LA STORIA DELL’UNICORNO

di Gilda Diotallevi

L’unicorno è una delle più belle tra le ombre che vagano nelle vaste regioni del pensiero…

O. SHEPARD

La storia dell’unicorno si perde tra realtà e leggenda. Confondendo il piano dei fatti con quello dei simboli e dei significati, essa rappresenta un fulgido esempio di come un’antica credenza abbia attraversato i tempi e lo spazio, lasciando tracce di sé in quasi tutto il mondo per arrivare fino ai giorni nostri.

Seguirne le evoluzioni, le confusioni, le sovrapposizioni di genere e la credenze risulta difficile, perché la storia dell’unicorno si compone e si frammenta di continuo, mettendo in connessione tradizioni diverse, provenienti da oriente e da occidente.

Classificato come animale esistente, l’unicorno ci pone di fronte i limiti epistemologici della scienza antica, la difficoltà di reperire notizie certe e la fondazione del sapere su dati riportati da viaggiatori, scrittori e mercanti. Eppure affascina l’idea che per secoli interi questo strano animale fosse stato considerato esistente. Come a dire che se il dato scientifico non era attendibile, la credenza e il mito che intorno a esso si è andato formando dice molto dei periodi storici e degli approcci conoscitivi del tempo. Simboli e significati, metafore e metonimie avevano valore pari alla realtà dei fatti.

La nascita del mito

La nascita del mito dell’unicorno non risulta affatto chiara e non solo per l’incerta provenienza, divisa tra Cina e India e poi portata in Europa, ma anche per la sua individuazione biologica.

Le prime fonti a nostra disposizioni sono del IV sec. a.C., anche se probabilmente la sua comparsa è molto più antica. Ctesia di Cnido, lo storico greco inviato alla corte di Persia per le sue capacità mediche e uomo di fiducia del Gran Re di Persia Artaserse II, ci fornisce il primo documento europeo in cui si parla di Unicorno che, stando alle indicazioni raccolte, si tratterebbe in realtà di un asino indiano. Nei suoi Indika, giunti a noi in una versione frammentata (qui riportiamo la versione del venticinquesimo frammento di Fozio) troviamo

In India ci sono degli asini selvatici grandi come cavalli e anche di più. Hanno il corpo bianco, la testa rossa e gli occhi blu. Sulla fronte hanno un corno lungo circa un piede e mezzo. La polvere di questo corno macinato si prepara in pozione ed è un antidoto contro i veleni mortali. La base del corno, circa due palmi sopra la fronte, è candida; l’altra estremità è appuntita e di colore cremisi; la parte di mezzo è nera. Coloro che bevono utilizzando questi corni come coppe, non vanno soggetti, si dice, alle convulsioni o agli attacchi di epilessia. Inoltre sono anche immuni da veleni se, prima o dopo averli ingeriti, bevono vino, acqua o qualsiasi altra cosa da queste coppe. Gli altri asini, sia quelli domestici sia quelli selvatici, nonché tutti gli animali con lo zoccolo indiviso, non hanno né astragalo né fiele, ma questi hanno sia l’uno sia l’altro. Il loro astragalo, il più bello che io abbia mai visto, è simile a quello del bue come aspetto generale e dimensioni, ma è pesante come piombo e completamente color cinabro.

Molti mercanti erano riusciti a raggiungere l’India e ad arrivare in Asia centrale, trovandosi di fronte probabilmente degli sconosciuti rinoceronti che, in base alle credenze del tempo, scambiarono per unicorni. La classificazione zoologica di questo nostro animale infatti risulterebbe improvabile, frutto di un ibrido tra specie e caratteri differenti. Odell Shepard, in particolare, nel suo bellissimo testo The Lore of the Unicorn (London 1930) ha pensato all’asino indiano di Ctesia come a una agglutinazione di rinoceronte indiano, antilope tibetana (la Pantholops hodgsonii, detta anche ‘chiru’) e onagro (Equus hemionus onager). Ma Ctesia non fu l’unico a fare confusione circa la sua provenienza. Mentre infatti, come questo ultimo, Aristotele pensava che l’unicorno fosse una specie mista di asino selvatico, Plinio, che inaugurò il termine monoceros con cui anche oggi lo conosciamo, credette che avesse il corpo di un cavallo, la testa di un cervo, i piedi dell’elefante e la coda del cinghiale. Nel Physiologus viene descritto come un animale simile a una capra, mentre per i Persiani era un asino a tre zampe, per gli Ebrei un mostro enorme, grande come il Monte Tabor, per i Cinesi una specie di ariete, di leopardo, di volpe, o di cavallo. Mentre Eliano, lo storico romano del II d.C. pensava fosse una specie di rinoceronte

[…] l’unicorno, che si chiama cartazon (kartazonos). Questo animale è grande come un cavallo adulto e ha la criniera e il pelo rossicci, le zampe simili a quelle dell’elefante e la coda di capra. È velocissimo. In mezzo agli occhi ha un corno singolo, nero, non liscio ma con certi anelli naturali, che si assottigliano per finire con una punta molto sottile. Fra tutti gli animali, è quello con la che gli si avvicinano, ma lotta con quelli della sua stessa razza: non solo i maschi lottano naturalmente tra loro, ma anche contro le femmine, e spingono il combattimento fino ad un esito mortale. È un animale dotato di grande forza fisica, e inoltre è armato del suo corno invincibile. Ricerca i luoghi più deserti, dove erra in solitudine. Nella stagione degli amori diventa gentile con la femmina che si è scelta, e pascolano l’uno a fianco all’altra, ma quando la stagione è finita ridiventa feroce e ricomincia a vagare in solitudine….

«[…] una semplice confusione tra dati zoologici abbastanza esatti; riguardanti il rinoceronte (ma con qualche probabile confusione con qualche altro animale, come l’antilope tibetana o l’orice), e dati forse d’origine mitica passati dalla cultura vedica e da quella mazdaica all’Occidente attraverso Ctesia prima, Megastene e il ciclo leggendario di Alessandro poi. In un certo senso, l’unicorno è il primo segnale della vocazione all’esotismo della cultura occidentale.» (F. Cardini)

Occidente

Tra il II e il III sec. d C, ad Alessandria venne diffuso il Physiologus, un testo scritto in greco allo scopo di aiutare i cristiani d’Egitto a interpretare la natura secondo i principi della nuova religione che si stava diffondendo in tutto l’Impero Romano. Questo volume enciclopedico, che offriva l’interpretazione degli animali e delle loro caratteristiche in chiave simbolica e religiosa, venne poi ripreso nell’Alto Medioevo. Ispirato a esso, cominciarono poi a diffondersi i Bestiari in lingua latina, veri e propri manuali che permettevano l’interpretazione di tutti gli elementi naturali come segni del male o di Dio, secondo le dottrine accettate nel Medioevo.

Fu proprio attraverso questi Bestiari che si diffuse in tutta Europa la tradizione popolare dell’unicorno come elemento allegorico. «Per mezzo di questo animale viene rappresentato il Cristo, e per mezzo del suo corno la sua indomabile forza. Colui che si posò in grembo alla Vergine fu catturato dai cacciatori; ovvero fu scoperto in forma umana dai suoi amatori». (Onorio di Autun, Speculum de mysteriis Ecclesiae) Le antiche credenze, retaggio di mitologie e religioni ancestrali, politeistiche e immanentistiche, non potendosi con facilità eliminare, venivano fatte convergere, attraverso il pensiero allegorico e morale, nel mondo cristiano.

Oltre alla sovrapposizione tra l’Unicorno e Cristo «è divenuto per noi corno di salvezza. Non hanno potuto aver dominio su di Lui gli Angeli e le potenze, ma ha preso dimora nel ventre della vera e immacolata Vergine Maria», viene in risalto il tema della giovane fanciulla, l’unica in grado di catturare l’animale, identificata iconograficamente con la Vergine Madre, soprattutto nel secoli XIII e XIV quando la devozione mariana aumenta significativamente. Il motivo risiedere nel fatto che nell’Antico Testamento, secondo la traduzione greca dei Settanta, viene citato l’Unicorno per ben sette volte, anche se in realtà si tratterebbe di una traduzione errata del termine Re’em. «Nel passaggio dall’ebraico al greco molti zoonimi originali il cui significato risultava opaco ai traduttori (ma in fondo, in molti casi, anche agli stessi membri delle comunità ebraiche) venivano resi con nomi di animali presi di peso dalla tradizione naturalistica greca ed ellenistica.» (A. Angelini, Dal Leviatano al drago. Mostri marini e zoologia antica tra Grecia e Levante)

C’è un animale assai gentile, che i cacciatori non possono catturare, a motivo della sua grande forza. Sulla fronte ha un corno solo. Ma osservate con quale espediente i cacciatori lo prendono. Conducono sul posto una giovane vergine casta e pura, e l’animale, quando la vede, le si avvicina, abbandonandosi in braccio a lei. Allora la fanciulla gli offre il seno e l’animale comincia a succhiare e a comportarsi affettuosamente con lei. Poi la fanciulla, tranquillamente seduta, allunga una mano e afferra il corno dell’animale: a questo punto intervengono i cacciatori, catturano la bestia e vanno con essa al palazzo del re. Similmente il Signore Gesù ha innalzato per noi un corno di salvezza in mezzo a Gerusalemme, nella casa di Dio, una vergine, pura, casta, piena di grazia, immacolata, intatta. (Anecdota Syriaca)

Diverse interpretazioni si aggiunsero a quella cristiana, come quella, apertamente atea, che si trattasse di una simbologia erotica. Nel Bestiaire d’amour di Richard de Fournival del XII sec., che associa gli animali alle diverse forme dell’amore tra uomo e donna, l’unicorno diviene simbolo dell’amor cortese:

Solo in tuo dolce profumo mi ha condotto fino a te, come l’unicorno che si addormenta al dolce profumo della verginità di una damigella. […] si inginocchia davanti a lei e si inchina con umiltà e dolcezza come volesse mettersi al suo servizio. Sicché i cacciatori avveduti che conoscono la sua natura mettono una vergine sul suo passaggio, e l’unicorno si addormenta nel suo grembo; […] e lo uccidono. Così crudelmente Amore si è comportato con me; [..] Amore, abile cacciatore, ha messo sul mio cammino una fanciulla, al profumo della cui dolcezza mi sono addormentato, e così muoio della morte a cui ero destinato.

Un altro aspetto importante nell’iconografia dell’unicorno è il valore sacro del corno.

Nel 1604 Basilio Valentino spiega la capacità del corno dell’Unicorno, ovvero l’alicorno, di proteggere dai veleni sulla base dell’attrazione dei simili e repulsione dei contrari, «Il vero corno dell’unicorno tutti i veleni da sé rigetta… ma se ad un puro pezzetto di pane non adulterato che nuoti nell’acqua si accosti, lo stesso corno senza contatto subito attirae il pane… è meravigliosissimo che tutte le cose a sé omogenee lo [il corno] seguitino e le contrarie lo odino e lo fugghino» (Basilio Valentino, Il cocchio trionfale dell’antimonio, p. 62) Proprio nelle leggende medievali troviamo l’Unicorno che accorre al fiume dove gli avvelenatori hanno inquinato le acque «coi loro segreti veleni insidiosi» e «affonda il suo corno nell’acqua, ripulendola dal veleno e ridonando purezza al suo corso affinché gli abitanti possano bere dalle sue sponde.»

Oltre a scoprire la presenza del veleno, si credeva che il corno avesse virtù terapeutiche, taumaturgiche e alessifarmacologiche, «chi beve da questo corno è al sicuro da tutte le malattie inguaribili, come le convulsioni e il cosiddetto morbo sacro, e non può essere ucciso dal veleno.» (Claudio Eliano). Di fronte allo sviluppo del metodo del veleno «Si frugò nella farmacopea, si ricercarono gli antichi testi, si resuscitarono superstizioni preistoriche, ma tutto ciò non servì a nulla» (O. Shepard, op.cit. p. 143), se non a farne lievitare il prezzo. Così Re, gran Duchi e i potenti delle corti d’Europa si contendevano gli alicorni, (in realtà erano denti di narvalo e zanne di elefante messi in commercio a partire dal Cinqucento), che esponevano nelle loro wunderkammern, ai poveri era destinato quello polverizzato come medicinale. Il dato più incredibile è che tale superstizione era così radicata che solo nel 1746 l’alicorno andò scomparendo dalle farmacie europee, alcune delle quali invece continuarono a vendere la polvere per molto tempo ancora.

Col tempo si scoprì un altro dato sorprendente. Per creare l’alicorno veniva usato un animale marino, ovvero il narvalo o monodon monoceros. I maschi adulti di questi mammiferi sono infatti provvisti di un dente, o una zanna, d’avorio puro sul lato sinistro della mascella superiore, puntato in avanti e leggermente incurvato verso il basso. Era proprio questo, insieme alle ossa di balena, che i mercanti vendevano al posto dell’alicorno e che i collezionisti custodivano come tesori. (O. Sheppard, op.cit., pp. 312-316)

Oriente

A testimonianza del fatto che la tradizione dell’unicorno si estendesse da oriente a occidente, troviamo molte fonti cinesi. Alcuni scrittori sostenevano che l’unicorno (il K’i-lin), avvistato per la prima volta nel 2697 a.C., non fosse originario del loro paese ma che venisse da molto più lontano. Secondo un’antica tradizione il nostro animale apparve alla madre di Confucio poco prima della nascita di quest’ultimo. Come i buddisti più perfetti, il K’i-lin «non mangia creature viventi, né animali, né vegetali…non calpesta mai nemmeno un insetto o un filo d’erba… E nell’aspetto fisico risplende dei cinque colori sacri, simbolo della perfezione […] distingue il bene dal male. A differenza dell’unicorno occidentale, il K’i-lin non ha mai valore commerciale e non si fanno medicine con alcuna parte del suo corpo: esso esiste per se stesso. […] Esso verrà in forma d’uomo incomparabile, svelatore di misteri, soprannaturale e divino, che porterà amore a tutta l’umanità.» (O. Shepard, op.cit., p.104)

Risultano così evidenti, nonostante alcune varianti, le stesse simbologie messianiche, capaci di accomunare oriente e occidente.

Gli unicorni nell’arte

Now I will believe that there are Unicorns, That inn Arabia there is one tree, the phoenix trone….

W. SHAKESPEARE La Tempesta, atto III

Nell’arte, soprattutto quella Rinascimentale, l’unicorno assume un ruolo di grande rilievo. Questa incredibile creatura fantastica, indipendentemente dalla sua controversa origine, costituirà un immaginario ben preciso, capace di giungere fino ai giorni nostri. I riferimenti sono davvero tantissimi, sia in letteratura che in pittura. Qui ne verranno citati solo alcuni, capaci di mostrare la lunga storia del suo mito.

Tra le prime rappresentazioni medievali, troviamo l’unicorno presente nel Bestiario di Rochester del XII sec. Tranne qualche rara eccezione infatti, fino al XII sec. gli unicorni raffigurati su capitelli, affreschi, vetrate e arredi sacri, corrispondono tutti ad allegorie cristologiche.

Verso la metà del Duecento l’unicorno inizia a essere raffigurato vicino a una giovane, a testimonianza della leggendaria cattura dell’animale, possibile solo per mezzo di una vergine capace di attirarlo e renderlo mansueto.

Arazzi Millefleur de La caccia all’Unicorno tessuti intono al 1480 per Francois de la Rochefoucauld. I pannelli originali erano sette e già dai loro titoli (I cacciatori entrano nel bosco; L’unicorno viene trovato; L’unicorno viene attaccato; L’unicorno si difende; L’unicorno viene ucciso e portato al castello; La mistica cattura dell’unicorno; L’unicorno in cattività) capiamo che l’ambientazione è quella tipica della caccia aristocratica medievale, anche se qui l’animale non è un cervo ma appunto l’unicorno. Quest’ultimo viene qui raffigurato come un cavallo bianco, che ricorda il candore, ma di dimensioni più piccole. Ricchi di dettagli naturalistici, vi sono tessute più di cento piante, la maggior parte delle quali identificabili. Nonostante compaiano anche le iniziali A.M. (Ave Maria) la scena è di impronta laica, tanto che l’interpretazione sarebbe duplice: potrebbe rispondere all’allegoria cristologica o rappresentare, come molti poemi d’amor cortese, il simbolo della fedeltà coniugale.

Arazzid’Aubusson La Dame à la Licorne (nel Musee de Cluny), resi noti dalla scrittrice George Sand che li vide presso il castello di Boussac nel XIX secolo. La scrittrice parlò brevemente degli arazzi nel romanzo Jeanne pubblicato nel 1844 e successivamente, in maniera più estesa, in un articolo pubblicato nel luglio 1847 sulla rivista «L’Illustration», con disegni realizzi dal figlio Maurice Sand.

Considerati gli arazzi più eleganti del Medioevo, hanno un fondo rosso e una lavorazione che segue un disegno gotico ricco di particolari. La serie di arazzi, la cui trama e dimensione è impressionante, è costituita da sei pannelli, cinque dedicati ai sensi (le goût; l’ouïe; la vue; l’odorat; la touché), mentre l’ultimo, A mon seul désir, più grande e di stile differente. Esso raffigura una dama, di fronte una tenda con la scritta Al mio unico desiderio, mentre ripone in un cofanetto una collana, con accanto un unicorno e un leone.

Il tema della Dama capace di ammansire l’unicorno, inizia a diffondersi nel Medioevo per confluire, iconograficamente, fino in età moderna. All’inizio infatti la giovane veniva identificata con la Vergine Madre del culto mariano, per poi identificare il valore della castità, fino a rappresentare il simbolo dell’amore e della fecondità. Dal mondo religioso, che si fonda sull’incarnazione del figlio di Dio nel grembo di una Vergine, si arriva quindi a quello di carattere prettamente erotico. A testimonianza di questa evoluzione del binomio Dama e Unicorno:

Santa Giustiniana del Moretto, dipinta verso il 1530, ora alla Galleria Belvedere di Vienna. La particolarità di questo dipinto risiede nel corno dell’animale che qui viene rappresentato di colore nero, così come era stato descritto da Plinio. Alla sinistra della Santa è seduto un unicorno dal manto chiaro, simbolo di purezza verginale, derivato dall’antichità ma molto usato nel Rinascimento.

Dama con Liocorno, opera di Raffaello Sanzio del 1505, anche qui il simbolo è quella della purezza verginale. L’animale è anche associato alla famiglia Farnese e al suo stemma araldico. Non si hanno notizie certe sulla committenza del dipinto che raffigura una giovane con lo sguardo fisso che tiene in grembo un piccolo unicorno.

Dama e Unicorno di Luca Longhi, nelle collezioni di Castel Sant’Angelo, realizzato intorno al 1540, raffigura una giovane seduta accanto a un unicorno che la guarda intensamente, il tutto in una ambientazione idilliaca. Si pensa che la fanciulla sia Giulia Farnese, sorella di papa Paolo III, la cui casata aveva come simbolo proprio l’unicorno.

Vergine e Unicorno del Domenichino, affrescata sopra la porta d’ingresso della Galleria di Palazzo Farnese a Roma tra il 1604 e il 1605, presenta la stessa ambientazione di Luca Longhi. Qui però la ragazza abbraccia l’unicorno, in un clima di estrema dolcezza.

Le suggestioni di questa creatura e dell’immaginifico che involve giungono fino a noi. Gustave Moreau, ispirato dal mito degli arazzi de La dama e l’unicorno, dipinge un’opera in cui alcune vergini allevano unicorni.

Per finire Remedios Varo ci regala un suo autoritratto con a fianco un unicorno, Self-portait with a unicorn 1947, rappresentando in tal modo il suo mondo magico-simbolico.

Anche Dalì e tutto il movimento surrealista fu affascinato dal mito dell’Unicorno, così come successe negli anni novanta all’artista newyorkese Will Cotton che, con la sua reinterpretazione, trascende la vera origine del mito e riporta l’unicorno in un nuovo immaginario pop.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

ANNA ANGELINI, Dal Leviatano al drago. Mostri marini e zoologia antica tra Grecia e Levante, Il Mulino, Bologna 2018.

