょっと (chotto) che una volta imparata la si vorrebbe usare anche in italiano. Letteralmente è traducibile con un po’, ma è una parola che si usa quando vogliamo tirarci fuori da una situazione scomoda. Facciamo un esempio pratico, quando qualcuno ti chiede se vuoi andare al cinema e non sai cosa rispondere, puoi pronunciare la parola chotto e la conversazione si chiude. In italiano questo sarebbe impossibile!! È un segnale più comportamentale che verbale, non volendo dire nulla di certo la parola in se stessa, ma indica che non si vuole più parlarne.

Leggere l’aria è un mantra, bisogna entrarci dentro ed essere in grado di capire questa parte della conversazione che rimane maggiormente nebulosa. Il nostro contrario.»

G.Y.D «A me interessava in particolare una categoria della competenza comunicativa, ovvero la cortesia (politeness linguistica). In tal caso credo sia evidente la differenza tra oriente e occidente. Per noi quando parliamo di cortesia siamo nell’ambito dell’opportunità, dello stile. (R. Lakoff, nel suo contributo La logica della cortesia 1978, affianca al monito di Grice del Sii chiaro, la logica della cortesia del Sii cortese, considerati imperativi anche nella scrittura pubblica efficace.) Il massimo di approccio cortese che possiamo avere verso l’altro è di natura lessicale, l’uso della terza della terza persona o del voi al posto del tu (della seconda persona) o l’uso di allocuzioni particolari, forme di saluto o referenti titoli onorifici. So invece, per certo nella lingua indiana ma credo anche per il giapponese, che questo elemento della cortesia diventi una vera e propria categoria grammaticale.»

Può parlarci di questo particolare aspetto?

G.Z «Per dare l’idea di quanto sia importante la cortesia basta sapere che la prima forma verbale che si studia in giapponese si chiama 丁寧語 (teineigo, traducibile come linguaggio di cortesia). Non si chiama presente indicativo ma linguaggio cortese, quindi è evidente la sua portata. Quando ancora non sai cercare il verbo nel dizionario all’infinito, già studi il linguaggio cortese. In realtà è la forma che ti permette di parlare con tutti perché al di sotto di questa categoria c’è solo la forma colloquiale che però si può usare solo tra persone strettissime.

La cortesia permea tutto il linguaggio e tutta la cultura, che stiamo scoprendo essere così legate, in particolare tutti i rapporti si basano su due insiemi: 内 (uchi: dentro) e 外 (soto: fuori). Io sono dentro al gruppo di persone che mi sono accanto e tutto il resto del mondo è fuori.

Non ci sono quasi mai rapporti orizzontali, perché c’è sempre un sopra o sotto di me, allo stesso livello è raro, deve essere un gemello o un coetaneo molto stretto, perché già con sei mesi di differenza diventi un 先輩 (senpai, traducibile come compagno più grande) con cui si parla quindi in modo cortese.

Addirittura se parlo con qualcuno di vicino o lontano a me cambio il modo in cui ci parlo. Più che coniugare i verbi standard la difficoltà è sapere che relazione ho con la persona con cui sto parlando e con quella di cui sto parlando? A seconda della risposta dovrò cambiare registro verbale.

Ci sono tre livelli, tre registri linguistici: quello colloquiale, che abbiamo capito essere utilizzato con pochissimi, quello cortese e quello onorifico. In quest’ultimo, che non dobbiamo pensare essere un registro non utilizzato nella quotidianità perché anche al supermercato ti si possano rivolgere così, ci sono a loro volta due linguaggi, ovvero quello onorifico per gli altri e umile per me. Non solo io devo alzare l’altro ma devo umiliare me per essere in grado di rivolgermi all’altro nel giusto modo.

Senza conoscere questi schemi, a parte che si risulta maleducati e molto presuntuosi, non si può proprio parlare. Anche i verbi dare e avere che usiamo tutti spessissimo sono diversi a seconda che stia dando qualcosa a uchi o soto. Nel primo caso sarà un verbo che alza (anche graficamente si scrive con il carattere di sopra, perché sono in basso). Se invece qualcun altro dà a me, si usa un verbo che poi è ancora più umile e abbassa ciò che quella persona mi dà.

Direi perciò che

Non basta parlare giapponese, bisogna suonare in giapponese.

Conoscere una lingua comporta necessariamente la partecipazione alla dimensione sociale, e quindi la partecipare alla vita di una comunità. Lo studio di una lingua separato dalla dimensione culturale sarebbe poco incisivo.»

Conclusione

Per concludere vorremmo riportare un brano di Rousseau, tratto dal suo Saggio sull’origine delle lingue, 1984 p.180:

Se gli uomini hanno avuto bisogno della parola per imparare a pensare, ben maggiormente hanno avuto bisogno di saper pensare per trovare l’arte della parola […] di guisa che è appena dato fare congetture sostenibili sull’origine dell’arte di comunicare i propri pensieri e di stabilire rapporti frale menti, arte sublime che è già tanto lontana dal suo principio.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

N. CHOMSKY, Syntactic Structures 1957.

N. CHOMSKY, Aspect of the Theory of Syntax 1965.

F.de SAUSSURE, Corso di Linguistica generale 1967.

Fiori Vivi ringrazia:

Giada Zaccardi: dottoressa in Lingua Economia e Istituzioni del Giappone, ideatrice e curatrice del progetto linguistico/culturale Nodo, si occupa di e-learning e insegnamento di lingua giapponese.

Gilda Y. Diotallevi: dottore di ricerca in filosofia del diritto, studiosa, scrittrice, attualmente dirige la rivista fiori vivi.

Lettere di Wittgenstein a Ludwig von Ficker. Intervista a Michele Ragno

Si potrebbe fissare un prezzo per i pensieri. E con che cosa si pagano i pensieri? Credo con il coraggio.
Ludwig Wittgenstein

Una premessa

Il filosofo e ricercatore Michele Ragno, che già in passato si è dedicato allo studio di Wittgenstein (suo infatti il saggio L’arte che schiude il senso. La filosofia dell’arte di Wittgenstein e Heidegger sul valore filosofico dell’arte a partire per l’appunto dai due grandi filosofi del Novecento: Wittgenstein ed Heidegger), nel 2022 cura l’edizione italiana delle lettere di Ludwig Wittgenstein a Ludwig von Ficker. Tale rapporto epistolare, inedito in Italia da decenni, insieme alle altre lettere di Wittgenstein, ci permette di accedere al pensiero più intimo di un autore in cui filosofia ed esistenza risultavano tra loro strettamente congiunti.

Mentre la figura di Wittgenstein risulta maggiormente conosciuta, e non solo nell’ambito filosofico, lo stesso non potrebbe forse dirsi per Ludwig von Ficker. Editore e letterato dei primi del Novecento, lega il suo nome alla rivista di arte e cultura Der Brenner, da lui fondata nel 1910,e subito divenuta un punto di riferimento per la letteratura d’avanguardia. Wittgenstein, dopo aver contribuito economicamente alla attività editoriale dell’amico Ludwig, nel 1919 gli sottopone il suo lavoro più importante, il Tractatus logico-philosophicus, (n.d.a. anche se all’inizio non era questo il titolo originale dell’opera) perché lo pubblicasse proprio sul Der Brenner. Alla richiesta però von Ficher oppose un rifiuto, non credendo nella commerciabilità di un testo così complesso e frammentario. (Cfr. R. Monk, Ludwig Wittgenstein: Il dovere del genio, pp. 178-185)

In dialogo con Michele Ragno

Michele, come è nata l’idea di ridare nuova visibilità editoriale a queste lettere? Sappiamo che la traduzione in italiano mancava da parecchi anni.

M. R «Credo che queste lettere siano state e siano tutt’ora essenziali per comprendere la filosofia di Wittgenstein, perché fanno breccia nella sua vita e nel legame essenziale e indissolubile che per Wittgenstein stesso c’è tra filosofia e vita. La filosofia, e qui c’è sicuramente un atteggiamento in contrasto con la modernità e fondamentalmente più vicino ai filosofi antichi greci, non si limita a teoresi, ma è quella luce che ci guida nell’esistenza. Direi quasi che l’opera essenziale di Wittgenstein non sia tanto il Tractatus logico-philosophicus, né alcun altro testo scritto, quanto piuttosto la sua stessa esistenza, le sue scelte, i suoi errori, le sue risalite.

Non è un caso che, sul letto di morte, egli senta il bisogno di dire queste ultime parole: «Dite loro che ho avuto una vita meravigliosa». Questa affermazione racchiude una carica emotiva intrinseca tale da essere stata per me oggetto di studio e di riflessione.

La prima volta che presi visione di queste lettere le trovai necessarie per capire il Tractatus, per svelare l’anima che si nascondeva dietro quelle fredde e ordinate proposizioni numerate. Pubblicarle dopo così tanti anni di oblio non fa parte di un mero progetto biografico – Heidegger infatti introdusse un corso universitario affermando che della personalità di un filosofo ci interessa soltanto questo: nacque quel tal giorno, lavorò e morì –, un feticcio ossessivo che spesso ci porta a voler ‘spulciare’ ogni singolo aspetto personale – talvolta anche irrilevante – di un personaggio che ammiriamo, ma significa fornire quel tassello mancante del puzzle.

Probabilmente mai nella storia della filosofia vi è stato qualcuno come Wittgenstein tanto capace di racchiudere in se stesso struggente dolore, perfetta coerenza personale e ricerca di autenticità. E leggendo quelle lettere ci si rende conto di come la filosofia di Wittgenstein si possa perfettamente specchiare negli eventi della sua vita: la scelta di spogliarsi dei propri averi per donarli ad artisti austriaci privi di mezzi economici, di partecipare alla Prima Guerra, di abbandonare – ormai da punta di spicco della filosofia anglosassone – un ruolo prestigioso nell’Accademia inglese per fare l’insegnante di scuola elementare in Austria, etc.»

A proposito di queste scelte, nella sua introduzione a Lettere a Ludwig von Ficker. Vienna la guerra, il Tractatus di Ludwig Wittgestein (di cui lei è il curatore) menziona l’abbandono dell’ambiente universitario di Wittgenstein dopo la pubblicazione del Tractatus. Qual era il rapporto di Wittgenstein con l’accademia?

M. R «Sì, tale abbandono si è effettivamente verificato e il rapporto avuto con l’Accademia in generale è abbastanza complesso. Wittgenstein è sempre stato abbastanza sospettoso e diffidente nei confronti della filosofia accademica, da lui criticata perché pensava fosse improprio professionalizzare il pensiero.

Il pensiero ha dei tempi: tempi in cui bisogna seminare e tempi in cui bisogna raccogliere. Il fatto che il pensare sia un lavoro, che dia il sostentamento di un individuo, potrebbe forzare dei processi che secondo Wittgenstein dovrebbero essere assolutamente spontanei. Wittgenstein ha infatti scoraggiato diversi suoi allievi dal perseguire una strada accademica. Per essere filosofi non bisogna essere necessariamente professori di filosofia o accademici ricercatori filosofici. Al contrario, il percorso accademico potrebbe essere un ostacolo per la vera filosofia. Paradossalmente potrebbe essere maggiormente filosofica la vita di un operario – ed egli stesso prese in considerazione l’idea di abbandonare Cambridge per fare l’operaio in Unione Sovietica – rispetto a quella di un insegnante di filosofia.

