ESPLORAZIONI #2. Storie di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda. Un viaggio tra leggende, luoghi e libri.

di Flavia Sorato

Sono un devoto delle avventure oggi come allora, e non finirà mai.
William Goldman

E all’improvviso capì perché Lancillotto avrebbe galoppato nei secoli.
John Steinbeck

Quando inizierai le tue avventure fallo con gioia, con le tue forze […]
René Barjavel

«[…] Vero amore. Odio […] uomini malvagi. Uomini buoni. Belle dame. Serpenti. Ragni. Bestie di ogni natura e tipo. Dolore. Morte. Uomini coraggiosi. Uomini codardi. Uomini più forti. Inseguimenti. Fughe. Menzogne. Passione. Miracoli». (W. Goldman, The Princess Bride)

Ci sono libri e racconti che sembrano contenere Tutto. Una complessità vivificata dall’immaginazione, facoltà «padrona dell’arte come della vita» come direbbe Conrad, che concede all’uomo d’inventare e poi di ripercorrere avventure, alla scoperta proprio di quel tutto in ogni dove ed ogni volta, poiché «per quanto lontano si possa viaggiare, c’è sempre un luogo ancora più lontano. Il mondo non finisce da nessuna parte». (Barjavel)

Come scriveva Vladimir Propp in merito alle formule della fiaba, studiandone la morfologia, ci si trova, leggendole o sentendole raccontare, “in un certo reame, in un certo tempo”. Il famoso incipit “C’era una volta…” conduce lontano, sospesi e immersi in un tempo passato, vago, eppur senza fine.

In un sempreverde Regno d’avventure.

I miti, le fiabe, le leggende ci consegnano un tempo ed uno spazio eterni, ogni volta presenti allora come ora. La vita, con i suoi grandi ideali, valori, follie, capricci della Fortuna, ci è trasmessa da epoche antiche e racconti che hanno camminato insieme a viaggiatori, poeti, popoli, ci dicono oggi di uomini e donne del passato che non muoiono mai. Invero, «sono storie vive anche in quelli di noi che non le hanno lette». (Steinbeck)

Il ciclo arturiano è il canto epico di gesta e sorti immortali.

Da secoli i racconti sui cavalieri della Tavola Rotonda errano ovunque, trasmessi, rimaneggiati, re-immaginati, generando un’iconografia vastissima e sollecitando l’immaginazione di studiosi, scrittori e lettori. Così dal Medioevo si tramandano «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese…». (Ariosto)

La leggenda di re Artù s’intreccia con la realtà, così le sue gesta sono oggetto di studio e di ricerca storiografica. È realmente esistito questo condottiero? Tra riscontri e smentite, alcuni rintracciano una sua possibile presenza tra la fine del V secolo e l’inizio del VI d.C., identificando la sua figura con quella di un valoroso britanno a capo della lotta contro i Sassoni invasori, e parlano di un dux bellorum: si scopre così il nome Artorius, giacché i capi bretoni hanno spesso dei nomi dalla consonanza latina. La Bretagna ai tempi è difatti una provincia dell’Impero che subisce gli attacchi di nemici storici come Sassoni, Pitti e Scoti. Marc Rolland nel suo studio sulla figura storica/mitica di re Artù ricorda che «la Bretagna, come molte province del vacillante Impero, è all’epoca un curioso miscuglio, in cui bretoni romanizzati da almeno dieci generazioni, confederati germanici, sarmati o altro, e capi di tribù rimaste fedeli ai capi celtici coesistono non senza problemi».

Comunque, questo capo che viene individuato da più fonti, si distingue, di vittoria in vittoria, quale grande guida militare e amministratore giusto, dando vita ad un esteso regno, circondato ed aiutato da fieri ed impavidi cavalieri… ma tali racconti sfumano nell’invenzione e diventano ancora una volta materia leggendaria. La stessa morte del Re è una narrazione fascinosa, di prodigi: Artù non scompare, si dice che stia ancora riposando in un luogo incantato, l’Isola di Avalon, in attesa di tornare a guidare il suo popolo quando il mondo ne avrà bisogno.

