R:LE STORIE D’AUTORE

La libreria indipendente Le Storie prosegue la sua rubrica letteraria in collaborazione con la rivista fiori vivi dedicando questo speciale al genere HARD-BOILED

(a cura di Gilda Yoko Diotallevi)

Con l’espressione hard-boiled si intende un genere letterario nato intorno alla fine degli anni ’20, definito dall’enciclopedia britannica come uno stile duro e poco sentimentale della scrittura poliziesca americana che ha portato un nuovo tono di realismo o naturalismo terreno nel campo della narrativa poliziesca. La narrativa  hard-boiled utilizzava sesso e violenza espliciti, sfondi urbani vividi ma spesso sordidi e dialoghi gergali e frenetici.

Sottocategoria del giallo, l’hard-boiled comincia a diffondersi grazie alla rivista «Black Mask», un pulp magazine nato intorno agli ’20, che negli anni ’30 e ’40 sarà del tutto dedicata alle crime stories e ospiterà gli autori che fecero grande questo genere. Questi ultimi rinnovano la detective story, trasportandola sull’asfalto della città, tra crimini e malavita, aggiungendo una forte dose di realismo a storie che sembravano troppo lontane dal grande pubblico.

Calzante l’espressione usata da Philip Durham in riferimento agli scrittori della «Black Mask»: The poetry of violence. (P. Durham, «Introduzione» a Raymond Chandler, Killer in the Rain, p.8)

Mentre l’impianto classico del giallo prevedeva la risoluzione dell’enigma come punto nevralgico del racconto, qui, nel poliziesco, erano i fatti a dover avvincere il lettore. Fatti reali, perlopiù di cronaca, che presentavano un mondo diverso, cupo e pericoloso, in cui la giustizia aveva ceduto il passo alla corruzione e l’etica sembrava adombrata dal potere del denaro. L’indagine vera e propria passa in secondo piano mentre l’attenzione si concentra sulla disanima di una realtà che nessuno vorrebbe vedere, di una società malata ma tenuta segretata. Scriverà Chandler, uno dei protagonisti di questo genere: «La storia ideale è quella che leggereste anche se mancasse la fine.»

Significativa la definizione che Leonardo Sciascia diede di tale evoluzione del giallo «[…] ecco arrivare dagli Stati Uniti gli investigatori privati di Los Angeles e di Chicago: ragazzi duri, con la rivoltella sotto l’ascella e pronti a tirarla fuori in un lampo; nervosi, scazzottatori, un tantino loschi e perversi. E malinconici anche, e solitari, un po’ misantropi e misogini». (L. Sciascia, Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo, p.68.)

Ma dietro questa apparente scelta stilistica si nasconde qualcosa di più profondo. Nella realtà storica di quel periodo, in pieno proibizionismo, la criminalità faceva da padrona, la polizia era spesso corrotta, la democrazia era fallace e i comuni cittadini sottostavano a ingiustizie e violenze. Questi racconti hard-boiled restituivano al lettore un senso di giustizia che era difficile trovare alla luce del giorno. 

The realist in murder writes of a world in which gangsters can rule nations and almost rule cities… where no man can walk down a dark street in safety because law and order are things we talk about but refrain from practicing. (Il realismo nell’omicidio descrive un mondo in cui i gangster governano le nazioni e le città quasi… dove nessun uomo può camminare in una strada buia sentendosi al sicuro perché la legge e l’ordine sono cose di cui parliamo, ma che non mettiamo in pratica. (R. Chandler, The Simple Art of Murder, Ballantine, New York 1977, p.236)

A contribuire al successo di tale narrativa, al cui interno reca sia esempi di alta letteratura che meri esercizi di stile, non c’è solo la capacità di avvicinarsi al semplice lettore con storie vere, ma anche l’avvento dei giornali prima e dei libri in formati tascabili poi che puntavano sulla economicità delle edizioni. Ciò modificò anche la fruizione dei testi, letti soprattutto dai pendolari mentre si recavano nelle metropoli e i luoghi di vendita degli stessi: non più solo librerie ma in «bus and train stations, soda fountains and candy stores, drug stores and newspaper kiosks» (Rabinowitz, “Social” 280).

Caratteri

Al centro di queste storie ci sono gli investigatori privati, personaggi costruiti in modo talmente vivido da essere rimasti nell’immaginario collettivo. Sono individui cinici, disillusi dalla vita e dal raggiungimento della giustizia tramite le forze dell’ordine. Vivono più in connivenza con i bassifondi che con la legge, frequentano locali notturni promiscui, bevono e hanno una vita privata sgualcita e solitaria. Al loro fianco ci sono dark lady, prostitute, donne da salvare e amare solo per qualche notte. La loro abnegazione è solo per il lavoro, che non li ripaga a sufficienza, lasciandoli spesso senza soldi e in pericolo di vita. Qualcuno suggerisce che proprio le difficoltà economiche, il senso di solitudine e frustrazione sia ciò che permise l’identificazione da parte dei lettori lower-class, di quella classe sociale post Depressione.

Gli investigatori provati sono uomini dediti alla loro missione, sono antieroi disincantati e amareggiati ma fieri nella loro integrità, che perseguono la ricerca della verità in un crinale pericoloso tra giustizia e ingiustizia. Lottano a caro prezzo, rischiando in prima persona, contro un sistema corrotto, che vede anche nella polizia una istituzione incapace di tutelare l’ordine e la sicurezza dei cittadini comuni. «A mano a mano che ci si allontana dalla seconda guerra mondiale dilaga un atteggiamento di generale sfiducia e insofferenza verso le istituzioni, la legge, l’ordine costituito che induce la pericolosa tendenza a ritenere che sia legittima la scelta di farsi giustizia da soli.» (Sciascia op.cit.) Eppure, nonostante questi protagonisti indiscussi dell’hard boiled siano uomini ai margini, anticonformisti, sono altrettanto sicuri di loro stessi, rispettati spesso sia dalla polizia che, ancor più, dai loro nemici.

Le storie sono vere, o almeno il più verosimili possibili, tratte spesso proprio dalla cronaca. Molti degli autori inoltre sono addentro a quel mondo ai margini, non nascono scrittori ma sono giornalisti di cronaca nera o sportiva nei tabloid (James M. Cain e Horace Mc-Coy), copy pubblicitari (Dashiell Hammett), o persino avvocati.

Lo stile dei racconti è semplice, con una stesura leggibile e accessibile, con uso di frasi brevi e slang preso dalla strada. I romanzi sono a forte impatto maschile, i protagonisti sono loro, gli uomini detective machisti e in parte misogini. E solo dopo ci sono le donne, vittime o carnefici, sono spesso relegate a ruoli marginali. Il realismo è d’ordine, con descrizioni dettagliate, a volte scabrose.

Anche le ambientazioni sono cupe, noir, descrivono una città metropolitana che diviene protagonista, costellata di locali notturni in cui si incontrano soggetti poco raccomandabili.

«Non era una bella città. La maggior parte dei costruttori era afflitta da manie di grandezza. All’inizio forse aveva anche funzionato. Nel corso del tempo, i fumi delle fonderie, emessi dalle ciminiere di mattoni di crudi che si levavano tetre contro le montagne a sud, avevano fatto calare su ogni cosa un sudario color giallo sporco. Il risultato era una brutta città di quarantamila abitanti dilatata in una brutta depressione tra le due brutte montagne completamente insozzate dalle miniere. Perfino il cielo era sporco, come se anche quello fosse stato vomitato dalle ciminiere delle fonderie.» (D. Hammett, Red Harvest)

La maggior parte dell’azione si svolge nella notte, in quartieri miseri, in una spirale di inquietudine suburbana, in cui la giustizia è sempre più lontana e la realtà dei fatti si complica e si disvela di volta in volta più complessa e diversa.

Autori

Nonostante siano numerosi gli scrittori appartenenti a questo genere letterario, pensiamo per esempio a James M. Cain, Dashiell Hammett, Raymond Chandler, W.R. Burnett, George Harmon Coxe, James Hadley Chase Mickey Spillane, James Crumley, Ross Macdonald Edogawa Ranpo, Matsumoto Seicho, Giorgio Scerbanenco ci limiteremo a citarne alcuni, scelti sia in vista della loro rappresentatività dell’hard-bolied, che per il tipo di libri scritti.

James M. Cain

James M. Cain (1892-1977) scrittore, giornalista e sceneggiatore statunitense, è stato un maestro del genere hard-boiled. Edmund Wilson conierà per lui la definizione «poet of the tabloid murder».  L’ispirazione per i suoi romanzi viene spesso tratta da fatti di cronaca realmente accaduti.

«[…] Double Indemnity (così come, in parte, di The Postman) risale infatti al celebre caso Snyder, del 1927, che aveva visto l’uccisione, a New York, del critico d’arte Albert Snyder per mano di due carnefici, la moglie, Ruth Snyder, e il suo amante, il venditore Judd Gray, interessati a riscattarne la polizza assicurativa di doppia indennità. Nonostante la reticenza di Cain circa il riferimento a Snyder-Gray, i debiti di Double Indemnity e The Postman – che contengono allusioni linguistiche dirette ai titoli delle cronache del caso – sono numerosi e sottili attestando la permeabilità tra la cronaca e il noir: nello specifico, tabloid quali New York Daily News, New York Daily Mirror e Evening Graphic che avevano coperto il celebre caso newyorchese forniscono a Cain uno stock di materiali e modelli narrativi– la femme fatale, il ritratto psicologico del criminale, la confessione in prima persona del killer, e un punto di vista ostinatamente fatalista – destinati a diventare la quintessenza del genere noir (Pelizzon and West 213).» (Cfr. C. Scarpino, Anni Trenta alla sbarra. Giustizia e letteratura nella Grande Depressione, Ledizioni, Milano 2016)

Dashiell Hammett

Dashiell Hammett, (1984-1961), scrittore, investigatore privato ma soprattutto caposcuola del poliziesco all’americana. L’autore stabilizza i caratteri del romanzo hard-boiled, regalandoci come protagonista dei suoi lavori un investigatore a cui si sono ispirati tutti i successivi scrittori del genere. Indimenticabili le figure di Sam Spade (Il falcone maltese) e Continental Op (Raccolto Rosso). Le vicende che narra, spesso vissute in prima persona per via del suo lavoro da investigatore, sono un modo per denunciare una America diversa da quella che si voleva mostrare, in cui la corruzione è all’ordine del giorno e il denaro strumentalizza potere e giustizia. Hammett diviene così la coscienza critica della società americana.

Raccolto rosso è una delle testimonianze più riuscite del genere hard boiled, una vera partita a scacchi tra il Continental Op e i suoi nemici. L’investigatore viene descritto come «Un piccolo uomo che tira avanti giorno per giorno attraverso il fango, il sangue, la morte e l’inganno».

Un telefono squillò nel buio. Quando ebbe suonato tre volte, le molle di un letto gemettero, le dita di una mano si mossero a tentoni sul legno, un piccolo oggetto pesante cadde con un rumore sordo su un tappeto, le molle gemettero ancora, e una voce d’uomo disse: «Pronto… Sì, con chi parlo… Morto?… Sì… Un quarto d’ora. Grazie» Un interruttore scattò e un globo bianco appeso al centro del soffitto con tre catene dorate riempì di luce la stanza.

Il falcone maltese invece, segna l’entrata in scena un investigatore entrato nell’immaginario collettivo, Samuel Spade, detto Sam, dell’Agenzia Spade & Archer.

La mascella di Samuel Spade era ossuta e pronunciata, il suo mento era una V appuntita sotto la mobile V della bocca. Le narici disegnavano un’altra V, più piccola. Aveva occhi giallo-grigi, orizzontali. Il motivo della V era ripreso dalle spesse sopracciglia che si diramavano da due rughe gemelle al di sopra del naso aquilino…Somigliava, in modo abbastanza attraente, a un diavolo biondo. […] Soltanto i suoi occhi giallo-grigi tagliavano la sua faccia con una linea orizzontale.

Inserto 1: La semplice arte del delitto

«Hammett era un asso, ma nella sua opera non c’è nulla che non si trovi, allo stato potenziale, nelle prime novelle e nei racconti di Hemingway. Eppure, per quanto ne so io, Hemingway può avere imparato qualcosa da Hammett, come Dreiser, Ring Lardner, Carl Sandburg e Sherwood Anderson (che furono grandi scrittori dell’epoca). Dubito molto che Hammett avesse deliberate mire artistiche; per me cercava semplicemente di guadagnarsi da vivere scrivendo su un argomento sul quale aveva informazioni di prima mano. Qualcosa se l’inventò, tutti gli scrittori lo fanno, ma le sue invenzioni erano sempre fondate: erano costruite su una serie di fatti reali. (…) Hammett ha tolto il delitto dal vaso di cristallo e l’ha gettato nei vicoli: non è indispensabile che vi rimanga per sempre, ma è stata una buona idea portarlo, tanto per cominciare, il più lontano possibile dal Manuale delle Buone Maniere di Emily Post, e dai suoi precetti sul come una compita debuttante deve mordicchiare un’ala di pollo. Hammett da principio, e fin quasi alla fine, scrisse per le persone che prendevano la vita di petto, aggressivamente. Queste persone non avevano paura dei lati neri dell’esistenza; erano vecchie conoscenze per loro. La violenza non li sgomentava, era ordinaria amministrazione, nel loro quartiere. Hammett restituì il delitto alla gente che lo commette per ragioni vere e solide, e non semplicemente per provvedere un cadavere ai lettori, e lo fece compiere con mezzi accessibili, non con pistole da duello intarsiate, curaro e pesci tropicali. Mise sulla carta i suoi personaggi com’erano e li fece parlare e pensare nella lingua che si usa di solito per questi scopi.
Si dice che Hammett fosse senza cuore, eppure fra i suoi romanzi, quello che preferì parlava della lunga devozione di un uomo ad un amico. Era scarno, misurato e crudo ma ripeté innumerevoli volte l’impresa che solo i più grandi autori sanno compiere: scrisse scene che avevano l’aria di non essere mai scritte prima. (…) Hammett inoltre ha dimostrato che il giallo può essere letteratura “importante”. The Maltese Falcon può essere un’opera di genio come può non esserlo, ma un’arte che è in grado di produrlo non ha, in “teoria” alcuna limitazione. Quando un romanzo poliziesco arriva ad essere così bello solo i pedanti negheranno che “potrebbe” essere ancora più bello.» (Raymond Chandler, La semplice arte del delitto.)

Rymond Chandler

Raymond Chandler (1888-1959), scrittore, grande ammiratore di Hammett, diviene l’autore simbolo del genere hard-boiled, consegnandoci forse l’ispettore privato, protagonista maschile, più iconico di sempre: Philip Marlowe. Uomo dai modi bruschi ma amante della poesia e degli scacchi, grande bevitore di Bourbon, fumatore accanito, vive da solo e relega le donne a brevi amori e incontri fugaci. Ricerca la verità a ogni costo, fino a pagarne con la propria incolumità. Marlowe, che appare per la priva volta in The Big Sleep (1939), «non ragiona deduttivamente e non dispone di un’ordinata visione del mondo: il suo è piuttosto l’atteggiamento di un malinconico pistolero che cerca di fare la cosa giusta, non senza una certa dose di cinismo, ferite e autoironia, in un mondo che non è assolutamente possibile salvare.» (E. Carta, Breve storia della letteratura gialla, cit., p. 91)

«[…] i romanzi di Chandler esprimono un esplicito atto d’accusa contro la società del benessere, contro il mito americano del successo, riproponendo al tempo stesso il classico tema de “les malheurs de la vertu et les prospérités du vice” e rovesciando uno degli assiomi della narrativa poliziesca: il delitto non paga. In realtà, afferma implicitamente lo scrittore, è l’onestà che non paga. L’onestà porta inevitabilmente al fallimento economico e all’isolamento sociale.» (F. Gozzi, Raymond Chandler e la semplice arte del delitto, «Studi Americani» (16), 355–393.). Chandler infatti sente sulla sua pelle il malessere del suo tempo, schiacciato da una realtà a cui non sente di poter appartenere.

Due curiosità: The Big Sleep nel1939 vende 18.000 copie. Quando viene ripubblicato da Avon in edizione tascabile, le tirature arrivano a 450.000 (Widdicombe 5).

Nel 1946 da questo romanzo viene tratto un film di Howard Hawks, interpretato da Humphrey Bogart che entrerà nel mito di Hollywood proprio interpretando Philipp Marlowe.

It was about eleven o’ clock in the morning, mid October, with the sun not shining and a look of hard wet rain in the clearness of the foothills. I was wearing my powder-blue suit, with dark blue shirt, tie and display handkerchief, black brogues, black wool socks with dark blue clocks on them. I was neat, clean, shaved and sober, and I didn’t care who knew it. (R. Chandler, Big Sleep, scena 1)

Inserto 2: The simple art of murder

«L’uomo che deve percorrere queste misere strade non deve essere egli stesso misero, né timoroso né sporco. Il detective di questo tipo di storia deve essere semplicemente un uomo, Lui è l’eroe, lui è tutto. Deve essere un uomo completo, un uomo comune e un uomo insolito. Lui deve essere, per usare un’espressione obsoleta, un uomo d’onore, per istinto, per necessità, senza pensarlo e senza ammetterlo. Deve essere il miglior uomo del mondo e sufficientemente uomo per ogni mondo… La storia è l’avventura di quest’uomo alla ricerca della verità, e non ci sarebbe avventure se non ci accadesse ad un uomo adatto all’avventura. Deve avere una consapevolezza tale da sbigottirti, ma questo gli appartiene per diritto, perché lui appartiene al mondo in cui vive. Se ci fossero abbastanza uomini come lui, il mondo sarebbe un posto sicuro dove vivere e non troppo noioso per viverci.» (R. Chandler, The Simple Art of Murder, p. 30.)

Il lungo addio

Nessun sentimento era quello giusto. Mi sentivo vuoto e solo come lo spazio tra le stelle. Fuori nella notte per un migliaio di crimini diversi le persone stavano morendo, venivano mutilati, sfregiati da vetri volanti, schiacciati dalle ruote delle macchine o sotto pesanti abiti. La gente veniva picchiata, rubata, strangolata, stuprata e uccisa. La gente era affamata, malata, annoiata, disperata per la solitudine, il rimorso o la paura, arrabbiata, crudele, eccitata, scossa dai singhiozzi. Una città non peggiore di altre, una città ricca, forte e piena d’orgoglio, una città perduta e ferita, piena di vuotezza. Tutto dipende da dove stai e da dove si trova il tuo posto privato. Io non ne avevo. A me non interessava. (R. Chandler, The Long Goodbye, Ballantine, New York, 1973, p. 39.)