ELIANIO, La natura degli animali, (a cura di) F. Maspero, BUR, Milano 1998.

LUIGINA MORINI (a cura di), Bestiari medievali, Einaudi, Torino 1996.

MARCO RESTELLI, Il ciclo dell’unicorno. Miti d’Oriente e d’Occidente, Marsilio, Venezia 1992.

ODELL SHEPARD, La leggenda dell’unicorno, Sansoni, Firenze 1930.

H.B.TRISTRAM, Natural History of the Bible, London 1867.

BASILIO VALENTINO, Il cocchio trionfale dell’antimonio, (a cura di) M. Gabriele, Mediterranee, Roma 1998.

Pasolini e la forma della natura

di Stefania Parigi

La letteratura e il cinema di Pasolini sono attraversati dall’esaltazione mitica delle forme naturali, degli elementi primari della vita: aria, terra, acqua. La natura appare come una sorta di mistero religioso e carnale. 

Nei versi friulani il corpo del poeta e dei suoi personaggi è immerso in un paesaggio fatto principalmente di cielo e di terra, di acque fluviali e piovane, di odore dell’erba, di luce che piove dal cielo, di aria che avvolge, di sole che illumina e arde, di colori e di fiori. È una sorta di Eden primitivo in cui la vita e la morte sono strettamente legate e ripetono il ciclo delle stagioni, il ritmo delle albe e dei tramonti.  La natura è vista come una forma del mondo (La nuova gioventù, p. 182), che appartiene all’arcaico mondo contadino, caratterizzato da un eterno ritorno dell’identico, in cui i figli ripetono le sembianze dei padri e ciò che è morto rinasce costantemente, come il seme piantato nella terra. In questo universo, scrive Pasolini, il tempo non si muove (Ibidem), ovvero il tempo non è quello lineare della storia e del progresso, ma quello del ciclo naturale che si ripete all’infinito.

Il mito di Aprile

Ezio Vitale, P.P.Pasolini con il suo autoritratto col fiore in bocca del 1947, 1962.

Il paesaggio friulano rappresenta una sorta di Paradiso che già reca in sé i segni della perdita: ciò che appartiene alla vita è contemporaneamente proiettato nella morte e scivola verso il nulla, verso il mistero delle origini e della fine. Proprio questo continuo senso del nulla stimola quello che Franco Fortini (F. Fortini, Attraverso Pasolini, p. 155) ha definito il più floreale manierismo funerario di Pasolini: il Friuli è rappresentato come un giardino pieno di odori e di colori; il colore predominante è l’azzurro del cielo; il fiore prediletto la viola e il mese l’aprile, a cui è legata anche una delle sue poesie più belle, scritta molti anni dopo il periodo friulano e intitolata Il glicine (aprile 1960, compresa nella raccolta La religione del mio tempo). Pasolini affida a questo ‘rampicante’ il compito di rappresentare la forza e insieme la caducità della natura, la sensualità dell’esistenza, l’immersione del corpo nella natura e la frattura con il mondo della storia:

Tra il corpo e la storia c’è questa / musicalità che stona, / stupenda, in cui ciò ch’è finito / e ciò che comincia è uguale, e resta / tale nei secoli: dato dell’esistenza.

L’aprile è una figura del ritorno, della nascita connessa alla morte, che rimanda al culto dell’alba e della primavera. Straordinarie appaiono a mio giudizio le sintonie tra Il glicine e i primi famosissimi versi della Terra desolata (The Waste Land, 1922) di Thomas S. Eliot:

April is the cruellest month, breeding /Lilacs out of the dead land, mixing /Memory and desire, stirring /Dull roots with spring rain.

Il mito di aprile evoca una sensualità funerea della natura, in cui il pieno è legato al vuoto, la luce all’ombra. In La religione del mio tempo (1957-59) Pasolini scrive:

Non c’è più niente / oltre la natura – in cui del resto è effuso / solo il fascino della morte – niente / di questo mondo umano che io ami.

(P.P. Pasolini, Tutte le poesie, tomo I, p. 985).

In Edipo re (1967), a conclusione di un percorso che riproduce quello autobiografico di Pasolini, il protagonista, interpretato da Franco Citti, esclama: «La vita finisce dove comincia».

La natura friulana viene rappresentata come la scena originaria della vita che coincide con quella della morte. Esemplari in questo senso appaiono le prime e le ultime sequenze. Nel prologo il mondo è una sorta di emanazione del corpo della madre e consiste nell’unione primordiale di terra e di cielo esplorati dallo sguardo di Edipo bambino che compone una sorta di cantico del creato innalzandosi dal prato all’azzurro del cielo incorniciato dai pioppi e poi ridiscendendo dal cielo al verde dell’erba. Nell’epilogo, dove Edipo è ormai vecchio e accecato, si ripetono gli stessi movimenti degli occhi sulla medesima immobilità cangiante della natura. In Medea (1970) l’immagine sacrale, che simbolicamente accompagna il personaggio della protagonista interpretata da Maria Callas, è quella della terra infuocata dal sole che vediamo nei titoli di testa, nell’inquadratura finale e quando la tragica eroina rievoca la sua origine.

Natura e Storia

Il mito pasoliniano della natura contrapposta alla storia viene affidato alle parole del centauro Chirone il quale afferma che la natura è un’apparizione, che la scena naturale è abitata da un Dio, che la natura non è naturale ma è una visione, un’esperienza religiosa. La storia, il cammino del cosiddetto progresso, allontana l’uomo dalle sue origini, ma non può distruggerle del tutto. L’impronta sacra del mondo si conserva anche nelle forme sconsacrate della storia e della modernità e la natura può ancora configurarsi sia come il luogo dell’autenticità e della pienezza vitale sia, contemporaneamente, come il luogo del dolore e del mistero dell’esistenza.

Nell’incontro con la storia il giardino friulano delle prime poesie salta in aria senza mai scomparire del tutto. I romanzi e i film sulle borgate romane mostrano un paesaggio di rovine: le baracche, le case diroccate, i resti antichi del passato, i cumuli d’immondizia, gli stracci, il fango, la terra smossa e desertificata. Su questo spazio sconnesso di rifiuti, il sole e gli elementi naturali continuano a imprimere un timbro atemporale e astorico, simile a quello che ancora vibra nei corpi barbarici dei sottoproletari mitizzati da Pasolini. Nella scarpata ricoperta di spazzatura di Che cosa sono le nuvole? (1968) Totò, davanti alla visione del cielo, inneggia alla «straziante meravigliosa bellezza del creato». E non a caso alcuni brevi film come appunto Che cosa sono le nuvole? o La terra vista dalla luna (1967) recano fin dai titoli il richiamo agli elementi del cosmo. I meravigliosi titoli di testa cantati da Domenico Modugno in Uccellacci e uccellini (1966) hanno come sfondo una luna di giorno su cui si muove una nuvolaglia.

Le immagini astrali connotano tutta l’opera pasoliniana fino al progetto non realizzato di Porno-Teo-Kolossal in cui i personaggi inseguono, come i re magi, una cometa. In Poema per un verso di Shakespeare (compreso nella raccolta Poesia in forma di rosa, 1964) il poeta è rapito in cielo e dall’alto osserva la terra come uno spazio di scintillanti frantumi, di casuali rifiuti (Ivi, p. 1165).

Tra terra e cielo

Una delle forme simboliche che la scena naturale assume di frequente nei suoi film è quella della nudità, dell’unione di cielo e di terra senza più alcun ornamento, floreale o di altro tipo.  Nel passaggio dai prati friulani, dal paesaggio acquoso e aereo del Nord alle borgate romane e poi agli aridi spazi africani e arabi dei film sul mito greco, lo spazio tende sempre più a desertificarsi, a ridursi alle sue entità primarie di cielo e di terra.

Una sorta di immagine desertica è già la visione che Accattone ha della propria morte, quando nel sogno chiede al becchino di scavargli la fossa al sole. Attraverso due panoramiche simmetriche, dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto, lo sguardo   si apre su monti e vallate inondate di luce che – commenta Pasolini – sembrano dipinte da Corot e sono chiamate a evocare il paradiso della natura (Il paradiso di Accattone, «Vie Nuove», 1° luglio 1961).

Totò e Ninetto Davoli in Uccellacci e uccellini camminano dentro immagini del tutto spoglie, divise a metà tra cielo e terra, in un paesaggio stilizzato che Pasolini definisce ormai appartenente a una sorta di “dopostoria”, totalmente disarticolato e sconnesso. In questo spazio la modernità ha seminato le sue icone distruttive, il passato e il presente si contaminano in forme stridenti e il deserto diventa una figura dell’apocalisse causata da una industrializzazione selvaggia. Nell’episodio medievale di Uccellacci e uccellini, al contrario, l’essere umano è sprofondato nel paesaggio composto dalla natura e da antiche, sacre costruzioni del passato. Totò che parla francescanamente con gli uccelli appare addirittura come una figura arborea, totalmente fuso nel mondo vegetale e animale. In Teorema (1968) il personaggio della serva, legato all’antica cultura contadina, vive analogamente tra la terra e il cielo. Può innalzarsi in cielo come una santa o sprofondare nella terra come il seme che muore per risuscitare.

Nel film sul Vangelo (1964) e poi in quelli sul mito della tragedia classica (Edipo re, Medea, ma anche Porcile, 1969) il deserto si configura come un luogo della narrazione, in cui si radicano gli eventi e, insieme, come una sorta di spazio originario della vita.

Paradiso e deserto

Vittorio La Verde, P.P. Pasolininel giardino della casa di Monteverde Vecchio, Roma 23 Maggio 1962

Teorema (libro e film) offre la più conseguente teorizzazione e rappresentazione del deserto come spazio materiale e simbolico: investito da una trasfigurazione biblica, rimanda alla dimensione originaria dell’essere ormai smarrita nel mondo moderno, dominato dai consumi della società di massa. Le immagini desertiche qui solcano il film senza una motivazione narrativa, per indicare un’origine rimossa e una violenta contestazione del presente, dell’omologazione sociale contemporanea.

In Teorema (libro) si trova un approfondimento filosofico di questa icona. Il deserto è «la realtà di tutto spogliata fuori che della sua essenza». Non c’è niente «oltre a ciò che è necessario» (P.P. Pasolini, Romanzi e racconti, volume secondo 1962-1975, p. 1053): la terra, il cielo e, come avviene nel finale del film, il corpo nudo. È il luogo da cui si proviene e a cui si ritorna, che precede addirittura il prato friulano della nascita rappresentato in Edipo re. Pasolini elabora la teoria dei due Paradisi, entrambi perduti: il primo è rappresentato, appunto, dal deserto che è il luogo di una prima nascita, nel grembo di un padre androgino (donna e uomo insieme come nel mito raccontato da Aristofane nel Simposio di Platone); il secondo ha il colore verde del prato friulano, lo stesso odore delle primavere e delle primule, gli stessi fiumi.  Rappresenta una seconda nascita, nel grembo di una madre e poi di un padre che Pasolini definisce adottivi. Il primo paradiso è il regno della comunione dei sensi, di una unicità primigenia governata dall’ambivalenza. Nel deserto non c’è inizio, fine, limite, distinzione o sviluppo.  Esso, scrive Pasolini, «nasceva da se stesso, continuava in se stesso e finiva in se stesso» (Ivi, p. 961). Al di là del deserto non c’è altro che deserto: qui si sperimenta un tempo che non procede, che non si muove, uno spazio che non cambia pur mutando incessantemente. Il deserto è l’idea del tutto che coincide con il nulla, dell’origine che si unisce alla fine. La sua immobilità mutevole (per usare uno dei tipici ossimori pasoliniani) è suggerita nelle inquadrature di Teorema dal vento che alza la polvere e dalle nubi che si riflettono sulla terra. Nei versi che concludono Teorema (libro) Pasolini lo definisce un «luogo immaginato dalla mia povera cultura» (Ivi, p. 1055) dove risuonano domande senza risposta.

Il deserto è vibrante e misterioso come la vita, sta prima e dopo la storia. È il regno di una natura impenetrabile, che dà insieme la vita e la morte. È qualcosa di simile a ciò che Pasolini ha definito in alcuni suoi versi Inespresso Esistente o nulla lucente (Ivi, p. 1055).

Ebbro di erba e tenebre

Attraverso la rappresentazione della natura – di cui ho ricordato soltanto qualche squarcio all’interno della sua opera – Pasolini esprime così la sua filosofia dell’esistenza e, insieme, la sua concezione dell’arte: da una parte esalta il mito di una vita anteriore alla storia, inafferrabile nel suo mistero, in cui si realizza una sorta di indifferenziazione tra uomo e natura e i rituali fisici si presentano come rituali conoscitivi; dall’altra fonda il processo artistico e in specie quello dell’immagine cinematografica sul desiderio di ritrovare la scena naturale, di immergersi nella sensualità degli elementi, direi quasi di liquefarsi in quella che Maurice Merleau-Ponty ha definito la «carne del mondo». Dagli anni sessanta in poi Pasolini attribuisce al cinema la capacità di essere un linguaggio della presenza, che rende possibile una immersione fisica nella realtà. La letteratura, invece, gli appare come un’arte dell’assenza. Mentre la parola si limita a evocare la vita quando questa è ormai passata, l’immagine sembra mantenere il contatto con il mondo e con il suo fluire.

La passione che aveva assunto la forma di un grande amore per la letteratura e per la vita – dichiara nel ’69 – si era spogliata dell’amore per la letteratura diventando ciò che era davvero, ossia una passione per la vita, per la realtà, per la realtà fisica, sensuale, oggettuale, esistenziale attorno a me. Questo è il mio primo, unico grande amore e in un certo qual modo il cinema mi ha costretto a rivolgermi ad esso e a esprimerlo in forma esclusiva.

(O. Stack, Pasolini on Pasolini, Thames & Hudson, London-New York 1969; pubblicato in traduzione italiana con il titolo Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, Guanda, Parma 1992; poi in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, p. 1302).

All’isolamento del tavolino dello scrittore, il cinema contrappone l’ebbrezza sensuale del set, che assume quasi i caratteri di una droga, come afferma Pasolini in un’altra intervista del 1969 (Pietro Bianchi, Con il cinema non ho respiro e… l’ulcera è roba passata, «Il Giorno», 1° aprile 1969). Il rapporto fisico che lo lega al cinema è lo stesso che impronta la sua immersione nella realtà, nella natura, nei corpi. Già nel 1960, ricostruendo in poche righe la sua autobiografia, scrive:

Amo la vita così ferocemente, così disperatamente, che non me ne può venir bene: dico i dati fisici della vita, il sole, l’erba, la giovinezza: è un vizio molto più tremendo della cocaina, non mi costa nulla e ce n’è un’abbondanza sconfinata, senza limiti: e io divoro, divoro… come andrà a finire non lo so… (E. F. Acrocca, a cura di, Ritratti su misura, 1960, p. 321).

Concludendo la sua pièce teatrale Bestia da stile (1966-1974) offre il suo ennesimo autoritratto definendosi ebbro di erba e di tenebre, perennemente sospeso su quel ciglio dove la vita e la morte si incontrano nella tragica beatitudine che unisce l’esistenza e la creazione estetica.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:

ELIO FILIPPO ACROCCA (a cura di), Ritratti su misura, Sodalizio del Libro, Venezia 1960.

PIETRO BIANCHI, Con il cinema non ho respiro e… l’ulcera è roba passata, «Il Giorno», 1/04/1969.

FRANCO FORTINI Franco Fortini, Attraverso Pasolini, Einaudi, Torino 1993.

PIER PAOLO PASOLINI La nuova gioventù, Einaudi, Torino 1975.

Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2003.

Romanzi e racconti, volume secondo 1962-1975, Mondadori, Milano 1998.

Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999.

Poesia in forma di rosa, Garzanti, Milano 1964.

OSVALD STACK Pasolini on Pasolini, Thames & Hudson, London-New York 1969

FIORI VIVI ringrazia

STEFANIA PARIGI, scrittrice, studiosa e profonda conoscitrice di cinema, prevalentemente italiano. Attualmente Professoressa ordinaria di cinema presso l’Università di Roma Tre, si è occupata di Moravia, Pasolini, Ferreri, Maselli, Zavattini, Rossellini e altri, curando e scrivendo testi di notevole rilievo. Tra i suoi ultimi lavori si segnalano: Cinema-Italy (Manchester University Press, 2009);  Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra (Marsilio, 2014); la nuova edizione di Pier Paolo Pasolini. Accattone ( Lindau 2021)

La libreria Le Storie e in particolare Stefania Stefanini

Gilda Diotallevi

Biagio Schembari e il viaggio nel mito

di Gilda Diotallevi

L’incontro

A Ibla, l’antico centro storico e oggi il quartiere più antico di Ragusa, questa mattina di agosto sta per piovere, e tutto si è tinto di uno strano grigio. Sarà per questo che l’entrata nel Teatro Donnafugata di Ragusa, in cui si tiene dopo tre anni di assenza la mostra del maestro Biagio Schembari, è ancora più sorprendente.

In netto contrasto con l’atmosfera esterna, un’esplosione di luce inonda l’atrio. Sembra di essere entrati in una fornace, dove alcuni quadri presenti emanano calore e ipnotizzano.

Ad accoglierci ci sono il maestro Schembari e la sua splendida moglie Margherita, che da anni lo segue e lo sostiene.

Sembra un sogno poter parlare direttamente con il Maestro, perché un vero artista lo si riconosce subito per un motivo. Evoca autenticità. E Schembari non fa che dimostrarlo, attraverso il suo lavoro, la sua poetica, la sua idea di pittura e di arte.

Ci racconta della Accademia delle Belle Arti a Firenze che ha frequentato durante i moti del Sessantotto e della vivacità culturale di Roma negli anni Settanta, quando a parlare non era la teoria ma l’arte stessa.

Come un vero anfitrione ci conduce nelle sale interne del Teatro in cui sono sistemati i suoi quadri. Una serie di dipinti con il suo stile inconfondibile. Simili eppure tutti completamente differenti.

La mostra

La mostra è allestita in un luogo insolito ma che ben si adatta alle opere di Schembari, tutte di forte impatto scenico. Nel Teatro Donnafugata, costruito nella prima metà dell’Ottocento e che prende il nome da uno dei più significativi palazzi di Ragusa, alcune sale ben illuminate accolgono la mostra e permettono di ammirare le opere che, quest’anno, hanno tutte dimensioni notevoli.

È il Maestro stesso ad accompagnarci in questo viaggio, svelando pian piano le opere che compongono la sua personale di pittura.

Passiamo così, attraverso dei tendaggi simili a sipari, da una sala all’altra, ammirando figure femminili e maschili giganti, la cui origine affonda nel mito, e che a tratti si confondono con le stesse architetture dipinte. Non è un caso che il Maestro abbia studiato come scenografo, perché lo spazio della tela diventa per lui una quinta di un teatro, in cui la luce e il buio, la staticità e il movimento prospettico parlano una lingua misteriosa ma al contempo universale.

Le sale si illuminano al nostro passaggio, permettendoci di osservare una tela dopo l’altra, come fossimo trasportati fuori dal tempo. Eppure qualcosa di incredibile succede proprio nel momento in cui le luci si spengono. Se ci si sofferma a osservare il quadro in penombra accade una magia. Dal centro del dipinto sembra accendersi una luce, qualcosa capace di autoilluminare la storia che ogni dipinto cela.

«Alla fine ad impressionare davvero non sono le forme, ma i colori»,

ci confessa il Maestro Schembari, la cui tecnica pittorica innovativa, affinata negli anni, conferisce la qualità centrale del lavoro. Sarà per quella lucentezza dovuta alla cera che l’artista passa sulla tela, dopo aver dipinto il legno con l’acrilico, o sarà la capacità di ricreare giochi di ombre e luce, ma qualcosa si accende e brilla dal centro esatto del dipinto. 