Avalon, secondo le fonti, potrebbe essere collocata in diversi punti reali, ma tra le ipotesi più diffuse a partire dal Medioevo vi è quella che l’isola immaginaria sia da localizzare nella piccola città di Glastonbury, presso la cui misteriosa collina re Artù è sepolto.

Queste storie, quindi, sono anche visioni di terre diventate leggenda, luoghi sospesi tra realtà e fantasia, che compongono una geografia affascinante, in cui immergersi tutt’oggi. Si possono esplorare così la Cornovaglia e il Galles, l’Inghilterra del Medioevo, e si assiste ai rischiosi viaggi alla ricerca del Graal: seguiamo, infatti, le sorti dei cavalieri erranti che si spostano tra foreste, castelli, Paesi, per trovare la Sacra Coppa che venne portata dalla Palestina in Britannia da Giuseppe D’Arimatea, colui che aveva raccolto nel noto recipiente le gocce del sangue di Cristo dopo la crocifissione.

Volendo ridisegnare una mappa dei luoghi della leggenda, Paolo Ciampi nel suo diario di viaggio “In compagnia di re Artù”, accompagna in un’esplorazione intensa il lettore che, avvinto dai sogni di un bambino, vive un itinerario suggestivo. Alcune cose, scrive Ciampi, ti entrano dentro da piccolo e non se ne vanno via mai più.

Così le tappe della riscoperta reale di luoghi immaginati diventano soste e ripartenze emozionali: castelli, paesini, scogliere a picco sul mare. Tutto ricompone la carta della Britannia, più precisamente «quello che era il regno celtico di Dumnonia e che, oltre alla Cornovaglia, comprendeva il Devon, più parte del Somerset e del Dorset, ovvero una bella fetta dell’Inghilterra sud-occidentale».

Questo era Logres, il Regno di re Artù.

Narra leggenda che il sovrano sia nato a Tintagel, sulla costa della Cornovaglia che guarda, a nord-ovest, l’Irlanda.

La storia di questi natali ci riporta a un tempo, quello in cui Uther Pendragon indossa la corona di queste terre. Grande sovrano, dopo aver combattuto tremende battaglie e guidato soldati alla conquista di confini sempre più lontani, capitola dinanzi a una donna: Igraine, di una bellezza abbagliante e anche, per malasorte, sposa del signore di Tintagel, Gorlois (amico-nemico di Uther). Una vicenda complessa che pare ricordare vagamente o preannunciare quella futura di Lancillotto e Ginevra.

Dunque, come può il Re, stravolto dall’incontro e preda del desiderio, avvicinare la donna amata, fedele al marito e inaccessibile?

Il sovrano «poteva contare su un mago».

Ecco che una delle figure centrali della leggenda fa il suo ingresso, cominciando a muovere i fili di tutte le avventure che saranno.

Merlino. Il potente mago che intreccia destini, che accompagna sorti e sussurra vie da percorrere, qui appare già come consigliere del re, non però per sopprimere la sua passione ma per far sì che accada quello che lui vuole, quello che deve succedere per originare tutta la storia. Propone al sovrano una sorta di patto: grazie ad un incantesimo farà sì che Uther possa prendere le sembianze di Gorlois durante la notte e giacere con Igraine, mentre il povero marito ignaro è lontano sul campo di battaglia. Ma in cambio di qualcosa. Pone infatti una condizione da dover rispettare: «La prima notte che trascorrerete con Igraine concepirete un figlio che mi farete consegnare appena sarà venuto alla luce. Io lo alleverò dove più mi piacerà». (P. Ciampi)

La Fortuna compie il resto. Gorlois muore sul campo di battaglia e così la sua sposa vedova, libera d’innamorarsi e scegliere Uther, si unisce al re mettendo intanto al mondo il bambino, il futuro re Artù, «il più famoso degli uomini».

Merlino, Myrddin in gallese, ci porta in uno degli altri luoghi della leggenda, Carmarthen, la città dove sembrerebbe esser nato e dove si trovano ancor oggi tracce della sua mitica presenza, come la collina che porta il suo nome.