Il grande sonno

Erano quasi le undici di una mattina di mezzo ottobre, senza sole e con una minaccia di pioggia torrenziale nell’aria troppo tersa sopra le colline. Portavo un completo azzurro polvere, con cravatta e fazzolettino blu scuro, scarpe nere e calze nere di lana, con un disegno a orologi blu scuro. Ero ordinato, pulito, ben raso e sobrio, e non me ne importava che la gente se ne accorgesse. Sembravo il figurino dell’investigatore privato elegante. Andavo a far visita a un milione di dollari. (R. Chandler, Il Grande Sonno, p.13)

Mickey Spillane

Frank Morrison Spillane, noto come Mike Spillane, (1918-2006) fu uno scrittore, sceneggiatore e fumettista americano. Se dovessimo cercare il più duro e cattivo del genere hard-boiled non potremmo non citare Mike Hammer, il suo detective e alter ego. I, the Jury (1947), pubblicato in Italia col titolo Io ti ucciderò, è un capolavoro del genere, con una dose di cinismo e violenza portata all’estremo. Il disprezzo per la legge, la consapevolezza della impossibilità di giungere a una giustizia pubblica sono evidenti già dal titolo. Sciascia, a proposito di questo libro scrisse che il libro si è «venduto in milioni di copie: il che è brutto segno» (cfr. L. Sciascia, Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo, cit., p. 70).

Edogawa Ranpo

Edogawa Ranpo 江戸川乱歩14 (1894-1965) scrittore e critico letterario giapponese, è considerato il più importante autore di gialli, in particolare della detective fiction giapponese, ma contribuisce anche allo sviluppo dell’hard boiled: nei suoi racconti troviamo tematiche nuove, quali il voyeurismo, il disturbo di personalità multipla, il sadomasochismo e l’erotismo. Pubblica spesso sulla rivista «Shinseinen», 新青年 («La nuova gioventù»), che esattamente come «Black Mask» e le altre, era destinata a un pubblico prevalentemente giovane e maschile.

Ne La lucertola nera appare il celebre Akechi Kogorō, l’investigatore simbolo di Edogawa Ranpo, ispirato a Sherlock Holmes. Alto, con sopracciglia folte, sofisticato ma eccentrico, è rispettato dalle forze di polizia di tutto il paese a tal punto che spesso viene interpellato per la risoluzione di casi particolarmente complessi. Nonostante la forte dose di crimini e criminalità, gli scritti di Rampo si caratterizzano per una venatura soprannaturale.

«Bene, miei cari lettori, quanto raccontato finora è il cosiddetto prologo della nostra storia. D’ora in poi, la scena si trasferisce a Tōkyō, dove fra poco si alzerà il sipario su uno dei più strani casi criminali di sempre.» (E. Ranpo, Il vampiro)

Matsumoto Seicho

Matsumoto Seichō 松本清張, scrittore e giornalista(1909-1992) è forse l’autore che più si avvicina al genere hard-boiled, preferendo infatti una rappresentazione realistica della società, che tra l’altro diviene il vero soggetto e la causa del crimine stesso. L’autore tratta delle problematiche più serie della società giapponese, come la corruzione, gli scandali sessuali, l’economia.

Nel 1958 pubblica il suo libro di maggior successo, Ten to sen 点と線, tradotto in italiano prima come La morte è in orario e successivamente con il titolo Tokyo Express, in cui l’ossessione per orari, linee e treni rende complessa la soluzione di un crimine efferato.

«Realismo estremo, precisione quasi maniacale. Nonostante la trama spazi attraverso tutto il Giappone, ripercorso interamente da nord a sud, Ten to sen risulta quasi claustrofobico. Vengono proposte decine di soluzioni possibili per muoversi tra i vari luoghi; tuttavia, la storia riesce facilmente a far sentire intrappolato il lettore in quel paradossale groviglio di precisione. I treni diventano simbolo del veloce e invasivo sviluppo urbano del dopoguerra giapponese. Moderni, veloci, alienanti, in un viaggio che non si ferma mai. L’impegno sociale di Matsumoto riesce qui a impregnare la detective fiction.» (Giulia Neri, Il romanzo hard boiled in Giappone: l’interpretazione di Kirino Natsuo 2018)

Guardo l’orologio. È l’una e trentasei del pomeriggio. Scorro le pagine dell’orario in cerca di una stazione che porti i numeri 13:36. Trovo la stazione di Sekiya sulla linea Echigo, il treno 122 è in arrivo. Anche ad Akune, sulla linea Kagoshima, i passeggeri stanno scendendo dal treno 139. A Hidamiyata è arrivato l’815. A Fujiu, sulla linea San’yō; a Ida, nello Shinshū; a Kusano, sulla linea Jōban; a Kitanoshiro, sulla linea Ōu; a Ōji, sulla linea Kansai: in ciascuna di queste stazioni c’è un treno fermo sui binari. E così, nel mio letto, mentre seguo con gli occhi i movimenti delle mie dita sottili, vedo, in un solo istante, i treni fermi dell’intero paese. (M. Seiko, Tokyo Express)

Giorgio Scerbanenco

Giorgio Scerbanenco (1911-1969), scrittore e giornalista di origine ucraina, può essere considerato il faro dell’hard boiled all’italiana. Di se stesso e della propria letteratura scisse «la vita è un pozzo delle meraviglie. C’è dentro di tutto, stracci, brillanti e coltellate alla gola». Condivide con i colleghi americani una certa insoddisfazione verso un mondo moderno sempre meno privo di morale, pur non mancando nei suoi romanzi atti di coraggio e di umanità.

«[…] una delle principali caratteristiche delle opere poliziesche di Scerbanenco è proprio la complessità dei sentimenti e dei moventi umani, nonché la complessità stessa della vita di una città, Milano, che costituisce la più frequente ambientazione in seguito alla caduta del regime fascista. Una Milano fredda, feroce, corrotta, spesso sezionata acutamente attraverso gli occhi del principale eroe della narrativa di Scerbanenco, l’ex medico e investigatore Duca Lamberti», (Claudia Donin, Il romanzo poliziesco da Edgar Allan Poe ad Andrea Camilleri Il genere, le caratteristiche, la figura del detective 2022 http://hdl.handle.net/10579/21371)

C’è qualcuno che non ha ancora capito che Milano è una grande città, non hanno ancora capito il cambio di dimensioni, qualcuno continua a parlare di Milano come se finisse a Porta Venezia o come se la gente non facesse altro che mangiare panettoni o pan meino. Se uno dice Marsiglia, Chicago, Parigi, quelle sì che sono metropoli, con tanti delinquenti dentro, ma Milano no, a qualche stupido non dà la sensazione della grande città, cercano ancora quello che chiamano il colore locale, la brasera, la pesa e magari il gamba de legn. Si dimenticano che una città vicina ai due milioni di abitanti ha un tono internazionale, non locale; in una città grande come Milano, arrivano sporcaccioni da tutte le parti del mondo e pazzi, e alcolizzati, drogati, o semplicemente disperati in cerca di soldi che si fanno affittare una rivoltella, rubano una macchina e saltano sul bancone di una banca gridando: “Stendetevi tutti per terra”, come hanno sentito che si deve fare. (Traditori di tutti 1966).

Chi parla è appunto il detective Duca Lamberti, figlio di un agente di polizia, un ex medico emiliano di Parma dal trascorso burrascoso (passa tre anni in carcere per aver praticato l’eutanasia a un’anziana inferma), spesso violento (ricorda i romanzi di Spillane e il realismo di Chandler) ma con un forte senso di giustizia che lo pone in lotta contro la criminalità organizzata di Milano, svelando di quest’ultima un volto diverso da quello che eravamo abituati a conoscere.

Con i suoi colleghi americani condivide infatti la descrizione precisa delle strade di una città malata, ma anche il rendiconto preciso di imprese violente e l’uso di un linguaggio crudo, gergale, machista, a cui aggiunge ovviamente dialettismi autoctoni.

Nuovi approdi

Per concludere citiamo due autori, ma soprattutto due libri che, pur essendo posteriori rispetto all’epoca d’oro dell’hard-boiled ne richiamano le ambientazioni, lo stile o quanto meno la vocazione.

Joseph Nicholas Gores, più noto come Joe Gores (1931-2011), scrittore statunitense di gialli, che come il suo scrittore di riferimento Hammett è stato anche un investigatore privato. L’ammirazione per Hammett è tale che, non solo lo influenzerà nel suo stile di scrittura ma, nel 1975, lo spingerà a dedicargli un libro sui generis: Hammet, cacciatore di uomini. A metà tra biografia e crime story, il romanzo vede come protagonista lo stesso Dashiell Hammett. L’ambientazione e lo stile sono in puro hard-boiled.

Girando nei vicoli più sordidi e nelle topaie più malfamate della Chinatown di San Francisco, l’investigatore si accorge di aver paura e questo lato umano scoperto dopo tante avventure connota di una tragica grandezza la sua figura.

L’altro capolavoro assoluto, a detta dei fanatici del genere, è Spade&Archer: prequel de Il falcone Maltese. Il romanzo inizia infatti con le dimissioni di Sam Spade dall’agenzia di investigazioni di cui lavorava, per mettersi in proprio. La ricostruzione della San Francisco degli anni venti e l’inserimento di personaggi presenti ne Il falcone Maltese, fa di questo testo una vera perla.

James Ellroy, pseudonimo di Lee Earle Ellroy (1948), è uno scrittore statunitense. Come Gores individua in Hammett il creatore del genere hard-boiled. «Hammett è stato il nostro primo grande artista hard-boiled. Ha volgarizzato l’idioma americano e reinventato il nostro slang. È il linguaggio del disprezzo e dell’esagerazione. Hammett ha decostruito il mito del maschio di frontiera e lo ha riformulato come estraniamento urbano». (J. Ellroy)

Dalia nera, in pieno stile hard-boiled e ambientato negli anni quaranta a Hollywood, si basa su una storia di cronaca nera realmente accaduta che l’autore rielabora, aumentandone la dimensione cruda, inquieta e violenta dell’intera faccenda. La macabra fine della vita di una giovane donna, la Dalia Nera appunto, finisce per rappresentare la metafora di una Los Angeles ferita a morte.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

ELEONORA CARTA, Breve storia della letteratura gialla, Graphe.it 2019.

RAYMON CHANDLER, The Simple Art of Murder, Ballantine, New York 1977.

PHILIP DURHAM, «Introduzione» a R. Chandler, Killer in the Rain, Penguin Books 1966.

CINZIA SCARPINO, Anni Trenta alla sbarra. Giustizia e letteratura nella Grande Depressione, Ledizioni, Milano 2016.

LEONARDO SCIASCIA, Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo, Adelphi, Milano 2018.

La guerra delle coscienze, il ritorno della paura.

di Luca Tenneriello     

Come tristemente ci rendiamo conto giorno dopo giorno, i venti della guerra hanno ripreso a soffiare vigorosamente sull’Europa, oltre che sul mondo intero. Dopo quasi ottant’anni credevamo di aver arginato per sempre la minaccia della guerra nei nostri confini democratici e liberali. Invece, il quadro globale ci costringe a fare nuovamente i conti con una situazione di crisi estremamente complessa, di cui la recente pandemia da Covid-19 e poi il riacutizzarsi dirompente dei conflitti in Ucraina e in Medio Oriente sono solo gli eventi più recenti (benché più drammatici). Da oltre vent’anni – segnatamente dall’11 settembre 2001 – l’idea di pace che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento occidentale, un’idea su cui tutti noi ci siamo adagiati a livello antropologico, sociale e politico, e che è sembrata una del tutto nuova conquista del progresso razionale degli esseri umani (come in effetti è stato, per certi versi), ha iniziato pian piano a disgregarsi. La paura è dunque tornata con una forza dirompente a svegliare le nostre anime belle, e la riflessione che in più ambiti viene portata avanti mette a tema i concetti di rischio e sicurezza, percepiti come coordinate antropologiche, sociali e politiche su cui è necessario elaborare riposte per il nostro tempo.

Da più fronti ha preso piede una disinvolta invocazione alla nozione di stato di eccezione (tema filosoficamente gravido di implicazioni) per descrivere le ‘anomalie’ proprie del tempo che ci è toccato in sorte di vivere. Lo stato di eccezione (à la Carl Schmitt, per intenderci) indica un preciso istituto giuridico che sospende, sebbene temporaneamente, le garanzie costituzionali ordinariamente previste, disponendo, in modi variegati, una maggiore concentrazione di potere nelle mani dell’autorità governativa. E all’interno della classica letteratura sul rischio a sostenere questo tipo di visione è un filone di impronta giuridica e politica secondo cui l’immagine diffusa che cattura la nostra quotidianità sembra proprio essere quella di uno «stato d’eccezione permanente» giustificato dal «principio di precauzione» che viene sempre più spesso invocato nel dibattito politico su rischio, sicurezza e relazioni internazionali; a fronte di un rischio, globale o interno, percepito come prossimo, le società occidentali sono disposte, insomma, ad accettare misure autoritarie non più solo come strumenti emergenziali, ma come dispositivi strutturali (Lanzillo). Un’altra linea, più ‘esistenzialista’ se vogliamo, presenta lo stato di emergenza come minaccia per l’identità degli individui e come condizione permanente di crisi costitutiva della società contemporanea (Beck, Giddens); una versione più radicale offre invece una prospettiva esistenziale che per l’umanità risulta ormai drammaticamente ineludibile (Bostrom). Un approccio diverso, tipicamente etico e antropologico, infine, propone una lettura che inquadra il rischio quale dimensione costitutiva del consorzio umano come «forma di vita», rifiutando l’idea della minaccia esterna e valorizzando la riflessione sulla vulnerabilità, sull’ordinario e sulla cooperazione (Das, Laugier, Rechtman). Questa lettura offre delle considerazioni che situano il rischio e la crisi (e dunque la loro gestione e risoluzione) all’interno del quadro ordinario – non dunque come eccezione, in senso tecnico – della conversazione democratica. Il rischio rappresenta così una dimensione interna, costitutiva, possibile e dunque sempre latente, di un sistema politico e sociale ordinariamente stabile; insomma, come la malattia (temporanea) è fisiologicamente presente all’interno della vita generale di un corpo ordinariamente sano. Non si può essere sani sempre e per sempre, così come non lo può essere lo stato o il sistema politico e sociale che esso sottende.

Una prospettiva hobbesiana

In effetti la metafora organologica tra corpo umano e stato civile è un tópos classico nella storia del pensiero, ed è tipicamente associata, in particolare, a Thomas Hobbes e al suo grande Leviatano, personaggio leggendario che dà il titolo al suo capolavoro (1651). Nel frontespizio dell’opera infatti vediamo un grande uomo incoronato, con spada e pastorale a significare l’autorità politica ed ecclesiastica, il cui corpo è formato da tanti piccoli individui che a lui guardano. Il capo e le membra.

L’immagine rende l’idea generale del progetto hobbesiano: uno stato, regolato da norme, che vive in pace. Pace da realizzare in un quadro sociale stabile, dove tutti i cittadini possono godere di quelle che Hobbes stesso chiama «soddisfazioni della vita» (Leviatano, XXX): non solo la garanzia di avere una vita biologicamente sicura, al riparo da mani assassine (reali o metaforiche), ma soprattutto la possibilità di pianificare e conferire senso alla propria esistenza in senso ampio. Tutto ciò nonostante un’emozione cruciale, tanto a livello personale quanto a livello sociale, che in Hobbes non può essere annientata del tutto (ma può essere tenuta a bada): la paura. Lungi dall’essere un sentimento di malessere interiore per l’inesorabile fine della propria vita, la paura è propriamente la passione che accompagna l’aspettativa di essere uccisi da qualcun altro, appunto, in maniera violenta; da qui il famoso motto plautino da sempre associato al grande filosofo inglese: homo homini lupus, l’uomo è un lupo per l’altro uomo. Per Hobbes, la natura umana non è socievole, ma solitaria e ostile; per natura l’essere umano è portato alla conflittualità con i suoi simili, spinto da un insradicabile senso di costante diffidenza reciproca. Il conflitto è così una dimensione intrinseca e latente, che riguarda tutti gli individui; «a causa delle protervie dei malvagi, anche i buoni devono ricorrere, se vogliono difendersi, alla forza e all’inganno, le virtù della guerra; cioè alla ferocia delle belve» (De Cive). Eppure, la paura dell’altro e il senso di diffidenza reciproca non sono completamente neutralizzati neanche nello stato civile; l’ordine politico che il Leviatano fonda e garantisce non azzera negli esseri umani la paura di perire per mano d’altri, la natura umana insocievole resta inalterata anche nello stato civile (Hobbes sostiene, a mo’ di esempio, che nonostante ci siano leggi e funzionari pubblici capaci di punire i trasgressori, continuiamo a sbarrare le porte di casa quando andiamo a dormire, sigilliamo i nostri forzieri o ci armiamo preventivamente durante un viaggio). L’insicurezza diventa allora un problema quiescente, tenuto a bada ma sempre latente, «una sfida sempre presente all’interno dell’ordine, una crepa che ne percorre, quasi invisibile, il cristallo, una contraddizione nascosta nella sua tautologia» (Galli).

Da Hobbes impariamo che la possibilità che la pace sia contaminata dal conflitto, che l’ordine vacilli, è una questione del tutto possibile all’interno della vita politica e sociale di un sistema. E questo senza ricorrere necessariamente al concetto di minaccia esterna (che peraltro Hobbes recluta in altri casi) o di eccezione (benché uno Schmitt, per esempio, abbia esasperato Hobbes in chiave decisionista per elaborare il suo concetto di stato di eccezione). Varie, secondo il filosofo inglese, le potenziali cause di crisi; tra tutte vorrei ricordarne una, che Hobbes avverte come particolarmente minacciosa. La diffusione di «dottrine sediziose» che hanno a fondamento pretesti di ordine religioso; in altre parole, Hobbes condanna la strumentalizzazione della religione per giustificare la sedizione e la guerra. Se da un lato Hobbes riconosce alla religione un’importante valenza antropologica, che dà forma e significato alla vita di molte persone, dall’altro ne individua gli aspetti potenzialmente rischiosi per la società. E l’appello alla coscienza individuale, in nome della quale un cittadino può ritenersi in diritto di contravvenire alla legge, è certamente uno dei suoi obiettivi polemici fondamentali. Anche oggi, con ogni evidenza, l’ingresso dell’elemento religioso nelle nostre società è uno dei temi più delicati, socialmente importanti, ma al tempo stesso forieri di controversie. In questo senso, rileggere Hobbes da questa prospettiva può suggerire un ridimensionamento della coscienza individuale di una persona di fronte all’interesse di un’altra che da quella persona si aspetta, poniamo, la possibilità di accesso a un diritto – per realizzare una «vita soddisfatta», direbbe Hobbes (pensiamo per esempio alla possibilità di accedere all’aborto non terapeutico, alla possibilità di costituire un’unione civile tra persone dello stesso sesso o ad altri casi in cui l’obiezione di coscienza di un medico o di un funzionario pubblico ostacola la fruizione di un diritto legalmente costituito). In generale, l’interferenza che alcuni gruppi religiosi attuano nello spazio pubblico, tale per cui questa possa ostacolare la fruizione di diritti di persone terze che non si riconoscono in quella particolare narrazione religiosa, è ormai un fatto difficilmente giustificabile in una società governata da principi laici, democratici e pluralistici (ne parlo approfonditamente nel mio ultimo libro Thomas Hobbes. La religione e la coscienza, ETS, Pisa 2023).