Sottolineo che lo stesso Tractatus non è nato a Cambridge, in un ambiente accademico: quelle proposizioni sono state piuttosto concepite nella trincea della Prima Guerra Mondiale.»

Wittgenstein viene spesso descritto come il pensatore più antiaccademico che sia esistito. «Ricchissimo, rinuncia all’eredità e vive di borse di studio senza avere nessuna cattedra prima dell’ultima parte della vita. Voleva solo pensare. Non scrivere libri o articoli su riviste. Pensare, perché la sua ambizione era di essere perfetto sotto tutti i punti di vista. Segno d’un egocentrismo che farà poi scuola.» (R. Monk, idem)

Quello che vorremmo chiederle Michele però è se, nel concreto, l’avversione nei confronti della filosofia accademica si traduca necessariamente in avversione verso la disciplina della storia della filosofia?

M. R «Questa è una domanda molto interessante e richiede una risposta piuttosto lunga. In realtà proprio mesi fa mi ero imbattuto in un testo, edito dal Mulino, che conteneva un insieme di saggi sull’importanza della storia della filosofia nel pensiero contemporaneo. Il libro esordiva citando la prefazione al Tractatus di Wittgenstein

In che misura i miei sforzi coincidano con quelli di altri filosofi non voglio giudicare. Ciò che qui ho scritto non pretende già essere nuovo, nei particolari; né perciò cito fonti, poiché mi è indifferente se già altri, prima di me, abbia pensato ciò che io ho pensato

e presentando Wittgenstein come il filosofo analitico par excellence, intenzionato a rompere del tutto i rapporti con la storia della filosofia. Il testo denuncia l’ignoranza wittgensteiniana in materia di storia della filosofia, e bisogna sottolineare come questa sia una critica abbastanza comune al filosofo austriaco. Vero è che Wittgenstein non ha mai avuto una formazione filosofica ‘classica’: ciò è dovuto al fatto che la scelta di dedicarsi alla filosofia sia stata improvvisa, nata nel bel mezzo di studi ingegneristici. Ciò però non annulla l’interesse che Wittgenstein sin dall’inizio aveva avuto nei confronti della filosofia: da giovane infatti aveva letto Schopenhauer, Nietzsche – di cui era grande estimatore –, Kierkegaard. Sappiamo delle sue letture di Agostino, Spinoza e persino Platone, i cui dialoghi sono da lui più volte citati. Su Platone egli stesso scriverà questo pensiero:

I filosofi non sono più prossimi al significato di Realtà di quanto lo fosse Platone… Che strana situazione. Sconcertante che Platone sia comunque riuscito a spingersi così lontano! O anche che noi non siamo riusciti a spingersi oltre! È stato forse perché Platone era così bravo?

Viene perciò da chiedersi il perché di quel passo nella prefazione al Tractatus. Credo che Wittgenstein volesse mettere in chiaro una serie di cose: innanzitutto che la filosofia, essendo appunto strettamente connessa all’esistenza, è un percorso personale e in quanto tale non conta l’originalità: non è importante che io sia il primo a giungere ad una idea vera. L’importante è arrivarci e ciò basta.

L’altro aspetto decisivo che emerge è che la filosofia non è fatta solo di contenuti, ma anche di forme. Ed è forse questa la vera novità del Tractatus. O, ancora meglio, la forma incide su un pensiero tanto quanto il contenuto che viene espresso.»

Le difficoltà del Tractatus

Michele può parlarci della storia editoriale del Tractatus che, in parte, emerge proprio da una serie di lettere scritte dal nostro filosofo?

M. R «Il Tractatus ha incontrato non pochi ostacoli editoriali: essendo un testo breve e ostico nella comprensione, nessun editore era disposto a pubblicarlo. Wittgenstein chiese una referenza al suo mentore Gottlob Frege presso la rivista Beiträge zur Philosophie des Deutschen Idealismus, che aveva pubblicato il saggio di Frege Der Gedanke.

Frege in realtà non fece ciò: era disponibile a scrivere alla rivista per raccomandare la serietà dello scrittore, ma aveva diversi dubbi sul Tractatus – per la poca chiarezza di diverse proposizioni – e su esso sentiva di non poter esprimere alcun giudizio.

L’idea di Frege fu dunque di sezionare il testo, affrontando ogni singolo problema filosofico in una sezione che sarebbe stata poi pubblicata da un periodico, in modo da rendere più chiaro il pensiero nascosto dentro il difficile schema del Tractatus.

Wittgenstein ovviamente rifiutò immediatamente la proposta della suddivisione: come disse a Russell ciò era inaccettabile, perché significava mutilare l’opera dall’inizio alla fine e, in una parola, farne un’opera completamente diversa. La via era improponibile poiché suddividere il testo significava modificarne la forma e modificare la forma a sua volta comportava la snaturazione del testo stesso e dei suoi pensieri. L’importanza della forma, a cui sopra mi riferivo, è ribadita nella prefazione: Se questo lavoro ha un valore, questo consiste in due cose. In primo luogo, pensieri son qui espressi; e questo valore sarà tanto maggiore quanto meglio i pensieri sono espressi. Quanto più se colto nel segno.

Ed è strano che una simile proposta sia venuta proprio da Frege, che in una corrispondenza con Wittgenstein – a proposito del testo –, scrive:

Il piacere della lettura del suo libro non può pertanto raggiungersi sulla scorta di un contenuto già noto, bensì unicamente in base alla sua forma, nella quale s’imprime la peculiarità dell’autore. Per cui il libro è efficace più sul piano artistico che su quello scientifico; ciò che vi si dice è secondario rispetto al modo in cui lo si dice.

Wittgenstein dunque non era disponibile ad alcun compromesso per aumentare le probabilità di pubblicazione, perché l’importanza della sua opera consisteva proprio nella forma con cui quei pensieri erano espressi.»

Lettera a L. von Ficker, fine ottobre 1919

Per concludere riportiamo un estratto di una lettera che Wittgenstein scrisse a Ludwig von Ficker in allegato al manoscritto del Tractatus perché questi glielo pubblichi.

[…] Forse Le sarà di aiuto, se le scrivo un paio di parole sul mio libro: dalla lettura di questo, infatti, Lei, e questa è la mia esatta opinione, non ne tirerà fuori un granché. Difatti Lei non lo capirà; l’argomento Le apparirà del tutto estraneo. In realtà, però, esso non Le è estraneo, poiché il senso del libro è un senso etico. Una volta volevo includere nella prefazione una proposizione, che ora di fatto lì non c’è, ma che io adesso scriverò per Lei, poiché essa costituirà forse per Lei una chiave alla comprensione del lavoro. In effetti io volevo scrivere che il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto, ed inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante. Ad opera del mio libro, l’etico viene delimitato, per così dire, dall’interno; e sono convinto che l’etico è da delimitare rigorosamente solo in questo modo.
In breve credo che: tutto ciò su cui molti oggi parlano a vanvera, io nel mio libro l’ho messo saldamente al suo posto, semplicemente col tacerne. E per questo il libro, a meno che io non mi sbagli completamente, dirà molte cose che anche Lei vuol dire, ma non si accorge forse che son già state dette lì.
Le consiglierei di leggersi la prefazione e la conclusione, poiché sono queste che conducono il senso del libro alla sua più immediata espressione.

Bibliografia di riferimento

RAY MONK Ludwig Wittgenstein: Il dovere del genio, Bompiani, Milano 1991.

LUDWIG WITTGENSTEIN Lettere a Ludwig von Ficker. Vienna la guerra, il Tractatus, goWare 2022.

Fiori Vivi ringrazia

Michele Ragno Filosofo, studioso e scrittore di articoli a carattere scientifico. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo David Foster Wallace come esperienza filosofica (AM 2020); L’arte che schiude il senso. La filosofia dell’arte in Wittgenstein e Heidegger (goWare 2021).

La retorica dell’emergenza. In dialogo con Eligio Resta

di Favorita Barra

L’uomo che si isola rinuncia al suo destino, si disinteressa del progresso morale. Parlando in termini morali, pensare solo a sé è la stessa cosa che non pensarci affatto, perché il fiore assoluto dell’individuo non è dentro di lui; è nell’umanità intera. […] Non si adempie il dovere, come spesso si è portati a credere e come ci si vanta di fare, confidandosi tra le vette dell’astrazione e della speculazione pura, vivendo una vita da anacoreta; non vi si adempie con i sogni ma con gli atti, atti compiuti nella società e per essa.

G. W. F. HEGEL, Scienza della logica, 1812

Un quadro introduttivo

Negli ultimi anni, la parola emergenza ha occupato drasticamente il linguaggio della politica. La sua eco, in assenza di un vero e proprio dibattito pubblico, si è propagata attraverso i flussi comunicativi che intercorrono tra governanti, media e cittadini.

L’emergenza sanitaria derivante dal propagarsi del virus COVID 19 ha messo alla prova le istituzioni, testando più specificamente la capacità degli ordinamenti di regolare la contingenza.

Ricordiamo il giorno in cui l’Italia fu dichiarata zona rossa e le regioni, le provincie e i comuni sono state divise da confini invisibili; l’adozione di atti emergenziali di contenimento e di gestione dell’epidemia; le proroghe dello stato di emergenza.

E ancora, il 24 febbraio di un anno fa, l’annuncio dell’invasione militare russa a danno dell’Ucraina ha materializzato nuovamente lo spettro della guerra, che continua a scandire la storia dell’umanità.

La comunità internazionale è sprofondata in uno stato emergenziale, segnato da una grave crisi energetica.

L’epidemia e la guerra sono accadimenti straordinari ed eccezionali che ridisegnano l’ordinario assetto dei diritti, delle garanzie costituzionali e del complesso sistema di pesi e contrappesi proprio degli ordinamenti democratici.

La Costituzione italiana non contempla lo stato di eccezione a differenza – a titolo esemplificativo –   della Costituzione spagnola, della Costituzione ungherese o della Costituzione di Weimar che all’art. 48 prevedeva la sospensione parziale o totale dei diritti costituzionalmente garantiti al fine di ristabilire l’ordine e la sicurezza pubblica.  

Tuttavia i decreti del Presidente del Consiglio italiano che durante la recente emergenza sanitaria hanno cadenzato le varie fasi del lockdown richiamano il Codice della Protezione civile, emanato il 2 gennaio del 2018. Più specificamente l’art. 7 del decreto legislativo n. 1 del 2 gennaio del 2018 sancisce che, di fronte a «emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo», si può ricorrere a «mezzi e poteri straordinari».