Aldo Cottonaro scrive a riguardo che «… in questa pittura spesso la luce giunge di traverso come una luce di tramonto, […]. Sulle immagini domina il silenzio, ma la pittura con un originale trattamento tecnico del colore crea volumi che contraddicono la propria staticità».

Grazie a questa emanazione di gialli, rosa, bianchi, che crea un colore unico e personalissimo, una mistura che sembra provenire dal manierismo, una porosità materica che dona profondità, le immagini riescono a suggestionare e a raccontare una storia.

«Ogni quadro deve contenere gli elementi essenziali di un momento storico, del tema centrale del quadro»,

ci dice Schembari. Partendo da alcuni segni infatti, come ad esempio scudi, tori, carri, si disvela un mondo fatto di giganti, di uomini e donne simbolo, di angeli e di animali. Come in una rappresentazione teatrale, vengono raffigurati miti ed eroi, in un connubio unico di classicismo e surrealismo.

Nell’immaginazione poetica di Schembari, che si traduce nella produzione di composizioni plastiche, tutto viaggia su un doppio binario, congiungendo e sovrapponendo il mito, la cui origine è ben piantata nelle radici della civiltà, al mondo contemporaneo; come dire che la dimensione arcaica, ancestrale e originaria sia in qualche modo correlata a quella del tessuto attuale.

Siano tutti figli di una storia che con un sottile filo ci tiene ancorati all’origine, al passato, ma che al contempo ci spinge in avanti, verso uno sfondamento, una rivoluzione che solo l’arte è in grado di decodificare e suggerire. Quando infatti chiediamo al Maestro cosa significhi per lui l’arte, non ha dubbi.

«L’arte, nel mio caso la pittura, deve rompere con gli schemi»,

ci risponde.

«Voglio che l’arte parli, che crei una rottura».

Ed è ciò che accade, perché basta osservare i suoi lavori perché qualcosa dentro di noi avvenga.

Le parole del Maestro

Vogliamo sapere di più da Schembari, il cui modo di parlare e raccontarsi disvela una poetica personale e ragionata.

La mia pittura ritorna ancora più impetuosa, incisiva, è ancora più forte la sperimentazione, la ricerca di nuove soluzioni.

Il mito, l’arte classica, impregnano le tele ed è un continuo riaffiorare di vecchie statue, giganti che un tempo erano idoli, adesso semplici reperti archeologici dei miei continui scavi, che compongo come vedute panoramiche di paesaggi e luoghi arcaici, dove un tempo l’uomo trovava riparo.

Antichi eroi, guerrieri e dei immortali, matriarche, simboli di guerre, cavalli immensi, tutto passa attraverso l’immaginazione, la sintesi della volontà, del bisogno instancabile di aprire uno squarcio (nell’arte) e creare una via nuova.

Il risultato è la forza scabra che emana la pittura e rende il mito protagonista del nostro tempo.

La matrice metafisica e surreale si fonde con la concezione etnica che è nel mio bagaglio culturale di autore. Si ha l’impressione di rivivere il momento eroico in cui il Kuros si muove dopo secoli di rigidità; il pennello, i colori gli danno vita, le cave di pietra di Cosimo diventano fonte inesauribile della materia di cui sono costituiti questi giganti.

Di figura in prosa

Scopriamo inoltre che il Maestro ha scritto dei libri, in linea con la sua idea di arte e di vita. Strade di pietra (Lampi di stampa, 2010) e Il giardino delle mele marce (Il Filo, Roma 2008), in cui prosa, versi e documenti di vita reale si alternano in una narrazione che parla di dolore e amore. Il testo è anche un atto di denuncia, ma al contempo una dichiarazione d’amore, per la Sicilia, sua terra madre, capace di riportare l’autore sempre a sé.

Dietro a te lasci un fiore e una carezza,

seguendo il tempo che ti accompagna. (p. 98)

Per concludere questo breve ritratto di artista, riportiamo un estratto di un brano che il Maestro stesso ha scritto, un augurio che fa a se stesso e, in fondo, anche a noi.

Che augurio mi posso fare, adesso che riesco a malapena a ridere del tempo che passa e del sole che tramonta sui ricordi del mio passato incensurato? Mi auguro che le mie urla, i miei colori, le mie forme, non disturbino la povera gente; mi farò coraggio per affrontare i pareri negativi, le ansie mattutine, le mie lettere che tornano indietro.

Ho perso anche le chiavi dell’ultimo cassetto, dell’ultimo mio sogno, sotto una montagna di tante altre cose.

Mi auguro di poter stare zitto e dipingere il mondo a modo mio, di poter leggere in silenzio e sbandare con le frasi, da sembrare ubriaco di solitudine, un albero senza ombra. (7/03/2015)

Fiori Vivi ringrazia

Il Maestro Biagio Schembari e sua moglie Margherita

http://www.biagioschembari.it/

Gilda Yoko Diotallevi

Andrea Loiaconi, Gianluca Mulè, Caterina Zizzi

Buddismo e carta: storia di un legame millenario

di Gilda Diotallevi

«Signore del Cielo, se qualcuno in punto di morte ricorda questo divino Dharani, anche solo per un momento, la sua vita si allungherà e acquisirà la purificazione di corpo, parola e mente. Senza soffrire alcun dolore fisico e secondo le sue azioni meritorie, godrà ovunque della tranquillità. Ricevendo benedizioni da tutti i Tathagata, e costantemente sorvegliato dai deva e protetto dai Bodhisattva, sarà onorato e rispettato dalla gente, e tutti gli ostacoli malvagi saranno sradicati.»

(Versione tradotta del Maestro Buddhapala durante la dinastia Tang)

Nell’ottobre del 1966, in occasione dei lavori di restauro della Pagota Seokgatar (석가탑) Sŏkkat’ap in Corea del Sud, precisamente nella città di Gyeongju, nel tempio principale dell’Ordine Joyge del buddhismo coreano Bulguksa (불국사), venne alla luce un sorprendente ritrovamento, una antica trascrizione in cinese del Dharani Sutra.

Tale copia rappresenta la traduzione dal sanscrito (उष्णीष विजय धारणी सूत्र) del famoso Uṣṇīṣa Vijaya Dhāraṇī Sūtra, appartenente al periodo dell’espansione del buddismo mahayano in Corea e in Cina. Mentre il sutra originale però, per altro diffusissimo in alcune regioni dell’Estremo Oriente che avevano provveduto a tradurlo e distribuirlo, era inciso su tavolette di pietra, la traduzione ritrovata nella pagoda di Seokgatar è oggi considerata la xilografia più antica al mondo. Il Great Dharani Sutra, così viene infatti definito il ritrovamento, èdatabile intorno al 704 d.C. Composto da 12 fogli di carta, per un totale di 620 cm di lunghezza e 8 di altezza, colpisce per un ulteriore elemento. Da una accurata indagine al microscopio si è infatti scoperto che il Great Dharani Sutra fu realizzato servendosi di una particolare carta, ovvero la tradizionale carta coreana hanji.

La stampa del sutra, che prende in Corea il nome di Mugujŏnggwang Taedaranigyŏng (무구정광 대다라니경), ha quindi almeno 1250 anni e viene riconosciuta come il più antico materiale stampato al mondo, su una carta che lo ha conservato per più di mille anni.

L’inizio di una lunga storia

Davvero complesso risulta stabilire la data d’origine della carta.

Il suo etimo latino charta richiama il greco χαράσσω, col significato di incidere e imprimere, che forse a sua volta deriva dall’origine egizia del papiro, pianta utilizzata dagli Egizi per scrivere, confluito poi nelle derivanti anglosassoni (paper), francesi/tedesche (papier) e spagnole (papel).

Mentre la leggenda vuole che l’inventore della carta sia stato Ts’ai Lun, ufficiale imperiale della dinastia Han, intorno al 105 d.C., i ritrovamenti di differenti siti archeologici (pensiamo a quello di Fangmatan in provincia di Gansu, o a quelli di Dunhuang e Yumen) anticipano di molto la sua datazione.

In un passo dell’Hou Hanshu, l’opera di storiografia cinese ufficiale scritta da Fan Ye nel V secolo sulla base di documenti precedenti, che descrive il periodo della dinastia Han Orientale dal 25 al 220 d.C. leggiamo:

Nell’antichità le scritte e le iscrizioni erano generalmente realizzate su tavolette di bambù o su pezzi di seta[…]. Ma essendo la seta costosa e il bambù pesante, non erano convenienti da usare. Cai Lun ha quindi avviato l’idea di produrre carta dalla corteccia degli alberi, dalla canapa, dai vecchi stracci e dalle reti da pesca. Ha presentato il processo all’imperatore nel primo anno di Yuanxing [105] e ha ricevuto elogi per la sua abilità. Da quel momento, la carta è stata utilizzata ovunque ed è universalmente chiamata la carta di Lord Cai. (Hou Hanshu 78/68:2513-14)

Sempre nelle cronache della dinastia Han si narra, anche se tale teoria non pare essere supportata da prove concrete, che Ts’ai Lun si recava ogni giorno a meditare in uno stagno che di solito veniva usato dalle donne per lavare i vestiti e le stoffe. Un giorno notò che le fibrille, staccatesi dai panni sporchi per opera dello strofinio, si erano riunite in un angolo dello stagno come a formare un tessuto. Lui le raccolse e le fece essiccare. Alla fine si accorse che si era venuto a creare una sorta di foglio in cui si sarebbe potuto scrivere.

Al di là dei racconti, certo è che Ts’ai Lun abbia dato l’avvio a un tipo di carta differente, i cui fogli erano orditi non da fibre animali ma vegetali. Già nel 123 d.C. impiegava nel procedimento di produzione infatti stracci di vestiti, fibre del gelso da carta, erba cinese (Bohìehmeria), canna di bambù, materiali ancora oggi utilizzati, soprattutto da alcune popolazioni orientali. I materiali venivano lasciati immersi nell’acqua per parecchio tempo, fino a quando, ormai macerati, creavano una poltiglia che, scaldata al sole veniva piegata in sottili strati.

Il materiale adottato però da Ts’ai Lun, una volta messo a punto il procedimento di fabbricazione, fu la corteccia del gelso da carta (Brussonetia papyrifera). La parte fibrosa della corteccia veniva messa a macerare in acqua, risciacquata e successivamente battuta in mortai di pietra fino ad ottenere una pasta uniforme di fibre.

I cinesi custodirono il segreto della loro produzione di carta fin quando nel 610 d.C. i sacerdoti inviati in Cina dalla Corea ne appresero l’arte, finendo poi per eccellerne. Secondo alcuni studiosi l’introduzione della carta in Corea fu opera della Cina tra il II e il VII sec. All’inizio prodotta con scarti di canapa e rmaji (ramiè), già intorno al IV la Corea aveva sviluppato e perfezionato la tecnica per produrre la carta hanji.

Tale innovazione arrivò a sua volta anche in Giappone, grazie al monaco buddista coreano Damjing inviato da Goguryeo.

In primavera, marzo, diciannovesimo anno [dell’imperatrice Suiko], il re di Koma offrì [i] sacerdoti Doncho e Hojo come tributo [al Giappone]. Doncho conosceva i Cinque Classici. Produsse bene colori, carta e inchiostro, inoltre fece mulini ad acqua. (Nihon Shoki, vol. 22, 720 d.C.)

Ts’ai Lun con Donchō (sinistra) e Mochizuki Seibee

La carta giapponese, che prese il nome di Washi, era infatti prodotta utilizzando fibre vegetali del gelso da carta, nonché altre piante locali come la Diplomorpha sikokiana, la Edgeworthia papyrifera e l’Euonymus sieboldianus.

Dal suo luogo di origine la carta si diffuse in Medio Oriente e in Occidente. Le sue peculiarità infatti erano tali da poter sostituire ogni altra trama e la sua malleabilità permetteva un utilizzo ulteriore, non relegabile alla sola scrittura sacra.

La connessione tra carta e Buddhismo

La storia della connessione tra la carta e il buddhismo è lunghissima e si stabilisce fin dall’inizio. Durante il regno Goryeo, individuabile tra il 918 e 1392 e corrispondente al periodo di massimo splendore del buddhismo in Corea, si compivano lavori di copiatura e di stampa dei sutra e di altri testi sacri. Se è vero che da un lato proprio la stampa contribuì alla diffusione e al mantenimento della religione buddhista in Corea, è pur vero che la principale necessità fosse quella di preservare i sacri testi dalle continue invasioni, soprattutto mongole. I monaci buddhisti a tal fine perfezionarono le loro tecniche, producendo la più ricercata carta dell’Estremo Oriente che, per malleabilità e resistenza fuori dal comune era diventata un vero tesoro. Di questo periodo sono i Tripitaka Koreana, delle scritture buddhiste, derivate in gran parte dal Canone buddhista cinese, scolpite su tavolette di legno. Tale maestria nell’incisione non era un semplice esercizio, ma era al contrario considerato un modo per invocare l’aiuto di Buddha durante i periodi di guerra. Il valore dei Tripitaka era individuabile per l’estetica, la perfezione della trascrizione e per essere storicamente la collezione più ricca di trattati, leggi e canoni buddhisti. Nonostante poi siano state riprodotte, queste prime tavolette furono quasi completamente distrutte dall’invasione mongola in Corea nel 1232.

Nel 1234 la dinastia Goryeo incaricò il ministro Choe Yun-ui di stampare un altro testo buddhista, il rituale prescritto del passato e del presente (Sangjeong Gogeum Yemun). Lungo quasi cinquanta volumi avrebbe richiesto un numero troppo elevato di blocchi di legno. Il ministro civile così pensò di alterare il metodo utilizzato per coniare le monete di bronzo e di applicarlo alla carta. I caratteri venivano rivestiti di inchiostro e premuti su molti fogli di carta in successione. Nonostante il tentativo riuscì perfettamente, anche tale esemplare è andato distrutto e disperso.

Per cui, ad oggi, il più antico libro esistente stampato con caratteri mobili è l’Antologia degli insegnamenti Zen dei grandi sacerdoti buddhisti, il Baegun hwasang Chorok Buljo Jikji simche yojeol (백운화상초록불조직지심체요절), conosciuto semplicemente come Jikji.

In realtà i caratteri mobili erano già stati inventati in Cina durante la dinastia Song che però era solita utilizzare un materiale troppo fragile come la porcellana prima e il legno poi. Solo nell’epoca Goryeo si introdussero i caratteri in lega metallica.

Il Jikji perciò, essendo databile nel 1377, anticipa di molti anni Gutenberg e l’omonima Bibbia stampata intorno al 1452, oggi conservato nella biblioteca nazionale di Francia.

La carta coreana, con le sue principali caratteristiche di malleabilità e resistenza, comincia ad essere richiesta e utilizzata anche per usi differenti rispetto alla trascrizione di testi sacri.

Caduto infatti il regno Goryeo, la nuova burocrazia di impronta neo-confuciana richiedeva quantità maggiori di carta e un minore investimento in essa. La produzione della carta hanji comincia così ad essere sottratta all’esclusività dei monaci e lasciata a privati che ne realizzavano, necessariamente, una qualità inferiore con una minore accuratezza.

Nel periodo Joseon (1292-1919) poi l’uso della carta hanji si estende anche ad aspetti non legati alla scrittura. Essa comincia ad essere impiegata nella produzione di oggetti di uso quotidiano, come suppellettili e ventagli, fino ad essere utilizzata per le armature. Tale tendenza sembrava poi coadiuvata dall’ideale di austerità tipico di questo periodo che tendeva a rinunciare allo sfarzo. Pensiamo ad esempio a come alcuni materiali preziosi venivano sostituiti dalla carta. Esemplare al riguardo è l’abbandono dei fiori artificiali composti con cera e seta a favore di fiori di carta che finivano così per entrare all’interno dei riti e delle feste buddiste. Proprio per supplire alla continua richiesta di dak (ovvero della corteccia del gelso da cui veniva ricavata la carta hanji), accanto alla versione tradizionale della produzione di carta se ne affiancano altre, prodotte con corteccia di pino, paglia di riso e bambù.

Propri del periodo Joseon sono gli Uigwe. Genere di testi che descrivevano i rituali reali e le cerimonie della dinastia Joseon. Una sorta di protocolli reali lunghissimi, in cui le cerimonie pubbliche e gli affari della famiglia reale (matrimonio, funerali, successioni) si intrecciavano. Essi contenevano una descrizione dei fatti molto dettagliata che si serviva anche dell’ausilio di illustrazioni fatte a mano, estendendo in tal modo l’uso della carta hanji anche alla pittura.

Addirittura il governo creò un’agenzia amministrativa che commissionava armature impermeabili utilizzando proprio il materiale hanji, che si era sperimentato possedesse proprietà altamente isolanti. Proprio quest’ultima caratteristica fece estendere l’utilizzo di tale carta (nella versione oliata) all’architettura interna delle abitazioni tradizionali, riscontrando infatti in essa la capacità di controllare il calore e l’umidità. Venivano così ricoperte con carta le porte di legno, così da garantire il raffreddamento in estate e il mantenimento del calore in inverno.

Tutti questi fattori e la difficoltà dei monaci buddhisti di far fronte alla crescente richiesta, portarono alla industrializzazione della carta e al lento abbandono della hanji a favore di altri tipi di carta meno costosi e più facilmente reperibili. Anche il cambio delle unità abitative, sostituite pian piano da moderne abitazioni che eliminavano i tetti in paglia, le coperture e le rifiniture fatte in carta hanji, nonché l’economicità della carta cinese contribuirono ad estromettere l’hanji da quella quotidianità di cui, per anni, aveva fatto parte.

Non è un caso che l’attuale produzione delle bambole ricavate da carta hanji, considerata una vera e propria arte, raffigura personaggi tradizionali che si sarebbero potuti incontrare nei villaggi intenti a esercitazione abitudini familiari nelle tipiche case o giochi legati comunque all’antica tradizione.

(한지)Hanji

Per Hanji si intende la tipica carta coreana interamente prodotta a mano, secondo una procedura tradizionale che richiama il valore della lentezza e della ritualità. La particolarità è data dalla sua provenienza totalmente naturale, non chimica, che richiede la complicità della ciclicità della natura.

Essa si ottiene dalla corteccia interna della Broussonetia payrifera, (in coreano prende il nome di Dak) comunemente detto gelso di carta, albero originario dell’Asia appartenente alla famiglia delle Moraceae.  Le fibre di cellulosa estratte dalla corteccia del gelso, i cui rami vengono tagliati a dicembre, sono infatti lunghe e capaci di impigliarsi le une alle altre.

A completare la procedura per creare tale carta viene utilizzata anche la mucillagine derivante dalla radici di un altro albero, ovvero l’Hibiscus manihot, ibisco del tramonto, aibika. Il materiale usato per l’incollatura non è chimico, ma è ottenuto dalla linfa (dak pul), una sostanza naturale ricavata dalla pianta omonima, che si dissolve in acqua, non influendo con la propria neutralità ma permettendo una conservazione della carta per secoli. Anche il colore successivo che può essere utilizzato per la carta è di origine naturale, il più delle volte ad esempio si usano petali di fiori.

Produrre la carta richiede grande precisione, un lavoro complesso appreso nel tempo suddiviso in diverse fasi che si susseguono secondo un ordine di ore e di giorni.

Il legame con la natura si riflette sulla sua lunga procedura, su una ciclicità sacra che non può essere compromessa. I tempi corretti sono essenziali alla riuscita del processo. Senza di essi il foglio non può prendere forma, senza di essi la carta non svilupperà quella lucentezza e resistenza al tempo. Alla base perciò rimane una sorta di ritualità ancestrale, una arte, una poiesis in comunione con una dimensione meditativa tipica delle filosofie e delle discipline di stampo orientale.

L’intero processo è basato su fasi, ritmi, passaggi in una correlazione tra azione e inazione.