Questo volume propone una lettura originale del pensiero religioso hebbesiano, attraverso l’esame della categoria morale della coscienza. Essa diventa così il terreno fecondo per sviluppare una prospettiva ermeneutica capace di gettar luce, dal punto di vista della filosofia hobbesiana, sulle problematiche più attuali riguardanti le questioni di coscienza e, più in generale, sul modo di regolare l’ingresso dell’elemento religioso nello spazio pubblico.

«Hobbes inaugura la grande stagione del soggetto moderno, un individuo non più sottoposto all’ordine metafisico della tradizione cristiana, che rivendica spazi d’azione della propria vita.»

O uomo, puoi fuggire lontano da tutto ciò che vuoi, ma non dalla tua coscienza.
Agostino d’ Ippona, Commento al Salmo 30, 63, 11.

Naturalmente, la filosofia – e quella hobbesiana in particolare – ha l’umile compito di offrire soltanto delle considerazioni teoriche che possano in qualche modo aiutare a riflette su temi complessi, la cui soluzione non è chiaramente univoca, chiara e libera da polemiche. Argomentare, offrire punti di vista, incoraggiare la libera discussione senza proporre posizioni dogmatiche è il grande obiettivo che muove la storia delle idee dalla modernità a oggi; da quando cioè l’essere umano, essere pensante, ha riacquistato la titolarità sulla propria vita, non più assoggettata all’ordine metafisico della tradizione. Un essere umano che, grazie al progresso umanistico, scientifico e democratico, riscopre la possibilità di rivendicare spazi di libertà e di azione sul proprio corpo e sulla propria vita (personale e sociale), per provare a realizzare – e ancora oggi c’è molta strada da fare in questo senso – quel sogno illuminista di una società laica, libera e democratica.

Fiori Vivi ringrazia

Luca Tenneriello dottore di ricerca in Filosofia, esperto della relazione tra religione e spazio pubblico, i suoi lavori sono apparsi su «Giornale critico della filosofia italiana» e «Notizie di Politeia». Autore di vari testi tra cui segnaliamo Thomas Hobbes. La religione e la coscienza, ETS, Pisa 2023. Ha inoltre curato: T. Hobbes, Vita di Thomas Hobbes di Malmesbury. Le due autobiografie latine (Mimesis 2022); Re Giacomo VI e I, Basilikon Doron (Arbor Sapientiae 2023).

Blaise Pascal: quattro secoli dalla nascita

di Giancarla Perotti

Quest’anno ricorre il quarto centenario della nascita di Blaise Pascal, un’occasione importante per celebrare, oltre la vita di questo grande pensatore, il suo contributo alla matematica, alla fisica, alla filosofia e alla teologia.

Una vita breve ma molto intensa quella di Pascal, che termina a soli trentanove anni a Parigi, il 19 agosto del 1662. Blaise Pascal nasce nella Francia centrale e precisamente a Clermont, il 19 giugno 1623 da Antoinette Bégon, che purtroppo muore quando lui ha solo tre anni nel 1626 e da Étienne Pascal, magistrato e matematico, molto coinvolto nell’educazione dei suoi figli, che guida nella loro formazione iniziale. Étienne in particolare è un sostenitore del talento matematico di Blaise fin dalla giovane età e incoraggia il suo interesse per la matematica e la scienza. Blaise infatti è un talento precoce, con una capacità sorprendente di analisi scientifica e già dai primi studi giovanili contribuisce alla costruzione di calcolatrici meccaniche e alla formulazione delle teorie dei fluidi. A soli sedici anni scrive un trattato di geometria proiettiva e con Pierre Fermat lavora alla teoria della probabilità, diviene allievo del celebre Marin Mersenne, amico intimo di Cartesio ed è in contatto con Galileo Galilei.

Blaise oltre a essere un eminente matematico e scienziato è anche un importante filosofo. Il suo pensiero si concentra su una serie di temi che spaziano dalla religione alla filosofia della mente, affrontando temi come la natura umana, il peccato, la grazia divina e la miseria dell’uomo senza Dio soprattutto nella sua opera Pensieri. La sua prospettiva è fortemente influenzata dalla fede cristiana e dalla sua convinzione nella limitatezza della ragione umana, che dovrebbe perciò giovarsi come complemento essenziale della fede stessa. 

Lascia diverse opere importanti, le più significative:

Essay pour les Coniques (1639) è il suo primo lavoro importante in matematica, in cui Pascal sviluppa importanti teoremi sulla geometria delle coniche.

Traités de l’équilibre des liqueurs et de la pesanteur de la masse de l’air (1653), trattato che esplora il concetto di pressione atmosferica e dimostra che la pressione diminuisce con l’altitudine.    

Pensées (1669) è la sua opera più famosa, anche se è rimasta incompiuta alla sua morte. È una raccolta di aforismi, pensieri e riflessioni su temi filosofici e teologici. In questa opera, Pascal esplora la natura umana, la fede, il peccato e la grazia, e presenta il suo famoso ragionamento sulla scommessa di Pascal riguardante la fede in Dio.

Lettres provinciales (1656-1657) è un insieme di lettere polemiche (18) in cui Pascal difende i gesuiti contro le critiche dei giansenisti, un movimento teologico all’interno della Chiesa cattolica.

De l’Esprit géométrique e De l’Art de persuader, entrambe scritte nel 1658, sono frammenti di opere in cui l’autore esplora l’arte della persuasione e il pensiero geometrico.

Traité du triangle arithmétique (1654), in questa opera introduce il triangolo aritmetico, che contiene numeri binomiali. Esso viene utilizzato in teoria delle probabilità, nonché in altre aree come nella teoria dei numeri e geometria proiettiva, rappresentando uno dei suoi contributi più noti alla matematica.

Queste opere rappresentano solo una parte del contributo estremamente variegato e significativo dell’illustre precursore dell’esistenzialismo. Le sue riflessioni su fede, ragione e natura umana hanno continuato a influenzare il pensiero filosofico e religioso fino ai giorni nostri, producendo un impatto duraturo sulla filosofia, sulla teologia e sulla matematica.

Idee chiave del pensiero di Pascal come fisico e filosofo

Scommessa della fede

Tema di natura filosofico-teologica che affronta la questione della fede in Dio. Con l’argomento della scommessa sostiene che è razionalmente meglio credere in Dio anche senza prove certe della sua esistenza, perché la possibile ricompensa di credere in Dio (l’eternità in paradiso) supera il rischio della punizione eterna nell’incredulità.

Mon coeur tend tout entier à connaître où est le vrai bien, pour le suivre; rien ne me serait trop cher pour l’éternité.

(Tutto il mio cuore tende a conoscere dove sia il vero bene, per seguirlo; niente mi sarebbe troppo caro per l’eternità.)

In altre parole l’uomo, non potendo avere la certezza razionale dell’esistenza di Dio, si trova davanti a un bivio: può scegliere di vivere come se Dio ci fosse o come se Dio non ci fosse. Pascal sviluppa l’idea che la decisione di credere in Dio o meno è simile a una scommessa. Egli sostiene che, se credi in Dio e Dio esiste, sarai ricompensato con la vita eterna, mentre se credi e Dio non esiste, non perderai nulla. D’altra parte, se non credi in Dio e Dio esiste, potresti affrontare la dannazione, mentre se non credi e Dio non esiste, non guadagnerai nulla. Pertanto, Pascal argomenta che avrebbe più senso scommettere sulla fede in Dio.

Esaminiamo allora questo punto, e diciamo: «Dio esiste o no?» Ma da qual parte inclineremo? La ragione qui non può determinare nulla: c’è di mezzo un caos infinito. All’estremità di quella distanza infinita si gioca un giuoco in cui uscirà testa o croce. Su quale delle due punterete? Secondo ragione, non potete puntare né sull’una né sull’altra; e nemmeno escludere nessuna delle due… Che cosa sceglierete, dunque? Poiché scegliere bisogna, esaminiamo quel che v’interessa meno. Avete due cose da perdere, il vero e il bene, e due cose da impegnare nel giuoco: la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la vostra beatitudine; e la vostra natura ha da fuggire due cose: l’errore e l’infelicità. La vostra ragione non patisce maggior offesa da una scelta piuttosto che dall’altra, dacché bisogna necessariamente scegliere. Ecco un punto liquidato. Ma la vostra beatitudine? Pesiamo il guadagno e la perdita, nel caso che scommettiate in favore dell’esistenza di Dio. Valutiamo questi due casi: se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, senza esitare, che egli esiste.

Misera condizione umana (il divertissement)

Il filosoforiconosce la fragilità e l’incertezza della condizione umana. Esplora il tema della sofferenza e dell’insoddisfazione umana, sottolineando che gli esseri umani spesso cercano distrazione e svago per evitare di affrontare le domande esistenziali circa la vita e il suo significato. Egli nota che l’uomo vive sempre a metà, la duplice infinità, via tra il mondo fisico e le sue aspirazioni spirituali, e riempie con i suoi divertissement l’abisso generato dall’assenza di Dio nella sua vita. La conseguenza di questo atteggiamento è l’angoscia, in quanto la ragione si rivela insufficiente a penetrare il mistero della grazia divina.

Si immagini un gran numero di uomini in catene, tutti condannati a morte, alcuni dei quali siano ogni giorno sgozzati sotto gli occhi degli altri; coloro che restano vedano la propria sorte in quella dei propri simili; e, guardandosi l’un l’altro con dolore e senza speranza, aspettino il loro turno. Questa è l’immagine della condizione umana.

Ragione e fede

Nel tentativo di conciliare la ragione e la fede, sottolinea come quest’ultima sia un complemento essenziale alla ragione.

Pur riconoscendo il valore della ragione, sottolinea che ci sono limiti intrinseci alla ragione umana quando si tratta di questioni spirituali e metafisiche. Sostiene che la fede può superare queste limitazioni razionali.

L’ultimo passo della ragione è il riconoscere che vi sono un’infinità di cose che la sorpassano. Essa è proprio debole, se non giunge fino a conoscere questo.

Due eccessi: escludere la ragione, ammettere solo la ragione.

Bisogna che la ragione si appoggi alle conoscenze del cuore e dell’istinto. È il cuore che sente dio, non la ragione. Ecco cos’è la fede: Dio è sensibile al cuore, non alla ragione.

Disprezzo per l’orgoglio intellettuale

Pascal critica l’orgoglio intellettuale e la presunzione di coloro che si affidano esclusivamente alla ragione e al pensiero razionale. Avverte che l’orgoglio può impedire alle persone di aprirsi alle verità spirituali e alla fede.

La vanità è così radicata nel cuore dell’uomo che ciascuno di noi vuole essere ammirato, perfino me che scrivo queste parole, e voi che le leggete.

L’uomo è grande poiché si riconosce miserabile. Un albero non si riconosce miserabile. Si è quindi miserabili perché ci si riconosce miserabili: ma è essere grandi riconoscere che si è miserabili.

Quel poco di essere che abbiamo ci nasconde la vista dell’infinito. La nostra intelligenza occupa nell’ordine delle cose intellegibili lo stesso grado del nostro corpo nell’estensione della natura […]. Se l’uomo studiasse se stesso per prima cosa, capirebbe quanto sia incapace di andare oltre.

Pascal è animato da una ardente vocazione cristiana, di cui porta costante testimonianza.

Pochi giorni dopo la morte del filosofo, avviene una singolare scoperta, un servitore della sua casa nota per caso che nella fodera di una sua giacca c’è, a un certo punto, come un’ingrossatura: «Scucì in quel punto, per vedere cosa fosse e vi trovò una piccola pergamena, piegata e scritta di mano dal signor Pascal; e in questa pergamena un foglio scritto dalla stessa mano. Quest’ultimo era una fedele copia del primo. Pergamena e foglio furono consegnati subito alla signora Périer (la sorella). Essa li fece esaminare da alcuni amici intimi di Pascal. Tutti furono concordi nell’affermare che questa pergamena, scritta con tanta cura, e stesa in modo così singolare, rappresentava una specie di memoriale, che egli custodiva con molta cura allo scopo di tener viva la memoria per una cosa, che voleva saper presente, in ogni tempo, ai suoi occhi e al suo spirito; così si era dato per otto anni premura di cucirla e di toglierla tutte le volte che si faceva fare un vestito nuovo.» (R. Guardini, Pascal 1935)

II foglio porta in alto una croce circondata di raggi dove è scritto:

L’ANNO DI GRAZIA 1654

Lunedì, 23 novembre, giorno di san Clemente papa e martire e di altri nel martirologio, vigilia di san Crisostomo martire e di altri, dalle dieci e mezzo circa di sera sino a circa mezzanotte e mezzo.

Fuoco.

Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei sapienti.
Certezza, Certezza. Sentimento. Gioia. Pace.
Dio di Gesù Cristo.
Deum meum et Deum vestrum.
«Il tuo Dio sarà il mio Dio».
Oblio del mondo e di tutto, fuorché di Dio.
Lo si trova soltanto per le vie insegnate dal Vangelo.
Grandezza dell’anima umana.
«Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto».
Ch’io non debba essere separato da lui in eterno.
Gioia, gioia, gioia, pianti di gioia.
Mi sono separato da lui.
Dereliquerunt me fontes aquae vivae.
«Mio Dio, mi abbandonerai?».
«Questa è la vita eterna, che essi ti riconoscano solo vero Dio e colui che tu hai mandato: Gesù Cristo».

Gesù Cristo.
Gesù Cristo.

Mi sono separato da lui; l’ho fuggito, rinnegato, crocifisso.
Che non debba mai esserne separato.
Lo si conserva soltanto per le vie insegnate dal Vangelo.
Rinuncia totale e dolce.

Sottomissione intera a Gesù Cristo e al mio direttore.
In gioia per l’eternità per un giorno di esercizio
sulla terra.
Non obliviscar sermones tuos. Amen

Il lascito

Pascal cerca la verità fin da bambino, con la ragione ne rintraccia i segni, specialmente nei campi della matematica, della geometria, della fisica e della filosofia. Fa precocemente scoperte straordinarie, tanto da diventare molto noto. In un secolo di grandi progressi in tanti campi della scienza, accompagnati da un crescente spirito di scetticismo filosofico e religioso, Blaise Pascal si mostra un infaticabile ricercatore del vero, che come tale rimane sempre inquieto, attratto da nuovi e ulteriori orizzonti.

Il lascito filosofico di Pascal è ancora vivo e stimolante, la sua grandezza è confermata, a quattrocento anni dalla nascita, dalla lettera apostolica Sublimitas et miseria hominische Papa Francesco ha voluto dedicargli, per una rinnovata riflessione sul suo pensiero. Genio da tutti ammirato, ha atteso il viatico (cioè, l’ultima Comunione) con le lacrime agli occhi e con un desiderio così struggente che colpì coloro che gli stavano accanto.

Il Dio dei cristiani non consiste in un Dio semplicemente autore delle verità geometriche e dell’ordine degli elementi […] Ma il Dio di Abramo, il Dio d’Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei cristiani, è un Dio d’amore e di consolazione; è un Dio che riempie l’animo e il cuore di coloro che egli possiede; è un Dio che fa loro sentire interiormente la loro miseria, e la sua misericordia infinita; che si unisce nel fondo della loro anima; che la riempie di umiltà, di gioia, di fiducia, di amore; che li rende incapaci di altro fine che lui stesso.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

BLAISE PASCAL, Pensieri, BUR, Milano 2023.

ROMANO GUARDINI, Pascal, Morcelliana, Brescia 2002.

https://disf.org/guardini-fede-ragione-pascal

Fiori vivi ringrazia:

Giancarla Perotti, filosofa, scrittrice (ricordiamo il suo Amore e Giustizia nel pensiero di Jacques Maritain, Il Cerchio, Rimini 2009), fondatrice e coordinatrice del Centro Ricerche Personaliste Raïssa e Jacques Maritain (Acquaviva Picena, Ascoli Piceno).

Alberi sacri e legno della Croce

di Gilda Diotallevi

Il legame tra le divinità e gli alberi sacri è noto da sempre. Nella mitologia dei Greci, dei Romani, dei Celti e di altri popoli, numerose erano le specie di alberi sacri o comunque in qualche modo collegati al culto delle divinità.
Altman, 1994

In realtà in passato l’uomo, che viveva all’unisono con la natura, dipendeva anche da alberi e piante per la sua stessa sopravvivenza: erano fonte di sostentamento, di luce, di calore e di cura contro le malattie. Proprio agli alberi, che finivano per essere assimilati alle divinità stesse, sono stati attribuiti numerosi poteri, anche e soprattutto di natura mistica.

Tale legame ancestrale tra alberi e dei, trasversale nel tempo e nello spazio alle diverse confessioni religiose e afferente comunque a una dimensione sacrale, è ben presente anche nella religione cristiana. Nella Genesi leggiamo Poi il Signore Iddio piantò un giardino a Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva modellato. Il Signore Iddio fece spuntare dal suolo ogni sorta di alberi piacevoli all’aspetto e buoni a mangiare e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male.  Inoltre l’albero descritto nella Genesi (3,17-24), che Dio pose a oriente del giardino dell’Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all’albero della vita, è lo stesso descritto anche nell’ultimo capitolo dell’Apocalisse (22,2) In mezzo alla piazza della città e al fiume, di qua e di là, ci sono degli albero di vita che producono dodici raccolti, dando ogni mese il suo frutto; e le foglie dell’albero sono destinate a guarire le nazioni.