Merlino, che secondo le leggende ha una doppia natura e anche una doppia storia.

Lo racconta sempre Ciampi nel suo libro, con parole che ne descrivono tutta la natura più profonda.

Per gli antichi gallesi, infatti, esiste «Merlino il Selvaggio, che è un bardo precipitato negli orrori della guerra. Dopo una delle Tre Futili Battaglie dell’isola di Britannia si allontana e comincia a vagare nella foresta. Perde il senno, ma in cambio acquista il dono della profezia». C’è poi «Merlino il Saggio, detto anche Merlino Ambrosio, che sa diventare consigliere del sovrano e porsi al servizio della pace e della giustizia, con i suoi consigli prima ancora che con i suoi poteri.

Il saggio e il selvaggio: la prima parola è contenuta nella seconda. Come due lati della stessa medaglia. O meglio, come se la saggezza non possa che essere figlia dei tormenti della mente, del buio delle foreste».

Quella che si conosce, la figura che è stata tramandata fino al presente è sicuramente più vicina all’immagine del Saggio, ma contiene in sé anche alcuni aspetti del secondo personaggio. Non si scordi che il mago è figlio di una donna mortale e del Diavolo.

Ebbene, anche John Steinbeck sembra tornare a riflettere sull’importanza dei luoghi nelle lettere scritte prima e durante la stesura del suo libro, “Le gesta di re Artù e dei nobili cavalieri”, testimonianze dense delle sue appassionate ricerche. La vera scintilla è racchiusa in questa corrispondenza diventata appendice del romanzo.

In una lettera del 1958 alla sua agente letteraria, Elizabeth Otis, si legge: «L’anno scorso ho trascorso un periodo di tempo in Inghilterra, come tu ben sai, recandomi in numerose località cui si farà riferimento nel libro, per assorbire la sensazione fisica dei posti. Credevo di essermi documentato in questo senso abbastanza bene. E soltanto continuando a leggere constato che vi sono vuoti nelle informazioni di cui dispongo. Troverò necessario tornare in Inghilterra. […] Credo che il momento migliore per partire sarebbe il primo giugno. Devo andare a trascorrere un po’ di tempo a Glanstonbury, a Colchester e in località della Cornovaglia, nei dintorni di Tintagel e poi di nuovo a nord per trattenermi a Alnwick e a Bamborough Castle, in Northumberland. […]Le fotografie non servono a nulla. Recandosi laggiù ci si può assicurare una forte carica».

Il romanzo di Steinbeck (incompleto e pubblicato postumo nel 1976) è una delle varie rivisitazioni moderne della leggenda di Artù e dei suoi cavalieri: nello specifico il testo si basa sull’opera di Thomas Malory (XV secolo) che a sua volta attinge a racconti precedenti.

Tutte queste narrazioni compongono, infatti, un corpus davvero complesso: un’abbondante materia letteraria, ricchissima di tanti fili narrativi che si sviluppano ormai da secoli e si passano il testimone pure all’interno di uno stesso ciclo, anche secondo una tecnica denominata entrelacement (Ferdinand Lot). Cercando di riassumerne il meccanismo, si tratta di un procedimento che vede lo sviluppo di più racconti: per favoleggiare le gesta di un personaggio se ne lascia in sospeso un altro e così via, passando da una storia ad un’altra per poi ritornare ai fili narrativi precedenti. Questo fa sì che si crei un insieme in cui tutte le parti per funzionare hanno bisogno delle altre ed infatti «in un racconto efficacemente entrelacé, diventa impossibile eliminare uno dei fili senza guastare tutto il tessuto narrativo». Come ricorda Claudio Lagomarsini nella sua guida ai romanzi francesi del Duecento, questa tecnica non è del tutto nuova, già l’epica classica l’aveva sperimentata con successo. Sicuramente, però, viene migliorata e raffinata in uno dei grandi cicli che raccoglie le leggende sui Cavalieri della Tavola Rotonda e del Graal: “il ciclo del Lancillotto-Graal”.