E proprio l’azione simbolica è ciò che sorregge i riti e gli ordinamenti di una comunità, che ne descrive il suo valore identitario. La Corea, nello specifico, riconosce nella carta hanji un valore eccedente, una declinazione della propria cultura, della propria identità nazionale. In Oriente infatti, questa tecnica millenaria esprime un processo identitario la cui produzione investe nazioni, centri, addirittura villaggi.

Il recupero della tradizione

Avevamo già citato la carta artigianale giapponese Washi, realizzata con la corteccia interna dell’albero di gelso e l’ausilio della linfa dell’ibisco del tramonto.

Ma dalla fibra del gelso si ricava anche una altra tipologia di carta, il Tengujo, inventata a Gifu, la provincia giapponese che viene considerata il luogo di nascita della carta giapponese stessa. Già presente nel periodo Muromachi (1336-1573 d.c.) era molto più spessa della sua versione successiva di soli 0,3 mm. Sarà proprio la sua trasparenza e sottigliezza a renderla utilissima per gli interventi di recupero e di risanamento di altri testi.

L’acidificazione dei libri fatti di carta prodotta con la pasta di legno vanno necessariamente incontro a deterioramento, che dal semplice ingiallimento arriva fino alla possibilità di sbriciolarsi. Motivo per cui si utilizza la carta Tengujo per riparare le parti mancanti.

Al di là della sua indiscussa ricchezza, la carta hanji ha vissuto un periodo di declino. La lentezza di tale procedimento, la difficoltà spesso degli antichi artigiani di trovare loro successori rischia costantemente di far perdere una trazione millenaria. Ciò che inizialmente aveva permesso l’archiviazione di una sapienza antica, religiosa, sacrale, ciò che aveva contribuito a creare uno scambio culturale e un progresso dell’intera civiltà umana rischia di perdere il suo valore.

Eppure questa incredibile sapienza artigianale deve essere preservata. E meraviglia che le forme di tutela, sviluppo e mantenimento di una parte della nostra storia siano affidate esclusivamente ad artisti e calligrafi del sud della Corea.

Perciò nonostante commuova che sia poeticamente l’arte a recupere l’arte, una tale ricchezza dovrebbe essere tutelata anche in altre forme.

Una forte testimonianza in tal senso è stata la recente mostra dedicata alla carta hanji e al suo utilizzo artistico tenutasi presso il museo Carlo Bilotti di Roma.

Frutto della collaborazione tra l’Accademia di Belle Arti di Roma e l’Istituto Culturale Coreano, si è dato vita a un progetto espositivo il cui intento era quello di recuperare la dimensione artigianale, prettamente manuale degli artisti, chiamati a ricreare in laboratorio la carta secondo il procedimento tradizionale. Ne sono scaturiti disegni, dipinti, sculture, opere sonore, fotografiche e performative, in grado di mostrare il potenziale inalienabile di una tradizione millenaria.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

Lee Seung Chul, Hanji- Everything you need to know about traditionale Korean paper, Hyeonamsa, Corea 2012.

Jan C. Heestermann, Il mondo spezzato dal sacrificio, Adelphi 2007.

http://www.buddhism.org/Sutras/2/UsnisaVijayaDharani.htm

http://www.bulguksa.or.kr/

Fiori Vivi ringrazia Flavia Sorato per il reportage sulla Mostra Carta coreana – Hanji, Museo Carlo Bilotti Aranciera di Villa Borghese di Roma https://www.museocarlobilotti.it/it

Il sistema espositivo

di Flavia Sorato

Pur non così temerario da pensare di comprendere il nocciolo della creatività sono curioso di spiarla quanto più è possibile. (Paul Klee)

Secondo quanto sosteneva Arthur Schopenhauer, «Con un’opera d’arte bisogna avere il comportamento che si ha con un gran signore: mettervisi di fronte e aspettare che ci dica qualcosa». Immaginando una tale disposizione, le esposizioni si offrono come occasioni e luoghi grazie ai quali oggetti ed opere possono entrare in relazione con un pubblico, assumendo una loro particolare risonanza e mostrandosi alla società che, interpretandone forme e contenuti, crea il proprio bagaglio culturale.

La pratica espositiva è segnata da una sua propria evoluzione e ha un profondo valore sociale nel divulgare sia le espressioni artistiche e culturali del passato, tramandando la memoria di una data collettività, sia quelle del presente, diffondendo la conoscenza e la consapevolezza della contemporaneità, del mondo e del contesto in cui si vive.

«La società ha bisogno di fondarsi su un passato, nessuna civilizzazione umana può durare senza». Così lo storico dell’arte Jean-Michel Leniaud descrive l’importanza del ruolo svolto dal museo che, con la sua opera di tutela, conservazione ed esposizione, assolve ad una funzione fondamentale per la sopravvivenza del patrimonio culturale di una società.

Breve storia dell’evoluzione espositiva

All’inizio del Settecento le grandi collezioni reali ed aristocratiche d’arte erano private. Come può essere riscontrato nella letteratura artistica del tempo, però, si comincia a far strada una concezione diversa, aperta all’idea di un importante valore formativo delle opere: Diderot nella sua Enciclopédie afferma che i collezionisti privati di quadri devono consentire l’ingresso non solo agli artisti «ma a tutti quelli che vogliono realmente istruirsi, senza eccezione di condizione». A partire dalla metà del secolo in questione, sulla base di tali presupposti e grazie al diffondersi di donazioni, in diverse città europee cominciano ad essere aperte alcune collezioni e fondati musei (che mantengono però ancora una natura sostanzialmente privata). Un primo esempio di vera collezione pubblica si ha a Roma quando, nel 1734, Papa Clemente XII apre i Musei Capitolini al pubblico. Da qui in avanti la strada si costella di momenti incisivi per la storia museale, fino ad arrivare a fine del secolo, che vede l’apertura pubblica del Louvre ed il diffondersi delle Accademie in cui fioriscono le esposizioni d’arte. A fine Settecento infatti, soprattutto in conseguenza della Rivoluzione del 1789, si affaccia e sedimenta l’idea di un bene comune che deve essere condiviso, come fosse una conquista collettiva, e maggiormente accessibile, non solo quindi godibile da una ristrettissima cerchia: come afferma il pittore Jaques-Luis David, la base ideologica su cui deve ergersi il nuovo Musée de la Republique, il Louvre, è quella di proporsi come scuola «in cui i maestri condurranno gli allievi e il padre accompagnerà il figlio».

Il Salon parigino diviene, così, la prima mostra regolamentata di Belle Arti, ma è da subito un’istituzione fondata su un sistema di controllo delle opere tramite veri e propri organismi di valutazione, commissioni che ne giudicano valore e moralità, con lo scopo di salvaguardare la “grande pittura”, quella storica, di volta in volta proposta secondo gli stili in voga. Si comprende, quindi, come la cristallizzazione di un tale sistema conduca alcuni artisti all’esigenza di una coraggiosa rottura nei confronti di un apparato che s’impone e giudica, lasciando a margine tutto ciò che ‘non è regola’.

Nella seconda metà dell’Ottocento, il sistema entra inevitabilmente in crisi. Il XIX secolo è un’era complessa: industria, commercio, l’affermarsi della borghesia, tutto porta a nuovi assetti sociali e culturali. Nasce un mercato privato dell’arte e germina l’idea dell’opera-merce che, come prodotto, trova spazio in eventi quali le esposizioni universali, prima fra tutte quella di Londra del 1851, The Great Exhibition of Works of Industry of All Nations. Alla scuola e all’Accademia ormai si affiancano raggruppamenti artistici liberi, sostenuti da scrittori, letterati e critici militanti e da nuove realtà espositive, rappresentate da collezionisti e galleristi.

Si è ormai estremizzato il rapporto tra passato e nuove realtà, espressioni d’indipendenza culturale. Da una parte è questa l’età in cui si consolida l’immagine delle istituzioni, in cui l’arte ufficiale si decide a Parigi ed il museo diventa un simbolo roccaforte di un sapere artistico lontano dal sentire vivo della società che cambia, divenendo appunto un emblema di ciò che è visto e vissuto come antiquato, alla stregua di un deposito o di un cimitero. Ma d’altra parte, nel corso dei decenni si formano ed infine divampano critiche e sistemi alternativi, sulla scia dei cambiamenti sociali, economici, culturali e dei nuovi movimenti artistici che si oppongono all’autorità uniformante. Il cambio di rotta a metà secolo è segnato, appunto, da eventi seminali come il Pavillon du Realisme, organizzato da Gustave Courbet nel 1885, il Salon des Refuses, del 1863 (è qui che viene esposto il quadro di Manet, Le Dejeuner sur l’herbe), e le mostre impressioniste organizzate tra il 1874 e il 1886. La prima viene organizzata nello studio parigino del fotografo Nadar, al 35 di Boulevard des Capucines e, come evidenzia Argan, sono queste le occasioni in cui si configura una nuova modalità espositiva. La rottura è anche in questo, nel considerare lo spazio in modo diverso: così, se nel Salon le opere vengono giustapposte e poco valorizzate, il gruppo impressionista che espone in questi contesti ha un approccio critico all’allestimento, anzi si può dire che comincia a delinearsi una consapevole azione curatoriale.

La nuova condizione dell’arte, che fonda un sistema anche privo di imposizioni (per partecipare al Salon des Independants non ci sono criteri o limiti d’ammissione), apre sipari su nuovi palcoscenici, luoghi di risonanza per le tendenze più avanzate. «Non esistono più scuole, esistono soltanto dei gruppi che si frazionano continuamente. Tutte queste tendenze mi fanno pensare ai mobili disegni geometrici del caleidoscopio, che ora si riuniscono, ora si intersecano per separarsi e allontanarsi poco dopo, ma nondimeno girano tutti in una stessa sfera, quella dell’arte nuova». (Emile Verhaeren)

La svolta ormai avviata, infatti, giunge ad un punto di non ritorno con le Avanguardie, movimenti che assumono posizioni di netto contrasto con il passato e la sua relativa e incriminata immobilità, una collisione fortissima impersonata da Marinetti e dal suo inneggiare alla modernità, simboleggiata dall’automobile ruggente più bella della Vittoria di Samotracia.

Quello che si contesta è quindi l’immagine e il ruolo conservatore proprio del museo, non più capace di essere e contenere testimonianza della società, poiché mutando totalmente il modo di concepire l’opera d’arte, tutto si riforma: con il ready-made di Duchamp, con le serate e gli eventi futuristi e dadaisti si attua il passaggio fondamentale dall’oggetto al concetto, dalla materia al gesto.

Cambiano, quindi, di conseguenza anche le modalità espositive, dal momento che si trasforma sia il ruolo dell’artista, ormai agitatore sociale e curatore egli stesso, sia quello dello spettatore, coinvolto nell’azione artistica, e si acquisisce un nuovo senso dello spazio, non più vissuto e percepito in modo chiuso, ma aperto all’interazione del pubblico con le opere.

Gli sviluppi artistici di fine Ottocento avevano, dunque, assunto il ruolo di aprire la via a queste sperimentazioni che portando sconvolgimento sul piano creativo, hanno anche svolto la funzione di riformare il sistema curatoriale: il Futurismo ed il Dadaismo, con le loro peculiarità, hanno concorso in modo decisivo alla definizione di una nuova concezione di mostra, intesa come azione-partecipazione, introducendo anche forme nuove di comunicazione, come le operazioni commerciali volte a pubblicizzare l’evento. Tutto il senso dissacratorio si converte, perciò, in intervento diretto e diviene «[…] vitale soltanto quell’arte che trova i propri elementi nell’ambiente che la circonda». Partendo da questo presupposto la modalità di presentazione dell’arte non riguarda più gli aspetti comuni dell’allestimento, ma concerne l’ideazione e la messa in scena di un vero e proprio evento. In questo senso vanno viste le serate futuriste realizzate con lo scopo di essere «[…] un momento di fondamentale interazione con il pubblico che viene coinvolto in prima persona. A metà tra spettacolo teatrale, balletto, concerto, mostra e agitazione politica le serate segnano la definitiva fusione di ambiti artistici e culturali fino ad allora ben distinti».

La rivoluzione espositiva

Cos’è, dunque, che viene rivoluzionato in ambito espositivo? Come si è visto, prima di tutto, la relazione con lo spazio, il ruolo dell’artista, che diventa protagonista, e la posizione dello spettatore, non più distante dall’opera, ma da essa coinvolto; a questo, poi, si aggiunge la consapevolezza di un dato cruciale, ossia la comunicazione che, nella forma di pubblicità su giornali e volantini lanciati durante gli eventi, diventa un mezzo di presa sulla realtà con lo scopo di diffondere le idee e il nuovo stile di vita/arte.

Un simile modus operandi viene assunto anche dal movimento Dada. Il Cabaret Voltaire al n.1 della Spielgasse, a Zurigo, diviene il punto di ritrovo e la base operativa degli interventi dadaisti che si legano anch’essi al teatro e alla performance. Duchamp e Tzara, infatti, come Marinetti ed altri, hanno dato un contribuito fondamentale nello svincolare l’arte da sistemi di presentazione definiti, diventando loro stessi curatori, organizzatori e critici.

Vi è, però, un aspetto di Dada ancora più sovversivo rispetto agli altri movimenti, poiché secondo il loro manifesto l’arte stessa deve essere demolita, negata e con essa tutto ciò che le gravita intorno: diventa allora un’azione senza senso, sono sospesi giudizi, tutto si paralizza ed il mercato crolla dinanzi a una tale illogicità. Una conclusione estrema questa, complessa da figurarsi, tanto da domandarsi come possa essere stata messa in atto. Nel 1920, a Colonia, viene organizzata una mostra da Ernst, Arp e Baargdel:

L’esposizione di quadri, sculture, ed oggetti ebbe luogo nel cortile di un caffè centrale: per accedervi bisogna attraversare i gabinetti di decenza. All’ingresso una ragazza in costume da prima comunione recitava dei versi osceni. In mezzo al cortile di alzava un oggetto di legno di Ernst, con accanto una scure attaccata ad una catena: il pubblico era invitato ad impugnare la scure e a distruggere la scultura. In un angolo Baargdel aveva addirittura collocato un acquario, pieno di un liquido rosso come il sangue e tutto intorno erano appesi fotomontaggi di carattere sacrilego […]. I visitatori infuriati a varie riprese devastarono il locale e sfregiarono le opere, finché le autorità impedirono la mostra.

La centralità dello spazio espositivo

Se gli impressionisti avevano avuto il merito di svincolare il sistema dell’arte da quello delle istituzioni, le Avanguardie con il loro atteggiamento di rottura netta nei confronti della ‘regola’ hanno per di più creato nuove (anti)logiche e nuovi canoni.

 Con il Surrealismo, poi, si affermano ulteriori modalità di presentazione legate al mondo dell’onirico, dell’inconscio e del caso. L’opera diventa un qualcosa in grado d’innescare un processo immaginativo e creativo nello spettatore e quindi anche lo spazio espositivo diventa il luogo in cui ricreare questa dimensione. Una mostra esemplificativa in tal senso è l’esposizione Art of this Century voluta da Peggy Guggenheim nella sua galleria omonima a New York, nel 1942. Vengono lì esposte opere di movimenti europei, in particolare della corrente surrealista e dell’astrattismo, con un allestimento decisamente sperimentale messo a punto dall’architetto Kiesler: per rompere il senso di fissità e la staticità, la sezione dell’arte surrealista è pensata come una struttura con pannelli curvi ed i quadri, privi di cornici, sono montati su bracci mobili che li tengono sospesi nella sala. Ne consegue che il quadro si trasforma quasi in un oggetto tridimensionale. Luci intermittenti, poi, rendono difficile, se non impossibile, qualsiasi continuità visiva, mettendo in discussione le abituali condizioni in cui l’identità del soggetto è definita. Allo stesso modo, la sala dedicata all’astrattismo presenta soluzioni particolari e inaspettate: le pareti blu e turchesi sono ricoperte con tendaggi di simile tonalità tanto da creare un ambiente equoreo immaginifico. Le opere, anche qui, non appese alle pareti ma, tese da corde, sono come mobili nello spazio, libere tra soffitto e pavimento.

È un ambiente disorientate, quello che si viene a creare, e l’atmosfera magica di opere a mezz’aria mostra più che mai la verità delle parole di Duchamp, secondo il quale sono gli spettatori a fare il quadro.

Il Novecento si apre con questo forte spirito di rinnovamento radicale, ma dopo aver assistito all’uscita dell’opera dall’idea classica di quadro e dai luoghi istituzionali, vi è un ritorno entro certe cornici dell’ufficialità. In modo nuovo si assiste alla creazione di un diverso sistema, quello delle gallerie e dei musei d’arte contemporanea, la cui nascita è causa e conseguenza dell’affermarsi di differenti poli culturali mondiali: nei decenni tra le due guerre mano a mano l’America guadagna spazio e toglie centralità all’Europa e New York, così, prende il posto di quella che un tempo era stata la città dell’arte, Parigi.

Questo celere sviluppo degli Stati Uniti è dovuto soprattutto a un sistema fondato su una connessione stretta tra artisti, musei, collezionisti, il tutto vitalizzato da un mercato dinamico. Si ricordi che è stata la stessa Peggy Guggenheim ad aver promosso e sostenuto fin dall’inizio un artista come Pollock, e la pittura dell’espressionismo astratto americano, tra le cui opere anche quelle di Rothko. Vi è, infatti, nell’America di quegli anni una forte attenzione nei confronti delle espressioni artistiche della contemporaneità che trovano casa presso le nuove forme dell’architettura del tempo: nel 1929 viene fondato il Museum of Modern Art di New York; l’anno successivo nasce il Whitney Museum, e poi tra il 1943 e il 1959 viene al mondo il capolavoro di Frank Lloyd Wright, il Guggenheim Museum.

Mentre modernità e contemporaneità corrono sui binari del Novecento, questo secolo assiste anche, però, all’ascesa di sistemi reazionari che creano apparati di controllo su cultura e arti visive. I decenni tra le due guerre sono quelli in cui prendono potere dittature, dedite a condurre campagne violente verso espressioni dell’arte moderna. Tale azione culmina in eventi specifici, come la Entartete Kunst, mostra di arte degenerata inaugurata a Monaco nel 1937, con l’intento di presentare al pubblico tedesco il disfacimento dell’arte, in rovina a causa di movimenti come l’espressionismo, il cubismo e l’astrattismo. Evento questo che, però, presenta un risvolto della medaglia indesiderato al regime: la mostra è stata così tanto visitata, da aver ottenuto l’effetto contrario, quello cioè di pubblicizzare la stessa avanguardia che si voleva sopprimere.

La seconda metà del Novecento si distingue, infine, per un fiorire di numerose manifestazioni, con l’avvicendarsi di esposizioni Biennali e Triennali: il passaggio al Ventunesimo secolo è infatti caratterizzato da un’arte ormai globale che propone una serie di contenitori espositivi che rivaleggiano con gli eventi più tradizionali ed insigni, come la Biennale di Venezia (la cui prima rassegna risale al 1895) e la Documenta di Kassel.

Negli ultimi decenni, alcune mostre hanno segnato un passaggio decisivo in senso artistico e curatoriale, in particolare gli anni Novanta del secolo passato hanno delineato un certo nuovo corso: nel 1992 la nona Documenta di Jan Hoet (grande figura di curatore, come Szeeeman, Fuchs, Celant) rappresenta un ponte tra l’arte contemporanea del Novecento e quella del Duemila, conducendo in un mondo dell’arte non più eurocentrico ed filoamericano, ma globale, appunto: un circuito ormai vastissimo che si estende dalla Corea, al Brasile, passando per il Sudafrica e arrivando a manifestazioni come le biennali di Mosca, Shangai, Taiwan, Santa Fe, Atene, Istabul.

Bibliografia di riferimento:

G. BORA, G.FIACCADORI, A. NEGRI A.NOVA, I luoghi dell’arte. Storie, opere, percorsi, Volumi 5 e 6, Mondadori, Milano 2003.

M. DE MICHELI, L’arte sotto le dittature, Feltrinelli, Milano 2000.

M. DE MICHELI, Le avanguardie artistiche del novecento, Feltrinelli, Milano 2005.

G. DI GIACOMO, C. ZAMBIANCHI (a cura di), Alle origini dell’opera di arte contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2010.