L’albero della vita è un simbolo universale, presente in molte culture arcaiche, religioni, mitologie e filosofie ognuna delle quali gli attribuisce significati magici e mistici. La sua forza è rappresentata dalla capacità di collegare le tre dimensioni spazio-esistenziali fondamentali: il mondo degli inferi (le radici sotto terra), la terra come mondo umano (il tronco) e il cielo (la chioma che si innalza e si apre verso l’alto).

Esiste un rapporto misterioso che unisce tale albero della vita alla Croce di Cristo, tanto da aver assunto nell’iconografia cristiana una sovrapposizione: la croce viene infatti raffigurata come albero e, al tempo stesso, è composta da alberi sacri.

La Leggenda aurea

Jacopo da Varagine, frate domenicano, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del XIII secolo pubblica la Legenda aurea (o Legenda sanctorum), una raccolta di biografie di santi. I capitoli LXIV e LXV sono dedicati al De invenctione sanctae crucis (Il ritrovamento della Santa Croce) e all’Exaltatione sanctae crucis (l’Esaltazione della Croce) e descrivono le origini del legno con cui poi sarà fabbricata la Croce di Cristo.

Set, il figlio di Adamo, vedendo il padre gravemente malato si reca presso la porta del Paradiso per chiedere l’olio del legno della misericordia, con il quale pensava di guarire il padre. Gli apparve l’arcangelo Michele che invece gli consegnò alcuni semi che gli ordinò di piantare sul monte Libano, specificando che Adamo non si sarebbe ripreso se non prima di parecchie migliaia di anni. Tale attesa è da collegare proprio alla redenzione dell’umanità dal peccato originale che sarebbe avvenuta solo tramite il sacrificio di Cristo. I semi piantati da Set, che apparterrebbero infatti all’albero da cui fu colto il frutto proibito, diventeranno l’albero da cui sarà fatta la croce. «La parte traversa era di cipresso, il pezzo per poggiare i piedi di palma e l’iscrizione di ulivo», riferisce Wall.

Quando Set torna a casa però Abramo è già morto e decide di piantare i semi sulla sua tomba. Secondo Origine, scrittore cristiano del III sec, il Golgota sorgeva proprio sulla tomba di Abramo. Molte raffigurazioni medievali della Crocifissione mostrano per l’appunto un teschio al di sotto della croce di Cristo.

Molto tempo dopo il re Salomone decide di utilizzare quello stesso albero per la costruzione del Tempio di Gerusalemme ma, impossibilitato ad adattarlo, lo usa come ponte per i passanti. Proprio qui la regina di Saba prima di attraversare il ponte ebbe una visione della figura di Cristo crocifisso e si rifiutò di calpestare quel legno.

A quel punto Salomone decise di eliminare l’albero sotterrandolo, passò altro tempo e nello stesso luogo fu costruita una piscina probatica, utilizzata dai Nabetei per immergere e guarire gli ammalati. Quando infine si approssimava l’ora della morte di Cristo il legno riemerse dall’acqua e fu usato per la costruzione della croce.

La storia si incentra poi su Elena, madre di Costantino, inviata da quest’ultimo alla ricerca della Croce ormai dispersa. Quando ella riuscì infine a sapere dove scavare per ritrovarla, da quel luogo si propagò un fumo di spezie e un odore meraviglioso. Trovarono però sepolte tre croci, l’unica che riuscì a far resuscitare un giovane moribondo indicò quale fosse la croce di Cristo.

La reliquia di questa croce, portata in Italia da Elena, viene conservata oggi nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme.

La versione della storia della croce non è la sola, ma è la risultanza di una serie di testi e tradizioni ancora anteriori.

Il legno della croce

La leggenda di Seth, di cui abbiano parlato, si intreccia infatti con quella del legno della croce andando a formarne una ancora più complessa che nel tardo medioevo, a partire dal XII sec., ebbe una grande diffusione. Tanto è vero che essa ci giunge in narrazioni di tutte le lingue parlate dai popoli cristiani e in numerosissime versioni.

Quasi tutte le leggende intorno al legno della croce lo fanno discendere dallo stesso giardino in cui era stato commesso il peccato originale. (Gn 2,9) «Una tradizione greca narra che […] un ramo dell’albero nel cui frutto peccò Adamo, fu trasportato a Gerusalemme; e ne sorse un grand’albero, donde fu fatta la croce. Altri dicono che Adamo stesso portò seco dal paradiso un frutto o un rampollo dell’albero. Secondo una terza versione Dio dopo il peccato svelse l’albero e lo gittò di là dal muro del paradiso. Mille anni più tardi Abramo lo trovò e lo piantò nel suo giardino. Un Angelo (o Dio stesso) gli annuncia che su di esso dio (egli) verrà crocifisso.» (Mussafia, Sulla leggenda del legno della croce, pp. 165-167)

Delle molteplice versioni di questa storia, intrecciata ad altrettante versioni della vicenda di Seth mandato dal padre al Paradiso terrestre per procacciarsi l’olio misericordioso, Arturo Graf, nel suo Miti, Leggende e superstizioni del medioevo, riporta un racconto latino, anteriore al XIII sec., in cui la leggenda appare nella sua pienezza, dandoci così indicazioni ancora più precise sui tipi di semi e di alberi di cui si discute. «L’angelo […] gli porge tre granella del pomo fatale onde mangiarono i genitori. (In altre versioni invece l’angelo dà a Seth un ramoscello dell’albero della scienza.)

 […] Seth pone sotto la lingua (di Adamo) i tre semi […] (da cui) nascono tre virgulti, di cedro il primo, di cipresso il secondo, di pino il terzo. […] Mille anni stanno le verghe in quel luogo, sino a che Davide, per avvertimento del cielo, le viene a levare e le porta a Gerusalemme, dove, poste in una cisterna, metton radice e si uniscono in un’unica pianta».

Simbolicamente i tre alberi, il cedro (ovvero il Padre), il cipresso (il Figlio che deve morire) e un pino o la palma (lo Spirito Santo), intrecciati insieme formeranno l’immagine della Trinità. C’è una lunga tradizione per la quale la croce sarebbe stata fatta di legni diversi – in genere tre, in onore proprio della Trinità, ma a volte anche di più. “Un’antica leggenda dice che la Croce era fatta da alberi sacri, ovvero dalla ‘Palma della Vittoria’, dal ‘Cedro dell’Incorruttibilità’ e dall’ ‘Ulivo per l’Unzione Reale e Sacerdotale’.

Gofredo da Viterbo, invece delle vicende di Seth, narra di Jonito, figlio di Noè, che chiede di poter ammirare con i suoi occhi la bellezza del Paradiso terrestre. Ottenuta questa concessione, riporta da quel luogo tre virgulti di abete, di palma e di cipresso, i quali piantati separatamente, si congiungono in un solo albero, che ha colori e forma delle foglie diverse, a simbolo della Trinità. Da esso sarà fatta la croce.

«Il legno della croce fu fatto derivare di solito dall’albero della scienza del bene e del male, ma talvolta ancora dall’albero della vita, o da un altro albero paradisiaco, detto della salute. Secondo una tradizione siriaca la croce fu fatta del legno di un albero che da indi in poi non cessò più di tremare, la tremula. […] Stando ad altre immaginazioni, la croce fu veramente formata di quattro legni differenti, palma, cedro, cipresso, olivo; oppure tre, cedro, cipresso, pino: palma, cipresso, abete.» (A. Graf, op.cit., p.108) Quanto al legno, sappiamo che il cedro è incorruttibile, quindi sta a significare la vita eterna, il cipresso simbolizza la morte e l’ulivo l’alleanza con Dio e quindi la pace. In alcune altre versioni uno dei quattro legni della croce è anche la palma, che simboleggia la resurrezione. (Cfr. il cedro, i cipressi, gli olmi e gli abeti, che sorgeranno nel santuario divino della Nuova Gerusalemme sono menzionati in Is. 60, 13)

Gli alberi citati hanno tutti un forte valore simbolico e una lunga tradizione mistica. Tanto che l’albero della croce, così come la croce stessa, divennero una specie di albero cosmico, presente in molte e diversissime tradizioni di lingue e religioni antiche. La croce e l’albero della vita infatti sono stati considerati un tutt’uno già dai primi Padri della Chiesa, «Cristo […]appeso alla croce in modo da riassumere lì in se stesso l’universo (Ireneo, Adversus Haereses, 5,18, 3)». Ma l’identità tra la Croce e l’Albero cosmico la ritroviamo anche fuori dalle credenze cristiane. Nelle rappresentazioni messicane precedenti la conquista spagnola l’albero è raffigurato a forma di croce con le estremità dei bracci ramificate e coperte di foglie. (Cfr. H.B. Alexander, Le Cercle du monde 1962). La croce rappresenta qui la totalità dello spazio, l’universo stesso.

Riscontri

Nonostante sia chiaro che la tripartizione con cui si diceva fosse costruita la croce avesse un valore simbolico, e che gli alberi menzionati avessero a loro volta una storia e una mitologia a supportarli, vi sono stati anche riscontri effettivi.

Essendosi la vera croce conservata per tre secoli ha reso plausibile l’idea che potesse essere fatta di cedro, un legno incorruttibile e presente nella Giudea. Il fatto che però fosse al contempo un legno ricercato e costoso ha fatto propendere per il pino. Questo fatto sarebbe supportato dall’analisi al microscopio effettuata nel XIX sec. sui frammenti della vera croce di Santa croce in Gerusalemme di Roma, del Duomo di Pisa e del Notre Dame di Parigi: si sarebbe trattato proprio di pino. Mentre il frammento riposto a Santo Toribio de Liébana, in Spagna, analizzato nel 1959 fece emergere una verità differente: il legno usato sarebbe stato il cipresso orientale (conifera imparentata con il pino). Ma un ulteriore scoperta del 1969 a Civ’at ha-Mivtar, nei pressi di Gerusalemme, farebbe pensare che il legno fosse stato l’ulivo.

L’ulivo

L’evidenza del legame tra Cristo e i legni sacri ci appare chiara già dall’etimologia del nome del Messia, in ebraico Maschiak «l’Unto del Signore», tradotto in greco con Kristós «colui che ha ricevuto l’unzione dall’olio santo»

Fin dall’origine l’ulivo fu per gli ebrei uno dei doni più preziosi di Jahveh, simbolo dell’alleanza conclusa con gli uomini, nella persona dei patriarchi: Noè prima e poi Abramo.

L’olio serviva infatti alla consacrazioni, non solo religiose se pensiamo che in Francia i re veniva unti con l’olio proveniente dalla Santa Ampolla.

Le ricerche dei botanici hanno stabilito che l’habitat originario di questo albero è l’Asia Minore, dove forma vere e proprie foreste nella regione che, partendo dall’Arabia meridionale, risale passando dalla penisola del Sinai, dalla Palestina, la Siria e la costa meridionale della Turchia fino ai piedi del Caucaso.

La sua prima menzione nei testi sacri si trova nella Genesi, ma la venerazione degli Ebrei per l’ulivo fu trasmessa ad altri Semiti, gli Arabi, della terra dei quali l’albero era originario e dove veniva coltivato da molto tempo. Nell’Islam, è l’Albero cosmico per eccellenza, centro e pilastro del mondo; simboleggia l’Uomo universale, il Profeta e «uno dei nomi di Dio, o qualche altra parola sacra è scritta su ognuna delle sue foglie; e la baraka del suo olio… può diventare pericolosa. In alcune tribù gli uomini bevono olio d’oliva per aumentare il loro potere di procreazione» (E. Westermarck, Ritual and Belief in Morocco, 2 vol, MacMillan, London 1926)

L’ulivo è Albero della vita, ma nell’Islam l’Albero Benedetto è considerato soprattutto la fonte della luce tramite l’olio che esso produce. La sura XXIV del Corano, detta della Luce «Dio è la luce dei cieli e della terra, e si rassomiglia la Sua Luce a una Nicchia, in cui è una Lampada, e una Lampada è in un Cristallo, il Cristallo è come una Stella lucente, e arde la Lampada dell’olio di un albero benedetto, un Olivo né orientale né occidentale il cui olio per poco non brilla anche se non lo tocchi col fuoco. È luce su Luce». Quest’albero segreto e meraviglioso è l’albero celeste «che non ha rapporto con la rotazione della terra intorno al sole», e infatti è l’asse immobile del mondo creato.

L’ulivo, albero benedetto, rappresenta anche Abramo, il padre dei fedeli, antenato comune degli ebrei, dei cristiano e dei musulmani. Abramo, come Noè prima di lui, è identificato con l’ulivo come segno di alleanza, della quale le olive, doni divini, sono in qualche modo garanti. Sottolinea infatti Nell Parrot che, a proposito delle raffigurazioni dell’albero sacro in Mesopotania, l’albero della vita che, secondo la Genesi, cresce in mezzo al giardino piantato da Jahveh nell’Eden per accogliere Adamo, «Non esiste un culto dell’albero in sé; sotto questa raffigurazione si nasconde sempre un’entità spirituale.» (N. Parrot, Les Representations de l’arbre sacre sur les monuments de Mesopotamie et d’Elam, Geuthner, Paris 1937, p.19)

Nell’arte

Il rapporto tra la croce e l’albero della vita è, iconograficamente, raffigurato in numerosissime opere, ma il mosaico absidale della chiesa di San Clemente a Roma e quella del Laterano rappresentano le sue implicazioni escatologiche e soteriologiche.

Va inoltre citata la famosa opera di Piero della Francesca, Storie della Vera Croce, un ciclo di affreschi basati sulla Legenda Aurea. Dipinti tra il 1452 e il 1466 e conservati nella cappella maggiore della basilica di San Francesco ad Arezzo, trasportano i punti salienti della leggenda in pittura.

Piero della Francesca, Adorazione della Croce e incontro tra Salomone e la Regina di Saba

«… quando la Regina di Saba si recò ad ascoltare le sapienti parole di Salomone ebbe ad attraversare il detto lago: ed ecco che vide in spirito come su quel legno dovesse essere sospeso il Salvatore del mondo onde non volle passarvi sopra, ma devotamente si prostrò ad adorarlo… » Jacopo da Varagine

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

HARTLEY BURR ALEXANDER, Le Cercle du monde, Gallimard, Paris 1962.

NATHANIEL ALTMAN, Sacred trees, Sierra Club Books, San Francisco 1994.

JACQUES BROSSE, Mitologia degli alberi. Dal giardino dell’Eden al legno della croce, Edition Plon 1989.

ARTURO GRAF, Miti, Leggende e superstizioni del medioevo, Chiantone, Torino 1925.

ADOLFO MUSSAFIA, Sulla leggenda del legno della croce 1870

N. PARROT, Les Representations de l’arbre sacre sur les monuments de Mesopotamie et d’Elam, Geuthner, Paris 1937.

JACOPO DA VARAGINE, Leggenda aurea, L’invenzione della Santa Croce.

E. WESTERMARCK, Ritual and Belief in Morocco, 2 vol, MacMillan, London 1926.

Camaleonti a Taormina: Truman Capote secondo Piero Melati

Piero Melati e Marco Steiner

In occasione della presentazione del libro di Piero Melati Il viaggio del Camaleonte, l’autore ci offre un ritratto inedito di Truman Capote, puntando lo sguardo su una traccia che pare sfuggita alla sua stessa biografia.

Piero Melati ne discute con Marco Steiner, direttore della collana di viaggio e avventura Zefiro, per la casa editrice Le Storie.

M.S «Vorrei riportare alla mente una bellissima poesia di Ghianni Ritsos, Rinascita, che meglio di altro spiega il senso della collana Zefiro, che dirigo. L’augurio infatti è che rinasca qualche goccia di letteratura, di avventura, capace di farci respirare, di essere per noi tutti una boccata d’aria.

Da anni più nessuno si è occupato del giardino. Eppure quest’anno – maggio, giugno – è rifiorito da solo, è divampato tutto fino all’inferriata, – mille rose, mille garofani, mille gerani, mille piselli odorosi – viola, arancione, verde, rosso e giallo, colori – colori-ali; – tanto che la donna uscì di nuovo a dare l’acqua col suo vecchio innaffiatoio – di nuovo bella, serena, con una convinzione indefinibile. E il giardino la nascose fino alle spalle, l’abbracciò, la conquistò tutta; la sollevò tra le sue braccia. E allora, in pieno mezzogiorno, vedemmo il giardino e la donna con l’annaffiatoio ascendere al cielo – e mentre guardavamo in alto, alcune gocce dell’annaffiatoio ci caddero dolcemente sulle guance, sul mento, sulle labbra.

Per parlare del libro di Melati partirei dall’Incipit:

Il tre aprile del 1950 lo scrittore di New Orleans Truman Capote era ben intenzionato a prendere il treno che da Catania lo avrebbe portato a Taormina. Ma non ci riesce. Lui e Jack Danphy, anch’esso autore, suo compagno di vita e soldato combattente in Francia nella recente guerra, si sono portati dietro il grosso e amatissimo bull terrier Kelly. Così li hanno fatti scendere in malo modo dal vagone. Niente cani sul treno. Non si può raggiungere Taormina-Giardini, una delle mete principali della linea Messina-Siracusa, con un animale. Troppo disturbo per turisti e viaggiatori. La pittoresca coppia di americani, con occhiali da sole, camicie sgargianti, valigie, e soprattutto con l’impiastro canino al seguito, dovrà attendere una tratta merci, per raggiungere infine la meta. Poco male. Il bull terrier saltella in giro lungo la stazione e Truman sorride. Vada pure per la tratta merci, dove viaggiano insieme bestie e contadini.

Piero, cosa hai raccontato in questa storia?»