Recentemente il dibattito dottrinario si è accesso attorno a due posizioni dominanti. Secondo alcuni studiosi, giuristi e teorici del diritto, è necessario effettuare una distinzione tra emergenza ed eccezione, la prima implica la conservazione di un ordine precostituito, la seconda invece il suo disfacimento. (G. Zagrebelsky, ‘Non è l’emergenza che mina la democrazia. Il pericolo è l’eccezione’, la Repubblica, 28 luglio 2020)

È evidente che il punto di partenza di tale ricostruzione è la differenziazione schmittiana fra dittatura commissaria, che ha lo scopo di conservare o restaurare la costituzione vigente e dittatura sovrana, che tende invece a instaurare un nuovo ordine. La visione sopra esposta è fortemente criticata da chi sostiene che l’eccezione e l’emergenza implicano entrambi la sospensione della legge. Da ciò segue che, non è dirimente riflettere sulle intenzioni o sulle motivazioni sottese alla dichiarazione dello stato d’eccezione e dello stato emergenza, quanto sull’esito: l’interruzione delle garanzie costituzionali. (G. Agamben, Stato di eccezione e stato di emergenza, 2020).

Per giunta Carl Schmitt in Teologia Politica parla semplicemente di Ausnahmezustand, «stato di eccezione», termine tecnico che si è imposto per definire la condizione di eccedenza del politico sul giuridico; in altre parole la terra di mezzo tra l’ordine giuridico e il fatto politico, tra la legge e la sua sospensione.

Banksy, ballerina sulle rovine di un grattacielo di Borodyanka – Ucraina

Le parole di Eligio Resta

Proprio quando l’ordine precostituito sembra svanire e la forza immanente dei principi fondativi dell’ordinamento giuridico cede il passo alla sospensione e all’incertezza, è facile chiedersi quale sia il ruolo dei diritti.

Questa domanda e tanti altri interrogativi saranno il filo conduttore dell’intervista o per dirla come abbiamo sempre chiamato le nostre conversazioni – della chiacchierata, con il Professore e Filosofo Eligio Resta, la cui ricca produzione scientifica è da sempre caratterizzata dalla rarissima capacità di portare alla luce i paradossi del diritto.

E. R «L’emergenza è ormai definitiva e proprio in questo periodo storico possiamo notare il calpestare continuo dei diritti di individui e di intere popolazioni. È necessario chiederci in che modo i diritti possano essere Katéchon, ossia limite all’esercizio del potere.

La questione della guerra ancora una volta è fondamentale.  Aveva ragione Hans Kelsen a dire che non ci sarà mai pace fin quando non si metterà in crisi il meccanismo della sovranità degli Stati, che è un vero e proprio elemento di prepotenza.

Il vecchio proposito di sostituire il diritto alla sovranità o i diritti alla sovranità, che sicuramente rivive nella richiesta alla Corte penale Internazionale dell’Aja di aprire un’indagine sui crimini di guerra, non condurrà ad esiti significativi, in quanto la terzietà del diritto non sarà mai così forte da mettere in crisi la prepotenza dello Stato.

É necessario fare uno sforzo doppio, in modo da continuare, da un lato, a sperare nell’ordinamento giuridico internazionale e dall’altro a lavorare sulla dimensione ‘micro’ dei diritti, che consiste nell’attivazione costante della garanzia ai diritti individuali.

Molto suggestivo ciò che raccontava Carl Schmitt: quando i tempi si fanno inquieti la questione della tutela degli ameni parchi a tutela della natura lascia lo spazio ad una volontà di decisione, più propriamente di schieramento che ruota attorno alla dicotomia amico/nemico.

Purtroppo mai come in questa momento l’inquietudine dei tempi è emergente.»

Professore, in un’opera pubblicata nel 1984, intitolata L’ambiguo diritto, lei ricostruisce e decostruisce il diritto dell’emergenza. Questa espressione ‘l’ambiguo diritto’ mi ha fatto sempre pensare a un diritto personificato, un diritto che si fa umano e che, come un uomo, vive di complessità, di contraddizioni, di ambivalenza.

E. R «La questione dell’ambiguità del diritto mette in crisi la teologia giuridica – teologia orientata a colmare l’assenza di un dio – e lo fa fondamentalmente attraverso la scoperta del rapporto tra diritto e violenza.

Avevo preso questa formula da Walter Benjamin che, come è noto, ha fatto riferimento al carattere demonicamente ambiguo del diritto, in relazione non solo al fondamento, ma anche al suo funzionamento.

Più specificamente, il diritto che crea gli ordinamenti è lo stesso che li conserva ed esso è legato a doppio filo alla violenza. Del resto sappiamo benissimo come il gioco dell’ambiguità massima risiede proprio nel rapporto tra violenza legittima e violenza illegittima. Pensiamo che la violenza sia legittima, quindi positiva e che la violenza illegittima sia negativa, tuttavia la violenza legittima è sempre violenza.

In controluce il carattere demonicamente ambiguo del diritto è utile per comprendere i meccanismi della teologia della colpa. Benjamin ci ricorda, a tal proposito, che il giudice non vede colpa in un comportamento antigiuridico, ma infligge destino.  Forte è il rapporto tra destino, diritto e la vita; da questa consapevolezza è nata la mia modesta riflessione sul diritto vivente. (n.d.a. Cfr. Diritto vivente 2014)»

Nell’ambito de L’ambiguo diritto lei richiama la valenza simbolica dell’emergenza.

Più specificamente scrive: «Emergenza, destabilizzazione, eccezionalità sono piuttosto il frutto del ricatto e della propaganda della paura.»

E. R. «La retorica dell’emergenza si fonda sull’equivoco che l’emergenza è un intralcio alle magnifiche sorti e progressive dell’umanità. In altre parole essa viene intesa cioè come un’interruzione del progresso. Ma è ancora una volta Benjamin a guidarci; nell’ottava tesi di Filosofia della Storia il filosofo afferma che non bisogna stupirsi della violenza. Chi si stupisce della violenza la considera come un’eccezione nel cammino delle magnifiche sorti e progressive e così facendo, fa gli interessi del fascismo, come anche del nazismo, che considera la violenza come un’eccezione e lavora oltretutto per la sua giustificazione in nome dell’ordine.

É in gioco l’ontologia della paura che da Hobbes in poi continua a legare la politica e il diritto al filo della modernità.»

L’emergenza è terreno fertile per l’instaurarsi di una società del controllo imperniata sul disciplinamento sociale

E. R. «In genere il disciplinamento fa parte delle tecniche di potere orientate all’ordine sociale.

La parola ordinamento è dotata di senso; ordine è la trama, l’ordito, che è costituto da un legame molto forte tra tutti gli elementi della società. L’ordine implica l’affermazione del controllo sociale, basato anche sulla perfetta consapevolezza della divisione delle funzioni sociali. Imprescindibile è il un ruolo del dissenso.

Nello Stato di diritto c’è un’ampia apertura al dissenso e al conflitto, tuttavia il dissenso e il conflitto non devono confondersi con il dissidio che è invece rottura: impossibilità della comunicazione.

Credo fortemente che dobbiamo ancora una volta tornare alle radici dello Stato di diritto e dunque a scommettere sull’autonomia del diritto, ripensando ad una divisione forte delle funzioni che sono equivalenti dei poteri. Del resto se c’è un potere che controlla l’altro, non ci può essere un monopolio di un potere sull’altro; tale equilibrio è affermato anche in nome della pluralità sociale.»

Vorrei, a questo punto della nostra conversazione, far riferimento alle rigide restrizioni che durante l’emergenza sanitaria hanno interessato i cittadini non vaccinati, di fatto esclusi dalla vita sociale.

Eppure, è stato il Codice di Norimberga, nato dagli orrori della seconda guerra mondiale, a sancire che il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente necessario.

Con questo documento si inaugura la rivoluzione del consenso informato; qualsiasi intervento medico sul corpo del paziente è pertanto ad esso subordinato. L’individuo non è più oggetto del potere medico e politico. Si afferma così il potere della persona, che in quanto soggetto morale, è capace di decidere per sé sulla sua vita e non è più sottoposta al volere altrui.

La legislazione adottata durante l’epidemia COVID 19 sembra, da un certo punto di vista, ‘barattare’ l’accesso ai servizi essenziali e la partecipazione alla vita sociale ad un trattamento sanitario sul corpo, il vaccino.  Tale scambio renderebbe, a mio avviso, il consenso al trattamento sanitario tutt’altro che libero e scevro da condizionamenti.

E. R «Ripartirei dal concetto di soggetto che, nella tradizione giuridica, viene investito del carattere della titolarità dei diritti e in quanto soggetto di diritto può decidere della propria vita. In realtà, da un punto di vista semantico, la parola soggetto porta con sé una dimensione di sottomissione. Soggetto è subiectum; sottoposto. L’idea del diritto come privilegio individuale è condizionata alla dimensione politica della comunità.

Vorrei mettere in luce questo termine: communitas, ossia dono e dovere comune. Alla comunità non si prende parte ma si dona. La storia del soggetto nella comunità è una storia più che di privilegi, di donazioni; ha a che fare con l’altruismo e non con l’egoismo.  La fraternità e comunità sono elementi fortemente collegati.

Io penso che sia necessario il sacrificio individuale in nome della salvezza della comunità. Ben venga il sacrificio se serva volontariamente a salvare il tutto!»

G. Klimt, L’albero della vita 1909

Professore, ricordo che ogni anno accademico, durante la prima lezione del corso di filosofia del diritto, era solito leggere agli studenti il famoso frammento di Georg Friedrich Hegel di seguito riportato: «La contraddizione sempre crescente tra l’ignoto che gli uomini inconsapevolmente cercano e la vita che ad essi è offerta e permessa e che essi hanno fatto propria, la nostalgia verso la vita di coloro che hanno elaborato in sé la natura in idea, contengono l’anelito a un reciproco avvicinamento. Il bisogno di quelli, di ricevere una consapevolezza sopra ciò che li tiene prigionieri e l’ignoto di cui sentono l’esigenza, s’incontra col bisogno di questi, di trapassare dalla propria idea nella vita.»

La vita, del resto, è uno dei nodi centrali di tutta la sua ricerca.

E. R «Ritengo questo passo fondativo, in quanto mette in relazione due dimensioni: la determinatezza e l’anelito verso una vita migliore, pertanto ciò che è determinato e la ricerca dell’indeterminatezza della libertà. 

È un frammento di grande apertura verso la modernità: la contraddizione sempre crescente, mai come in questo momento, ci condiziona fortemente. D’altro canto l’esistenza è fatta di aneliti verso una vita migliore, che ognuno nel proprio piccolo cerca. L’anelito, tuttavia, viene in contraddizione con la necessità – Anánkē – del resto, sono nato in una certa epoca, sono inserito in un determinato contesto sociale, devo sottostare ad alcune condizioni economiche, insomma sono determinato dalla vita.

Certamente un elemento forte di consapevolezza è quello di considerare se stessi come determinati dalla vita, ma l’anelito verso la vita migliore è ciò che spinge al di là dei confini.