Ma volendo procedere con ordine, prima di tutto è necessario comprendere come siano cronologicamente e tematicamente organizzati i materiali di contenuto “arturiano”.

Sono moltissimi i testi scritti, poi riscritti e rimaneggiati con questi temi, dal Medioevo ad oggi.

Esiste poi tutta una letteratura sulle avventure dei cavalieri che hanno preso parte alla Tavola Rotonda, come ad esempio il “Sir Galvano e il Cavaliere Verde”, poema cavalleresco del XIV secolo, o anche “Il Tristano in prosa”, composto tra il 1230 e il 1235, circa. Tutte narrazioni che affondano le radici nel folklore popolare, nella cultura inglese, in particolare gallese, e in quella celtica.

Che si sappia, il primo a citare il personaggio di re Artù fu Nennio, un monaco gallese vissuto nel IX secolo, di cui si hanno così poche notizie, e le poche dubbie, al punto che l’opera più famosa a lui attribuita non può dirsi certamente sua. Si tratta della “Historia Brittonum”, un manoscritto che ripercorre la storia dell’Inghilterra ed in cui appunto si parla di un certo Artù, fautore della vittoria contro i Sassoni nella battaglia di Monte Badon, nel 500 d.C. Di fatto, comunque, questo testo è la fonte da cui hanno preso vita le successive elaborazioni, oltre che gli ampliamenti della leggenda arturiana. Sempre nel Medioevo, infatti, a riprendere e sviluppare questo soggetto è un altro autore di origine gallese (non si sa con certezza se monaco anch’egli oppure no): Goffredo di Monmouth, artefice della “Storia dei re di Britannia”. In quest’opera sono raccolti molti miti, leggende e racconti legati alla Britannia, oltre alla storia delle vicende dei re che l’hanno guidata per circa duemila anni.

Con Goffredo siamo nel XII secolo. In poco tempo l’insieme di queste narrazioni, dette anche “Ciclo bretone”, “Ciclo arturiano” o “materia di Bretagna”, si diffonde e giunge in Francia: i testi così tradotti finiscono tra le mani di Chrétien de Troyes, grande interprete dei valori delle corti feudali e dell’epica cavalleresca. A lui si deve la trilogia di “Yvain, il cavaliere del leone”, “Lancillotto o il cavaliere della carretta” e “Perceval o il racconto del Graal”, che pare sia il primo a raccontare della sacra coppa.

A livello temporale s’inserisce qui il suddetto ciclo del Lancilloto-Graal che «riunisce in un insieme globalmente coerente e coeso un numero sbalorditivo di avventure e peripezie». (Lagomarsini)

Per chiarezza, si elencano in ordine i romanzi che lo compongono, in modo che i soggetti tramandati possano essere intellegibili: “Storia del Santo Graal”, “Merlino”, “Seguito del Merlino”, “Lancillotto”, “Ricerca del Santo Graal”, “La morte di Artù”.

È proprio quest’ultimo componimento che permette di oltrepassare i confini cronologici e culturali del medioevo. Nel XV secolo, infatti, Thomas Malory scrive “La morte di re Artù” che si basa appunto su tutti i racconti a lui giunti e si nutre in particolare dei contenuti del ciclo del Lanciolloto-Graal.

Va detto che la rielaborazione di Malory è quella che ha portato alla versione tutt’oggi più conosciuta, nel senso che ha consentito il passaggio da un racconto medioevale ad una variante più moderna della storia: in molti hanno continuato, infatti, a riproporre adattamenti e interpretazioni, fino ai contemporanei, tra cui ad esempio, Steinbeck o Barjavel.

Il romanzo di Barjavel, “Il mago M.”, compone insieme più tradizioni  e racconta con mirabile finezza i destini di Merlino, Artù, Parsifal, Viviana, Lancillotto, Ginevra, Morgana, e di tutti coloro che fanno parte della Grande Avventura. Ogni capitolo segue una delle sorti, portandoci tra Camelot, castelli incantati, nel regno sottoterra popolato dai Giganti, in mezzo a duelli, tornei e battaglie, sulle sponde di un lago dove vive una Dama…

La Famosa Dama del Lago, Viviana, che ama Merlino e che lui ricambia.