P.M «L’incipit che hai appena letto è dedicato al concetto di discriminazione. Truman Capote è famoso per essere lo scrittore più superficiale di fine Novecento. Di lui si sa infatti che amava il gossip, frequentava i salotti, non si interessava di nessuno, pensava solo a se stesso, alla sua carriera e a vendere libri. Non dico che non sia vero, perché l’uomo interpreta, rappresenta, quello che accade nella sua epoca, ma c’è anche qualcosa di più. È nel 1950 che muove i suoi primi passi, la seconda guerra mondiale è finita da cinque anni e si è ancora sotto l’anatema del filosofo Adorno che sosteneva che dopo i campi di concentramento, dopo ciò che era successo, non c’era più nulla da dire. (Nel 1949 in Critica della cultura e società Adorno sostiene infatti che […] scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie o ancora in Metafisica che tutta la cultura dopo Auschwitz è spazzatura). Capote la pensa in modo opposto. Interpreta quell’idea che a fine secolo, a fine Ottocento, ci ha lasciato Nietzsche: sono crollati tutti i valori, è morto dio, non abbiamo nulla a cui credere. In qualche modo fa suo, e questo è un modo di leggerlo differentemente, ciò che aveva detto Nietzsche, ovvero che non c’è altro modo di vivere se non nella superficie delle cose. Nella realtà del mondo non ci sono mondi più alti da inseguire, realtà eteree, altri universi, idee platoniche o forme di vita dopo la morte. C’è solo la superficie del divenire e solo in essa possiamo vivere. Quest’uomo riesce a interpretare questo sentimento. Davvero non credeva in nulla, era un bugiardo, un impostore che pensava solo a se stesso, ma interpretava e incarnava quel preciso spirito. Non esiste nulla fuorché questa superficie dove siamo comunque costretti a vivere, ma qualche cosa dobbiamo fare, e lui comincia a costruire quello che sarà il suo universo. Nel libro che ho scritto, Il Viaggio del Camaleonte, vengono tratteggiati proprio i suoi primi passi letterari. Quando deve uscire A Sangue freddo, il suo capolavoro, (in cui inventa un genere, il giornalismo letterario, prendendo un fatto reale per raccontarlo come fosse letteratura, mettendo in fila i fatti così come sono accaduti), per lanciare il libro organizza una festa in maschera, che chiamerà ‘Black and White’, in cui tutti sono costretti ad andare mascherati. (Esiste una famosa foto in cui la coppia degli Agnelli, Mariella e l’avvocato Gianni vanno mascherati, perché ci si doveva andare alla festa di Capote!) Riesce a organizzare questi salotti in cui accorre il vippaio più famoso di quel tempo.

Ed è strano che da tutto questo derivi comunque una riflessione sulla discriminazione, che lui stesso subisce proprio prima di arrivare a Taormina: non può andare in treno col suo cane. In quel periodo stava girando il mondo, era stato a Ischia, a Tangeri, a Parigi, e pensa che Taormina sia solo un’altra tappa del suo trottare. Ha già pubblicato il suo primo libro, sta scrivendo il secondo e si sta solo chiedendo bene cosa farne.

Apriamo una parentesi su questa discriminazione. Truman è famoso anche per avere seguito per la prima volta una compagnia di teatro americana che andava in Unione Sovietica. Ci scriverà un lungo reportage Si sentono le muse del 1959. È la prima volta che si apre una porta durante la guerra fredda e quindi gli americani si riuniscono, a livelli diplomatici elevatissimi, per gestire questo viaggio e la prima questione che si pongono è: «ma se i russi ci cominciano ad accusare di trattare male i neri, che siamo razzisti, noi cosa rispondiamo?» Truman annota queste riunioni, fregandosene altamente di rispettare il protocollo diplomatico e mettendo un po’ in ridicolo il loro tormento. Quando infine la carovana parte c’erano attori neri, perché prima questa rappresentazione, tratta da Gershwin, era interpretata da bianchi dipinti di nero. (Portata in teatro da Cab Calloway ebbe grade successo, sdoganando la possibilità negli anni cinquanta per gli attori neri di calcare il palcoscenico.) Però lui nota un’altra cosa, questo treno che parte dall’Europa ha qualcosa di strano. Tutti viaggiano assemblati, tranne lo sceneggiatore, che dovendo ultimare le ultime scene è in un vagone da solo, e la vedova Gershwin che ovviamente viaggia insieme a Capote su un intero vagone a parte. E da lì lui comincia una riflessione sul concetto di discriminazione che svilupperà nel secondo libro L’arpa d’erba, che scriverà dopo il suo viaggio in Sicilia, sostenendo che forse per razzismo, forse per differenza di classe o per altro, ma questo problema si ripresenta sempre, costantemente, ciclicamente nella storia degli uomini. E che c’è un solo posto in cui lui è riuscito a superarlo, la casetta sull’albero.

Questa casetta sull’albero è un’immagine che a lui viene dall’infanzia, di cui parlerà nel suo secondo libro e che userà per farsi confessare dai due detenuti di A sangue freddo tutto su quella strage immotivata. Capote convincerà i due autori del crimine a confessare dicendo loro che era come se stessero insieme su una casa sull’albero. La casetta è un episodio vero della sua infanzia, legato a questo paesino di seimila abitanti in Alabama e in particolare a un’altra grande scrittrice che lo accompagnerà nella raccolta dei documenti che serviranno per la stesura di A sangue freddo, Harper Lee. (La prima cosa che mi ha davvero colpito è come sia possibile che da un buco di città del genere siano usciti due dei libri più famosi dell’ultima parte del Novecento, ancora oggi venduti e studiati. Il buio oltre la siepe e A sangue freddo.) Fisicamente lui e Harper Lee sono stati in quella casetta sull’albero, se la ricorda, anche se l’aveva completamente rimossa, proprio in questo viaggio in Sicilia che crede sia solo l’ennesima tappa del suo viaggio e dove invece inciamperà in un nuovo se stesso.»

M.S «Passiamo a un altro aspetto. Continuo a leggere il testo di Melati:

Sono alto come un fucile e altrettanto rumoroso», diceva. Sa di avere per gli scandali un imbattibile talento, tagliente come lama di rasoio, che affinerà negli anni. E poi, adesso ha un altro piano: determinato com’è a farsi largo nel mondo delle lettere, è partito per quella lontana, esotica isola soprattutto sulle tracce di una suggestione erotico-letteraria. Vuole toccare il grande romanziere francese André Gide, habitué della perla del Mediterraneo, che a sua volta aveva intrecciato la sua vita con quella di Oscar Wilde, che a sua volta ancora aveva visto da vicino Marcel Proust.

Già da quanto letto si nota come tu abbia citato altri libri. Il viaggio del camaleonte ha una caratteristica ben precisa, è una fonte di curiosità ed è un viaggio nei libri.

Vogliamo parlare dei libri che parlano di altri libri, proprio come il tuo?»

P.M «Truman va a Taormina esattamente per questo, sa che Andre Gide va sempre lì, è il periodo dei Grand Tour e degli scandali, da Tangeri a Taormina da Tennese Williams in giù fanno scandali uno dopo l’altro, li cacciano regolarmente dagli alberghi. Andrè Gide in particolare era definito il terrore delle cinque, perché a quell’ora scendeva dall’albergo e andava in cerca di ragazzi. Interessante, per inquadrare il personaggio, pensare a come scendeva dall’albergo, con un cappotto di lana si sedeva sul muretto della spiaggia e beveva acqua di mare. Truman arriva a Taormina che non crede proprio in nulla e in nessuno, almeno in apparenza. Però crede al proprio successo letterario e,  in quel mondo privo di valori, si chiede perché mai lui non debba fare successo. Intercetta qualcosa di importante, capisce la potenza del cinema. Hollywood è esplosa in quegli anni, lui c’è stato e parla di una Los Angeles capace di aprire le porte del paradiso. Capisce che non c’è più la vecchia aristocrazia che fino all’Ottocento, in qualche modo, era rimasta in piedi. Al suo posto c’è una nuova aristocrazia, battezzata da Andy Warhol quando, in occasione della sua prima mostra, dirà che la gente non sarebbe andata a vedere le sue opere ma lui. Ed è ciò che Capote comprende e fa suo, il singolo artista diventa il protagonista, non importa cosa fa.

Capote è uno scrittore di talento ma senza arte né parte, non è un uomo colto, per nulla. È un trovatello abbandonato dai genitori e adottato dalle zie in quel piccolo paese dell’Alabama, dove conosce Harper Lee. Però il primo libro è andato bene, anche se i critici lo accusano che sia solo merito della sua foto di bel ragazzino biondo lascivo nel retro della copertina. Pensavano che non fosse letteratura, ma la messa in vendita delle sue perversioni, che si fosse fatto fotografare in quella maniera per occhieggiare a quei mondi. Capote fa finta di lamentarsi di questo ma in realtà non gliene importa nulla. Però capisce che può appropriarsi di un patrimonio letterario importante. Di Gide nelle lettere parlerà malissimo, perché Capote non credeva neanche ai suoi miti, e si riferirà a lui come a un vecchiaccio con la finta moglie laida, sicuramente non padre della figlia che la moglie avrà fatto con chissà chi. Insomma dirà delle cose pestifere. Però Gide è Gide, è un premio Nobel della letteratura. Ed è l’uomo che a Tangeri, secondo i suoi stessi scritti, è stato iniziato ai riti omosessuali con i ragazzini da Oscar Wilde in persona. E Oscar Wilde a sua volta è andato fisicamente a trovare Proust, l’autore de Alla ricerca del tempo perduto. Truman vuole essere il loro erede, il loro discendente, e per questo motivo vuole andare a conoscere Gide. Pensa perciò di rimanere in Sicilia pochissimo, giusto il tempo di vedere questa vecchia ciabatta, ma lì comincia a succedere qualcosa di strano, perché dai libri si può inciampare in altre faccende.

Come prima cosa va a stare in una splendida villa a Fontana Vecchia, a Taormina, che è un nido d’aquila, elevatissimo, da cui si vede tutta la costa del Catanese. In questa villa, che non ha acqua, luce, gas, scopre che vi aveva abitato Lawrence quando raccontò L’amante di Lady Chatterley. Scopre che quella storia era vera, non era finzione letteraria. Il povero Lawrence aveva assistito al rapporto tra sua moglie e questo scugnizzo, un contadino siciliano. E proprio lì cominciano a succedere una serie di cose. Intanto gli viene una suggestione di tipo giapponese, perché in questa casa senza nessuna comodità si sente trasportato in una specie di mondo primitivo, in cui si mangia nelle ciotole e la luce è fatta di candele. Comincia a leggere Tanizachi, che nel suo Libro d’ombra racconta di come gli occidentali siano pazzi a usare le luci, perché così tutti gli ambienti sembrano ospedali. Mentre invece se li illumini con una candela è tutta un’altra storia, vedi le ombre.

Poi comincia a sentire il canto dei siciliani quando fanno la mietitura e lui lo racconta come un’ossessione. «Di notte non dormivo. Questo canto mi ossessionava, non riuscivo a staccarmene, mi sembrava una vita oltre la vita.» Una affermazione quasi mistica per uno che non crede in nulla.

Gli tornano in mente le immagini della sua infanzia, descritte da Harper Lee all’inizio de Il buio oltre la siepe. L’autrice racconta l’arrivo nel suo paesino di questo ‘Merlino tascabile’, di questo piccoletto che sembrava un fucile impazzito che si avvicina alla sua cerchia di amici dicendo di aver visto Dracula. Tutti i ragazzini del posto rimangono sconcertati. Ma questo lo fa diventare famoso e spinge quella ciurma di amici, che intanto non leggeva più topolino e non guardava più i cartoni animati, a vedere i mostri, a vedere Dracula. Secondo Capote c’era stato uno spostamento del mostruoso dal politico e dal sociale, dai campi di concentramento nazisti alla vita privata. Perché questa è poi la strada che seguirà in A sangue freddo. I killer ormai ti bussano alla porta e tu, ignaro, sei disposto ad aprire e a far entrare i mostri.  E proprio grazie a questa idea si svilupperà anche tutta la storia del libro di Harper Lee, incentrata sullo stesso problema della discriminazione, perché il gruppo di ragazzini va a caccia di un mostro, di qualcuno cioè che non esce mai di casa ma che alla fine li salverà, commettendo per altro un omicidio.

Perché Dracula, perché i mostri? Per questo bisognerebbe fare una riflessione a parte. I campi di concentramento indicano forse il punto più alto dell’orrore accaduto di cui si possa avere contezza diretta. Era qualcosa di non definibile fino in fondo, perché io sfido tutt’ora chiunque a dare una spiegazione esaustiva di cosa fosse il progetto hitleriano dello sterminio degli ebrei, eppure era lì, presente. Geniale Stephen King a chiamarlo It, perché davvero non ha nome. I mostri sono apparsi, nella loro rappresentazione fisica, intorno al 1950. Nonostante Stoker avesse già scritto Dracula prima in un libro, è stato il cinema a veicolarlo. Chi non ricorda Bela Lugosi muovere le mani in Dracula. Truman aveva un’altra ossessione, quella dei cigni, che erano l’opposto dei mostri. Marylin, di cui era il confidente (ci sono le foto che ballano insieme) era un cigno. Greta Garbo era un cigno, una delle poche che aveva partecipato ai funerali del regista del primo Nosferatu, tenendosi la maschera mortuaria nella scrivania. In lui c’è questa contrapposizione tra cigni e mostri. Dei cigni parla meno, indirettamente, dei mostri è il primo a farsene un’idea ben precisa. Diventa un topos perché la questione non si risolve. Cosa hanno combinato i tedeschi, perché? In fondo a quell’abisso cosa c’è? Perché ci siamo dati molte spiegazioni ma nel cuore dell’uomo che fa quelle cose non siamo stati… Chi riprendeva il processo di Norimberga inquadrava da vicino i carnefici nella speranza di carpire qualcosa, ma non si scorgeva nulla. Non si è risolta mai questa questione, così siamo passati dalla ossessione per i serial killer ai film horror. Eppure Capote con A sangue freddo ha compiuto un salto di qualità: questa cosa può venire a bussare alla tua porta di casa. Questa è la differenza rispetto a prima, si può palesare più facilmente, è più vicina a noi, non averla risolta l’ha resa più vicina. Per questo secondo me lui è meno superficiale di come appare.

Gli torna anche la suggestione di un altro episodio, probabilmente finto, avvenutogli prima di scrivere il primo libro, quando in una notte in Alabama piena di lampi e tuoni, scivola in un fiume e qualche cosa lo morde. Stava per morire, cammina per chilometri e chilometri fino ad arrivare in una fattoria in cui viene salvato. Tutti hanno sempre pensato fosse una balla e probabilmente lo era, ma comunque attribuisce a questo episodio la decisione di buttare il suo primo manoscritto e di riscriverne un altro. In fondo la stessa cosa che farà in Sicilia, quando butta il manoscritto del secondo libro, quello che doveva renderlo famoso come continuatore di Proust-Wilde-Gide e ne scrive un altro di sana pianta che racconta l’infanzia sua e di Harper Lee.

In più, ecco perché era Merlino, proprio in Sicilia ha la prima suggestione dalla quale scaturisce l’ossessione per quella storia che lo porterà a scrivere A Sangue Freddo. Una mattina di pioggia a Taormina vede un manipolo di persone davanti la tabaccheria intente a leggere i giornali appesi al muro in cui viene raccontata la morte del famoso bandito Salvatore Giuliano. Ucciso dai carabinieri, il famoso brigante indipendentista era stato accusato della strage di Portella della Ginestra del 1947, e Capote si domanda come mai alla gente piaccia tanto un fatto di sangue. Incamera questa informazione che poi lo porterà a prendere quella notizia dai giornali e ad andare in Kansas sul posto della strage dove, da grande impostore e bugiardo, si farà raccontare tutto. Usa, sicuramente mentendo, le star di Hollywood per farsi passare i documenti e le carte del processo dal detective del posto che rimane impressionato dalle confidenze di Capote. Gli dice infatti di fare a braccio di ferro con Humphrey Bogart e di poterlo battere, di essere amico di Marylin Monroe.

Ma succede anche altro durante questo suo soggiorno a Taormina, perché comincia a scrivere Colazione da Tiffany in cui chiaramente Capote intercetta lo spirito del tempo. (Tutte le donne americane, quando esce il libro, chiameranno le figlie col nome di battesimo della protagonista.) Capisce che sta succedendo qualcosa, che è partito un treno che lui chiama quello dei camaleonti, da cui il titolo del mio libro.

Ma chi sono questi camaleonti?

Ieri vedevo la pubblicità di una scuola di scrittura “Iscriviti, così potrai apprendere i trucchi di quelli che hanno fatto della tua passione un mestiere.” Una balla in fin dei conti. Ecco Capote è stato il primo a capire che quasi tutti coloro che leggono vorrebbero scrivere, hanno questo sogno. Se un domani gli archeologi scaveranno nella nostra epoca, sosteneva Capote, non troveranno templi, statue, vasi, argille ma sceneggiature, poesie, racconti. Ma non c’è nulla di male, nelle epoche di decadenza succede sempre così. E capisce l’esistenza dei camaleonti, cioè di quelle persone spinte verso la bellezza che ricercano nell’arte, nella scrittura, da qualsiasi parte, ma senza avere il talento che ha lui. Quelli che ricercano una vita oltre la vita sono diventati il suo pubblico. Lui risolve il problema di Stendhal, convinto di non avere pubblico e di dover aspettare per questo la generazione successiva. No, Capote il suo pubblico lo vede, sta iniziando la beat generation degli anni sessanta, Woodstock è piena di migliaia di artisti a cui, in teoria, piacerebbe la bellezza ma che non sanno come fabbricarla. Di questi lui ne fa i suoi camaleonti.

Fino a qui però potrebbe sembrare una biografia di uno scrittore di fine Novecento, l’unica questione è che in Sicilia lui scrive L’arpa d’erba, il secondo libro, e avverte: «tutti dicono che il mio primo libro è biografico il secondo è inventato. Invece vi dico che il primo è inventato il secondo è biografico.» E mette dentro tanti di quei segnali, tante di quelle circostanze e suggestioni che mi hanno sempre lasciato sgomento. Mi viene infatti difficile dare di lui il giudizio di autore gossipparo, superficiale e basta.  Penso che si mascherasse così ma poi intendesse altro o avesse comunque la pretesa di intendere qualche altra cosa.»

M.S «Vi ricordate la poesia che abbiamo letto all’inizio? Qualche gocciolina di letteratura… sono certo che si cominci a intuirla. Rimaniamo su questo tema.

I siciliani cantano mentre lavorano i campi, durante il carnevale, nel corso della vendemmia o della raccolta delle mandorle. Quest’ultima l’ha descritta così: «Tutti i giorni il canto raggiungeva una intensità quasi demente. Non mi riusciva più di pensare: c’era in me una sensazione soverchiante di vita fuori dalla vita. Alla fine, durante gli ultimi giorni pazzeschi, le belle e selvagge voci parevano levarsi dal mare, dalle radici dei mandorli; si aveva l’impressione di essersi perduti in una caverna piena di echi, e anche quando calavano le tenebre e il silenzio, potevo sentire, sul limite del sonno, l’eco di quel canto, e sebbene facessi di tutto per respingerlo, mi sembrava che volesse narrarmi una storia pietosa e dolorosa, che volesse impartirmi un terribile insegnamento.