Hegel aggiunge un elemento ulteriore: la contraddizione sempre crescente non può essere ridotta con un atto di violenza, che è qualcosa che produrrà un nuovo dolore. Noi pensiamo che attraverso le regole si possa incidere sulla vita, mentre la vita sfugge alle regole. Le passioni fredde del diritto si scontreranno sempre con le passioni calde della vita. Piuttosto, alla luce di una lettura hegeliana, la contraddizione viene risolta nella dimensione dello Spirito Assoluto, cioè di quelle forme della vita che si incarnano nello Stato e nella politica. Lo Stato diventa il risultato degli opposti antagonismi.

Questo bellissimo frammento sulle determinatezze della vita termina con un Oder, con un ‘oppure’, seguito da puntini di sospensione.

Un’altra soluzione è sempre possibile ma, guai a dare un significato a questo Oder, a questa possibilità esclusa ma non eliminata.»

Una via d’uscita dalle determinatezze della nostra epoca è quindi possibile, probabilmente il punto di partenza è proprio la capacità di vedere oltre il presente. «Eppure la paura umana del nuovo è spesso grande quanto la paura del vuoto, anche quando il nuovo rappresenta il superamento del vuoto.»

Ho sempre trovato profondamente suggestivo questo passaggio dell’opera Terra e Mare.

Mi piace pensare, citando ancora una volta Carl Schmitt che «nella lotta più accanita fra le vecchie e le nuove forze nascono giuste misure e si formano proporzioni sensate.»

E. R «Non so se sensate, ma sicuramente nuove misure. Il passato dobbiamo considerarlo hegelianamente come la determinatezza della vita, di questo si tratta, d’altra parte esso corrisponde ad una complessità già ridotta. Il nuovo si pone in un rapporto di continuità e nello stesso tempo di rottura con il vecchio. Ogni epoca pensa se stessa come il superamento della precedente, vale per le epoche quello che vale per gli individui. Il rapporto giovane/vecchio è costruito sulla base della conservazione delle aspettative e della delusione che ne nasce. Ogni futuro sarà il passato di un futuro prossimo e a sua volta il passato è stato futuro di un passato; siamo di fronte ad un rapporto di inseguimento circolare.

Piuttosto mi colpisce un’altra dimensione della storia narrata da Nietzsche, quella secondo cui i primordi sono sempre possibili e mai come oggi ci troviamo di fronte a questa evenienza.»

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:

G. AGAMBEN, Stato di eccezione e stato di emergenza, Quodlibet, Macerata 2020.

W. BENJAMIN, Angelus Novus, Einaudi, Torino 2014.

W. BENJAMIN, Tesi di filosofia della storia, Mimesis, Sesto San Giovanni 2012.

H. KELSEN, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale. Contributo per una dottrina pura del diritto, Giuffrè, Milano 1989.

E. RESTA, L’ambiguo diritto, FrancoAngeli, Milano 1984.

C. SCHMITT, Le categorie del politico, Mulino, Bologna 2013.

C. SCHMITT, Ex captivitate salus, Adelphi, Milano 1987.

C. SCHMITT, Terra e mare, Adelphi, Milano 2002.

Fiori Vivi ringrazia:

Eligio Resta Giurista e Filosofo. Professore Emerito di Filosofia del diritto e Sociologia del diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi Roma Tre, già membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura, è autore di innumerevoli testi di grande pregio e articoli scientifici. Tra i suoi lavori ricordiamo Poteri e Diritti (Giappichelli 1996), L’infanzia ferita (Laterza 1997), Diritto fraterno (Laterza 2004), Il diritto vivente (Laterza 2008), Le regole della fiducia (Laterza 2011).

Favorita Barra Docente a contratto di Informatica giuridica presso la Link Campus University, e collaboratrice alla didattica del corso Diritto dell’amministrazione digitale presso la Luiss Guido Carli è attualmente consulente presso il FormezPA. Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Funzione pubblica.

Sono la sofferenza ineluttabile delle donne di Enchi Fumiko

di Giada Zaccardi

Enchi Fumiko (secondo l’ordine giapponese, in cui antepone il cognome al nome 円地 文子), è nata a Tokyo nel 1905 e morta nel 1986, sempre nella capitale giapponese) è stata una scrittrice giapponese nell’era Shōwa (periodo compreso tra il 25 dicembre 1926 e il 7 gennaio 1989).

Ha modificato il suo nome, in quello che conosciamo, nel 1928 trasformandolo in Fumiko (文子) con i caratteri di 文 letteratura, lettere, frase e 子 bambino, figlio. Quindi ribattezzandosi con un nome che in italiano potremmo rendere come Figlia delle lettere, della letteratura. La vocazione per la scrittura era di famiglia, infatti suo padre fu un celebre linguista giapponese. Di lui dirà «Senza dubbio, quella mescolanza di frasi e storie che mi raccontava si agitò in me mentre crescevo, cambiandomi in modi che non potevo controllare, rendendomi una scrittrice di storie.»

In particolare, è nota per aver affrontato nelle sue opere temi legati alle donne, anche con riferimento all’importanza di lottare per guadagnare la propria dignità.

A woman’s love is quick to turn into a passion for revenge–an obsession that becomes an endless river of blood, flowing on from generation to generation.

Enchi Fumiko

In linea con la sensibilità della nostra Autrice, mi piacerebbe indirizzare questa mia riflessione indistintamente a coloro che ancora non hanno letto di lei e a chi, invece già conosce almeno qualcosa.

Ci si potrebbe domandare come mai una simile riflessione, che appare assai bizzarra e forse non intuibile a prima lettura. Bene, risponderei che il motivo risieda nella particolare attitudine di Enchi Fumiko, capace di distinguerla dagli altri: ‘l’emozionare’.

Le sue pagine trasudano di emozioni delle protagoniste (e qui, sì, che prevale il femminile, in barba alle comuni regola grammaticali), ci si sente non solo dentro la storia, ma dalla parte stessa della narratrice.

È così che ci si finisce per innamorare di Teishi, splendida Prima consorte imperiale, tanto perfetta da sembrare una figura onirica (Cfr. Namamiko monogatari. In it. Namamiko. L’inganno delle sciamane); ed è nello stesso modo e con la stessa forza che ci si ritrova a girare le pagine di Onnazaka, con i muscoli contratti e la frustrazione di Tomo (Onnazaka. Il sentiero nell’ombra).

Ecco, dunque, il motivo dell’ideale doppia destinazione del mio scritto: a coloro che queste emozioni le hanno sentite addosso, e agli altri, con la speranza che possano fare altrettanto.

E ci tengo a sottolineare che queste considerazioni valgono anche per le opere tradotte; quindi, che non vi scoraggi quel tanto che il traduttore ruba al narratore.

Un tema rilevante

Per tentare di delineare Enchi Fumiko, prenderei le mosse dal tema della donna, che come accennato all’inizio è proprio ciò che ne caratterizza la poetica.

Se fossimo nel film Fight club, la voce fuoricampo annuncerebbe: Sono la sofferenza ineluttabile delle donne di Enchi Fumiko. A parte la battuta, e fuori dalla metafora del film, mi sentirei di ritenere l’Opera di Enchi Fumiko, come un paradosso (il che a ben pensarci, è del tutto in linea con l’esordio teatrale dei suoi scritti).

Dunque, la definirei: un’Opera Paradossale, poiché tutte le volte che qualcosa si afferma, sembra negarsi allo stesso tempo.

Infatti, e per cominciare, tutto ciò che ha prodotto l’Autrice ha una forma di donna, ma non è a sua misura; in ogni scritto incontriamo una protagonista – se non più di una – che conduce la vicenda, tesse le fila del racconto, inducendo eventi e personaggi a dirigersi nelle strade da lei solcate.

Sembrerebbe quindi trattarsi di una scelta autoriale che, piuttosto pioneristicamente considerata l’epoca, voglia affermare la forza e l’importanza della donna.

Tuttavia, queste figure femminili non vivono mai il loro essere donna, la loro femminilità e la loro sessualità serenamente.

Tutto sembra un grido soffocato.

(L. Bienati P. Scrolavezza, La narrativa giapponese moderna e contemporanea)

Piuttosto sono sciamane, sono maschere, sono Reali, sono spiriti, sono martiri, ma non sono mai libere di soffrire e di cercare conforto. Sono anche bellissime e spesso convolano a nozze, ma dalla prima all’ultima notte, consumeranno il matrimonio subendo la forza sessuale animalesca di un uomo, che al di fuori di quella stanza, solitamente, vale davvero poco.

Persino Mieko, la protagonista dell’opera Maschere di donna, che a confronto con le altre donne descritte dovremmo sentire come più ‘contemporanea’, si rivela una maschera teatrale, prigioniera della retorica classica legata al risentimento femminile e alla sua forza distruttiva.

Sembra, dunque, che l’amore non trionfi mai, che la gioia non sia abbastanza seria, almeno non quanto il dolore e, di conseguenza, i suoi personaggi femminili finiscano per essere inquietanti o indolenti. Questo di certo ne accresce il fascino, ma allo stesso modo li priva di umanità.

Una delle poche eccezioni, forse, si trova nelle timide fantasie erotiche di Chigako (il riferimento è al racconto L’ammaliatrice), che sembra farsi contaminare dal denaro proibito ottenuto da traduzioni di testi erotici, non senza un forte senso di colpa sotteso, lasciandosi trasportare.

Ecco, quello è stato il momento più umano che ho trovato nella ‘donna’ di Enchi Fumiko.

Tuttavia, anche qui sono il senso di colpa e l’inazione a prevalere.

E di questa ossessione femminile (cfr. D. Moro, postfazione a Namamiko L’inganno delle sciamane), è stato chiesto anche all’autrice stessa, che ha recisamente rifiutato la definizione, preferendo quella di fenomeni sciamanici, augurandosi che l’ossessione femminile potesse essere intesa come figlia della frustrazione della donna che vive in una società maschio-centrica e maschio-orientata.

Possessione ed espressione

Ed ecco qui un’altra tematica onnipresente nell’opera dell’Autrice: la magia; o per usare un termine maggiormente filofumikiano, la possessione.

Argomento, anch’esso, che non esce dalla ‘donna’, ma ci si interseca.

Possessione, che pur se muta, è quella che permette di considerare Onnazaka, Onnamen e Namamiko monogatari, una trilogia (n.d.a. L’altro elemento che conduce a questa ipotesi è relativo ai riferimenti all’opera Genji Monogatari, di cui l’Autrice ha prodotto la traduzione in lingua giapponese moderna), poiché scivola da un’Opera all’altra, modificandosi sì per assumere la forma della storia, ma – a ben guardare – ancor più manifestando la sensibilità dell’Autrice.

Nonostante i suoi mutamenti, il filo rosso resta la possessione.

A questo proposito, è la stessa Enchi Fumiko a raccontare che la pratica delle possessioni possa essere interpretata come una modalità espressiva delle donne passive, costrette a ricorrere alle pratiche esoteriche per riuscire a trovare voce in una società che le opprime e le priva della possibilità di espressione. (cfr. D. Moro, postfazione a Namamiko L’inganno delle sciamane)

Ed è questa interpretazione che sembra chiudere il cerchio. Ecco forse scovato il motivo di tanta sofferenza e di altrettanta sopportazione.