P. GUGGENHIEM, Una vita per l’arte, Skira, Milano 2008.

F. HASKELL, La nascita delle mostre, Skira, Milano 2008.

A. NEGRI, L’arte in mostra, Mondadori, Milano 2011.

F. POLI, M. CORGNATI, G. BERTOLINO, E. DEL DRAGO, F. BERNARDELLI, F. BONAMI, Contemporanea. Arte dal 1950 ad oggi, Mondadori, Milano 2008.

D. SCUDERO, Manuale del curator. Teoria e pratica della cura critica, Gangemi, Roma 2006.

Intervista a Marco Maria Gazzano

Un breve viaggio tra i suoi scritti

di Gilda Diotallevi

Dialogando con il professor Marco Maria Gazzano, tra i massimi esperti di arti elettroniche e teorie dell’intermedialità, mi rendo subito conto di come tutto il suo lavoro sia incentrato sul valore della ricerca. Acuto osservatore del mondo e delle sue dinamiche nascoste, Gazzano mira a estendere e approfondire le sue conoscenze delle arti in modo sistematico, secondo un metodo che, nella sua accezione etimologica, crea una connessione tra un μετα- l’andare in direzione di, in cerca di, e un δός, un cammino, una via.

Non meraviglia quindi che il suo testo Kinema, il cui titolo è già un manifesto, si componga di una serie di saggi, atti di convegni, scritti d’artista, inediti che testimoniano il lungo percorso necessario per giungere alla reale comprensione di un ambito tanto complesso ed eterogeneo come quello del cinema.

MMG «Il tema trattato in Kinema è molto ampio, è la definizione del concetto e della parola ‘cinema’ che è cambiata nei due, tre secoli che ne coprono la storia. Ma soprattutto è cambiata potentemente in funzione delle tecnologie che fanno il cinema, perché le tecnologie sono gli elementi che modificano i linguaggi, con cui si costruiscono le forme, i racconti, le immagini, i raccordi con le altre arti, con le performance con la musica, con l’arte contemporanea, col corpo, col corpo virtuale. Cambiano i linguaggi e non cambiano mai completamente, perché molto del passato rimane nel presente, cambia di forma, cambia di posizione all’interno dell’opera ma rimane. È sempre una transizione verso qualcosa che non sappiamo ancora, ma è comunque un passaggio che tiene conto di tutto ciò che c’è stato prima. Nonostante tutti i cambiamenti tecnologici l’immagine fotografica, il fotogramma, non perde mai di senso. Anche in digitale ci sarà sempre un campo medio, un campo lungo, un dettaglio, un particolare. Fatti costruiti in maniera diversa e allo stesso tempo persistenti.

Questa ricerca sulla definizione di cinema riguarda i linguaggi, le forme, le modalità interpretative, i significati. L’arte non cambia i contenuti, forse perché l’umanità stessa in fondo non è mai cresciuta. Motivo per cui i classici greci del V, VI sec a.C. sono così attuali.

L’arte è interessante perché cambia le forme con cui esprime i contenuti. Ciò che rende affascinate l’arte, che la vivifica, è che ogni cambiamento linguistico, espressivo, cambia il modo di rappresentare e formalizzare quei temi che possiamo definire eterni come la guerra, l’amore, la pace, il sesso, il corpo, lo specchio, il virtuale, il rapporto con la natura.

Eppure non sembra un concetto così chiaro, poco compreso in primis dalla politica così come da chi ha distinto arti e scienze. Manca la capacità di concepire l’arte oltre l’abbellimento. In realtà tutto ciò è lontanissimo dal vero significato di arte che abbiamo riscoperto anche grazie ai grandi pensatori del Novecento come ad esempio Heidegger e Nietzsche. Arte è di per sé una parola che parla del rapporto tra arte e tecnica e che usa quest’ultima non in senso tecnico ma in senso espressivo, come κινέω, come capacità del fare. A ricordarcelo è la stessa radice greca di τέχνη che non pone distanza epistemologica tra arte e tecnica nel loro senso più ampio. Il vero artista si è sempre occupato delle tecniche (dalla creazione dei pennelli, alla rielaborazione del colore rosso di Rembrant che studia Pompei, alla chimica appunto, forse più creativa dell’algoritmo di oggi dal punto di vista del rapporto con l’uomo), di quegli strumenti cioè con cui creare le forme e inventarne di nuove. Tutto questo non è un mero gioco edonistico ma un modo per sviluppare l’interpretazione della realtà nella sua infinita e inconoscibile complessità.

Il cinema è interessante perché è l’ultima di questa evoluzioni, non è cioè frutto di una singola evoluzione tecnica, ma di mille di esse che si sono intrecciate, dalla fotografia di inizio Ottocento passando per il digitale (in realtà per ciò che oggi conosciamo, esistendo un mondo legato al digitale che ancora dobbiamo scoprire). L’arte cinematografica va quindi interpretata non come un punto di arrivo ma di passaggio, che ha obbligatoriamente necessità di tener conto del passato e di trovargli, per riconoscerlo, una forma, un luogo, come parte del presente. Se invece ci fossilizziamo esclusivamente sulla dimensione del presente rischiamo di non comprendere la realtà nella sua interezza.

Questa era la suggestione iniziale da cui tutto è partito. Se fin da giovane mi ero reso conto della complessità del cinema, solo successivamente ne ho scoperto la diversità dei modi e delle forme. Non a caso infatti Ėjzenštejn ha chiamato il cinema la sintesi delle arti.

Tutta la mia ricerca è quindi una interrogazione sul concetto di cinema, dall’impianto dei miei studi nei primi anni Settanta all’intreccio con le nuove teorie della comunicazione di massa (mi riferisco per esempio a mcLuhan) e la filosofia. Alcuni pensatori hanno infatti capito l’importanza del problema e hanno suggerito delle strade. I miei pensatori di riferimento sono anche politicamene differenti tra di loro, da Heidegger (penso ai saggi sulla tecnica e la televisione), ad Adorno che odiava il cinema ma che nelle cui pieghe del pensiero nasconde una sapienza cinematografica che non è ancora nota oggi, a Nietzsche, che si interessava di mitologia, passando per Pasolini e Carmelo Bene. Personaggi che nella loro follia aprono squarci di verità,

perché l’arte è proprio questo, cercare di stracciare i molti veli dell’apparenza, gli stereotipi, i luoghi comuni, le banalità, per provare ad acquisire punti di vista diversi.

Mi viene in mente un passaggio di Joyce,

«[…] per epifania …intendeva una improvvisa manifestazione spirituale, o nella volgarità del discorso o in un gesto o in un giro di pensieri, degno di essere ricordato. Epifanie…attimi assai delicati e evanescenti. L’anima dell’oggetto comune ci appare radiante. L’oggetto raggiunge l’epifania» (J. Joyce, Stephen Hero, Gente di Dublino).

Il cinema, tutta l’arte, ci avvicina a questa capacità epifanica, a questa struttura conoscitiva che scopre dietro una apparente realtà una realtà più profonda e anche discordante. La tecnica cinematografica ci dà degli strumenti molto più potenti che naturalmente l’industria cinematografica e i politici hanno ridotto a un minimo comun denominatore, allo specchio di ciò che vediamo senza elaborazione concettuale.

Invece ogni immagine è una interpretazione della realtà, un fraintendimento, uno spostamento.

Ogni fotografia lo è. Poi se alla capacità ottica si aggiunge la capacità del numerico si moltiplica la relazione tra immagine e arte. Banalmente considerati effetti speciali, sono dei falsi, fatti a volte per ingannare i sensi e far vendere semplicemente un prodotto, altre volte sono ciò che quel prodotto nega di essere, una vera magia che ‘potrebbe’ far capire di cosa si sta parlando…

La mia ricerca, continua, è arrivare a capire di cosa stiamo parlando.

Avevo sempre avvertito l’insoddisfazione degli artisti, penso ad Antonioni, Ėjzenštejn, Lizzani, sul modo in cui i giornalisti e i professori raccontano il cinema, così come l’insoddisfazione nei confronti della realtà che cerchiamo di cambiare politicamente, ma che intanto cambiamo formalmente, insoddisfazione per lo stato di analfabetismo audio visivo in cui versa il popolo, preso in giro continuamente. L’ignoranza alfabetica nel Novecento si fa specifica, è audiovisiva. La gente usa la fotografia senza conoscerla, non capendo che anche una singola angolatura è in grado di cambiare l’intero significato di quell’immagine. Non sapendolo sono in balia di ogni forma di interpretazione falsificante della realtà. Non conoscere la musica può far credere che il suono sia solo un accompagnamento di un film o che se l’attore parla sia un guitto sul palcoscenico, quando invece la voce è parte della musica, del suono ed è in grado di creare con l’immagine combinazioni a volte banali, a volte meravigliose. Tutto ciò è analfabetismo cinematografico, fotografico, audiovisivo e oggi digitale, su cui da anni mi batto. Sembrano passare gli anni ma non la mentalità dominante se penso alla battuta, per altro attualissima, che fece Togliatti una volta che si era recato a Siena a una mostra d’arte concettuale più astratta del solito. Al piano di sopra c’era una mostra del Cinquecento dei Medici, così va dai pittori dell’astrattismo suoi amici comunisti e dice loro “Sì, sì siete bravi, però vi piacerebbe dipingere come quelli del Cinquecento”.

La tecnica di pittura di questi pittori astratti era buona come quella del Pinturicchio, ma usavano forme diverse, forse più adatte alla terza guerra mondiale imminente in quegli anni. Picasso sapeva dipingere, ma non voleva farlo in quel modo. Lo stesso vale, oggi, per gli artisti di videoarte. Non è che non siano capaci di fare un cinema narrativo alla Visconti, ma non vogliono più farlo, lo ha già fatto Visconti. Vogliono provare ad andare avanti con il linguaggio. Non sono meno bravi, sono bravi quanto, a volte di più.

La ricerca della conoscenza passa anche attraverso la ricerca delle definizioni. Così quando nel 1989 cercavo un nome per la mia associazione culturale, che già lavorava da 10 anni con artisti e organizzava mostre e convegni, ho scelto Kinema.

Ho così scoperto, grazie anche a una mia amica filologa classica, che cinema non vuol dire scrittura per movimento ma è un participio passato del verbo κινέω, che vuol dire movimento avvenuto. Che è esattamente ciò che accade nel cinema che si sostanzia in un movimento ma già avvenuto, già fissato nell’immagine. (Discorso che vale anche con il digitale perché in realtà la simultaneità della ripresa di un evento crea comunque uno scarto tecnologico, e quindi anche lì è κίνημα).

Questa parola greca, non un sostantivo ma un participio, aiuta a capire che stiamo ragionando sempre con l’illusione della presenza ma che in realtà lavoriamo su qualche cosa che già c’è stato e che, attraverso la memoria e la tecnica, elaboriamo. Produciamo una rielaborazione di ciò che è accaduto e lo chiamiamo cinema. Non è un caso che gli americani la traducano con movie picture, cancellando completamente l’atto della scrittura, ovvero del mezzo attraverso cui poter elaborare il pensiero. Si apre un problema di identità culturale europea».

Il professor Gazzano, proprio per illustrarmi il senso di questa rielaborazione, mi cita un caso, quello legato ai primordi del cinematografo. Scopro così non solo di dover retrodatare la nascita del cinema al 1892, anno in cui Leon Bouly inventò questa parola meravigliosa che i potenti fratelli Lumiere fecero invece loro. Ma anche che quello dei Lumiere può essere considerato il primo film sul lavoro, incentrato su alcune donne che escono dalla fabbrica (e quindi anche il primo film di genere). Eppure ciò che più mi meraviglia è il fatto che il professore lo rielabori attivamente. Mi cita infatti una intuizione di Peppino Ortoleva, professore a Torino di cinema ma anche di antropologia culturale secondo il quale questo stesso film potrebbe essere considerato il primo spot pubblicitario sulla officina Lumiere. In realtà tutte quelle donne che escono dalla fabbrica, non le vediamo lavorare, mostrano la potenza dei fratelli Lumiere che, così facendo, pubblicizzano il loro Cinema Lumiere.

MMG «Quanto appena descritto è un esempio di come sia possibile interpretare cose archeologiche non in maniera archeologica, ma intrecciandole con ciò che sappiamo della comunicazione oggi, dei nuovi prodotti audio visivi e degli spot pubblicitari. Propone nuove chiavi di lettura come le identità di genere. Mostra la possibilità di cambiare il punto di vista di un oggetto che continua a essere vivo, ma che non può essere bloccato nella archeologia del cinema dicendo solo che è il primo film sugli operai. È diverso. È una operazione trasversale di interpretazione. E tutto questo lo si deve a quegli studiosi, a quegli intellettuali che non si fermano ai confini della propria disciplina ma provano a muoversi tra filosofia, storia, etimologia. Ed è proprio muovendosi in direzione transcuturale, transreligiosa che si acquisiscono punti di vista nuovi, che si lotta contro la semplificazione».

Questa intensione di mettere in correlazione più ambiti è ciò che ho ritrovato anche in un altro bellissimo testo, La lotta e l’utopia in cui lei afferma: […] tante correnti – un insieme di voci più che un movimento – trasversali a tutte le arti, sempre meno sperimentali, e sempre più coscienti di sé e avviate alla conquista degli spazi istituzionali, che inaugurano pratiche diffuse di spostamento semantico, di critica alle ideologie dominanti, di nuove attorialità, di riposizionamento dei materiali espressivi, di spiazzamento del crocianesimo dominante a destra come a sinistra. Pratiche di dis-locazione dei linguaggi e delle modalità conoscitive: e di ri-locazione in inedite relazioni espressive. (M.M. Gazzano, La lotta e l’utopia, pp.159-160)

Ciò che più affascina di questo suo pensiero è che tutti gli elementi di cui parla vengono proposti in una visione sincretica.

MMG «Durante il mio percorso, lavorando con Aristarco, dialogando con Visconti, Antonioni e conoscendo i miei amici musicisti o artisti come Paik, Vasulka ho capito che le arti non possono essere chiuse in settori troppo rigidi. Tutti loro, da Zavattini a Paik, erano persone transculturali e transdisciplinari, a prescindere dalle categorie in cui oggi li separiamo per spiegare e catalogare l’inspiegabile, ovvero la scenografia, l’arte, il cinema, la poesia. Non ho mai sentito un pittore, penso a Lucio Fontana che ho conosciuto, che parlasse di pittura. Parlava di musica, di televisione, di politica…la sua pittura quindi, ovvero la forma che aveva prescelto, era un modo per far entrare il suo pensiero. Ciò che mi sono sempre chiesto fin da piccolo è stato “Perché Fontana fa dei tagli sulle tele?” Perché in quel taglio c’era tutta questa complessità che non era detta apparentemente. Il suono musicale, concettuale, del musicista sembra solo una nota, ma dentro c’è un mondo che io, come spettatore prima e come critico poi, ho sempre cercato di comprendere. Questa è stata la mia impostazione fin dall’inizio, cercare di vedere oltre il dato visibile.

Nascono così le mie lezioni, solo apparentemente eclettiche, che hanno un centro preciso: realizzare un punto di vista che metta in relazione gli spostamenti tra le tecniche, tra i concetti, tra le ideologie. Non mi sono mai fermato solo al cinema o alla televisione, anche se mi piacevano molto, ma mi sono occupato criticamente di teatro, di musica, di pittura e ho tentato di annodarne i fili.

Prima insegnavo le materie classiche, come storia e critica del cinema, e per farlo avevo comunque la stessa impostazione, partivo dalla fotografia, che fa parte della storia del cinema, per arrivare fino alla videoarte. Punto di vista non molto condiviso, non lo era negli anni ottanta, non lo è oggi. Alcuni grandi professori di cinema mi dicevano di non insegnare cinema ma televisione; in realtà cambia il linguaggio e il modo di rappresentazione ma, nella mia logica della cinematografia, è comunque immagine in movimento. Per alcuni invece era solo televisione per cui dovevano occuparsene i sociologi dei media. C’era questa separazione disciplinare molto fondamentalista.

Quando nel 2004 ho scelto il titolo della materia da insegnare ho optato qualcosa di ampio, Cinema (Kinema, nel senso più ampio), arti elettroniche (perché sono arti al plurale, che hanno una base elettronica) e intermediali (perché il mio punto di arrivo teorico è che questi intrecci non creino solo multimedialità o cose che servono all’industria ma devono creare dei salti di sensi ulteriori, ovvero le estensioni dei linguaggi che certe tecniche producono).

All’inizio delle lezioni racconto che questo corso presenta un punto di vista diverso da come viene di solito raccontato il cinema sui libri di testo, perché mescola i tempi, le arti, le parole. Il tentativo è quello di consegnare differenti chiavi di lettura. Dopo il 2000 abbiamo avuto una regressione politica, etica, in realtà incredibile anche solo per la mente del ’68, siamo tornati anche al fondamentalismo disciplinare. Una regressione disciplinare che tende a rinchiudersi nel già conosciuto, senza più interrogarsi sul futuro.

Abbiamo delle eccezioni come Cassese, Zagrebelsky che ogni tanto si interrogano con uno sguardo più ampio, ma gli altri lavorano su codici che già possiedono, senza pensare di creare altro. Così anche gli studiosi di cinema sono ritornati sui loro passi magari aggiungendo l’elettronica al discorso cinematografico, perché non potevano farne a meno, ma senza porla in relazione con il resto. Ecco perché il mio corso risulta inusuale, come l’idea di cambiare lo stato delle cose esistenti (prima, 50 anni fa era un tema, seppur in alcuni casi declinato in maniera opportunistica o giovanilistica, ma era un tema non una bizzarria). Ora i giovani se vogliono produrre qualcosa di veramente artistico saranno costretti a interrogarsi e a reinventarsi il mondo».

Lei professore parla infatti del ruolo dell’artista, di responsabilità, di interpretazione dell’esistente, tematiche che difficilmente trovo così esplicitate nei testi di altri autori. Quindi chiedo proprio a lei se sia ancora possibile oggi, in cui l’attitudine al dissenso e alla critica viene meno, parlare di arte e cinema politico.

MMG «Sono cresciuto col dissenso, con Oppenheimer che criticava in televisione il progetto Manhattan e la bomba nucleare che lui stesso aveva contribuito a creare. Ma oggi manca qualcosa. Mi chiedo come sia stato possibile passare da quella foto iconica delle olimpiadi del’68 in cui i due atleti statunitensi alzarono il pugno guantato di nero (simbolo dei black Panthers) per sostenere i diritti civili contro le discriminazioni razziali al caso di Floyd, ucciso dalla polizia, con un tiepido sostegno da parte dei calciatori.

Anche se gli artisti sono sempre stati politicamente impegnati, io mi appassiono a quelli che lo dichiarano, magari non facendo politica direttamente, ma nei loro testi. Leopardi ad esempio ha fatto più politica con la Ginestra, ha dichiarato più cose sul socialismo e sull’utopia in quella poesia che tutti quelli che erano vicini a Mazzini in quegli anni. Pensiamo a Manzoni, Dante autori particolarmente impegnati.

Il problema del cinema politico, mi riferisco al libro, è che ci siamo ritrovati in pochi, il filosofo Pietro Montani che insegnava estetica alla sapienza, Giovanni Spagnoletti, un professore di cinema dell’Università di Tor vergata figlio di un poeta e studioso di cinema e letteratura tedesca, ed io a chiederci nel centenario della rivoluzione di ottobre (2017), se sia ancora possibile parlare di cinema politico. Cosa è il cinema politico? È cinema che fa propaganda politica? No, tutti noi pensavamo che non fosse così. Per questo è iniziato questo progetto che dal 2017 ha visto la luce nel 2021, anno in cui ricorre il centenario del partito comunista e i 50 anni del ‘Manifesto’».

Il bello di questo progetto è che non ci leggo alcun compiacimento nostalgico.