Abbiamo parlato di libri e scrittori ma ora ti chiedo che differenza c’è tra scrivere e raccontare.»

P.M «Bella domanda. Penso di risponderti seguendo le tracce di Truman Capote. Raccontare sarebbe stato possibile, si sarebbe tenuto il vecchio manoscritto, aggiungendo delle suggestioni qua e là, limitandosi a questo. Scrivere significava anche appropriarsi di una tecnica, scegliere le parole, asciugarle, selezionarle.

Lui in Sicilia, in cui rimane quasi tre anni e non solo pochi giorni come all’inizio credeva, riporta a galla qualcosa che già in passato aveva impattato sulla sua infanzia con i film di Dracula. I suoi primi racconti infatti sono horror ma li aveva dimenticati perché non pensava fossero facilmente vendibili e invece lì li riscopre: lì scopre il perturbante. (Centrale il passo che Marco Steiner ha appena letto.)

Una serie di cose che gli accadono lo condizionano, per esempio lui sarà costretto a scappare perché lo prendono per iettatore. Conosce poi la ragazza che va da loro ogni giorno a portargli il cibo e a pulire casa e scopre che viene picchiata dal fratello, di nuovo una differente forma di discriminazione. Vorrebbe aiutarla, intervenire ma la ragazza lo impedisce perché sa che il fratello può farlo, ne ha diritto. In questa realtà siciliana retrograda, gli cominciano a narrare dell’esistenza dei lupi mannari. Lui non ci crede naturalmente però lì lo danno tutti per scontato, gli raccontano infatti che prima ce n’erano moltissimi a Taormina, mentre ora ne sono rimasti solo due o tre. La ragazza un giorno gli dice che se vuole può portarlo nel posto in cui erano soliti trovarsi i lupi mannari, e lo accompagna in questa vallata pietrosa, piena di corvi, a migliaia. A un certo punto lui ne vuole uno, la ragazza però gli dice che per tenertelo bisogna fare qualcosa e gli strappa le ali prima di consegnarglielo. Questo corvo poco dopo comincerà a comportarsi come il loro cane e Truman se lo porterà con sé a Roma quando lascia Taormina.

Si potrebbe raccontare tutto questo impasto senza senso: dai lupi mannari, al corvo, al fratello che picchia la ragazza. E questa sarebbe la narrazione, ma Capote vuole fare un’operazione differente, decide di non raccontarla, la lascia sotto, come sottotraccia. Non accenna minimante a tutti questi episodi che gli sono avvenuti, a queste strane suggestioni perturbanti, ma quando scrive lo fa esattamente con la vibrazione e i toni di tutto ciò che gli è successo.

Nel suo secondo libro, L’arpa d’erba, troviamo la storia delle zie che lo adottano, e in particolare quella di Molly, che da bambino vede inviare lettere a tutta l’America. Arrivano lettere e lei come risposta rinvia una boccetta, un elisir per guarire dall’idropisia, dalla ritenzione idrica. Si scopre che la zia Molly, in una notte di tregenda, e lui qui riprende la questione delle notti di tregenda già vissute, in un fienile, durante una tempesta aveva aiutato una delle zingare a partorire e le altre per gratitudine le avevano detto quali erbe doveva trovare nel boschetto per lavorarle e fare questo elisir. Lui fa le descrizioni di queste gite nel bosco per cercare le erbe con una donna nera e la zia Molly che sembra una strega dei vecchi racconti. Ha un paiolo (che lui descrive come assomigliante a un astro sceso dal cielo, una scheggia di meteora), un mattarello preso da un manico di scopa per impastare queste erbe. Alla fine il libro diventa quasi un giallo perché un’altra zia cattiva si vuole appropriare di questa ricetta per venderla a una casa farmaceutica e fare soldi ma la zia Molly si rifiuta e si rifugia in questa casa sull’albero, posta tra due sicomori giganti, e con lei c’è questo gruppo di amici che la sostiene. Lì Truman scopre un mondo in cui non c’è discriminazione, in cui non ci sente diversi, ma si sta insieme solo per simpatia, perché lo si vuole. A me leggendo questi passaggi mi risuonano nella mente quei particolari momenti storici in cui si è accomunati da qualcosa di forte e si provano sensazioni particolarmente intense: le rivoluzioni sociali di grandi sommovimenti, le barricate risorgimentali, quelle di Jean Van Jean in Hugo, Dumas che racconta dei garibaldini, quando li andava a trovare in Sicilia per portargli i fucili, la Comune di Parigi. Una specie di tesoro che avviene tra le persone, che sembra talmente forte in quei momenti che non c’è bisogno di annotarselo, di chiamarlo con un nome. Poi però finisce e non lo si ricorda più, non si hanno parole per raccontarlo. Si disperde, svanisce. E deve essere stato un sentimento del genere quello che ha provato questa gente nella casetta sull’albero che Capote spiega con dovizia di particolari e fa diventare un topos. Ma ciò che stupisce è che questo secondo libro finisce esattamente come finirà anni dopo A sangue freddo. Che cosa resta alla fine se non un arpa d’erba, un vento che muove l’erba e che un giorno racconterà le storie di quelli che non ci sono più.

E anche noi, prima o poi, saremmo tra quelli e l’unica cosa che resterà saranno queste storie che andranno raccontate, che si trasmetteranno. Questa è la scrittura.»

M.S «Per ritornare A sangue freddo, Capote riesce a entrare in confidenza con uno di questi assassini, il più efferato ma anche il più tranquillo, proprio rassicurandolo di poter parlare con lui come fossero sulla casetta sull’albero. In tal modo crea una confidenza intima che è quasi perversa come punto di arrivo per uno scrittore, però è fondamentale per entrare nella mente di chi commette un assassinio del genere, per poter raccontare il suo punto di vista.

In inverno passavo molte e molte ore arrampicata sulla casetta dell’albero, come nella villa di Truman a fontana vecchia dall’alto. Un luogo isolato, senza le comodità della civiltà, ma essendo se stessi forse possiamo intravedere un barlume di luce.

Cosa vuol dire raccontare una storia da una casa come Fontana Vecchia che non ha la luce, non ha elettricità, non ha acqua, però ti fa vedere le cose dall’alto? Non credo sia una via fuga, ma una necessità narrativa. Se vuoi raccontare una storia è come se dovessi prendere il filo di un aquilone, farti portare più in alto e guardare le cose da un’altra prospettiva per capirle veramente. Perché altrimenti, e qui torniamo alla precedente domanda, le narri, le racconti, ma non fai entrare chi legge nel mondo dello scrittore.»

P.M «Lui era tanto convinto di questo metodo che mentre stava ultimando A sangue freddo confida ad Harper Lee, che lo aveva accompagnato nella raccolta di documenti e prove, che non può concludere il libro, manca il racconto vero e profondo dell’altra parte. Chiunque di noi si sarebbe già accontentavo, aveva tutto, le carte del processo, le testimonianze, aveva già incontrato i due detenuti, per cui un racconto seppur superficiale lo aveva. Ma lui pretendeva che in quel libro ci fosse il punto di vista del massacratore. E riesce a ottenerlo come dicevi tu Marco, con la metafora della casetta sull’albero. È stato anche accusato di aver avuto rapporti sessuali in carcere con loro, ma quando riesce a strappare anche questo punto di vista del massacratore, sa di essere pronto e di poter intitolare il testo A sangue freddo: a sangue freddo hanno ucciso i due delinquenti, altrettanto però lo Stato, per compensazione, li impiccherà. Non c’è poi tanta differenza, se non temporale del prima e del dopo.

E lui in un certo senso si impicca con loro due, finisce con questo libro. È tanta l’attesa successiva di un altro capolavoro che Capote non ha, che poi scriverà i gossip che ha raccolto nei salotti. Perché lui è diventato il grande confidente di tutti, da Jack Kennedy in giù, sa tutto di tutti e scrive questi primi reportage che poi diventeranno un libro scandalo sulle corruzioni, le tangenti, i figli illegittimi, gli aborti, le amanti. Risultato: viene rovinato dalle cause giudiziarie ed espulso da questi salotti. Farà un cameo in un film tratto da un romanzo di Agatha Christie, in cui davvero sembra un lupo mannaro di quelli di Taormina. È diventato enorme, tossicodipendente, alcolista, completamente rovinato e morirà in questo modo. Sono interessanti i suoi ultimi anni di vita, è come se non riuscisse a elaborare ciò che gli era successo per scrivere A sangue freddo. Oggi ne parliamo come uno dei capolavori del ‘900 che ha inventato un genere nuovo, in cui sono presenti i punti di vista di tutti in quella storia, ma ci dimentichiamo che gli è quasi costato la vita, si è rovinato per quel successo. Probabilmente è uno di quei ‘terribili insegnamenti’, negli ultimi anni della sua vita fa risuonare spesso questa storia dei terribili insegnamenti, dice che le peggiori preghiere sono quelle esaudite. Gli rimane quest’eco, però ha avuto il coraggio di essere andato a vedere più da vicino quelle cose che nell’infanzia l’avevano tormentato, per cui lui aveva scritto dei racconti gotici che di recente hanno riscoperto e pubblicato. Sembrano qualcosa di Wes Craven, Stephen King, Henry James in Giro di vite e non è stato biograficamente sottolineato questo suo lato. Lui, in qualche modo, si è sporto.

Ma vorrei terminare avvertendo che la storia di Truman Capote di cui oggi vi ho parlato è possibile che invece finisca bene. Ho trovato un testimone oculare…cosa può avere combinato a Taormina con i lupi mannari non so dire!»

Fiori vivi ringrazia:

Piero Melati giornalista, per molti anni vicedirettore capo del Venerdì di Repubblica, ha seguito la guerra di Mafia e il primo maxiprocesso a Cosa Nostra e scrittore. Tra i suoi lavori: Giorni di mafia. Dal 1950 a oggi: quando, chi, come, Laterza 2017; La notte della civetta. Storie eretiche di mafia, di Sicilia, d’Italia, Zolfo 2020; Paolo Borsellino. Per amore della verità. Con le parole di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino, Sperling & Kupfer 2022; Il viaggio del camaleonte, LeStorie 2023.

Marco Steiner scrittore, narratore, viaggiatore. Per la sua preziosa produzione, non solo letteraria, rimandiamo al suo sito http://www.marcosteiner.it/

Le Storie editore https://www.lestorie.it/le-storie-editore/, Gilda Yoko Diotallevi.

La pianta del basilico: il sodalizio tra Piero Crida e Saverio Bafaro

L’ incontro

di Saverio Bafaro

Cosa accade quando un giovane (all’epoca) poeta incontra un grande illustratore, un uomo navigato, ricco di cultura ed esperienze? Il ragazzo ha da poco una pubblicazione dedicata a sua madre: versi brevi, precisi, dagli echi filosofici che sorprendono l’uomo dall’altro capo della comunicazione. L’adulto, pian piano svela, per quanto al contagocce e tenendo sempre un’aura di mistero, un po’ della sua storia: dopo una lunga permanenza nello Sri Lanka, decide di tornare a vivere in Italia, scegliendo una residenza appartata nella campagna biellese, nella periferia di un mondo centripeto quale fu Torino delle Arti e delle frequentazioni. Non più illuminanti acquerelli di paesaggi impensabili, non più il fastidio di turisti che arrivano a depredare spazi vergini, non più party e danze mondane sulla spiaggia. Non più protagonista ma spettatore, sempre tuttavia dotato di occhio e olfatto sopraffini verso il Gusto e la Gentilezza, prima che verso il Bello.

Successe un certo decadimento, senza preavviso, un’interruzione di sogno, forse una delusione crescente, forse un dolore imprecisato nel cuore, a cui non si riesce a dare un nome. La Bellezza rimette i remi in barca, piangendo ricorda i bambini persi per sempre e torna indietro, con qualche ferita e amarezza sul suo bel corpo. Cresce, così il realismo dei giorni – pur sempre produttivi e in comunicazione con la Musa – e della tastiera ticchettante di un PC, nella speranza di cercare e trovare una connessione con un essere fraterno, simile in quella fibra invisibile (e telepatica e sincronica) che è l’Anima.

È da lì, e ancora oggi, che il giovane autore (intanto diventato anche uno psicologo e psicoterapeuta) impara dall’anziano saggio la parabola discendente e gli specchi distorcenti di quello che gli uomini chiamano successo, venendo messo in guardia dalle sue trappole, richiami e illusioni, provando a fondare l’arduo pensiero e l’ardua pratica dell’anti-narcisismo. È da lì che si è creato un sodalizio inscindibile tra i due, un sentimento che trascende le stesse categorie di affetto, risucchiato spontaneamente dentro un campo gravitazionale altro, totalmente gratuito, provando la stima più disinteressata, forte della presenza dell’uno nell’altro, a dimostrare l’esistenza della vera amicizia.

La breve intervista che segue ne vuole essere testimonianza.

L’intervista a Piero Crida e Saverio Bafaro

 di Antonietta Gnerre

A quando risale la vostra conoscenza?

P. C «Ci si conosceva prima ancora di incontrarci.»

S. B «Quanto ha ragione Piero nel dire così! Quando si prova affetto e stima per una persona è come averla sempre avuta nella propria vita. Il primo aggancio del ‘caso-non-caso’ è stato – ormai diversi anni fa – Internet che ci ha catturato letteralmente disquisendo di poesia. Lui acquistò Poesie alla madre, si complimentò con me e ci addentrammo nella conoscenza reciproca attraverso un lungo e lento scambio di posta elettronica: erano i primissimi periodi di questo strumento, e ricevere regolarmente delle e-mail suscitava gioia e aspettativa. Io, intanto approfondii meglio chi fosse il misterioso e colto interlocutore; visitai, dopo aver scoperto il suo nome intero, il suo sito https://www.pierocrida.net/. Fu lì che mi si rivelò l’importanza del grande artista, appartato, schivo, realista; un modello per me di anti-narcisismo, brillante, sagace e ironico.»

Quando e come avete deciso di collaborare?

P. C «Non siamo stati noi a decidere: è stata la collaborazione.»

S. B «A distanza di qualche anno di conoscenza, lungo i quali ci siamo incontrati più volte di persona, in maniera molto spontanea e con una calma sedimentazione durata un paio di anni (dal 2012 al 2014) Piero ha accettato di produrre, sullo stimolo della lettura dei miei versi ‘terrifici’, una serie di tavole illustrative per Poesie del terrore. Ricordo bene il dono di vedere la copertina e poi i lavori interni, una serie di acquerelli composti con minuziosa precisione d’arte. Ma se da un lato viene fuori l’abilità dell’artista, dall’altra pare che Piero Crida abbia anche illustrato con la mano sinistra, bendato, al fine di destare i suoi stessi fantasmi e invocarne una traccia di tipo diverso.»

Che legame intravedete tra parola e immagine?

P. C «Il legame fra due specchi che si riflettono.»

S. B «Se parliamo in generale la parola è veicolo di immagine, una sua ancella; se parliamo in riferimento a un’operazione di illustrazione, all’interno di un libro, è una comunicazione oltre i confini culturali o di alfabetizzazione, oltre ogni codice restrittivo. I Sogni, e la loro natura di materiale psichico primigenio e universale per l’umanità, sono una trama sofisticata e articolata, infatti, per ogni uomo e donna.

Durante una delle presentazioni del mio libro sul terrore, Piero mi colpì molto dicendo che le immagini nel volumetto rappresentavano un contrappunto ai testi, utilizzò, dunque, una metafora musicale. Io aggiungerei, come abbiano spesso sottolineato, che le sue immagini siano in grado di rinforzare gli echi ossessivi od ossessionanti di quei testi, a tal punto da avermi anche influenzato in alcune mie scelte: una doppia illustrazione per uno stesso testo, ad esempio, mi suggerì l’idea di aprire circolarmente e ricorsivamente con gli stessi identici versi.

Un più ampio spazio di prospettiva per la libertà di immaginazione del lettore, è invece offerto, ad esempio, in molti altri lavori di Crida, tra i quali spicca la ben nota e storica copertina de Il Signore degli Anelli disegnata per le edizioni Rusconi.»

Quali sono i vostri nuovi progetti insieme?

P. C «Fino a che non si realizzano, non è possibile sapere quali saranno.»

S. B «Il secondo semestrale di poesia Metaphorica (Edizioni Efesto), che ospita un’antologia assoluta dei più bei acquerelli del nostro Piero, si trova ormai in libreria. Il volume, oltre a contenere testi poetici e di critica, ha la funzione supplementare di fare da catalogo d’arte, di monografia di un meritevole artista contemporaneo, in vista anche del binomio presentazione-mostra. Si parlerà dei primi tre volumi di Metaphorica venerdì 13 ottobre 2023, ore 17-19 presso il ‘Drugstore Museum – Necropoli Portuense’ di via Portuense, 317, nell’ambito del progetto ‘Poesia, lingua viva’ della Soprintendenza Speciale di Roma. (L’evento avrà per titolo Riviste e blog di poesia: una costellazione di sinapsi poetiche, introdurrà il direttore del ‘Drugstore Museum’, il dott. Alessio De Cristofaro, e coordinerà Tiziana Colusso, direttrice di ‘Formafluens – International Literary Magazine’).»

Cosa pensate l’uno dell’altro?

P. C «Un’antica massima araba recita: Nulla di significativo può accadere se non si verificano contemporaneamente tre condizioni essenziali: il luogo giusto, il momento giusto, le persone giuste. Sono stato privilegiato da questo triplice accadimento. Saverio, quindi, per me è significativo. È una lama d’acciaio temperato, cosparsa di miele di zagara.»

S. B «Un artista eclettico e talentuoso, ma soprattutto un amico straordinario, vero, il mio stesso spirito incarnato in un uomo che ha il doppio della mia età, uno scrigno di racconti, esperienze e consigli ascoltati. Che Dio continui a farmelo sentire vicino, così come sono vicine le sue risposte e le mie in questa intervista di cui ringrazio commosso l’intervistatrice e lui.»