Si tratta di donne immaginate da una donna che ha vissuto le guerre mondiali, due operazioni chirurgiche invasive proprio della sfera ‘femminile’ (I. Starace, Erotismo femminile in due racconti di Enchi Fumiko in ‘Il Giappone’, vol. 45, 2005) e un matrimonio infelice in un’epoca in cui erano solo gli uomini a decidere.

Ciononostante, non sembra ancora potersi ravvisare quell’indipendenza, fosse almeno di pensiero, che permette di staccarsi da queste figure maschili tiranniche, proprio perché quando l’Autrice auspica un futuro equilibrio nella psiche femminile, si appella alle frustrazioni date da una società maschilista, che devono risolversi.

In altre parole, sembrerebbe sperare che siano gli uomini, ancora una volta loro, a smettere ti tediare l’animo gentile delle donne e non le donne a decidere per loro stesse.

Sono, dunque, donne che sembrano sempre voler essere guardate da un uomo – o dagli uomini – e che forse proprio per questo non mettono mai a fuoco i loro desideri.

Enchi Fumiko

Tuttavia, man mano che invecchiano, le figure femminili sembrano prendere maggiore consapevolezza e maggiore forza e l’atto di ribellione arriva appena prima che si chiuda il sipario: si negano in punto di morte, chiedendo di non essere sepolte con i loro stessi tiranni che hanno dovuto accontentare per una vita intera.

È questa, forse, la parte migliore dell’eredità che possiamo raccogliere da Enchi Fumiko: l’augurio che le donne del futuro riscrivano il loro finale.

Enchi Fumiko

 Bibliografia di riferimento

L. BIENATI – P. SCROLAVEZZA, La narrativa giapponese moderna e contemporanea, Marsilio, Venezia 2009.

ENCHI FUMIKO, Namamiko. L’inganno delle sciamane, Safarà, Pordenone 2019.

ENCHI FUMIKO Onnazaka. Il sentiero nell’ombra, Giunti, Firenze 1987.

ENCHI FUMIKO Maschere di donna, Marsilio, Venezia 2001.

Dialogo intorno alla letteratura di Marco Steiner

di Emiliano Ventura

È appena stato pubblicato il tuo romanzo La nave dei folli (Studium Marcianum Press), solo un anno fa usciva Nella musica del vento (Salani), ora hai inaugurato una nuova collana per Le Storie editore di cui hai scritto il racconto per la prima uscita, Un mare troppo lontano. La prima domanda è una considerazione intorno a questi eventi. Cosa li accomuna?

M.S «Un grande amore per la letteratura, tutto qui, unito al desiderio di spaziare fra le diverse forme letterarie.

Il tema che ho sempre prediletto nel mio scrivere è quello del viaggio, sia fisico che mentale. Ho viaggiato tanto nella mia vita e per lunghi anni l’ho fatto sulle tracce imprecise di un personaggio non reale, ma immaginario come Corto Maltese; dunque, l’immaginazione è stata sempre la guida di questi ‘vagabondaggi’.

Le declinazioni possibili in questo ambito sono estremamente varie: La nave dei folli racconta un viaggio Fantastico, cioè una vera fuga da una dura realtà. Questa storia nasce infatti come un omaggio alla letteratura che mi ha sempre accompagnato e avviato alla Fantasia più pura e libera, da Edgar Alla Poe, a Lovecraft e Melville, solo per citarne alcuni.

Il racconto ruota intorno a una parola molto preziosa: la possibilità.

Possibilità intesa come inquieta reazione e ricerca di altro in qualunque situazione. Nello specifico alla base della storia de La nave dei folli, un gruppo di internati in un manicomio riesce insperatamente a fuggire grazie a un misterioso veliero approdato sulla loro isola per avventurarsi verso rotte imprevedibili. Nel loro viaggio c’è il prepotente desiderio di libertà e di possibilità di vivere in una condizione diversa e, soprattutto, più umana. Nel racconto di questo itinerario affronto anche il tema della potenzialità liberatoria della scrittura stessa, infatti Indio, il comandante di questo strano vascello, affida al proprio diario di bordo una serie di pensieri personali e il resoconto delle conversazioni che si susseguono con gli altri membri del suo variopinto equipaggio nel corso di una navigazione costellata di prove e sorprese.

Nella musica del vento, è, invece, un romanzo che affronta il tema che mi è sempre stato caro, quello dell’avventura. In questa storia ho cercato di rendere omaggio al mio Maestro di scrittura, Hugo Pratt, percorrendo rotte e piste che hanno il sapore e rasentano le atmosfere del marinaio Corto Maltese, un amico che mi ha insegnato non soltanto a viaggiare liberamente, ma a farlo con la disponibilità all’incontro con l’immaginario più puro e nel costante rispetto dei luoghi attraversati e delle persone incontrate lungo la strada.

Nella musica del vento è un’avventura classica, ma è anche una ruvida storia d’amore fra due personaggi diversi, eppure in qualche modo simili nella loro emarginazione sociale.

Nel corso della vicenda ho cercato di raccontare anche il rapporto fra uomo e Natura in una terra selvaggia come il sud della Patagonia. Le popolazioni indigene della Terra del Fuoco ne sono state un ottimo esempio perché hanno saputo rispettare e dialogare con il duro ambiente che li circondava e consentiva loro di vivere. E nonostante questo, migliaia di persone pacifiche sono state sterminate nella prima metà del ‘900 dai latifondisti colonizzatori per lo più europei. Il protagonista, Morgan Jones, un bastardo senza morale né pietà, è un uomo che inizia il suo percorso cacciando proprio quei selvaggi per conto dei suoi padroni, ma che alla fine si ritroverà cambiato. Imparerà infatti, grazie ai nativi e attraverso il rapporto con la sua donna, ad attraversare quelle terre selvagge ascoltando la natura, dialogando con serpenti, pampas desolate e distese ghiacciate di mare. Pian piano fino la sua inquieta solitudine si aprirà all’ascolto della sua donna, della Terra e di quegli uomini che gli consentiranno non solo di sopravvivere, ma anche di comprendere l’importanza degli incontri che avvengono lungo la strada e dei cambiamenti che essi consentono.

La nuova collana di libri della casa editrice Le Storie, della quale In un mare troppo lontano apre la serie, è un invito alla letteratura di viaggio e avventura, inventando o riscoprendo storie che escano dai limiti angusti dei racconti di genere per aprirsi all’immaginario. In fondo il senso è proprio questo. Avrò l’onore, come direttore di collana, di proporre titoli e autori spaziando dal presente al passato. A questo mio primo racconto ne seguiranno altri di amici scrittori che si imbarcheranno in questa nuova avventura e testi dimenticati o da troppo tempo non pubblicati. Naturalmente anche lungo questo viaggio ci saranno certamente delle sorprese.»

Un mare troppo lontano mi appare un precipitato di tutta la tua opera, di tutto il tuo contesto letterario, narrativo. È come se in questo racconto breve lavoro ci fosse condensato tutto il tuo mondo, perché c’è Corto Maltese, che a un certo punto appare, ma ci sono anche i velieri, i relitti…

M.S «Qui effettivamente c’è quel precipitato, la parola usata da te Emiliano è perfetta. Perché man mano che si arriva a uno stile, che si scrive in una certa maniera, non si deve più continuare ad apporre cose ma a limarle. La scrittura assomiglia alla voce massima che è la poesia. In fondo il vertice massimo della scrittura è proprio la poesia. Poesia e teatro direi…

Nasce così questo piccolo racconto che ha sintetizzato il mio amore per un certo tipo di avventura, per la terra, per la Sicilia, per il Mediterraneo, per i sapori della vita in fondo. Si tratta di una sorta di dialogo poetico o, come mi hai giustamente detto tu una volta Emiliano, una prosa poetica, un dialogo tra un corvo e un ulivo.»

Questo mio primo racconto nasce da una serie di esperienze, strade polverose percorse, onde salate, silenzi, pagine attraversate e non scritte, musiche raccolte nel vento, personaggi, oggetti, cose o animali che mi hanno raccontato una maniera d’intraprendere questa specie di viaggio, un’avventura che, impercettibilmente, è diventata vita vera. (Marco Steiner, Agosto 2022)

Tra questi due romanzi, Nella musica del vento e La nave dei folli, vi è una differenza sostanziale; il primo, che io definisco un romanzo sudamericano, ha un registro realistico, mentre il secondo ha una impostazione apertamente fantastica. Come mai un cambio così radicale, esigenze o volontà di sperimentare?

M.S «Hai giustamente definito il realismo del primo romanzo come sudamericano e in questo consiste la vicinanza con il secondo, perché quel realismo magico è lo stile di tanti scrittori di quel mondo di frontiera che amo molto, fra questi, sicuramente Borges, Arlt, Alejo Carpentier, Cortázar, Márquez, ma, in fondo anche, Calvino, Süskind, Sgorlon, Landolfi.

Questo modo di raccontare apre, anzi spalanca, le porte all’immaginario e all’imprevedibile. Tale prospettiva la ritengo fondamentale e per me, come scrittore, sta diventando una necessità. In questo nostro mondo ormai pervaso, invaso e sclerotizzato da realtà e false riproduzioni della realtà, viviamo in un ambiente dove, per raggiungere qualsiasi luogo, si usano navigatori. Siamo costantemente geolocalizzati e ci muoviamo seguendo griglie e reti che non fanno altro che intrappolare la nostra libertà e soprattutto la nostra fantasia con continue ‘risposte’ informatiche che impediscono o riducono un pensiero libero e alternativo. A questa situazione cerco di opporre una sorta di distacco.

Oggi siamo costretti ad aprire gli occhi per seguire uno schermo, mentre sarebbe necessario aprire la mente attraverso l’esercizio della fantasia e del sogno. Per tale motivo questi due libri sono stati una necessità, non solo di sperimentazione letteraria, ma di esigenza esistenziale, in particolare dopo questo periodo di ulteriore blocco forzato dovuto alla pandemia. Anche se va considerato che questa reclusione viene continuamente esasperata dalla gabbia progressiva e invadente che sta calando sulle nostre esistenze incanalate ed è dettata da esigenze di appiattimento necessarie al consumismo dilagante.

Il principio che mi ha sempre guidato, e che la ‘conoscenza’ con il personaggio di Corto Maltese ha ulteriormente ampliato, è il più puro senso della libertà; libertà di viaggiare senza seguire schemi o programmi precisi e, naturalmente, di scrivere non curandomi di quello che potrebbe essere un mero e accattivante intrattenimento.»

Vorrei però fare un ulteriore passo indietro, Isole di ordinaria follia è un ‘romanzo’ (anche se ogni definizione è imprecisa perché il testo non è riducibile a un genere) che ha segnato una svolta evidente nel tuo lavoro e nella tua scrittura, è un punto di non ritorno. Potresti accennare a questa svolta, a questo cambiamento nella scrittura?