Esattamente, anche se abbiamo consapevolezza di essere potentemente sconfitti, magari amati, ma sconfitti dalla realtà e dalla chiusura che troviamo di fronte a noi.

In un altro suo testo, Comporre audiovisioni, si legge

L’educazione pluriculturale oggi è il primo luogo di educazione alla percezione della complessità, contro le semplificazione, gli slogan indotti dalla situazione politica, come dallo stesso sistema dei media, dalla pubblicità come dalla maggior parte del cosiddetto mondo della cultura.

L’artista deve e può saper scegliere tali linguaggi di volta in volta, di opera in opera, intrecciandoli e facendoli interagire tra loro per creare opere non soltanto tecnologicamente avanzate ma che ci aiutino a cogliere il senso profondo e stratificato dell’esistenza, oggi. (M.M. Gazzano, Comporre Audio Visioni, p. 143).

Un’affermazione suggestiva, capace di esemplificare una questione centrale, la relazione tra educazione, complessità e responsabilità.

MMG «Il tema principale è la complessità, spesso considerata indigeribile o, come direbbe Francesco Merlo giornalista di Repubblica, da radical chic. (Ed io sarò radical ma neanche troppo chic!).

Ma di enorme importanza è anche la responsabilità. Parlo non solo della responsabilità politica dell’artista ma del pubblico. Questo tipo di opere così intrecciate, a volte intermediali, mette naturalmente, anche se non è così intuitivo, il pubblico di fronte a qualcosa che stupisce, che dovrebbe far capire che ciò che stai vedendo non è ciò che pensi di vedere. Ci si dovrebbe sentire curiosamente impegnati nella comprensione. L’affermazione che tanti linguaggi insieme non fanno una somma ma una sintesi ha senso se si capisce davvero dove sia e cosa sia e a cosa serva tale sintesi.

Da preservare è proprio la complessità unita al senso di responsabilità del pubblico che invece il mondo della politica e dei media cerca invece di arginare deresponsabilizzando. Mi riferisco ai moniti di non andare a votare, di farlo on line, di mettere il like (come si fa a mettere mi piace o non mi piace a una proposta politica). Tutto ciò non è solo drammatico, ma è la fine dell’elaborazione. La mancanza di senso di responsabilità del pubblico è gravissima. Già negli anni’80 sostenevo a Strasburgo che queste nuove forme artistiche (che sono cinematografiche, audiovisive) presuppongono un punto di vista più responsabile degli artisti che devono conoscere le tecniche e capire le loro differenze (in realtà gli artisti, i poeti pensano ogni gesto che fanno…altrimenti non sono artisti e non possono farlo)».

Lei è ideatore anche del progetto La torre della pace: strategie dell’arte contro la strategia della violenza. E anche in questo caso è riuscito a sorprendermi perché se risulta intuitivo il ruolo del cinema o dell’arte nella preservazione della memoria, nella lotta contro l’oblio, lo stesso non può dirsi per quel suo potere strategico contro la violenza.

MMG «In realtà il progetto a cui lei si riferisce può essere considerata la prima opera di videomapping. Oggi ne parlano in molti come della proiezione di immagini su un palazzo o su una discoteca, ma in tutto ciò non c’è nulla di artistico. Nel senso che artistico per me è la rielaborazione dei linguaggi in funzione di un significato. Proiettare suoni e luci, ad esempio, su un palazzo barocco a Roma pone in relazione l’architettura barocca, che è un tipo di arte, con il cinema. Non si può pensare che sia uno schermo e che sia neutrale. Chi usa indifferentemente i palazzi della Garbatella come quelli del centro sbaglia, perché fare una videoproiezione su Garbatella ha un senso ma la stessa proiezione su un altro palazzo ha un altro senso. È multimedialità, che può diventare anche intermedialità.

La torre della pace era nata da un’idea di Veltroni, che conosco da tantissimi anni, che voleva dare una risposta ai tragici avvenimenti dell’11 Settembre.

A me piaceva l’idea di ricostruire una torre, proprio perché ne avevano abbattuta una, e mi viene in mente quella che abbiamo qui a Roma, che erroneamente chiamano il Colosseo quadrato. È un’opera modernista, una torre di richiamo metafisico che ha però il problema di avere dei fornici difficili da gestire. Profondi 4 metri e alti 12, soprattutto con le tecniche degli anni ‘90, nessun video proiettore era in grado di raggiungerli e i ballatoi erano troppo stretti per permettere di posizionarne uno. Ho capito che esiste una forma di architettura che offre delle resistenze strutturali alle nostre stupidaggini tecnologiche. Non volevo una proiezione lontana, ma una che rispettasse l’architettura, per cui la struttura non doveva essere totalmente coperta. La rientranza doveva vedersi. Non volevo proiettare Paik solo per fare spettacolo. Allora abbiamo costruito, con grandi spese personali, degli schermi alti quanto i fornici, posizionati dietro di essi su cui sparare con proiettori da 10.000 lux contro il palazzo, uno sopra l’altro coassiali, delle immagini, un loop di immagini di artisti diversi. L’idea era che ogni fornico avesse la sua immagine d’artista contemporaneo diversa e in movimento.

L’immagine finale era molto bella, avevo fatto il possibile nonostante il budget limitato e le difficoltà burocratiche. Avrei voluto ottenere la proiezione sul lato della torre visibile dalla Roma-Fiumicino. Avevo detto a Veltroni che sarebbe stato bello per gli americani che arrivavano in città dall’aeroporto vedere le immagini sulla facciata. Il senso del progetto era di non abbattere una torre ma di riedificarla attraverso l’arte contemporanea che propone sguardi diversi sulla realtà, non violenti. Non facciamo vedere pistole, kalasmikov, ma belle immagini, pezzettini, senza suono, con una sfumatura ancora più contemporaneo perché il suono glielo dà la città. Lasciamo che la città e il movimento si muovano insieme. Così è nata questa bellissima video istallazione, molto apprezzata a Parigi, in Spagna, in Colombia, in giro per il mondo, ma non molto a Roma.

Una volta terminata l’opera ho messo queste immagini d’artista in movimento nei primi schermi a led della stazione Termini in mezzo alla gente, col rumore della città. Ed era la prova che queste immagini erano diverse da quelle della pubblicità che stavano sui cartelloni. Le persone si incuriosivano. Andavo alle 5 del mattino e vedevo i pendolari che si fermavano davanti alle immagini dei grandi maestri della videoarte e accanto avevano la pubblicità di Armani. Era commovente».

Potremmo asserire quindi che contraltare della responsabilità sia l’educazione all’arte e alle nuove forme di espressione artistica?

MMG «La proiezione di quelle immagini d’artista era un rischio, non sapevo se avrebbe funzionato o meno. La gente comune che non sa nulla di arte, né tanto meno di videoarte, doveva fare ciò che poi ha fatto, ovvero fermarsi e domandarsi, interrogarsi.

Nel 2006 alla festa dell’Unità feci un esperienza simile. In uno stand istallai degli schermi posizionati in verticale, non come i televisori ma come dei quadri con delle mie immagini in movimento corredate da suoni. Il pubblico, perlopiù generalista, si comportava come in chiesa. Entravano timidamente, guardavano e si stupivano. Non c’era una etichetta esplicativa accanto allo schermo, non c’era un catalogo, una spiegazione didattica, o il professor Gazzano pronto a raccontare. Entravano nella caverna delle arti elettroniche e, liberi, se lo spiegavano da soli.

Ma la stessa esperienza l’ho avuta anche con un pubblico diverso, con persone che leggevano libri, che frequentavano le accademie straniere polacche, ungheresi. Spesso mi è capitato che mi chiedessero perché queste cose non erano mai state mostrate in televisione. ‘Chiedetelo alla televisione’ rispondevo.

Perché ci sono in televisione molte serate d’arte, documentari su artisti, ma nulla sulla videoarte? Rimarremo l’unico paese che non se ne è occupato. Le faccio un altro esempio. Avevo organizzato una mostra alla Galleria d’arte moderna dedicata a un fotografo di scena bravissimo, Enrico Appetito sui set di Antonioni. L’ho voluta chiamare 400 scatti per Michelangelo Antonioni (come omaggio ai 400 colpi della nouvelles vagues). Ho riempito la galleria di queste straordinarie foto inedite, anche di Monica Vitti, e poi vi ho accostato i quadri della collezione anni’60 della galleria che richiamavano le fotografie dei film di Antonioni. Ma la direzione sembrava non capire. Io posizionavo Rotella con i manifesti stracciati e di fianco le foto di Appetito che fotografa Antonioni davanti a un manifesto stracciato. Al centro della sala ho posizionato un Fontana, una palla rotonda con un taglio, e intorno solo le foto di Monica Vitti in una Avventura che accarezza un pezzo di pietra della stessa forma. Eppure il commento finale fu “troppe cose”!».

Per quanto riguarda invece i suoi prossimi progetti?

Sto cercando, con il ministero, di organizzare un corso di preservazione e restauro di nastro magnetico, video e arte. Visto che non riesco più a esporre, cerco di preservare. Perché un altro tema che mi preme molto è proprio il recupero, l’archivio. Sono anni che cerco il modo di tutelare questo patrimonio che vive un problema di restauro e preservazione necessario. Ho provato più volte ad agire concretamente in tal senso, ma senza successo.

La mia associazione Kinema ha inoltre un archivio ricchissimo, che non ha nessun museo italiano. La curiosità è che ad esempio le prime opere di artisti come Barbero Corsetti che ora dirige l’Argentina o di Martone, che dirige il teatro di Roma, sono videoteatro. Il problema è che quando qualche giornalista fa loro qualche domanda sembrano rinnegare quel passato, relegando quelle esperienze a sperimentazioni giovanili. Ho opere di entrambi che conservo e racconto ma loro se ne sono dimenticati, perché il loro teatro e il loro cinema è tornato a essere molto meno sperimentale, più tradizionale.»

Da questa breve incursione nel mondo di Gazzano comprendiamo l’importanza della complessità, della ricerca di nuovi linguaggi, come della vivificazione delle cifre più tradizionali. Ma più di ogni altra cosa scopriamo come la relazione tra immagini e tecnologie sia davvero in grado di consegnarci uno sguardo nuovo, più consapevole sul mondo che abitiamo.

Bibliografia di riferimento:

M.M. GAZZANO, Kinema. Il cinema sulle tracce del cinema. Dal film alle arti elettroniche, andata e ritorno Exòrma, Roma 2013.

M.M. GAZZANO, Comporre AudioVisioni. Suono e musica nell’esperienza della videoarte, Exòrma, Roma 2021.

M.M. GAZZANO, Ultraimmagini. Verso la producibilità elettronica del cinema attraverso le metamorfosi delle arti, Exòrma, Roma 2021.

Le lotte e l’utopia 1968-1970. Il progetto e le forme di un cinema politico, (a cura di), M. M. GAZZANO, P. SCARNATI, E. TAVIANI, Effigi, 2021.

 

I contadini nell’arte di Vincent van Gogh

di Francesco Palumbo

«Van Gogh […] si interroga, pieno di angoscia, sul significato dell’esistenza, del proprio essere nel mondo. E, naturalmente, si pone dalla parte dei diseredati, delle vittime: i lavoratori sfruttati, i contadini, a cui l’industria con la terra e il pane, toglie il sentimento dell’eticità e della religiosità del lavoro» (C. Argan, L’arte moderna).

Spesso descritto come asociale, dal carattere burbero e l’aspetto poco, anzi pochissimo, conciliante l’approccio, Vincent van Gogh tuttavia amava visceralmente le persone. Specialmente quelle avvilite dalla fatica del lavoro quotidiano. I poveri, i dimenticati dalla cosiddetta società civile. Gli operai e i minatori del Borinage, così come i tessitori, ostaggi di macchine infernali per più di dieci, dodici ore al giorno.

Tessitore al telaio, Nuenen, maggio 1884. Kroller-Muller Museum, Otterlo, Netherlands.

E poi loro, i suoi amati contadini. I volti solcati dagli sforzi di una vita dedicata inevitabilmente al lavoro, i corpi costantemente protesi verso la terra, come fossero parte di essa.

La terra non mente mai. La terra dice sempre la verità. Profuma di verità e concime.

Contadino che vanga, Nuenen, luglio-agosto 1885. Van Gogh Museum, Amsterdam, Netherland.

E con quella verità, con quel concime, Van Gogh scolpiva le sue tele, ritraendo loro, i lavoratori instancabili della terra, cogliendone gli aspetti più tormentati dalla vita, dando loro dignità. La stessa dignità che spesso, troppo spesso, la società non era in grado di riconoscergli. Così l’artista, come fosse un cronista della verità, un testimone dal polso eclettico e vibrante, sentiva sulla pelle e nel cuore l’urgenza di raffigurare il mondo dei contadini senza abbellimenti, senza retorica.

Testa di giovane contadino con berretto, Nuenen, marzo 1885. Koninklijke Museum, voor Schone Kunsten, Bruxelles, Belgio.

Il pittore sapeva entrare dentro quel mondo di stanchi, affamati e veri, sapeva mettere a  nudo  tutta la loro rozzezza, la graffiante e drammatica condizione sociale nella quale erano relegati. Così, attraverso colori tetri e tonalità sporcate di grigio, retaggio della scuola dell’Aja e dei paesaggi monocromi della sua amata Olanda, a Nuenen ogni occasione era buona per fermarsi a dipingere. Dopo l’esperienza mortificante scaturita dalla convivenza con Sien, la donna che proprio all’Aja nel 1882 Vincent van Gogh decise di adottare per spirito caritatevole più che per amore, decide di rincasare dopo una brevissima parentesi a Drenthe. E lì, nella sua terra, vive il più possibile all’aperto, noncurante delle spesso avverse condizioni atmosferiche, spinto da un impellente e inderogabile bisogno di vivere la natura e dipingere la vita dei contadini ogni qual volta il piccolo villaggio del Brabante olandese gliene offre la possibilità.

Camminare e dipingere, al freddo, sotto la neve o la pioggia, diventano la sua missione giornaliera.

Contadini con fascine sulla neve, Nuenen, settembre 1884, Yoshino Gypsum Foundation, Tokyo, Giappone.

Fermarsi nel bel mezzo di un campo a respirare il silenzio portato dal vento gelido del suo nord. Null’altro chiedeva Vincent. Si spingeva oltre i propri limiti d’essere umano, prima che d’artista, con l’unico scopo di placare quella tremenda sete di umanità. L’artista come un contadino, alla stessa stregua di un reietto della società. Lontano anni luce dai salotti stracolmi di ipocrisia e strette di mano che aveva avuto modo di frequentare e, allo stesso tempo, detestare durante il soggiorno parigino. A Nuenen fra campi di patate e odore di speck che fumava con ferocia dai piatti dei contadini, non c’era modo di fermarsi a pensare, tantomeno a giudicare il prossimo.

La semina delle patate, Nuenen settembre 1884, Von der Heydt Museum, Wuppertal, Germania.

Van Gogh poteva solo lavorare, una benedizione e alle volte una condanna. Per lui lavorare significava dipingere, significava annusare la miseria di quella gente, scrutarne persino le ombre, immedesimarsi nella loro vita dei contadini. Sentirla nelle vene, prima che nel polso. Ammirare le rughe che segnavano quei volti stanchi ma fieri. Bellissimi nella loro genuina semplicità.

Ritrarne l’anima, prima che la pelle, era urgenza inderogabile.

Testa di contadina, Nuenen, marzo 1885, Van Gogh Museum, Amsterdam, Netherlands.

Così dopo decine e decine di studi rivolti a esaltare dettagli e sfumature dei volti dei contadini, avvicinandosi persino a caricaturizzarne incarnati e espressioni,

Testa di contadina, Nuenen, gennaio 1885, National Gallery, Londra, Gran Bretagna.

Vincent van Gogh si apprestava a dipingere uno dei quadri che sarebbe poi entrato di diritto nella storia dell’arte. Uno dei suoi quadri-icona. Uno dei più celebri in assoluto: I mangiatori di patate.

Nuenen

Con questo straordinario capolavoro, l’artista ci prende per mano e ci conduce all’interno di un tipico cottage nei pressi della campagna olandese. Una famiglia di contadini sta consumando il pasto serale, molto probabilmente l’unico della giornata.

Le mani e i volti diventano testimoni della fatica, testimoni della verità.  

Ho cercato di sottolineare come questa gente che mangia patate al lume di lampada, ha zappato la terra con le stesse mani che ora protende verso il piatto, e quindi parlo di lavoro manuale e di come essi si siano onestamente guadagnato il cibo.

Lettera a Theo, 30 aprile 1885

Realizzare un vero quadro contadino. Questo era l’intento dell’artista. E l’effetto senza dubbio riesce perfettamente. I colori così tetri, l’atmosfera appesantita da un silenzio eclatante, i lineamenti e i gesti dei protagonisti saziano ogni curiosità, anche quella più spudorata e impertinente che, una volta soddisfatta, lascia sulla pelle l’impressione di aver spiato quella scena di vita quotidiana e non di averla semplicemente ammirata.

Eccoli nudi e crudi, raffigurati nella loro più intima versione, i contadini che si sfamano. Si nutrono, nutrono il loro corpo senza abbandonarsi a chiacchiere o eccessi. Morigerati e distrutti dalla stanchezza, avvolti dalla solenne necessità di mangiare e poi riposarsi, prima che il giorno successivo incomba puntuale e li conduca nuovamente ai campi da coltivare.

Un quadro non deve necessariamente essere profumato.

Lettera a Theo, 30 aprile 1885

E questo quadro, pur non profumando forse, permette al contadino, all’uomo prima ancora del lavoratore della terra, di risorgere, riscoprendo dignità e considerazione grazie a tanta autenticità. Il linguaggio non verbale dei protagonisti squarcia ogni esitante silenzio, si fa presenza eloquente, esigente rispetto e ammirazione. Lo stesso rispetto che l’artista intendeva loro conferire attraverso una cornice dorata, che per esigenze cromatiche prima ancora che sociali, avrebbe garantito all’opera di splendere in tutta la sua unica bellezza.

Quanto ai mangiatori di patate, è un quadro che starà meglio in una cornice dorata, ne sono sicuro.

Lettera a Theo, 30 aprile 1885

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:

C. ARGAN, L’arte moderna, Sansoni, Firenze 1970.

V. VAN-GOGH, Lettere a Theo, Guanda, Parma 1889.

https://www.instagram.com/vangogh_daily/ (a cura di Francesco Palumbo).

Una questione di sguardi. Le fotografie della principessa Anna Maria Borghese

ponte di Yamada 1907

di Francesca Vitale

Introduzione

Fotografie sparse in giro per la casa. Fotografie che vengono custodite con cura nelle scatole riposte dentro gli armadi e che di rado vengono tirate fuori per essere guardate. Fotografie di parenti, amici, viaggi e ricorrenze. Le foto di famiglia assumono un valore completamente diverso rispetto a quelle documentaristiche, artistiche o comunque scattate per essere pubblicate e vendute. Se queste ultime solitamente si ricollegano a una memoria storica collettiva e generano delle sensazioni legate esclusivamente a quel dato avvenimento, le fotografie che, invece, si riconducono alla sfera privata possono suscitare, in una ristretta cerchia di persone, gioia, ricordi, nostalgia, disillusione per un passato che non c’è più. Una semplice immagine è in grado di dare vita a una vasta gamma di emozioni contrastanti: il mezzo fotografico non rappresenta soltanto una testimonianza visiva e oggettiva della realtà, ma racchiude in sé una forte carica emotiva che deriva dalla presenza di una indubbia componente soggettiva. A tal proposito, tornano alla memoria le parole di Ferdinando Scianna: «Credo che la massima ambizione per una fotografia sia di finire in un album di famiglia» (F. Scianna, Quelli di Bagheria, p. VI). Parole che, nella mente di Scianna e nella nostra successiva riflessione, racchiudono l’obiettivo e il significato ultimo dell’espressione fotografica.