FIORI VIVI RINGRAZIA

Piero Crida: (Torino nel 1944) compie i suoi studi all’Accademia Albertina. Insegna Storia dell’arte e dell’estetica al Museo d’arte moderna di Torino e alla Fondazione di Studi europei. Disegna scenografie e costumi per un ciclo di commedie elisabettiane per la regia di Edmo Fenoglio. Crea per le edizioni Aprile una collana di libri-oggetto per bambini. Per le Edizioni Paoline vince il primo premio alla fiera del libro di Bologna come migliore illustratore. Collabora con i maggiori editori italiani, curando grafica e illustrazioni delle copertine dei volumi delle Edizioni Rusconi (tra cui quella celebre de Il Signore degli Anelli) e Franco Maria Ricci (Carnet d’adresses, immagini pubblicitarie per la Shic e per FMR). Disegna il poster di Mina per l’album MinacantaLucio. Pubblica per la Fonit Cetra un suo disco di composizioni musicali. Disegna collezioni di tessuti per Missoni, Etro, Benetton, Loro Piana. Per la gioielleria Sicar di Ginevra realizza una collezione di gioielli per la Casa Reale Saudita. Per Pomellato disegna la collezione di oggettistica. Collezioni di piastrelle in ceramica per L’Opificio Umbro e per Gabbianelli. Affresca la volta del Palazzo Juvarra a Torino, l’abside della chiesa di San Giuseppe a Pratrivero e le immagini simboliche nell’Eremo di Maria della Famiglia Zegna, all’Alpe Montuccia. Disegna l’albero genealogico della famiglia Gianadda di Martigny. Per il Lanificio Piacenza cura e disegna cataloghi e House Organ. Sue illustrazioni appaiono regolarmente su «Vogue», «CasaVogue», «Harper’s Bazaar», «Vanity». I suoi manoscritti decorati sono conservati all’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo, in Russia. Recentemente realizza una serie di disegni e libri-oggetto in cui ritrae dimore storiche e boutique Hotel, sia in Europa che in Asia, con i ritratti dei rispettivi proprietari. Sue opere sono in collezioni private in Europa e Stati Uniti, dove è stato rappresentato da Sotheby’s. In questi ultimi anni ha tenuto lezioni all’Università Cattolica di Milano per un Master sulla Grafica Editoriale. Al suo lavoro di acquerellista Arturo Schwarz dedica un capitolo del suo volume L’immaginazione alchemica, definendolo «uno degli ultimi rappresentanti dell’Arte sacra in Occidente».

(Photo credit: Dino Ignani)

Saverio Bafaro psicologo, psicoterapeuta, poeta e critico letterario. Presso l’università «Sapienza» diventa dottore in Psicologia dello Sviluppo, dell’Educazione e del Benessere; si specializza, poi, in psicoterapia Gestalt-analitica individuale e di gruppo. Ha pubblicato: Poesie alla madre (Rubbettino, 2007); Eros corale (www.larecherche.it, 2011); Poesie del terrore (La Vita Felice, 2014). Sue opere sono apparse, inoltre, all’interno di antologie come Quadernario. Calabria (LietoColle, 2017), di riviste letterarie e blog di poesia. Già redattore della rivista «Capoverso», per cui ha curato il numero monografico Omaggio a Pavese (Orizzonti Meridionali, 2019), dal 2022 fonda e dirige il semestrale di poesia «Metaphorica» (Edizioni Efesto). Di recente ha curato la silloge postuma di Carlo Cipparrone Crocevia del futuro (L’arcolaio, 2021) e la traduzione di Stickeen. Storia di un cane di John Muir (La Vita Felice, 2021).

Antonietta Gnerre per la sua intervista.

Edizioni Efesto https://www.edizioniefesto.it/, in particolare Alfredo Catalfo, per l’iniziativa di Metaphorica (Semestrale di Poesia).

MuSaBa: il parco museo di Santa Barbara

Sfugge a precise definizioni il Musaba, un luogo magico, frutto della mente geniale di due artisti, Nick Spatari e Hiske Maas, che hanno reso il loro sogno realtà: acquistare un terreno e un ex-complesso monumentale abbandonati e restituirgli nuova vita. Nasce così questo progetto artistico, un parco d’arte e museo che riflettesse l’idea di fusione tra uomo e natura.

Già dall’arrivo si intuisce di essere di fronte a qualcosa di unico. Entrare al Musaba significa addentrarsi in un luogo arcaico e misterioso in cui la natura è parte dell’opera artistica, ne descrive i contorni e la riconsegna a uno spazio e a un tempo differenti.

La storia del luogo

Nella vallata del Torbido, in provincia di Reggio Calabria, nello specifico a sud est del centro abitato di Mammola, si trova il promontorio di Santa Barbara, che dal 1969, ospita il Musaba, ovvero il parco museo di arte contemporanea ideato da una coppia formidabile di artisti, Nick Spatari e Hiske Maas.

Tale promontorio (rupe Santa Barbara) ospita i resti di un ex complesso monastico certosino del IV sec., che ha visto subentrare anche gli abati cistercensi tra il 1193 al 1514. Tornati poi nel 1300 i monaci di San Bruno, essi chiesero all’imperatore Carlo V la reintegrazione del feudo, e così i certosini rimasero a Santa Barbara fino all’abolizione della feudalità nel 1808.

Ma elementi del complesso monumentale testimoniano insediamenti ancora più antichi. Ci riferiamo non solo a una prima chiesa paleocristiana costruita tra il 300 e il 400 a.C., come testimoniano i resti delle sue mura, diventata poi cappella annessa all’ex Grangia di Santa Barbara. Ma anche a preesistenze archeologiche impreviste, ovvero una necropoli dei campi di urne del XII-VIII sec a.C. e un insediamento che si sovrappose tra il VII e il IV sec a.C.

Sapere che ciò che oggi rimane del complesso monumentale è ciò che è sopravvissuto a diluvi, forte scosse telluriche e altre calamità naturali, ci aiuta a comprendere la forte trasformazione che il promontorio stesso ha subito anche da un punto di vista geografico. Fonti storiche ci spingono a immaginare come doveva essere stato quel luogo. L’altura dell’acrocoro infatti era in un’isola lambita dal lago detto Sagros che si estendeva lungo una superficie di 3 km di lunghezza e 200-500 mt. di larghezza, partendo da una gola montuosa, ove su alte falde si elevava l’antica cittadella di Mammola con il suo tempio e il suo agglomerato di case fino a oltre il promontorio “Isola di Santa Barbara” nella vicina zona di Grotteria, per poi scaricare le acque eccedenti verso la foce del Mediterraneo. Il lago però scomparve intorno al 500-600 d.C., sommerso dai detriti montuosi effetto di un violentissimo diluvio, trasformando per sempre l’intera fisionomia della zona.

Ma non cancellando la fascinazione che queste terre ancora esercitano sui visitatori. Questi luoghi fuori dal tempo richiamano antiche memorie legate a templi arcaici, terme romane, grange e monasteri medievali. E da questo passato così forte, combinato con una visione artistica di forte impatto contemporaneo prende vita un progetto unico: il Musaba.

Kαιρός: 1969

I protagonisti di questa incredibile storia sono Nick Spatari e Hiske Maas. Lui è pittore, scultore, architetto e artigiano: un’artista rinascimentale d’avanguardia. Nonché membro della comunità sorda. Lei è un’artista e una donna anticonformista che studia tra Londra, Lausanne, Parigi e New York. Vissero a Parigi, dove si sposarono e viaggiarono molto, fino ad approdare a Milano, dove aprirono una galleria d’arte: Studio Hiske in via Solferino, nel 1966, che rimase attiva fino al 1978.

Eppure entrambi sentivano di essere in cerca di nuove esperienze artistiche e così quando si imbattono nel promontorio di Santa Barbara ne rimangono folgorati, comprendono che farà parte della loro vita. È il 1969.

Nel corso degli anni sono diventato un uomo. Ho viaggiato attraverso i continenti, ma ho un solo legame profondo: con il mediterraneo. Appartengo al mediterraneo fortemente. Il mediterraneo, re delle forme e della luce. E, nel mediterraneo, la Calabria, luce decisiva e paesaggio imperativo. Nick Spatari

Per il maestro Spatari, nato proprio a Mammola, è un ritorno, per Hiske una scoperta incredibile. Sarà lei infatti che alla fine lotterà a lungo contro la burocrazia italiana e le resistenze locali per poter acquistare l’ex complesso monastico Santa Barbara, l’ex stazione calabro lucana e, metro per metro, i terreni adiacenti.

Nonostante tanti problemi, tante ingiustizie che abbiamo subito, qui mi sento a casa. Un sentimento consolidatosi nel tempo. Qui c’è la mia storia, la creazione del Musaba, tanti amici. Hiske Maas

Insieme decidono di dedicarsi a un progetto complesso e totalizzante, «li guida il desiderio di un ‘luogo integrale’, di una cultura incarnata nell’ambiente, di una creatività scritta sulla terra.»

Sul sito dedicato al Musaba leggiamo «[…] l’iniziativa è largamente inspirata dal senso di ribellione contro l’ambiente dominato dall’incultura e dall’arretratezza, ostile alle innovazioni.»

Quando si trasferiscono in questo pianoro che guarda al Mar Jonio, tutto era in stato di abbandono, rovine non protette e coperte da rovi, un ambiente arso e selvaggio. Ma entrambi sono convinti, si trasferiscono a vivere a Santa Barbara e pian piano cercano di trasformare questo luogo in una folgorante opera artistica in continua evoluzione. Non vogliono stravolgere i luoghi, ma ridare a essi nuova luce, in un totale accordo con gli elementi della natura. E proprio con essa il giocoforza è complesso, perché l’ambiente è ostile, arso, difficile da gestire, eppure così ricco. Sarà proprio grazie all’opera della Fondazione Spatari/Maas che oggi è possibile ammirare splendidi parchi giardino mediterranei, pieni di orti, uliveti e frutteti, una vera ricchezza botanica.

Questi due artisti, con fatica e lungimiranza, sono riusciti a creare l’unico museo all’aperto in terra calabrese e uno dei pochi in Europa che sia al contempo anche cantiere-laboratorio continuo di sperimentazione artistica e tutela del paesaggio.

Nel giugno del 2014 i coniugi fanno donazione al Musaba – Fondazione Spatari/Maas https://www.musaba.org/ di tutti i loro beni mobili e immobili all’interno del parco museo, dando continuità a un’idea originaria, quella di non rendere l’arte esclusiva, ma al contrario una esperienza collettiva di crescita e di cooperazione.

La struttura

Su una superficie di 70.000 mq troviamo oggi il parco d’arte con giardini e orti mediterranei, agrumi, alberi e ulivi. Il museo invece è costituito dall’ex complesso monastico e dall’ex chiesa del millecento (1000mq), parzialmente restaurata e attuale museo-laboratorio. Troviamo inoltre edifici adibiti a uffici, art residence foresteria, laboratori d’arte, nonché opere suggestive e imponenti. Ci riferiamo, oltre che alle sculture presenti nei giardini, al Sogno di Giacobbe, di Nik Spatari, un’opera murale-tridimensionale e alla nuova costruzione Rosa dei venti.

Fu l’idea di produrre le armonie universali, ove forme, colori, energia sono parti tridimensionali di elementi che compongono un tutto; acqua, aria, fuoco raffiguranti entro geometrie e branche spaziosi e frammentarie cosmico-terrestri. Nick Spatari

Come già sottolineato, la natura gioca un ruolo centrale, le opere si incontrano per caso nel giardino, come tappe di un racconto infinito. Lucertole preistoriche, donne incastonate da muraglie e donne fontana da cui sgorga l’acqua dell’antico lago Sagros.

Ma anche la Rosa dei Venti, opera iniziata nel 2008 e ancora non completata, realizzata con forme geometriche ispirate ai triangoli egizi e agli esagoni dell’oriente antico, e costruita con materiali di recupero. Gli elementi provengono dalla natura del posto, pietre antiche recuperate dalle rovine dell’ex complesso e dai sottostanti torrenti Torbido e Neblà; travi e legname dei vicini boschi; pavimenti in legno e rivestimenti interno/esterno con ceramiche colorate.

L’altra opera centrale del Musaba è il Sogno di Giacobbe, in cui il personaggio biblico ha le stesse fattezze di Spatari. All’interno dell’ex chiesa di Santa Barbara, nell’abside e nella volta centrale, vengono posizionate delle vele, frutto di un tecnica sperimentata proprio dal Maestro Spatari «le figure sono ritagliate su fogli di legno leggero (Spatari stesso le definisce silhouettes), quindi dipinte e poi applicate come rilievi sospesi nell’aria. Leggeri aerei bassorilievi volanti.»

Per l’autore questa opera è dedicata al Campanella utopista della Città del Sole e a Michelangelo, Michelangelo astronauta, come diceva Spatari, perché É un’umanità assai diversa da quella michelangiolesca, i corpi sono meno gonfi, più tesi, più dinamici. C’è una energia, forse anche una sofferenza, sconosciute alla gente del Rinascimento.

Luce, forme

Alla precisa domanda rivolta al maestro Spatari su cosa rappresentasse per lui l’arte, egli rispose:

Il parallelo vivere dell’interminabile universo, ove luce, forme, colori sono parte di un’architettura materiale e spirituale, motivati e bagnati dallo spettro solare; si urtano ed esplorano da fondamentali a complementari, creando una dimensione tridimensionale; l’essenza, l’astrazione della vita, l’ignoto.

Fiorivivi ringrazia:

La Fondazione MUSABA Parco Museo Laboratorio Santa Barbara www.musaba.org per il lavoro che svolgono con talento e dedizione.

e-mail: info@musaba.org
Tel: +39 0964 418050
mobile: +39 333 2433496
address: Viale Parco Museo Santa Barbara
postal code: 89045 – Mammola RC – Italia

Quel che rimane. La poesia secondo Stefania Stefanini

Nei mesi di maggio e giugno, per l’evento Pomeriggi in poesia organizzato dalla Rivista Fiori vivi abbiamo incontrato l’artista Stefania Stefanini. Abbiamo parlato di poesia ma soprattutto di cosa significhi per lei il processo creativo.

Riportiamo alcuni passaggi dell’intervista e la lettura di alcune poesie tratte dal suo ultimo libro E ti immagino ancora lì (Edizioni Efesto 2023) che la Stefanini stessa ha registrato per noi. Parlano di fiori e le ha dedicate a tutti voi.

Come nasce la poesia

Che cos’è per lei, Stefania, la poesia?

S.S «Non so dirvi cosa sia in assoluto la poesia; per me, la mia poesia è quel che rimane. È l’emozione, l’essenza di quella emozione che riesco a cogliere soltanto mettendola su carta.

La somma di tutte le paure cheio trattengo in profondità e che riesco a tirar fuori soltanto mentre scrivo. Altrimenti le tengo chiuse, soffocate all’interno, perché non le voglio guardare, non le voglio vedere.

Scrivere è l’unico momento in cui riesco a parlarmi, a stare con me stessa e in tal modo a esorcizzare quella paura di cui vi parlavo. Le emozioni non riesco normalmente a tirarle fuori, a pronunciarle, a condividerle, cosa che invece scrivendo riesco a fare, ma cogliendone solo l’essenza. Ecco perché sono brevissime. Non ho bisogno di fare un dialogo lunghissimo o scrivere chissà quante parole per descrivere ciò che provo, perché nel momento in cui riesco a far affiorare quella parte di inconscio è tutto chiaro, netto. Lo vedo. Lo sento e quindi lo scrivo. È una necessità. E nel momento in cui lo faccio mi sembra di aver fermato qualcosa per l’eternità. Per la mia eternità. É lì, io stessa sono lì. Altrimenti so di perdere di nuovo quella rivelazione.»

Le capita di rileggere le sue poesie, anche le prime, di tanti anni fa?

S.S «Sì, spesso.»

E che effetto le fanno.

S.S «Mi toccano in profondità. Mi torna tutto in mente. Come se tornasse fuori ciò che ho incamerato. E questa sensazione è ciò che cerco di trasportare nello stile delle poesie.

E qualcosa di estemporaneo, non mi impongo di scrivere, mi metto solo in ascolto, mi sento e se c’è qualcosa che si muove, che ha bisogno di venir fuori esce da sola, senza il mio aiuto.

La mia poesia è quel che rimane, l’essenza

Questo effetto che prova a contatto con la poesia si verifica solo nel caso siano sue parole o le accade anche leggendo poesie o brano di altri autori?

S.S «Mi capita anche con gli altri, si accende una forma di empatia per cui provo la stessa necessità, lo avverto, è quella.

Penso che il meccanismo dietro la scrittura della poesia sia simile per tutti, ed è anche il motivo per cui sia difficile pubblicare, è la vera intimità che deve uscire, l’essenza della persona, sembra banale ma è davvero un mettersi a nudo.»

Ci sono autori che ancora più di altri suscitano in lei questa empatia?

S.S «Mario Luzi tantissimo. I notturni continuano ad affascinarmi. E poi Anna Achmatova, con cui condivido il fatto che scrivere sia anche un momento di dolore.

Quando il momento di scrivere mi chiama, sento al contempo dolore e gioia, tutto diventa essenziale, breve. Sono quelle parole, quel poco, l’essenza come dicevo prima. Una fragilità.»

È strano che parli di fragilità, perché nelle sue poesie c’è anche tanta forza, ruvidezza, violenza.

S.S «È proprio così, ma il contrasto nasce proprio dalla paura per quella fragilità che nascondo dietro la ruvidezza. Per questo sento la necessità di farla trasparire, per liberarmene.

In effetti scrivere assume per me una forma catartica. Nel momento in cui scrivo mi libero. Ed è come se quelle stesse fragilità non mi appartenessero più. Quando le rileggo, in un primo momento, non sembrano mie, ma sono esattamente me.

È un attimo in cui tutto viene a galla, per poi ricadere nell’inconscio. Richiudo le paure nel profondo, anche se poi all’improvviso ribussano e ho di nuovo bisogno di scrivere. E lo faccio, nonostante la timidezza. Provo sempre anche una certa vergogna nel condividere, anche se mi piace capire se gli altri provano le stesse emozioni. É un riconoscersi, come io mi riconosco in quelle poesie degli altri che svelano veridicità.

Un altro elemento fondante è rappresentato per me dalla mancanza, è come una spinta che solleva la malinconia. Il voler vivere qualcosa che non ho vissuto e il voler silenziare invece ciò che ho davvero vissuto. Anche se poi, contro il mio volere, tutto esce allo scoperto.»

I temi su cui si concentra non sono quindi specifici, ma sono la risultanza di una sedimentazione.

S.S «Assolutamente. Può essere di tutto, dalla gioia al dolore, un momento di malinconia, un ricordo, ma soprattutto quella sensazione di mancanza. È quest’ultima che scatena ogni cosa e che, proprio per questa ragione, faccio più difficoltà a condividere. Fa male anche a me stessa ritrovare quella parte più intima, mi fa paura.  