M.S «La svolta è dovuta essenzialmente alla modalità da cui è scaturita la scrittura di questa storia. Proverò brevemente a spiegare com’è nata.

Seguendo il lavoro fotografico del grande Gianni Berengo Gardin sulla situazione manicomiale in Italia, mi sono ritrovato in un ambiente assolutamente inusuale, l’archivio dell’ex-manicomio di San Servolo, una piccola isola affacciata a poca distanza dalle luci e dalla dolce magnificenza dell’affollata Piazza San Marco. L’archivio, un luogo-altro, un Altrove immerso nella sua placida ma inquieta penombra, conserva fra mura e finestre sbarrate, in maniera ordinata e razionale, la storia della follia e di oltre duecento anni di psichiatria.

In quell’ambiente isolato, silenzioso e distante da ogni cosa, non ci sono voci, ma fredde schede e rapporti tracciati in bella calligrafia su antichi registri che vanno dal 1750 fino ad arrivare al 1980. Si tratta semplicemente di nomi, di scarne diagnosi, date di ingresso e spessissimo di morte dei pazienti.

Eppure mi sono ritrovato circondato da volti e storie.

Sono rimasto immediatamente colpito dalla pochezza e dall’esiguità delle descrizioni degli uomini e delle donne che hanno vagato in quel limbo; le loro storie cliniche e i sintomi erano riassunti in scarne descrizioni. Immediatamente, fin dal primo giorno in cui mi sono seduto a leggere alcune di queste misere schede diagnostiche, dalle più antiche a quelle più moderne, ho avvertito una specie di richiamo, le loro voci, anzi, le urla di quelle persone che non avevano mai potuto raccontare altro che il loro disperato disagio, mi imploravano di essere ascoltate.

È così che ho provato ad immedesimarmi in alcuni di loro, provando a raccontare attraverso le loro differenti voci, altrettante storie di disagio e dolore.

Questo processo identificativo, molto più che stimolare la fantasia nel raccontare le storie di quegli uomini e donne senza parole, ha provocato in me una vera condizione di profondo contatto umano. Da un punto di vista letterario è chiaro che la voce, il linguaggio e la storia personale di un internato della fine del ‘700 non poteva essere simile a quella di una ragazza rinchiusa nello stesso ambiente nel ‘900, quindi questo processo di partecipazione a diverse storie e personalità è stato un grande esercizio di autentico ascolto di silenzi e modalità di reazione a quella reclusione.

In definitiva è stato un vero lavoro d’immersione e immaginazione.

Ho sempre sostenuto che per raccontare una storia non basta descrivere accuratamente e possibilmente in buono stile un ambiente oppure una determinata situazione, ma è più opportuno entrare fisicamente ed emotivamente in quell’ambiente e in quella situazione; in questo caso, a maggior ragione, bisognava entrare nelle teste, nelle anime e nelle storie personali di questi personaggi privati della voce nel corso delle loro difficili esistenze. 

Per Vedere le cose, non devi guardarle, devi sbatterti dentro, graffiare sul fondo, sanguinare…e dopo, uscirne ridendo, questa frase l’ho scritta per un’altra storia, ma in questo caso è fondamentale per non rimanere ancorati a una descrizione asettica, come fosse soltanto un resoconto scientifico.

Non potevo essere un osservatore distaccato, dovevo partecipare, dovevo entrare in quelle stanze e nelle diverse personalità di personaggi da immaginare dopo aver letto poche righe che ne descrivevano i disagi.

È stata un’importante esperienza umana e un punto di svolta nella mia scrittura.

Ero già entrato fisicamente e spiritualmente in ambienti geografici estremamente differenti e avevo già fatto incontri casuali con personaggi inusuali nel corso dei miei quindici anni di viaggi reali sulle tracce di uno splendido personaggio immaginario come Corto Maltese, ma a San Servolo mi sono ritrovato ad ascoltare voci lontane e assolutamente ‘diverse’ con lo stesso principio di incontro e ascolto rispettoso che avevo vissuto vagabondando sulle tracce di quel marinaio prattiano che ho sempre definito come un apritore di porte.

Ho seguito quel principio e quelle porte mi hanno portato in un mondo sorprendente, forse è per questo motivo che ho sentito la necessità con La nave dei folli di immaginare una fuga da quell’isola in una sorta di viaggio esistenziale verso la luce.»

Tutto il tuo lavoro di scrittura è apertamente inattuale rispetto alle mode e ai canoni della narrativa contemporanea, così impegnati a perdere la partita contro l’intrattenimento, mentre i tuoi romanzi recuperano un ruolo ‘esemplare’ della letteratura, quando questa era ancora interessata a fornire delle risposte intorno alla questione dell’umano in generale. È una condizione che ritieni necessaria o è un’evoluzione naturale di te stesso e del tuo lavoro?

M.S «Direi entrambe le cose, ritengo sia una condizione assolutamente necessaria in particolare in questo momento di evoluzione della mia vita e della mia scrittura. Ci sono diversi tipi di scrittura possibile: da una parte ci sono le storie lineari, cioè quelle che si leggono piacevolmente, con interesse, storie che scorrono davanti ai nostri occhi e descrivono realtà che conosciamo e che magari vorremmo approfondire nei dettagli. In questo ambito, i livelli di scrittura possono essere stilisticamente più o meno semplici o eleganti, in ogni caso le parole scritte sulle pagine scorrono davanti ai nostri occhi, coinvolgono la nostra attenzione, ma restano lì, distanti; sono righe di un libro che una volta letto rimarranno rinchiuse in quel blocco di carta.

Da un’altra parte ci sono storie che definirei a spirale cioè quelle che ci fanno entrare, anzi, ci spingono a precipitare in universi sconosciuti, insomma storie che allontanandoci dalla cosiddetta realtà si aprono a un nuovo orizzonte. Sono storie che ci aiutano a mollare gli ormeggi di un porto sicuro per avventurarci verso mari lontani e nuove isole da scoprire o, perfino, da inventare.

Questo secondo è il mondo letterario nel quale mi piace vagabondare come fosse un vero viaggio di scoperta, sarà anche inattuale, come tu lo definisci, ma è un mondo libero e lontano dalle solite rotte. Questo allontanamento però non vuole essere una fuga dal reale, ma un tentativo di distacco per osservare e capire la realtà da un’altra prospettiva per poi parteciparne in maniera più profonda.

Ecco cosa intendo per viaggio fisico e mentale, un’altra possibilità, un respiro di libertà.

La libertà…

è la possibilità di dubitare, la possibilità di sbagliare, la possibilità di cercare, di sperimentare, di dire NO a una qualsiasi autorità, letteraria, artistica, filosofica, religiosa, sociale, e anche politica, diceva Ignazio Silone.

Ecco, a questo punto, posso dire che ho fatto tanti viaggi e scritto tutti i miei libri seguendo questa filosofia, con Corto Maltese e senza di lui, adesso sono pronto ai prossimi.»

Ti ringrazio per il tempo e l’attenzione che hai voluto dedicarmi; da quanto detto credo che meglio si potrà cogliere la presenza del termine letteratura nel titolo, in un momento e in un contesto in cui si cerca di trovare un genere di narrativa a cui corrisponde una sezione di mercato, quest’idea di letteratura sembra quasi rivoluzionaria. 

Non è casuale che in un breve dialogo come questo siano emersi autori che hanno fatto la storia della letteratura e che ti sono compagni ed esempio nelle articolazioni del tuo lavoro. Ricorrono, nel tuo dire, parole come il viaggio, il fantastico, il possibile, l’esotico e il nome di quel libero marinaio da cui sei partito, credo che questi temi e parole ti saranno ancora corrispondenti.

Nel ringraziarti non mi resta che augurarti buona scrittura!

Fiori vivi ringrazia:

Marco Steiner scrittore, narratore, viaggiatore. Per la sua produzione, non solo letteraria, rimandiamo al suo sito http://www.marcosteiner.it/

Emiliano Ventura saggista, scrittore e filosofo. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo David Foster Wallace. La cometa che passa rasoterra, Elemento115 2019, Giordano Bruno. Tempo di non essere, Aracne 2021, Catilina. Il mio nome è legione, Efesto edizioni 2022.

La seduzione del falso. Intervista a Emiliano Ventura

di Claudio O. Menafra

Senti, Filocle,

mi sai dire qual è mai la molla che scatena in tanta gente un’attrazione per il falso così forte,

che ci godono a non dire nulla di sensato, e,

addirittura, più uno racconta un’assurdità, più gli danno retta.

Luciano di Samosata

In occasione della presentazione del libro di Emiliano Ventura la Cattiva Moneta. Un ragionamento sul falso, Claudio O. Menafra ha discusso con l’autore sul concetto di falso, sollevando questioni filosofiche e letterarie.

Questo saggio non vuole essere una storia del falso, cosa in se contraddittoria, ma un ragionamento filosofico su di esso.

Qual è la gestazione del tuo libro, Emiliano? O meglio: come nasce il desiderio in un filosofo che, per definizione, – etimologicamente parlando – ‘ama il vero’, di dirottare le sue ricerche verso il falso?

Che si possa, in qualche modo, raggiungere la verità per mezzo del suo contrario, quasi come una teologia negativa?

E.V «Non è facile rispondere a questa domanda, sicuramente ai filosofi a volte piace presentare in negativo gli argomenti, anche perché la doppia negazione ha il pregio di ricondurre al positivo e spesso è una meravigliosa via di fuga, almeno da certe argomentazioni. La gestazione di un libro è sempre lunga ed enigmatica all’autore stesso, diciamo che la lunga frequentazione con la logica mi ha sensibilizzato contro la retorica, oggi la trovo insopportabile, visto che il falso si nutre spesso di retorica ho cercato di capire i motivi di questo suo spudorato successo. Ecco direi che è stata la curiosità verso il successo del falso a spingermi a questa ricerca.»

Perché la metafora della falsa moneta e qual è la sua origine?

Mi spiego: una falsa moneta nasce perché ne esiste una originale, oppure ha uno statuto ontologico a sé?

E.V «È la legge di Gresham (Thomas Gresham, mercante e banchiere inglese del XVI sec.) secondo cui la cattiva moneta scaccia la buona moneta. Mi sembrava la metafora migliore per suggerire la dinamica tra vero e falso. Se abbiamo tra le mani una banconota in pessime condizioni e una nuova di zecca, noi cerchiamo di spacciare prima quella rovinata, così come il falso, si spaccia molto più facilmente e velocemente del vero.»

Mi piacerebbe ora ripartire da qualche delucidazione tassonomica: in che rapporto stanno i termini: originale, falso e copia?

E.V «Originale e falso sono due categorie. È stato però il falso a far nascere la nozione di originale, ed è un concetto moderno, rinascimentale. Il medioevo e l’antichità greco-romana non conosceva il concetto di originale o di unicità, la bravura dell’artigiano consisteva nel copiare un modello nel miglior modo possibile, non cercava l’originalità ma l’imitazione perfetta. Solo nella modernità, con lo sviluppo dell’arte e la rivoluzione del concetto di artigiano e artista, si è sentita la necessità di attestare la paternità di un’opera per difendersi da falsari o attribuzioni improprie, (qui poi entra in gioco anche un contesto economico molto più florido). Per cui è stato il falso a stabilire l’originale.