La fotografia tra documento e ritratto privato

Nella tenuta della famiglia Cavazza a Pantano Borghese, nella campagna romana, sono conservati gli album fotografici della principessa Anna Maria de Ferrari in Borghese (1874-1924), fotografa amatoriale autodidatta. Tra il 1898 e il 1924 la principessa, accompagnata dalla sua macchina fotografica Kodak Bulls-Eye Special N. 2, ha scattato oltre 8.000 fotografie di piccolo formato (9×9 cm) – ad eccezione di alcune immagini riprese probabilmente dal marito Scipione Borghese – da lei poi appuntate, datate e cronologicamente ordinate in circa ottanta album. Facilitata nell’utilizzo del mezzo fotografico dai progressi che si compiono nel campo della produzione delle immagini alla fine degli anni ’80 dell’Ottocento, Anna Maria può servirsi di una delle piccole Box Camera messe in commercio con lo slogan pubblicitario «you press the button, we do the rest» dalla Kodak – azienda dell’imprenditore statunitense George Eastman – e che permette agli amatori di accedere al mondo della pratica fotografica, trasformandola in uno svago e in uno strumento di piacere.

Sulla scia di altri fotografi dilettanti del tempo come Giuseppe Primoli e il principe Francesco Chigi, per la maggior parte appartenenti alla nobiltà e all’alta borghesia italiana, la principessa si dedica alla fotografia «per il desiderio di fissare in immagine il mondo e serbare il ricordo di attimi fuggevoli che, altrimenti, sarebbero inesorabilmente scomparsi dalla propria memoria; un interesse divenuto presto una passione indomita e bruciante» (M.F. Bonetti, M. Peliti, Racconto di un’epoca. Fotografie dagli album della principessa Anna Maria Borghese, p. 12).

Anna Maria Borghese incarna quell’«insaziabilità dell’occhio fotografico» (S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, p. 3) di cui parla Susan Sontag e che si manifesta già a partire dalla metà dell’Ottocento: il desiderio irrefrenabile di fermare in immagine la realtà e di osservarla in un secondo momento con una vista ampliata, quasi che la macchina fotografica potesse dilatare i nostri sensi, donarci consapevolezza e migliorare la nostra vista. Sulla base di ciò che ha detto Émile Zola, ossia che non si può pretendere di conoscere la realtà se non la si è prima fotografata, con la comparsa della fotografia si manifesta nell’uomo della società moderna una fede incrollabile nella conoscenza del mondo visibile: «La fotografia non solo riproduce tutto ciò che l’occhio vede, ma fa vedere tutto ciò che l’occhio non vede» (J-C. Lemagny, A. Rouillé, Storia della fotografia, p. 71). Di conseguenza, al ruolo esclusivamente artistico che inizialmente si attribuiva alla fotografia, si affianca ben presto un’altra interpretazione della pratica fotografica come rito, documentazione e studio sociale; dovranno passare anni prima che queste visioni apparentemente contrastanti possano coesistere senza alimentare dibattiti e recriminazioni sullo stato della fotografia.

A riprova del nuovo status artistico e sociale ricoperto dalla fotografia, la principessa Borghese utilizza la sua macchina fotografica sia per diletto sia per documentare alcuni degli eventi storici dei quali è testimone all’inizio del Novecento. Sposatasi nel 1895 con il principe Scipione Borghese, nel 1898 Anna Maria inizia a fotografare, in Italia e all’estero, i paesaggi, le città e la grande varietà delle persone che incontra nel corso dei suoi numerosi viaggi in compagnia del marito o da sola (basti citare il suo viaggio in solitaria sulla Transiberiana): Turchia, Egitto, Siria, Palestina, Russia, Giappone, Cina e Uzbekistan sono soltanto alcune delle località visitate e fotografate dalla principessa in un’epoca in cui viaggiare per le donne era considerato un privilegio. Altre fotografie di Anna Maria che testimoniano la realtà di un’epoca sono quelle della vita contadina nell’Agro romano e nella proprietà di famiglia – acquisita in seguito al matrimonio di Paolo Borghese, padre di Scipione, con la contessa ungherese Ilona Apponyi – in Ungheria; le vedute urbane che registrano la modernizzazione della società; la vita negli ospedali da campo e in trincea durante la Prima guerra mondiale, dove si impegnò attivamente come crocerossina; eventi drammatici come il terremoto di Avezzano nel 1915 o la ricostruzione della città di Messina (1913) dopo il terremoto del 1908.

Terremoto di Avezzano
Avezzano, 1915

A questa notevole produzione documentaristica, la principessa Borghese affianca una serie di fotografie private che scatta nelle tenute di famiglia, specialmente all’Isola del Garda, o in altre località a parenti ed amici. Foto di caccia, tuffi nel lago, attività sportive e ritratti dei vari membri della famiglia e dei propri animali domestici danno vita ad un archivio fotografico più personale e introspettivo, che rivela l’occhio sensibile e profondo di una donna dedita a registrare la vita che scorre intorno a lei.

Anna Maria utilizza la sua macchina fotografica sia per diletto sia per impegno sociale (rimanendo comunque al di fuori della politica), confermando così il potenziale espressivo molteplice e vario di cui è dotato l’apparecchio fotografico e realizzando «un raro e prezioso racconto visivo, che coniuga sapientemente l’intimismo di momenti sobriamente vissuti all’interno della propria cerchia familiare alla partecipazione emotiva e all’abilità di catturare, nel mondo, soggetti, condizioni, situazioni e accadimenti di interesse pubblico e sociale» (M.F. Bonetti, M. Peliti, op. cit., p. 16).

Nora Balzani
Isola del Garda, 1907

Ciò che colpisce dell’intero corpus fotografico di Anna Maria Borghese è la freschezza e la libertà della composizione delle sue immagini. In quanto fotografa amatoriale, la principessa rimane sempre fedele alla sua idea di fotografia ed estranea alle nuove correnti artistiche e d’avanguardia che si manifestano a partire dalla fine dell’Ottocento, scattando comunque fotografie che risentono dello spirito d’innovazione e del vento di cambiamento che soffia in Europa e negli Stati Uniti. In un certo qual modo, al di là degli artisti d’avanguardia, chi osa di più sono i fotografi amatoriali, non legati a specifiche richieste dei clienti degli studi fotografici o questioni economiche, e per i quali il collezionista e critico d’arte Lamberto Vitali ha coniato la definizione di “fotografi irregolari”.

Mentre i pittorialisti rigettano il reale tramite filtri, luci e finzioni retiniche che gli permettono di prendere le distanze da esso, Anna Maria non ricorre mai a manipolazioni di tipo pittorico, anche se mostra un vivo interesse per le atmosfere crepuscolari e melanconiche dei preraffaelliti (soprattutto nei ritratti) e per gli effetti naturalistici tipici degli impressionisti. Nelle sue fotografie è evidente l’urgenza di restituire l’immagine istantanea così come è stata catturata, giocando con i contrasti tra luce e ombra e con la mobilità dell’obiettivo fotografico, che le permette di sperimentare soluzioni audaci, avvicinandosi così ai risultati ottenuti dagli avanguardisti all’inizio del Novecento e rientrando a pieno titolo nella modernità.

Migliarino 1899
Tenuta di Migliarino, 1899

La soggettività della memoria

La collezione di fotografie della principessa Borghese è rimasta protetta tra le mura della residenza di famiglia fino al 2011, anno della mostra Racconto di un’epoca. Fotografie dagli album della principessa Anna Maria Borghese, curata da Maria Francesca Bonetti e Mario Peliti presso l’Istituto Centrale per la Grafica di Roma. In quell’occasione, l’ingegner Novello Cavazza – nipote della principessa Borghese e proprietario della raccolta degli album fotografici nella tenuta di Pantano Borghese – ha concesso che alcune delle fotografie scattate da Anna Maria fossero esposte e raccolte nel catalogo della mostra, pubblicato dalla casa editrice Peliti Associati.

Solo in altre rare occasioni le fotografie della principessa sono uscite al di fuori della cerchia familiare e presentate al pubblico. Nel 1903, il marito Scipione Borghese pubblicò il suo libro In Asia: Siria, Eufrate, Babilonia (Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1903), corredato da numerose illustrazioni, tra cui le stesse immagini che la principessa aveva scattato durante il loro lungo viaggio in Oriente. Ancora, nel 2013 una piccola selezione delle fotografie di Anna Maria viene portata per la prima volta fuori dall’Italia in occasione della Biennale moscovita Moda e stile in fotografia ed esposta presso la Fondazione Ekaterina di Mosca. Infine, vale la pena citare la mostra Questa è guerra! 100 anni di conflitti messi a fuoco dalla fotografia (2015), curata da Walter Guadagnini presso il Palazzo del Monte di Pietà a Padova e nella quale – accanto a immagini di autori celebri come Gabriele Basilico, Robert Capa, Henri Cartier-Bresson e Philip Jones Griffiths – sono state presentate circa venti fotografie scattate dalla principessa Borghese, raffiguranti la vita dei soldati al fronte e altri momenti salienti vissuti in prima persona nel corso della Prima guerra mondiale.

Le fotografie di Anna Maria che sono state rese pubbliche negli anni, sono per la maggior parte foto di viaggi, di guerra, di popoli e delle loro tradizioni; insomma, fotografie che ricoprono un ruolo documentaristico e che, come tali, possono essere accostate al fotogiornalismo. Le fotografie dei membri della famiglia e degli amici, con qualche eccezione, sono invece rimaste custodite con cura nella tenuta di Pantano Borghese. Trattandosi di fotografie che, ancora soggette all’azione del tempo, hanno un significato particolare per gli eredi della principessa, queste immagini rimangono private proprio per preservare la storia e la vita della famiglia.

Lo stesso Roland Barthes, in seguito alla morte della madre, nel suo saggio La camera chiara afferma di non poter mostrare quella che lui chiama la “Fotografia del Giardino d’Inverno”, che ritrae sua madre da bambina e che per lui rappresenta la Storia, l’essenza stessa della Fotografia: «Io non posso mostrare la Foto del Giardino d’Inverno. Essa non esiste che per me. Per voi, non sarebbe altro che una foto indifferente, una delle mille manifestazioni del “qualunque”; essa non può affatto costituire l’oggetto visibile di una scienza; non può fondare un’oggettività, nel senso positivo del termine; tutt’al più potrebbe interessare il vostro studium: epoca, vestiti, fotogenia; ma per voi, in essa non vi sarebbe nessuna ferita» (R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, p. 75).

Barthes testimonia dell’unicità che alcune fotografie assumono soltanto per alcune persone: come egli ha deciso di non mostrare la foto di sua madre per tenerla viva nella sua memoria, così la maggior parte delle fotografie della principessa Borghese ricopre un significato particolare solo per i suoi discendenti. Tuttavia, la famiglia ha deciso di rendere pubblica un’attenta selezione di questa preziosa raccolta fotografica, in modo da offrire alla società di oggi la sensibilità e la versatilità dello sguardo di una fotografa amatoriale che raccoglie in sé le innovazioni della fotografia e lo spaccato di un’epoca, ormai lontano e cristallizzato nel tempo.

Il ruolo della soggettività nella fotografia, il suo utilizzo come mezzo di espressione e il suo indissolubile rapporto con il tempo si possono allora sintetizzare, per concludere, nelle parole di Susan Sontag: «La fotografia è un’arte elegiaca, un’arte crepuscolare. […] Ogni fotografia è un memento mori. Fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un’altra persona (o di un’altra cosa). Ed è proprio isolando un determinato momento e congelandolo che tutte le fotografie attestano l’inesorabile azione dissolvente del tempo» (S. Sontag, op. cit., p. 15).

Riferimenti bibliografici:

R. BARTHES, La camera chiara. Nota sulla fotografia (1980), Einaudi, Torino 2003.
M.F. BONETTI, M. PELITI, Racconto di un’epoca. Fotografie dagli album della principessa Anna Maria Borghese, Peliti Associati, Roma 2011.
J-C. LEMAGNY, A. ROUILLÉ, Storia della fotografia (1986), Sansoni, Firenze 1988.
F. SCIANNA, Quelli di Bagheria, Peliti Associati, Roma 2003.
S. SONTAG, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società (1977), Einaudi, Torino 2004.

ESPLORAZIONI #2. Storie di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda. Un viaggio tra leggende, luoghi e libri.

di Flavia Sorato

Sono un devoto delle avventure oggi come allora, e non finirà mai.
William Goldman

E all’improvviso capì perché Lancillotto avrebbe galoppato nei secoli.
John Steinbeck

Quando inizierai le tue avventure fallo con gioia, con le tue forze […]
René Barjavel

«[…] Vero amore. Odio […] uomini malvagi. Uomini buoni. Belle dame. Serpenti. Ragni. Bestie di ogni natura e tipo. Dolore. Morte. Uomini coraggiosi. Uomini codardi. Uomini più forti. Inseguimenti. Fughe. Menzogne. Passione. Miracoli». (W. Goldman, The Princess Bride)

Ci sono libri e racconti che sembrano contenere Tutto. Una complessità vivificata dall’immaginazione, facoltà «padrona dell’arte come della vita» come direbbe Conrad, che concede all’uomo d’inventare e poi di ripercorrere avventure, alla scoperta proprio di quel tutto in ogni dove ed ogni volta, poiché «per quanto lontano si possa viaggiare, c’è sempre un luogo ancora più lontano. Il mondo non finisce da nessuna parte». (Barjavel)

Come scriveva Vladimir Propp in merito alle formule della fiaba, studiandone la morfologia, ci si trova, leggendole o sentendole raccontare, “in un certo reame, in un certo tempo”. Il famoso incipit “C’era una volta…” conduce lontano, sospesi e immersi in un tempo passato, vago, eppur senza fine.

In un sempreverde Regno d’avventure.

I miti, le fiabe, le leggende ci consegnano un tempo ed uno spazio eterni, ogni volta presenti allora come ora. La vita, con i suoi grandi ideali, valori, follie, capricci della Fortuna, ci è trasmessa da epoche antiche e racconti che hanno camminato insieme a viaggiatori, poeti, popoli, ci dicono oggi di uomini e donne del passato che non muoiono mai. Invero, «sono storie vive anche in quelli di noi che non le hanno lette». (Steinbeck)

Il ciclo arturiano è il canto epico di gesta e sorti immortali.

Da secoli i racconti sui cavalieri della Tavola Rotonda errano ovunque, trasmessi, rimaneggiati, re-immaginati, generando un’iconografia vastissima e sollecitando l’immaginazione di studiosi, scrittori e lettori. Così dal Medioevo si tramandano «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese…». (Ariosto)

La leggenda di re Artù s’intreccia con la realtà, così le sue gesta sono oggetto di studio e di ricerca storiografica. È realmente esistito questo condottiero? Tra riscontri e smentite, alcuni rintracciano una sua possibile presenza tra la fine del V secolo e l’inizio del VI d.C., identificando la sua figura con quella di un valoroso britanno a capo della lotta contro i Sassoni invasori, e parlano di un dux bellorum: si scopre così il nome Artorius, giacché i capi bretoni hanno spesso dei nomi dalla consonanza latina. La Bretagna ai tempi è difatti una provincia dell’Impero che subisce gli attacchi di nemici storici come Sassoni, Pitti e Scoti. Marc Rolland nel suo studio sulla figura storica/mitica di re Artù ricorda che «la Bretagna, come molte province del vacillante Impero, è all’epoca un curioso miscuglio, in cui bretoni romanizzati da almeno dieci generazioni, confederati germanici, sarmati o altro, e capi di tribù rimaste fedeli ai capi celtici coesistono non senza problemi».

Comunque, questo capo che viene individuato da più fonti, si distingue, di vittoria in vittoria, quale grande guida militare e amministratore giusto, dando vita ad un esteso regno, circondato ed aiutato da fieri ed impavidi cavalieri… ma tali racconti sfumano nell’invenzione e diventano ancora una volta materia leggendaria. La stessa morte del Re è una narrazione fascinosa, di prodigi: Artù non scompare, si dice che stia ancora riposando in un luogo incantato, l’Isola di Avalon, in attesa di tornare a guidare il suo popolo quando il mondo ne avrà bisogno.

Avalon, secondo le fonti, potrebbe essere collocata in diversi punti reali, ma tra le ipotesi più diffuse a partire dal Medioevo vi è quella che l’isola immaginaria sia da localizzare nella piccola città di Glastonbury, presso la cui misteriosa collina re Artù è sepolto.

Queste storie, quindi, sono anche visioni di terre diventate leggenda, luoghi sospesi tra realtà e fantasia, che compongono una geografia affascinante, in cui immergersi tutt’oggi. Si possono esplorare così la Cornovaglia e il Galles, l’Inghilterra del Medioevo, e si assiste ai rischiosi viaggi alla ricerca del Graal: seguiamo, infatti, le sorti dei cavalieri erranti che si spostano tra foreste, castelli, Paesi, per trovare la Sacra Coppa che venne portata dalla Palestina in Britannia da Giuseppe D’Arimatea, colui che aveva raccolto nel noto recipiente le gocce del sangue di Cristo dopo la crocifissione.

Volendo ridisegnare una mappa dei luoghi della leggenda, Paolo Ciampi nel suo diario di viaggio “In compagnia di re Artù”, accompagna in un’esplorazione intensa il lettore che, avvinto dai sogni di un bambino, vive un itinerario suggestivo. Alcune cose, scrive Ciampi, ti entrano dentro da piccolo e non se ne vanno via mai più.

Così le tappe della riscoperta reale di luoghi immaginati diventano soste e ripartenze emozionali: castelli, paesini, scogliere a picco sul mare. Tutto ricompone la carta della Britannia, più precisamente «quello che era il regno celtico di Dumnonia e che, oltre alla Cornovaglia, comprendeva il Devon, più parte del Somerset e del Dorset, ovvero una bella fetta dell’Inghilterra sud-occidentale».

Questo era Logres, il Regno di re Artù.

Narra leggenda che il sovrano sia nato a Tintagel, sulla costa della Cornovaglia che guarda, a nord-ovest, l’Irlanda.

La storia di questi natali ci riporta a un tempo, quello in cui Uther Pendragon indossa la corona di queste terre. Grande sovrano, dopo aver combattuto tremende battaglie e guidato soldati alla conquista di confini sempre più lontani, capitola dinanzi a una donna: Igraine, di una bellezza abbagliante e anche, per malasorte, sposa del signore di Tintagel, Gorlois (amico-nemico di Uther). Una vicenda complessa che pare ricordare vagamente o preannunciare quella futura di Lancillotto e Ginevra.

Dunque, come può il Re, stravolto dall’incontro e preda del desiderio, avvicinare la donna amata, fedele al marito e inaccessibile?

Il sovrano «poteva contare su un mago».

Ecco che una delle figure centrali della leggenda fa il suo ingresso, cominciando a muovere i fili di tutte le avventure che saranno.

Merlino. Il potente mago che intreccia destini, che accompagna sorti e sussurra vie da percorrere, qui appare già come consigliere del re, non però per sopprimere la sua passione ma per far sì che accada quello che lui vuole, quello che deve succedere per originare tutta la storia. Propone al sovrano una sorta di patto: grazie ad un incantesimo farà sì che Uther possa prendere le sembianze di Gorlois durante la notte e giacere con Igraine, mentre il povero marito ignaro è lontano sul campo di battaglia. Ma in cambio di qualcosa. Pone infatti una condizione da dover rispettare: «La prima notte che trascorrerete con Igraine concepirete un figlio che mi farete consegnare appena sarà venuto alla luce. Io lo alleverò dove più mi piacerà». (P. Ciampi)

La Fortuna compie il resto. Gorlois muore sul campo di battaglia e così la sua sposa vedova, libera d’innamorarsi e scegliere Uther, si unisce al re mettendo intanto al mondo il bambino, il futuro re Artù, «il più famoso degli uomini».

Merlino, Myrddin in gallese, ci porta in uno degli altri luoghi della leggenda, Carmarthen, la città dove sembrerebbe esser nato e dove si trovano ancor oggi tracce della sua mitica presenza, come la collina che porta il suo nome.