Tra le tante rimodulazioni delle storie del ciclo bretone, questa di Barjavel effonde una vera e propria malia. Che si tratti di legami tra madri e figli, d’unioni difficili, separazioni, ricongiungimenti e rapporti al di là del tempo, dalla storia affiora un racconto dell’amore di potente grazia.

Il protagonista del romanzo è Merlino, anche se compare a volte solo come un bagliore. È il fil rouge, che tiene unite le varie storie, aiutando e consigliando prima un cavaliere, poi materializzandosi sotto mentite spoglie, apparendo in momenti cruciali.

Così inizia:

«Più di mille anni fa, in Bretagna, viveva un mago di nome Merlino. Era giovane e bello, aveva lo sguardo vivace e malizioso, un sorriso vagamente beffardo, le mani sottili, la grazia di un ballerino, la noncuranza di un gatto, la vivacità di una rondine. Lo scorrere del tempo non lo sfiorava, sua era la giovinezza eterna delle foreste. Possedeva i poteri e li utilizzava solo per il bene (o per quello che riteneva essere il bene). Ma talvolta capitava anche a lui di commettere un errore: non era un uomo come tutti gli altri, certo che no, ma era pur sempre umano. Per gli uomini era l’amico, colui che dà conforto, che condivide gioie e dolori, che aiuta senza calcoli. E che non tradisce mai. Per le donne era il sogno […] ma era troppo bello, inaccessibile. Era come un angelo. Soltanto Viviana lo amò e ciò fu cagione di felicità, forse di tristezza, o di entrambe le cose, per l’uno e per l’altra […]».

Merlino appare, quindi, a volte, come un ragazzo ed altre volte, come un anziano; ha la capacità di trasformarsi e di cambiare sembianza, e questo potere, come altri, gli deriva dal padre. Il Diavolo l’ha concepito come sua opera e lo vuole al suo servizio. Ma il mago, per natura, oltre che per scelta, decide di seguire un’altra via.

E sarà così che cercherà di salvare sé stesso ed i cavalieri, guidandoli alla ricerca del Graal.

«Voci giunte dalla notte dei tempi lascerebbero supporre che Merlino avesse già spedito parecchie volte degli uomini sulle tracce del Graal, già ben prima della Tavola Rotonda. Perché se è vero che nessuno sa cosa contenga il Graal, è altrettanto vero che quando gli uomini se ne distolgono perdono la gioia di esistere poiché non sanno più chi sono, né perché sono. Pur restando in vita cessano di essere davvero delle creature viventi. Allora un profeta o un mago li rimette alla ricerca del tesoro perduto. Un tesoro difficilissimo da trovare, senza il quale le sventure si abbattono sulla Terra e in Cielo». 

Il ciclo arturiano, ed anche questa rivisitazione di Barjavel, hanno come tema centrale la ricerca di questo oggetto meraviglioso.

La parola, come ricordano più studiosi, tra cui Marc Rolland, viene dal latino cratalis, e non indica propriamente una coppa, ma più precisamente un “piatto fondo”: in questo modo la storia si ricollega anche all’episodio dell’Ultima Cena.

Di racconto in racconto, però, la leggenda arriva ad utilizzare ed eternare il simbolo della coppa, la cui essenza può esser scorta solo da chi è degno di vedere al suo interno, colui che occupa il così detto “Seggio Periglioso” della Tavola Rotonda: il cavaliere più puro, ma anche colui che ha il coraggio di questa Visione, è l’unico che potrà mettere fine alla Ricerca e ricevere così quell’iniziazione che riporterà la Verità nel mondo.

I cavalieri viaggiano in ogni dove, mettono a rischio la loro vita, spesso la perdono per questa conquista, e solo pochissimi riescono ad avvicinarsi al Calice: Parsifal, ad esempio, dopo innumerevoli dimostrazioni di valore, è quasi sul punto di compiere l’Impresa, ma fallisce. Sarà Galaad a realizzarla. Nome vero di Lancillotto e di suo figlio, colui che avrà la forza di scorgere il vero.