Per quanto riguarda le copie, i plagi, le contraffazioni, i simulacri, questi sono tutti concetti inseriti nella macro categoria del falso.»

Ora, scendiamo un po’ nel dettaglio della tua riflessione. Nel tuo libro lasci intendere chiaramente che il falso è più seducente del vero perché ‘avvera’ i pregiudizi, trova il suo fondamento in un contesto di credenze già fornito, risponde a delle idee sotterranee che aspettano solo di essere (ri)evocate – penso ad esempio ai protocolli di Sion. Il vero, invece, di solito scardina e disorienta, e per questo infastidisce.

Può anche essere uno dei motivi per cui il filosofo ha da sempre avuto vita difficile nelle società?

E.V «La filosofia e il filosofo hanno fin da subito una natura agonistica, conflittuale. Il logos si contrappone immediatamente al mythos, poi ci saranno i conflitti con i vari regimi politici, che siano tirannie o democrazie poco importa, la relazione sarà sempre agonistica, gli esempi di Socrate, Seneca, Boezio, Bruno non fanno che confermare questa natura agonica.

Il filosofo inglese Simon Critchley lo ha affermato chiaramente la maggior parte dei filosofi sono stati uccisi o hanno corso il rischio di esserlo.

Detto questo, per rispondere al tuo primo quesito, ribadisco che il falso ha un successo spudorato perché conferma i nostri pregiudizi, o conferma una tradizione orale secolare alla quale tutti credono ma che però è falsa o non dimostrabile.

Il vero al contrario è spiazzante, confuta i pregiudizi, costringe a cambiare idea, teoria, abitudine. Pensa alla difficoltà di passare da una visione del cosmo geocentrica a una eliocentrica, è stato un passaggio lento e non privo di eventi dolorosi. I protocolli di Sion (n.d.r il falso documentale creato dalla polizia segreta zarista nel XX sec. col chiaro intento di diffondere l’odio verso gli ebrei nell’Impero russo.) sono emblematici in questo, un documento falso, apertamente falso e già dimostrato dal ‘Times’ di Londra, viene creduto vero perché confermava il pregiudizio di un complotto ebraico nell’Europa del primo Novecento.»

Se diamo per vera la definizione nietzschiana per cui non esistono fatti, ma solo interpretazioni, allora si può dire – estremizzando, come piace ai filosofi del sospetto – che il falso è in un certo senso connaturato all’uomo? Che gli è più congeniale del vero, quasi biologicamente parlando? Se non possiamo vedere i fatti nudi e crudi, allora siamo in un certo senso già predisposti alla distorsione

E.V «Leonardo Da Vinci diceva che la nostra mente ha la bugia come quinto elemento, tanto il falso è connaturato al nostro modo di percepire e dare un senso alle cose. Anche le neuroscienze hanno dimostrato che spesso i ricordi sono falsati, la mente copre gli inevitabili ‘buchi’ con immagini o fatti incongruenti, avvenuti prima o dopo un certo fatto.

La cosa interessante è che ci sono dei falsi ricordi che ci accompagnano per anni e che sono funzionali, svolgono una funzione significante che può essere anche positiva, in altri casi può essere negativa ovviamente, ciò non toglie che un falso ricordo agisce e modifica il nostro comportamento.

Lo studioso di neuroetica Neil Levy, afferma che una dose di incongruenza (falsità) nelle narrazioni di noi stessi non è compromettente per un sano sviluppo.»

Puoi raccontarmi il falso che fra tutti ti ha stupito per l’enorme presa che ha avuto sulle coscienze? Il falso che ha saputo, in sostanza, sostituirsi alla verità tanto da annientarla.

E.V «Sicuramente la Donazione di Costantino, (Costitutum Costantin) il documento medievale redatto attorno al VII o VIII secolo d.C., la falsità venne affermata già dal cardinale diacono Giovanni dalle dita mozze che lo svela all’imperatore Ottone III nel X secolo. Nonostante questa dichiarazione il falso documento è stato creduto vero fino alla confutazione filologica di Lorenzo Valla (De falso credita et ementita Costantini donatione) nel XVI secolo, e oltre. Tutta la politica delle monarchie europee e dei pontefici è stata condizionata da questo falso documento, che ricordo attestava la superiorità del potere papale su quello imperiale. Una superiorità basata su un documento falso. Questa è la forza del falso, la sua capacità di creare un dominio di verità che agisce realmente e condiziona azioni. Una copia, o un plagio, non ha questa capacità.»

Questa ‘predisposizione’ dell’uomo rispetto al falso, e quindi alla sovra-interpretazione del reale, è anche il motivo del grande successo della letteratura attraverso i secoli?

Di fatto, la letteratura si differenzia dalla cronaca perché crea un universo parallelo, autonomo, indipendente, ma fittizio, non-vero, in una parola: falso.

E.V «La letteratura non ha pretese di verità storiche e non è essa stessa una cronaca, o almeno non lo sarebbe senza perdere la sua cifra più autentica, ovvero la possibilità di tentare di rispondere al problema fondamentale di capire cosa sia un essere umano; come agisce, come pensa, ama, sogna e via dicendo. Questo è sempre stato il suo compito, almeno fino alla nascita delle scienze come la psicologia, l’economia, l’etnologia.

Tali ambito del sapere hanno poi assunte il compito di definire in maniera scientifica il problema uomo e del suo ambiente di vita. La letteratura, pur non essendo una scienza esatta, ha svolto un ruolo esemplare di conoscenza dell’uomo, usando spesso strumenti o argomenti fantastici o mitici, il che non toglie valore al suo modo di essere. Inoltre, se pensiamo alla lingua inglese, la letteratura è fiction, finzione e la saggistica è non fiction

Il falso può insinuarsi ovunque mi sembra di capire: anche nell’empirismo induttivo della scienza? Pensi che questo sia un pericolo concreto?

E.V «Assolutamente sì. Il falso ci tiranneggia partendo dall’esperienza personale. Pensa di nuovo alla teoria cosmologica geocentrica, l’esperienza diretta ci mostra ogni giorno che il sole si muove, sorge e tramonta, così la luna, mentre in realtà siamo noi a muoverci, e la luna, mentre il sole resta fermo. Il falso ci tiranneggia, è spudorato.»

Un’ultima domanda, in cui vorrei chiamare in causa un tema a te caro, di cui hai discusso ampiamente anche in altri libri e che rappresenta un po’ una delle pietre dello stagno intorno alla quale ruota la carpa del tuo pensiero – per usare un’immagine zolliana – e cioè il concetto di pharmakon.

Qual è il pharmakon per il falso? E soprattutto, abbiamo bisogno di un pharmakon?

E.V «Per il falso non vi è un pharmakon, è esso stesso pharmakon nel senso dell’ambiguità del significato, può essere sia rimedio che veleno. Il falso non è eliminabile dalla nostra capacità di cogliere il reale né di argomentare o di conoscere, possiamo solo essere sempre migliori e più professionali nelle nostre capacità di riconoscerlo, ma non potremmo mai sconfiggerlo. Il falso distrugge carriere o le costruisce, ci costringe a non abbassare mai la guardia ma dobbiamo essere consapevoli che spesso sbagliamo e sbaglieremo nel riconoscerlo o non riconoscerlo. Noi possiamo solo cercare di sbagliare il meno possibile.»

Fiori vivi ringrazia

Claudio O. Menafra: linguista, articolista ed insegnante di letterature straniere. Collabora con diversi giornali e riviste, compensando la cronaca con la terza pagina e seguendo le principali uscite letterarie contemporanee, con recensioni e saggi.

Emiliano Ventura: saggista, scrittore e filosofo. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Il mito di Diana e Atteone in Ovidio, Arbor Sapientiae 2018, Mario Luzi. La poesia in teatro, Scienze e Lettere 2010, David Foster Wallace. La cometa che passa rasoterra, Elemento115 2019, Giordano Bruno. Tempo di non essere, Aracne 2021.

La libreria le Storie www.lestorie.it per aver ospitato la tavola rotonda sul Falso e cattiva moneta

Reflex en voyage. Vernissage di Francesca Consoli

di Gilda Y. Diotallevi

In occasione della mostra fotografica dell’artista Francesca Consoli abbiamo discusso sul valore della fotografia di viaggio. Lo spunto ci è stato fornito da questo lavoro della Consoli che, in tredici scatti, esplora la questione della memoria e del viaggio stesso.

Reflex en voyage, titolo dell’intero progetto, rappresenta un manifesto esemplificativo su passione e metodo. Le differenti tecniche fotografiche sperimentate negli scatti sono funzionali al ricordo, al risveglio di una memoria che da privata diventa essenzialmente una testimonianza condivisa.

La fotografia di viaggio, dalla sua nascita fino a oggi, ha subito profondi cambiamenti non solo riguardo l’aspetto tecnico-scientifico ma anche per ciò che concerne il suo scopo. Nata per assolvere a una funzione documentale, capace di riproporre la natura così com’era senza cioè l’apporto dell’artista che la ritraeva, finisce oggi per essere tramite di un ricordo privato. La sua vocazione iniziale si diluisce attraverso la facilità di scattare e riprodurre immagini. Sembra così che la sua natura venga minata dall’interno e che a prendere il sopravvento sia la moda del viaggio, del presenzialismo, piuttosto che l’unicità e la straordinarietà.

La domanda che vorrei perciò porle Francesca è se oggi sia ancora possibile che una foto trattenga in se stessa sia l’elemento documentaristico che quello dell’impressione personale oppure se questo tragitto della fotografia l’abbia completamente snaturata. Se cioè la foto di viaggio sia ancora capace di trattenere in se stessa quella allure iniziale, quel gusto per l’esotico che pare, anche in correlazione con la nascita del digitale e della riproduzione immediata di scatti, essersi esautorata.

FC: «Se penso alla storia della fotografia di viaggio dai suoi albori certamente sembra essersi snaturata. L’avvento del digitale ha infatti ancor più facilitato un proliferare infinito di fotografie e fotografi che non necessariamente però deve essere visto con negatività. Tutto è diventato più facile, si è persa quella dimensione elitaria iniziale ma allo stesso tempo tutto è diventato ancor più fruibile e con maggiore facilità veicola passione e curiosità. Anche il fatto che sia aumentata, nel tempo, la possibilità di viaggiare ha influito sul cambiamento, anzi sono certa che vada di pari passo. Man mano poi che la tecnologia si è evoluta, si è alleggerita, la fotografia in generale, quindi anche quella di viaggio, è diventata qualcosa di molto più fruibile. 

Oggi si viaggia per piacere, per lavoro, come esperienza culturale, gastronomica con una facilità e accessibilità economica che prima non era pensabile. Ciò permette alle persone di riconoscersi con maggiore facilità nel proprio, di portare a casa ricordi di una precisa esperienza.