Nella vita di tutti i giorni non viene mai fuori, la tengo nascosta.»

Come mai, nonostante abbia scritto musica per tanti anni, proprio da poco ha iniziato a pubblicare poesia?

S.S «Con le parole riesco a disegnare una emozione, succede anche con la musica ma entra in gioco una forma diversa di emotività.

Mentre con le parole scavo a fondo dentro di me, con la musica mi allontano da me, viaggio.

Il suono mi fa uscire da me stessa, è la melodia che mi conduce in un viaggio lontano. Mentre con la poesia la voce esce dal di dentro e per questo ne ho paura, tanta, ma anche necessità perché è l’unico momento in cui si mostra. Delle volte rileggendo ciò che ho scritto mi chiedo se davvero sono stata io ad aver provato certe emozioni.

Quella stessa paura mi ha anche bloccata dal pubblicare poesie. Nonostante le scrivessi da tanto, è solo con la maturità e con le consapevolezze acquisite che ho potuto superare certe chiusure. Ho più coraggio nell’affrontare ciò che mi fa paura. Nonostante sia sempre difficile stare di fronte a se stessi, guardarsi allo specchio, oggi sono più capace a lasciare andare le cose e a rimanere a galla.

Non credo di avere la poesia dentro di me, ma è ciò che arriva dall’esterno dentro di me, lo immagazzino e poi mi sorprende quando decide di uscire.»

Letture

Dedicato

I versi che scrivo non seguono leggi metriche, rime. Con una immaginaria macchina fotografica inquadro emozioni, fragilità e paure. Scatto foto fatte solo di parole e so che se non le fermo in quel preciso istante le avrò perse per sempre. Ciò che cerco è l’essenza, il suono, l’onestà della verità senza timori. Cosa c’è di più reale di un verso poetico? S. Stefanini

Fiori vivi ringrazia

Stefania Stefanini: fondatrice della libreria Le Storie e della medesima casa editrice, dopo una lunga carriera musicale, si dedica alla poesia e alla diffusione di questa arte. Le poesie lette dall’autrice sono tratte dall’ultimo libro Ti immagino ancora lì, Edizioni Efesto 2022.

Tutte le persone che hanno partecipato all’evento Pomeriggi in poesia. La vostra presenza ha reso vivo l’amore per la poesia.

Concorso fotografico Fiori Vivi – Le Storie.

La nostra Rivista, in collaborazione con la Libreria Le Storie di Roma, presenta la prima edizione del Concorso Fotografico dal titolo Natura in città. Le iscrizioni sono aperte fino al 31 Agosto 2023. Riportiamo di seguito il regolamento e la scheda di presentazione da compilare.

Regolamento

1 Premessa

La Rivista Fiori Vivi e la Libreria indipendente Le Storie indicono la prima edizione del concorso fotografico dal titolo Natura in città. L’iniziativa si propone di indagare, attraverso il mezzo fotografico, il rapporto tra natura e città, dando risalto al lavoro di professionisti e non, accomunati dalla grande passione per l’arte.

2. Modalità di partecipazione

La partecipazione è, per questo primo anno, gratuita, aperta a fotografi professionisti e amanti dell’arte, di età maggiore di 18 anni, anche non residenti a Roma.

3. Dati tecnici

Il concorso si struttura in dure fasi: preselezione ed esposizione

  • L’artista, per accedere alla preselezione, dovrà inviare il numero di 3 scatti, in formato JPG di cui mantiene la proprietà e l’originaria paternità, all’indirizzo rivista.fiorivivi@gmail.com entro e non oltre il 31 Agosto 2023.
  • Ogni immagine deve avere un numero progressivo (1, 2, 3), essere titolata e accompagnata da una descrizione dell’opera e del suo significato, alla luce del tema Natura in città.
  • Sono ammesse fotografie in bianco e nero e a colori, con inquadrature sia verticali che orizzontali. Si raccomanda l’utilizzo della macchina fotografica e una buona risoluzione al fine di garantire la stessa qualità della foto anche in fase di stampa.
  • Le fotografie dovranno essere inedite.
  • Non possono essere ammesse al concorso le foto che si ritengano offensive, contro il buon gusto o lesive della sensibilità comune, secondo l’insindacabile giudizio degli organizzatori.
  • Non possono essere ammesse le foto realizzate esclusivamente mediante l’utilizzo di programmi o modelli di computer grafica.
  • Unitariamente alle foto, l’artista deve compilare la scheda di presentazione (scaricabile in fondo a questo avviso).

Solo le foto che avranno passato la preselezione in vista dell’evento finale (esposizione), dovranno essere stampate su carta da pellicola (montate a giorno o con cornice) con formato 50×70 e consegnate, o inviate, presso la Libreria Le Storie, via Giulio Rocco 37/39, 00154 Roma.

  • Sarà cura degli organizzatori avvisare gli artisti selezionati tramite email o recapito telefonico rilasciato tramite la lettera di presentazione.

4. Preselezione delle opere

Il Comitato organizzativo, che esprimerà un giudizio inappellabile e insindacabile, selezionerà alcune opere, considerando tecnica, originalità e aderenza al tema Natura in città, indagabile dall’artista secondo la sua personale sensibilità. Gli autori prescelti verranno contattati dal Comitato con anticipo, in modo tale da poter inviare o consegnare le opere, secondo quanto stabilito al punto 3.

5. Esposizione

Le fotografie selezionate ai sensi del punto 4 verranno esposte nella serata evento Fiori vivi Le Storie, che si svolgerà presso la Libreria Le Storie, via Giulio Rocco 37/39 00154 Roma, la cui data sarà stabilita, comunicata e resa pubblica dopo la scadenza della preselezione.

  • Le opere rimarranno esposte nello Spazio Le Storie per una settimana.
  • Le spese per la stampa e consegna del materiale sono a carico dell’artista, mentre l’allestimento della esposizione è a carico del Comitato organizzativo.
  • Durante la serata evento verranno decretati i vincitori.

6. Selezione vincitori e premiazione

Durante la serata evento, aperta al pubblico e trasmessa sulle piattaforme social della Libreria Le Storie e della Rivista Fiori Vivi, la Giuria (da individuare con provvedimento successivo alla pubblicazione del presente avviso), basandosi sia sulla qualità tecnica delle foto che sulla capacità dell’artista di rappresentare al meglio e con originalità il rapporto tra città e natura, comunicherà i nomi dei tre vincitori.

Primo classificato: l’artista a cui apparterrà la foto vincitrice del Concorso fotografico Fiori Vivi – Le Storie edizione 2023, potrà allestire gratuitamente una sua mostra personale presso lo Spazio Le Storie a Roma. La sua opera, con una breve intervista, sarà inoltre pubblicata nella Rivista Fiori Vivi, che seguirà l’artista anche nella sua personale.

Secondo classificato: l’artista a cui apparterrà la foto seconda classificata avrà in omaggio la stampa di una sua altra opera presso uno dei laboratori che collaborano con l’iniziativa e la menzione sulla Rivista Fiori Vivi.

Terzo classificato: l’artista a cui apparterrà la foto terza classificata riceverà in omaggio un libro fotografico e quaderni, nonché la menzione sulla Rivista Fiori Vivi.

A tutti i partecipanti alla serata evento sarà rilasciato un attestato di partecipazione.

7. Responsabilità dei partecipanti

  • Ogni partecipante è responsabile civilmente e penalmente del materiale da lui presentato al concorso esonerando il Comitato organizzativo da ogni responsabilità nei confronti di terzi.
  • Ogni partecipante dichiara inoltre di essere unico autore delle immagini inviate e che esse non sono state premiate in altri concorsi regionali, nazionali o internazionali.
  • Il Comitato organizzativo si riserva, con insindacabile decisione, di escludere dal concorso le immagini che non rispettano le direttive del presente avviso e quelle ritenute offensive, improprie e lesive dei diritti umani e sociali e comunque contrarie al comune senso della decenza, pubblica moralità ed etica. Lo stesso vale, in caso di vittoria, per la mostra personale del vincitore, le cui opere dovranno essere preventivamente valutate dal Comitato organizzativo.
  • I fotografi manterranno la proprietà intellettuale delle opere realizzate.
  • I partecipanti concedono la liberatoria all’utilizzo delle foto inviate (ex D. Lgs. 196/03, ex Regolamento UE 679/2016, ex L. 633/1941) nell’ambito del concorso e la liberatoria all’utilizzo di eventuali immagini video o fotografiche che potrebbero realizzarsi in occasione della premiazione (ex D. Lgs. 196/03, ex Regolamento UE 679/2016, ex L. 633/1941).
  • In conformità alle disposizioni previste nel Reg. UE 679/2016 relativo alla ‘protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali’ (GDPR), si informa che i dati forniti dai concorrenti tramite la scheda di presentazione sono raccolti e trattati dal Comitato organizzativo esclusivamente per la finalità di gestione dell’evento e per comunicazioni inerenti al concorso.

8. Accettazione del concorso e delle sue condizioni

La partecipazione al concorso implica l’accettazione incondizionata delle norme contenute nel presente Avviso.

Scheda di presentazione

(da scaricare, compilare e inviare obbligatoriamente ai fini della partecipazione al concorso)

https://www.lestorie.it/wp-content/uploads/2023/07/SCHEDA-DI-PRESENTAZIONE.docx

Contatti

Fiori Vivi: www.fiorivivi.com rivista.fiorivivi@gmail.com

Le Storie: www.lestorie.it info@lestorie.it

Spazio Le Storie: Via Giulio Rocco 37/39, 00154 Roma Tel: 06-64420211  

Appunti biografici

di Elisabetta Panico

Intro

Beibi Laplà, nome d’arte della poliedrica artista Elisabetta Panico, presenta Appunti Biografici, una raccolta di collage analogici, frutto di una precisa ricerca artistica personale.

Le immagini così ottenute, come fossero pagine di un diario, si fanno narrazione intima, in cui i ricordi visivi si fondono con frammenti di poesie.

Le opere, raccolte tra il 2020 e il 2023, sono tutte su fondo bianco, piccoli collage analogici delle dimensioni di cm 14,5 x 21,5. Non hanno titolo, ma un numero progressivo in grado di tracciare un discorso senza fine, piccoli accenni di memoria privata che si fanno suggestione collettiva.

La nascita di una forma d’arte

Ho cominciato a metter mano sulle riviste quando ero una bambina e finivo sempre col passare troppo tempo in mezzo ai grandi, disegnavo labbra piene con le bic rosse e lunghe ciglia alle showgirl sulle copertine di giornali che mia nonna comprava settimanalmente. Abitudine così demodé se penso a come le informazioni e le immagini veicolano oggi. Se la noia era tanta, finito il restauro e il make-up gratuito, cominciavo a fare con le forbici tante striscioline, dalle striscioline tanti pezzetti quadrati, coriandoli. Era così soddisfacente… ma ahimè, venivo rimproverata poco dopo perché, nella cultura partenopea, fare tanti pezzettini di carta porta miseria, e la scaramanzia è senz’altro una forma di superstizione tanto cara a Napoli, terra che amo da cui provengo.
Con mia madre poi, alle elementari, ho scoperto una tecnica ancor più affascinante, lei nutriva una certa soddisfazione con le pagine che contenevano i miei errori di grafia o troppe cancellature visibili: le strappava. Io non ho mai raggiunto la perfezione che cercava, ma di sicuro mi lasciavo sedurre dal fascino della Carta.

Negli anni le forbici sono divenute il prolungamento delle mie mani. Più cresceva la mia consapevolezza, maggiore era il richiamo per questo strumento. C’è chi ha fatto del pennello virtù, secoli di storia passati tra nomi quali Kandinskij, Klee, Modigliani, Picasso. Nomi a caso, tra altri e altri, aggiunti a un elenco infinito che non smetterà mai di crescere. C’è poi chi ha fatto del corpo il proprio mezzo, quel corpo che non assecondava il movimento del braccio, ma diveniva presenza intera. Happening, Performance. Ho passato tutto il tempo a studiare arte o ciò che la riguardasse: prima il canonico Istituto d’Arte, poi l’Accademia di Belle Arti. Un triennio in Didattica e comunicazione dell’arte e un biennio specialistico in Pittura.

Non mi sento utile in nient’altro se non questo, non ho basi di biologia e per me le stelle sono solo corpi celesti da disegnare a cinque punte. So fare il caffè però, non smentisco le mie origini e forse un po’ rendo fiero Denis Papin.  


Negli anni legati allo studio accademico, i ritagli di triangolini e piccoli rombi deformi erano consentiti, zero malocchio. Li applicavo su silhouette appena abbozzate, e finivano col dar volto astratto a figure tracciate da linee geometriche. Quei volti si son poi ingranditi. Nuove identità, nascevano per mano di ritagli che s’impossessavano di ogni spazio.
Si trattava di donne per lo più. Come Frida Kahlo mi approcciavo a rappresentare ciò che conoscevo meglio. La mia ricerca è poi andata avanti, e, come amiche fedeli, ancora oggi quelle lame incrociate… ancora oggi, il Collage.

Per chi ne è a digiuno: siamo agli inizi del Novecento, delle avanguardie, del ‘polimaterismo’. A queste nuove ricerche materiche, si aggiungono pacchetti di sigarette, scatole di fiammiferi. Questa l’arma di Picasso, di Braque, dei Cubisti. Il Futurismo e l’Astrattismo finiscono col puntare invece alla geometria. Con il Neo-Dada, la Pop art e il Nouveau realisme, il collage diventa materia a tre dimensioni. La ‘tecnica d’assemblaggio’ preferita dagli artisti dell’epoca cresce, si trasforma, ma persiste. Il collage diventa satira con i fotomontaggi di John Heartfield, diventa poesia surrealista con Carolina Chocron, diventa poi opposta al suo principio, con Mimmo Rotella e i suoi strappi (décollage).

Collage, è, sovrapposizione, è un fotomontaggio analogico, una ri-visitazione di un’immagine già vista. Fotografie, giornali, carte, tutto questo diventa materiale da ‘composizione’.                     

A me piace vederla così…

Un giorno poi, parlo di anni addietro, ero nel mio studio, una piccola veranda dipinta di bianco, luminosa, accogliente, uno spazio ricavato nella casa d’infanzia, la casa che mi ha vista nascere e ha visto nascere le mie fasi e frasi, di parole e scarti. La veranda da sempre dà su un giardino con alberi nani e rose, un vialetto piccino che si apre in un parcheggio; la scuola materna ed elementare in lontananza, un piccolo bar dove anziani e persone del quartiere s’incontrano per passare le ore, tanto verde a chiazze.

Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.
Antoine-Laurent de Lavoisier

Di fronte a tutto questo divenne chiaro un pensiero; mentre osservavo immobile in attesa di spunti, mi accorsi che la natura, i protagonisti che la componevano, tra superficiale e materia viva, il semaforo all’angolo-l’aiuola appiccicata lì piuttosto che là-il sole fermo in alto-le virgole di nuvole-i camini come punti fermi-le verticali dei palazzi e l’arancio che li veste: era un collage. Ogni elemento formava insieme ad altri, scenari mutevoli, per casualità o consenso umano.


Ciò che porto su foglio è quindi, l’elaborazione di questo pensiero poetico. La mia natura. Parlando di me, sfuggono di mano tutte quelle cose che non si fermano a me. Immagini ritagliate e messe a riposare su carta, tracce verbali, e con il verbo ho sempre avuto una singolare amicizia devo dire. La parola era presente sui diari di scuola, quelli da libero sfogo di una quindicenne, nei testi pop arrangiati con un gruppo durante la fase post-adolescenza. La parola è ne Il riflesso del mondo, in una pozzanghera nel fango, e in Diavolo di sabbia, le mie due raccolte di poesie.

Appunti biografici

Con Appunti biografici, il foglio si prepara a raccontarmi per intero ogni volta. Poesia e Collage si prendono per mano, per mano mia. Accade più o meno questo: delle informazioni inconsce passeggiano sparpagliate sulle pagine di Vogue, su una rivista vecchia degli anni ’50, su vecchi fumetti o cataloghi d’arte di mostre passate; giri e rigiri, ti salutano, e tu le afferri e le maneggi con cura, le accosti ad altre, esce un discorso visivo, intimo, personale. Una sintesi della prosa disordinata che meglio di questo non saprei fare.
Le parole che accompagnano e confezionano le considerazioni incollate, sono poi prese da un unico testo, sempre lo stesso. Simili ai primi Journaux intimes, di Sophie Calle o ai romanzi-collages di Max Ernst, Appunti biografici diventa così un taccuino trascritto senza margine di errore o sbavature, pagine scisse formalmente disciplinate e prive di incidenti cromatici. Una ricerca che dura da tempo, cominciata durante quegli anni che metà di noi vorremmo dimenticare, quando un virus ci ha tenuti chiusi in casa. Io creavo intanto. Il risultato? Versi sospesi in scenari onirici e surreali. Una riflessione sulle intime fragilità del quotidiano, sulle occasioni perse, quelle trattenute, divorate e lasciate andare. Un discorso privato, raccolto e riassunto in stratificazioni che scatenano le facoltà visionarie. Il riepilogo di passaggi fugaci di quotidianità.

Appunto 4
Appunto 12
Appunto 17
Appunto 19
Appunto 26

Ora, continuo a fare cose, Appunti biografici cresce, è stato in mostra un po’ qua e un po’ là, io classe ’95 ormai invecchio, e si aggiunge il fatto che non so come si metta fine a questo flusso di parole che qui leggi e che hanno la stessa valenza di un’omelia la domenica mattina mentre sei in hungover. Per cui taccio, ci do un taglio.

Fiori vivi ringrazia

Elisabetta Panico, in arte Beibi Laplá: collage artist e autrice. Ha inoltre pubblicato due raccolte di poesie Il riflesso del mondo, in una pozzanghera nel fango (BookSprint 2016) e Diavolo di sabbia (Mnamon 2020). I suoi collages appaiono su riviste indipendenti di respiro internazionale quali: The Release, Lona Fanzine, CedroMag, Salmace, Suttapress, Photo Trouvée Magazine, Vulva Fanzine. Ha curato la copertina del numero 13 di Crack Rivista, presentata al Salone del Libro di Torino (2022). Da quest’anno cura il visual della rubrica ‘Gli Scomodi’ di Limina Rivista e la rubrica ‘Asterismi’ di Spore Rivista. Porta avanti la sua ricerca artistica sospesa tra immagini e parole con Appunti biografici, esposta all’Archeologico a Nola e al Palazzo della Cultura di Avellino. Attualmente lavora presso il Museo Irpino.