L’Avventura così prende vita e si sviluppa, piena di simbologie ricchissime di significati (la stessa Tavola Rotonda, ad esempio) e di sapienti riflessioni sulla vita e sul senso del destino.

“Poca importanza ha la sorte per il saggio”, scriveva Epicuro.

Ma non per gli amanti.

A costoro spetta una ventura impossibile da controllare con la ragione. Così, tra battaglie, ricerche, e sortilegi, due personaggi incontrano “il proprio destino nella via che s’era presa per evitarlo” (J. de La Fontaine).

Accade infatti che Ginevra e Lancillotto si innamorano.

Pochissime parole a descrivere questa galassia, tutto quello che si può scrivere non servirebbe: tanto è vero che Barjavel più avanti lascerà una pagina bianca, lo spazio e il tempo in cui quell’amore prende forma.

Artù, il povero Artù, non avrebbe mai potuto nulla contro questo, e neppure Merlino, il potentissimo Mago. Sfortunato Artù. Quell’unione fatta di rispetto, ammirazione, sostegno, valori inestimabili coltivati tra lui e la sua regina, svanisce all’improvviso, perché la natura è più forte, anche quando si tratta del vincolo più onesto ed onorevole.

Lancillotto non vuole tradire la fiducia del suo re. Così Ginevra. Da sempre un sentimento ambivalente accompagna la visione di questo amore. Possibile non riuscire a domare l’emozione per le sorti di un intero Regno?

Ma questa storia non è il racconto di una delle tante passioni nate sotto il Cielo. Ha più a che fare con quella forza che, detta alla Salinger, tiene insieme l’Universo.

Ginevra e Lancillotto si amano, semplice e stupefacente al tempo stesso.

La Sorte ha scelto loro per mostrare questa possibilità d’eternità al mondo.

E così anche l’unione di Merlino e Viviana, la Dama del Lago, ha il respiro esteso della bellezza.

Leggere della scena che li vede parlarsi mentalmente a distanza, lei nella foresta e lui altrove, è come contemplare la perpetuità di un’opera d’arte.

«Mormorò il nome di Viviana e lei lo sentì e pronunciò il nome di Merlino con la stessa tenerezza. Il mago le disse:

  • Ti regalo la foresta nella notte di San Giovanni…

Viviana fluttuò su un mare di foglie, se ne lasciò travolgere, divenne lei stessa foresta, le sue dita aperte fiorirono…».

La metamorfosi che costella i più noti miti dalla notte dei tempi.  

Ma d’altronde le storie e tutti i cicli delle Avventure dei Cavalieri della Tavola Rotonda compongono insieme un grande mito, un incessante ed inesauribile racconto che accompagna tutti da sempre.

Ed i miti, come scriveva Camus, «sono fatti perché l’immaginazione li animi».

Bibliografia

R. BARJAVEL, Il mago M., L’Orma Editore, Roma 2019.
P. CIAMPI, In compagnia di re Artù. In viaggio per Galles e Cornovaglia con leggende e cavalieri, Mursia, Milano 2019.
H. COOPER (a cura di), Sir Gawain and the Green Knight, OUP, Oxford 2008.
R. DE BORON, F. ZAMBON (a cura di), Il libro del Graal, Adelphi, Milano 2005.
C. DE TROYES, G. AGRATI,  M. L. MAGINI, (a cura di), I romanzi francesi, Mondadori, Milano 2017.
C. LAGOMARSINI, Il Graal e i cavalieri della Tavola Rotonda. Guida ai romanzi in prosa del Duecento, Il Mulino, Bologna 2020.
A. LUPACK, The Oxford Guide to Arthurian Literature and Legend, OUP, Oxford 2005.
T. MALORY, Storia di re Artù e dei suoi cavalieri, Mondadori, Milano 2017.
M. ROLLAND, Re Artù, Il Mulino, Bologna 2011.
J. STEINBECK, Le gesta di re Artù e dei suoi nobili cavalieri, Rizzoli, Milano 1980.