Le mie fotografie sono in realtà anche il frutto di questo. In ogni scatto che ho esposto, è come se avessi una madeleine proustiana, perché attraverso la vista di una foto ricordo tutte quelle emozioni, tutti quei profumi, quei momenti che ho vissuto in quel viaggio. Non solo in quella singola fotografia ma in quel viaggio.

Forse anche perché ho tutto il pensiero come racchiuso in un piccolo quadro. Ho una visione del mondo a riquadri e non soltanto quando sono in viaggio ma anche quando cammino, vivo, anche questa sera vedo voi già in foto, pronti al taglio giusto dell’immagine. Mi viene spontaneo, ancor più quando sono in giro con la macchina fotografica che mi permette fattualmente di riproporlo.»

Quindi potremmo sostenere che se da un lato è innegabile che un certo cambio di natura vi sia stato, dall’altro esso stesso è stato l’artefice della creazione di un mondo alternativo.

FC: «È esattamente così. Se l’originale essenza della fotografia di viaggio si è snaturata, questa stessa stortura ha permesso a noi di arricchirci. Ci ha donato qualcosa, ha reso le persone capaci di una condivisione prima inimmaginabile, ci ha avvicinati nel privato, tramite la passione stessa.»

Questa sera lei presenta 13 scatti, ma sarebbero potuti essere altri e di numero molto superiore. Perché proprio questi? Credo la domanda sottesa sia in realtà un’altra, ovvero perché una foto crei un certo interesse e un’altra no. Vorrei riportare un passo di Roland Barthes che, nel testo ‘La camera chiara’, si occupa proprio di questo problema.

«Perché una certa foto crea un interesse? […] è piuttosto un’agitazione interiore, una festa, un lavorio se vogliamo, la pressione dell’indicibile che vuole esprimersi. E allora? Chiamarla interesse è poco. […] allora vorrei sapere che cosa, in quella foto, fa fare tilt dentro di me. Mi pareva che la parola più giusta per   designare l’attrattiva che certe foto esercitano su di me fosse la parola avventura. La tale foto mi avviene, la talaltra no. (pp. 20-21)»

E ancora.

«[…] i due elementi, la cui copresenza sembrava fondare quella specie di particolare interesse che io avevo per quelle fotografie» consistevano, secondo Barthes, l’uno nello studium, ovvero il campo d’interesse, l’altro nel punctum, ovvero in quell’elemento che viene a infrangere (o a scandire) lo studium. «[…] in questo caso non sono io che vado in cerca di lui ma è lui che, partendo dalla scena, come una freccia, mi trafigge. […] infatti il punctum è anche: puntura, piccolo buco, macchilona, piccolo taglio. Il punctum di una fotografia è quella fatalità che, in essa, mi punge, ma anche mi ferisce, mi ghermisce. (pp. 27-28)»

Quindi, una volta stabilito la fotografia di viaggio come suo studium, come cioè ristretto campo di un sapere, che cosa l’ha ferita al punto far cadere la sua scelta su alcuni scatti?

FC «Quando mi sono trovata a dover scegliere ho individuato un filo conduttore. Il colore. Mi sono sorpresa da sola, perché nel momento della scelta, che mi sembrava complessa, posavo di più lo sguardo su alcuni scatti che avevano o esplosioni di colori o un bianco e nero più freddo, con maggiore contrasto. Stavo scegliendo irrazionalmente forse, ma avevo trovato un criterio.

L’essere colpita da qualcosa è raro, ma quando accade è come se ciò che avrei voluto fare si condensasse in un punto. E quel punto rappresenta esattamente come io vedo città e luoghi. Faccio un esempio. Il quadro intitolato Pietralata, che ritrae appunto il medesimo luogo, ovvero un posto che pare diventato una città a se stante e che mi ha trasmesso il senso della duplicità. Da un lato infatti era ancora viva la decadenza, ma dall’altra c’era il contrasto con alcune baracche circondate da tantissimi locali moderni, da luci e suoni.  Cercavo qualcosa che mi colpisse in tal senso e credo di averla trovata. Mentre perciò la foto che ritrae Trastevere potrebbe riferirsi alla Roma di tanti angoli differenti, questa foto indica solo Pietralata, solo quel luogo capace di coniugare insieme modernità e degrado.»

Visto che ha citato proprio questo scatto, vuole parlarcene di più?

FC «Lo scatto intitolato appunto Pietralata, è quello che forse assomiglia di più a un quadro. Una insegna caduta per il maltempo e comunque mai riparata. I suoi frammenti, così tanto luminosi, mi hanno fatto vedere qualcosa. Quella era per me Pietralata, i frammenti di luce nel nero della strada, nella povere della pioggia. I pezzi si trovano da soli così, così ha fermato quella casualità che sembrava racchiude il tutto.»  

Pietralata

Lei ha citato il rapporto con la pittura. In realtà la fotografia, come ha perfettamente premesso, non può essere trattata alla stregua della pittura, che vive di tecniche e di parametri già consolidati nel tempo. Nella fotografia il discorso è differente. Per tornare al testo di Barthes, che in un certo senso ci sta guidando in questa nostra discussione, il filosofo rivendica nella fotografia, rispetto alla pittura, un infra-sapere, la possibilità cioè di accedere a qualcosa. «Poiché la Fotografia è contingenza pura e poiché non può essere altro che quello […] essa consegna immediatamente quei particolari che costituiscono precisamente il materiale del sapere etnologico.  […]  La Fotografia può dirmelo, molto meglio dei ritratti dipinti. Essa mi permette di accedere a un infra-sapere». Lei Francesca si trova d’accordo con questa posizione?

FC «Non so dire esattamente cosa differenzi una foto da un quadro, ma ciò che posso asserire con certezza è che per me la macchina fotografica mi permette di esercitare una magia, di racchiudere un pensiero, una sensazione. E che, al contrario, quando osservo le foto dei grandi maestri, di chi è venuto prima di me o quando osservo le foto di mio padre (n.d.r. il grande fotografo Carlo Consoli) è come se qualcosa avvenisse in me. Vengo portata altrove.»

Pensi che la tecnica, tu hai usato in realtà tecniche diverse per questi scatti, possa attrarre l’attenzione, possa fungere da catalizzatore o sei contraria a una eccessiva manipolazione della pellicola.

FC «Per rispondere prendo ad esempio il fotoritocco che oggi ti permette di fare praticamente tutto su una foto e che però al tempo stesso può snaturare anche tutto. La pellicola riesce ancora a mostrare il suo valore. Io faccio sempre un paragone un po’ forte. Penso alla formula uno di venticinque anni fa in cui le macchine era già forti ma era il pilota a fare davvero la differenza. Così nella fotografia con la pellicola era più difficile ingannare, ciò che riuscivi a fare con lo sviluppo potevi aggiustarla con la saturazione, la luce, ma non potevi tornare indietro. La foto era lì, era quella. Non potevi migliorarla.

Adesso la formula uno è diventata tutta macchina, e la tecnologia supera le abilità del pilota. Non che il divertimento sia minore ma è diverso. Nello stesso modo il fotoritocco permette, da una singola foto, di creare l’impossibile. Aggiungere persone, cambiare ambientazione. È divertente ma non è la fotografia.

Certo, con il digitale è tutto più semplice, anche il lato della comunicazione della foto. La loro possibilità di girare è quadruplicata, ma nulla è paragonabile a toccare con mano una foto.»

Quale è, sempre che ci sia, una foto che vorrebbe fare ma che ancora non ha fatto?

FC «C’è una foto che vorrei scattare, i colori in India. Da tanto studio e colleziono libri di fotografia sull’Idia che regalano scorci e colori unici. È un viaggio che non ho fatto, nonostante abbia avuto la fortuna di viaggiare tanto nella mia vita. Sarà il mio prossimo tema di lavoro, perché c’è qualcosa di preciso che vorrei fare, è nella mia mente, ma ancora non so cosa sia.  Con me è sempre così, rimango estasiata dal Taj Mahal ma magari poi fotografo il sasso sotto il tempio che per me è simbolo del tutto.»

Dopo aver visto i quadri, alcune persone hanno rivolto a Francesca alcune domande. Ne riportiamo alcune.

Quanto conta l’improvvisazione quando scatti una foto o quanto invece ti fermi a studiare il soggetto.

FC «L’immediatezza dei miei quadri mi assomiglia. Sono istintiva. Ci sono due scuole di pensiero nella fotografia. Chi crea un set; quella foto deve essere così e crea uno spettacolo. E poi c’è chi come me improvvisa. Coglie quel momento. Posso attendere, anche molto tempo, ma non costruisco. Spero che quella fotografia rispecchi quel momento che ho intravisto. Perché in un secondo può cambiare tutto, la luce, il colore, il soggetto stesso. Esemplare in tal caso è lo scatto intitolato Madrid, a cui sono molto affezionata. Ricordo come fosse oggi quel momento. Faceva freddissimo in quella piazza in cui si era ricreata come una luce soffusa e offuscata, mia attenzione è stata rapita da una insegna rossa. Mentre la osservo è passata una ragazza con la valigia rossa. In un istante, prima ancora che riuscissi a decidere, già avevo scattato. Quella ragazza stava passando in quel momento, solo in quel momento.»

Madrid

Mentre ci siamo conosciuti prima, mi ha detto di essere poco incline alla pubblicità, al parlare e mostrare gli scatti in pubblico. Quanto la intimidisce mostrare questa parte intima.

FC «Ha ragione. Ma la mia è ritrosia, forse dovuta anche al fatto che sono una foglia d’arte e che mi sento in continuo confronto con chi è venuto prima di me. Il mio modo di guardare il mondo è tale, proprio perché sono cresciuta attraverso al fotografia, è un codice personalissimo. Non sono timida di mio, vale solo per la fotografia che ricrea perfettamente il mio mondo interiore e che quindi mi metto a nudo.»

Amsterdam

Conclusione

Per tornare alla foto di viaggio e alla evoluzione e trasformazione che questa specifica categoria della fotografia ha subito nel tempo, potremmo concludere sostenendo che l’’accessibilità al sapere e la facilità nello scatto che la tecnologia ci ha donato lasciano nelle mani dell’individuo la possibilità altissima di conoscere mondi o quella, più banale, di fotografarli solamente.

In fondo le foto banali sono quelle che non riescono a esprimere il non detto, che sprecano la grande possibilità dell’arte, quella di far venir fuori l’indicibile.

Garbatella, Roma.
Trastevere, Roma
Budapest

Città del Vaticano
Vienna
Cesenatico
Mare e plastica
Stoccolma

Ischia

Fiori vivi ringrazia:

  • Francesca Consoli per i suoi splendidi lavori.

https://www.instagram.com/fr.consoli

  • La libreria Le Storie per il suggestivo allestimento.
  • Tutti coloro che, sfidando un tardo pomeriggio di pioggia a Roma, ci hanno onorato della loro numerosa e partecipe presenza.

La mostra è ancora visitabile per tutto il mese di dicembre presso la libreria Le Storie, Via Giulio Rocco 27/39 00154 Roma https://www.lestorie.it/