Merlino, che secondo le leggende ha una doppia natura e anche una doppia storia.

Lo racconta sempre Ciampi nel suo libro, con parole che ne descrivono tutta la natura più profonda.

Per gli antichi gallesi, infatti, esiste «Merlino il Selvaggio, che è un bardo precipitato negli orrori della guerra. Dopo una delle Tre Futili Battaglie dell’isola di Britannia si allontana e comincia a vagare nella foresta. Perde il senno, ma in cambio acquista il dono della profezia». C’è poi «Merlino il Saggio, detto anche Merlino Ambrosio, che sa diventare consigliere del sovrano e porsi al servizio della pace e della giustizia, con i suoi consigli prima ancora che con i suoi poteri.

Il saggio e il selvaggio: la prima parola è contenuta nella seconda. Come due lati della stessa medaglia. O meglio, come se la saggezza non possa che essere figlia dei tormenti della mente, del buio delle foreste».

Quella che si conosce, la figura che è stata tramandata fino al presente è sicuramente più vicina all’immagine del Saggio, ma contiene in sé anche alcuni aspetti del secondo personaggio. Non si scordi che il mago è figlio di una donna mortale e del Diavolo.

Ebbene, anche John Steinbeck sembra tornare a riflettere sull’importanza dei luoghi nelle lettere scritte prima e durante la stesura del suo libro, “Le gesta di re Artù e dei nobili cavalieri”, testimonianze dense delle sue appassionate ricerche. La vera scintilla è racchiusa in questa corrispondenza diventata appendice del romanzo.

In una lettera del 1958 alla sua agente letteraria, Elizabeth Otis, si legge: «L’anno scorso ho trascorso un periodo di tempo in Inghilterra, come tu ben sai, recandomi in numerose località cui si farà riferimento nel libro, per assorbire la sensazione fisica dei posti. Credevo di essermi documentato in questo senso abbastanza bene. E soltanto continuando a leggere constato che vi sono vuoti nelle informazioni di cui dispongo. Troverò necessario tornare in Inghilterra. […] Credo che il momento migliore per partire sarebbe il primo giugno. Devo andare a trascorrere un po’ di tempo a Glanstonbury, a Colchester e in località della Cornovaglia, nei dintorni di Tintagel e poi di nuovo a nord per trattenermi a Alnwick e a Bamborough Castle, in Northumberland. […]Le fotografie non servono a nulla. Recandosi laggiù ci si può assicurare una forte carica».

Il romanzo di Steinbeck (incompleto e pubblicato postumo nel 1976) è una delle varie rivisitazioni moderne della leggenda di Artù e dei suoi cavalieri: nello specifico il testo si basa sull’opera di Thomas Malory (XV secolo) che a sua volta attinge a racconti precedenti.

Tutte queste narrazioni compongono, infatti, un corpus davvero complesso: un’abbondante materia letteraria, ricchissima di tanti fili narrativi che si sviluppano ormai da secoli e si passano il testimone pure all’interno di uno stesso ciclo, anche secondo una tecnica denominata entrelacement (Ferdinand Lot). Cercando di riassumerne il meccanismo, si tratta di un procedimento che vede lo sviluppo di più racconti: per favoleggiare le gesta di un personaggio se ne lascia in sospeso un altro e così via, passando da una storia ad un’altra per poi ritornare ai fili narrativi precedenti. Questo fa sì che si crei un insieme in cui tutte le parti per funzionare hanno bisogno delle altre ed infatti «in un racconto efficacemente entrelacé, diventa impossibile eliminare uno dei fili senza guastare tutto il tessuto narrativo». Come ricorda Claudio Lagomarsini nella sua guida ai romanzi francesi del Duecento, questa tecnica non è del tutto nuova, già l’epica classica l’aveva sperimentata con successo. Sicuramente, però, viene migliorata e raffinata in uno dei grandi cicli che raccoglie le leggende sui Cavalieri della Tavola Rotonda e del Graal: “il ciclo del Lancillotto-Graal”.

Ma volendo procedere con ordine, prima di tutto è necessario comprendere come siano cronologicamente e tematicamente organizzati i materiali di contenuto “arturiano”.

Sono moltissimi i testi scritti, poi riscritti e rimaneggiati con questi temi, dal Medioevo ad oggi.

Esiste poi tutta una letteratura sulle avventure dei cavalieri che hanno preso parte alla Tavola Rotonda, come ad esempio il “Sir Galvano e il Cavaliere Verde”, poema cavalleresco del XIV secolo, o anche “Il Tristano in prosa”, composto tra il 1230 e il 1235, circa. Tutte narrazioni che affondano le radici nel folklore popolare, nella cultura inglese, in particolare gallese, e in quella celtica.

Che si sappia, il primo a citare il personaggio di re Artù fu Nennio, un monaco gallese vissuto nel IX secolo, di cui si hanno così poche notizie, e le poche dubbie, al punto che l’opera più famosa a lui attribuita non può dirsi certamente sua. Si tratta della “Historia Brittonum”, un manoscritto che ripercorre la storia dell’Inghilterra ed in cui appunto si parla di un certo Artù, fautore della vittoria contro i Sassoni nella battaglia di Monte Badon, nel 500 d.C. Di fatto, comunque, questo testo è la fonte da cui hanno preso vita le successive elaborazioni, oltre che gli ampliamenti della leggenda arturiana. Sempre nel Medioevo, infatti, a riprendere e sviluppare questo soggetto è un altro autore di origine gallese (non si sa con certezza se monaco anch’egli oppure no): Goffredo di Monmouth, artefice della “Storia dei re di Britannia”. In quest’opera sono raccolti molti miti, leggende e racconti legati alla Britannia, oltre alla storia delle vicende dei re che l’hanno guidata per circa duemila anni.

Con Goffredo siamo nel XII secolo. In poco tempo l’insieme di queste narrazioni, dette anche “Ciclo bretone”, “Ciclo arturiano” o “materia di Bretagna”, si diffonde e giunge in Francia: i testi così tradotti finiscono tra le mani di Chrétien de Troyes, grande interprete dei valori delle corti feudali e dell’epica cavalleresca. A lui si deve la trilogia di “Yvain, il cavaliere del leone”, “Lancillotto o il cavaliere della carretta” e “Perceval o il racconto del Graal”, che pare sia il primo a raccontare della sacra coppa.

A livello temporale s’inserisce qui il suddetto ciclo del Lancilloto-Graal che «riunisce in un insieme globalmente coerente e coeso un numero sbalorditivo di avventure e peripezie». (Lagomarsini)

Per chiarezza, si elencano in ordine i romanzi che lo compongono, in modo che i soggetti tramandati possano essere intellegibili: “Storia del Santo Graal”, “Merlino”, “Seguito del Merlino”, “Lancillotto”, “Ricerca del Santo Graal”, “La morte di Artù”.

È proprio quest’ultimo componimento che permette di oltrepassare i confini cronologici e culturali del medioevo. Nel XV secolo, infatti, Thomas Malory scrive “La morte di re Artù” che si basa appunto su tutti i racconti a lui giunti e si nutre in particolare dei contenuti del ciclo del Lanciolloto-Graal.

Va detto che la rielaborazione di Malory è quella che ha portato alla versione tutt’oggi più conosciuta, nel senso che ha consentito il passaggio da un racconto medioevale ad una variante più moderna della storia: in molti hanno continuato, infatti, a riproporre adattamenti e interpretazioni, fino ai contemporanei, tra cui ad esempio, Steinbeck o Barjavel.

Il romanzo di Barjavel, “Il mago M.”, compone insieme più tradizioni  e racconta con mirabile finezza i destini di Merlino, Artù, Parsifal, Viviana, Lancillotto, Ginevra, Morgana, e di tutti coloro che fanno parte della Grande Avventura. Ogni capitolo segue una delle sorti, portandoci tra Camelot, castelli incantati, nel regno sottoterra popolato dai Giganti, in mezzo a duelli, tornei e battaglie, sulle sponde di un lago dove vive una Dama…

La Famosa Dama del Lago, Viviana, che ama Merlino e che lui ricambia.

Tra le tante rimodulazioni delle storie del ciclo bretone, questa di Barjavel effonde una vera e propria malia. Che si tratti di legami tra madri e figli, d’unioni difficili, separazioni, ricongiungimenti e rapporti al di là del tempo, dalla storia affiora un racconto dell’amore di potente grazia.

Il protagonista del romanzo è Merlino, anche se compare a volte solo come un bagliore. È il fil rouge, che tiene unite le varie storie, aiutando e consigliando prima un cavaliere, poi materializzandosi sotto mentite spoglie, apparendo in momenti cruciali.

Così inizia:

«Più di mille anni fa, in Bretagna, viveva un mago di nome Merlino. Era giovane e bello, aveva lo sguardo vivace e malizioso, un sorriso vagamente beffardo, le mani sottili, la grazia di un ballerino, la noncuranza di un gatto, la vivacità di una rondine. Lo scorrere del tempo non lo sfiorava, sua era la giovinezza eterna delle foreste. Possedeva i poteri e li utilizzava solo per il bene (o per quello che riteneva essere il bene). Ma talvolta capitava anche a lui di commettere un errore: non era un uomo come tutti gli altri, certo che no, ma era pur sempre umano. Per gli uomini era l’amico, colui che dà conforto, che condivide gioie e dolori, che aiuta senza calcoli. E che non tradisce mai. Per le donne era il sogno […] ma era troppo bello, inaccessibile. Era come un angelo. Soltanto Viviana lo amò e ciò fu cagione di felicità, forse di tristezza, o di entrambe le cose, per l’uno e per l’altra […]».

Merlino appare, quindi, a volte, come un ragazzo ed altre volte, come un anziano; ha la capacità di trasformarsi e di cambiare sembianza, e questo potere, come altri, gli deriva dal padre. Il Diavolo l’ha concepito come sua opera e lo vuole al suo servizio. Ma il mago, per natura, oltre che per scelta, decide di seguire un’altra via.

E sarà così che cercherà di salvare sé stesso ed i cavalieri, guidandoli alla ricerca del Graal.

«Voci giunte dalla notte dei tempi lascerebbero supporre che Merlino avesse già spedito parecchie volte degli uomini sulle tracce del Graal, già ben prima della Tavola Rotonda. Perché se è vero che nessuno sa cosa contenga il Graal, è altrettanto vero che quando gli uomini se ne distolgono perdono la gioia di esistere poiché non sanno più chi sono, né perché sono. Pur restando in vita cessano di essere davvero delle creature viventi. Allora un profeta o un mago li rimette alla ricerca del tesoro perduto. Un tesoro difficilissimo da trovare, senza il quale le sventure si abbattono sulla Terra e in Cielo». 

Il ciclo arturiano, ed anche questa rivisitazione di Barjavel, hanno come tema centrale la ricerca di questo oggetto meraviglioso.

La parola, come ricordano più studiosi, tra cui Marc Rolland, viene dal latino cratalis, e non indica propriamente una coppa, ma più precisamente un “piatto fondo”: in questo modo la storia si ricollega anche all’episodio dell’Ultima Cena.

Di racconto in racconto, però, la leggenda arriva ad utilizzare ed eternare il simbolo della coppa, la cui essenza può esser scorta solo da chi è degno di vedere al suo interno, colui che occupa il così detto “Seggio Periglioso” della Tavola Rotonda: il cavaliere più puro, ma anche colui che ha il coraggio di questa Visione, è l’unico che potrà mettere fine alla Ricerca e ricevere così quell’iniziazione che riporterà la Verità nel mondo.

I cavalieri viaggiano in ogni dove, mettono a rischio la loro vita, spesso la perdono per questa conquista, e solo pochissimi riescono ad avvicinarsi al Calice: Parsifal, ad esempio, dopo innumerevoli dimostrazioni di valore, è quasi sul punto di compiere l’Impresa, ma fallisce. Sarà Galaad a realizzarla. Nome vero di Lancillotto e di suo figlio, colui che avrà la forza di scorgere il vero.

L’Avventura così prende vita e si sviluppa, piena di simbologie ricchissime di significati (la stessa Tavola Rotonda, ad esempio) e di sapienti riflessioni sulla vita e sul senso del destino.

“Poca importanza ha la sorte per il saggio”, scriveva Epicuro.

Ma non per gli amanti.

A costoro spetta una ventura impossibile da controllare con la ragione. Così, tra battaglie, ricerche, e sortilegi, due personaggi incontrano “il proprio destino nella via che s’era presa per evitarlo” (J. de La Fontaine).

Accade infatti che Ginevra e Lancillotto si innamorano.

Pochissime parole a descrivere questa galassia, tutto quello che si può scrivere non servirebbe: tanto è vero che Barjavel più avanti lascerà una pagina bianca, lo spazio e il tempo in cui quell’amore prende forma.

Artù, il povero Artù, non avrebbe mai potuto nulla contro questo, e neppure Merlino, il potentissimo Mago. Sfortunato Artù. Quell’unione fatta di rispetto, ammirazione, sostegno, valori inestimabili coltivati tra lui e la sua regina, svanisce all’improvviso, perché la natura è più forte, anche quando si tratta del vincolo più onesto ed onorevole.

Lancillotto non vuole tradire la fiducia del suo re. Così Ginevra. Da sempre un sentimento ambivalente accompagna la visione di questo amore. Possibile non riuscire a domare l’emozione per le sorti di un intero Regno?

Ma questa storia non è il racconto di una delle tante passioni nate sotto il Cielo. Ha più a che fare con quella forza che, detta alla Salinger, tiene insieme l’Universo.

Ginevra e Lancillotto si amano, semplice e stupefacente al tempo stesso.

La Sorte ha scelto loro per mostrare questa possibilità d’eternità al mondo.

E così anche l’unione di Merlino e Viviana, la Dama del Lago, ha il respiro esteso della bellezza.

Leggere della scena che li vede parlarsi mentalmente a distanza, lei nella foresta e lui altrove, è come contemplare la perpetuità di un’opera d’arte.

«Mormorò il nome di Viviana e lei lo sentì e pronunciò il nome di Merlino con la stessa tenerezza. Il mago le disse:

  • Ti regalo la foresta nella notte di San Giovanni…

Viviana fluttuò su un mare di foglie, se ne lasciò travolgere, divenne lei stessa foresta, le sue dita aperte fiorirono…».

La metamorfosi che costella i più noti miti dalla notte dei tempi.  

Ma d’altronde le storie e tutti i cicli delle Avventure dei Cavalieri della Tavola Rotonda compongono insieme un grande mito, un incessante ed inesauribile racconto che accompagna tutti da sempre.

Ed i miti, come scriveva Camus, «sono fatti perché l’immaginazione li animi».

Bibliografia

R. BARJAVEL, Il mago M., L’Orma Editore, Roma 2019.
P. CIAMPI, In compagnia di re Artù. In viaggio per Galles e Cornovaglia con leggende e cavalieri, Mursia, Milano 2019.
H. COOPER (a cura di), Sir Gawain and the Green Knight, OUP, Oxford 2008.
R. DE BORON, F. ZAMBON (a cura di), Il libro del Graal, Adelphi, Milano 2005.
C. DE TROYES, G. AGRATI,  M. L. MAGINI, (a cura di), I romanzi francesi, Mondadori, Milano 2017.
C. LAGOMARSINI, Il Graal e i cavalieri della Tavola Rotonda. Guida ai romanzi in prosa del Duecento, Il Mulino, Bologna 2020.
A. LUPACK, The Oxford Guide to Arthurian Literature and Legend, OUP, Oxford 2005.
T. MALORY, Storia di re Artù e dei suoi cavalieri, Mondadori, Milano 2017.
M. ROLLAND, Re Artù, Il Mulino, Bologna 2011.
J. STEINBECK, Le gesta di re Artù e dei suoi nobili cavalieri, Rizzoli, Milano 1980.

ESPLORAZIONI #1. Collezione di sabbia. La camera delle meraviglie di Calvino.

di Flavia Sorato

Tutti i racconti belli uditi o letti –/una fonte infinita di bevanda immortale,/cola per noi dall’orlo del cielo.

John Keats – Endimione

È spento l’occhio di colui che non prova stupore e curiosità.

Albert Einstein

Ma prima di questi libri ne avevo letto un altro di cui subito avevo avuto voglia di scrivere, ma che ho tenuto finora in attesa, come succede coi libri in cui le cose interessanti sono tante, troppe per stare in un articolo.

Italo Calvino – Collezione di Sabbia

«C’è una persona che fa collezione di sabbia. Viaggia per il mondo, e quando arriva a una spiaggia marina, alle rive d’un fiume o d’un lago, a un deserto, a una landa, raccoglie una manciata d’arena e se la porta con sé. Al ritorno l’attendono allineati in lunghi scaffali centinaia di flaconi di vetro entro i quali la fine sabbia grigia del Balaton, quella bianchissima del Golfo del Siam, quella rossa che il corso del Gambia deposita giù per il Senegal, dispiegano la loro non vasta gamma di colori sfumati […] dal ghiaìno bianco e nero del Caspio che sembra ancora inzuppato d’acqua salata, ai minutissimi sassolini di Maratea, bianchi e neri anch’essi, alla sottile farina bianca punteggiata di chiocciole viola di Turtle Bay, vicino a Malindi nel Kenya».

Collezione di sabbia si apre così. Una raccolta di articoli scritti da Calvino nel corso di alcuni anni ed inviati da Parigi a dei giornali italiani: un’antologia di piccoli saggi che sembra una camera delle meraviglie, una sorta di wunderkammer, colma di particolarità e stranezze d’ogni sorta. È come entrare in una stanza nascosta, piena d’oggetti, barlumi, riflessi, tra cui il lettore si muove esplorando ritagli di realtà inconsuete. L’immagine di piccole bottigliette piene di sabbia nasce dalla visita a Parigi di un’esposizione dal tema “collezioni strane”: così prosegue la narrazione del volume, prendendo spunto da altre mostre visitate nella Ville Lumière, da libri, opere, luoghi. Calvino esplora, indaga, studia arrivando così a comporre la sua personale collezione e «come ogni collezione anche questa è un diario: diario di viaggi, certo, ma pure di sentimenti, di stati d’animo, di umori».

Nel racconto La biblioteca di Babele Borges scrive: «Quando venne proclamato che la Biblioteca comprendeva tutti i libri, la prima sensazione fu di stravagante felicità. Tutti gli uomini si sentirono padroni di un tesoro intatto e segreto».

La percezione di avere tra le mani un tesoro è l’impressione che filtra da questo libro.

Nella quarta di copertina della prima edizione di Collezione di Sabbia (apparsa nella collana “Saggi Blu” di Garzanti, nel 1984), Calvino stesso tratteggia il contenuto di questa sua raccolta descrivendola come “un’esposizione insolita”, un piccolo universo di storie ricche di eccezionalità e raccontate “attraverso una sfilata di oggetti”: antichi mappamondi, libri, opere d’arte, insolite ed eccentriche collezioni. Questo nugolo di cose è ciò che permette di delineare le caratteristiche dello scrittore: «onnivora curiosità enciclopedica e discreta presa di distanza da ogni specialismo; rispetto del giornalismo come informazione impersonale e piacere d’affidare le proprie opinioni a osservazioni marginali o di nasconderle tra le righe; meticolosità ossessiva e contemplazione spassionata della verità del mondo».

Il forte desiderio di conoscere che qualifica Calvino, quel suo bisogno autentico di sapere, affiora tra i tanti aneddoti e richiami culturali che riempiono le pagine. Torna alla mente quel ritratto che Pasolini fa del volto dello scrittore nella postfazione realizzata per Le Città Invisibili, quel viso così furbo e fiero, caratterizzato da espressioni che lasciano intuire il pensiero di una mente attenta. Il pensiero di Calvino è dato da un vedere accorto, interessato ed infatti la pratica di vita e di lavoro per lui davvero rilevante, la più importante da trasmettere e da insegnare è: “un modo di guardare, di essere al mondo”. La sua scrittura nasce da una vocazione visiva e là tende, le sue opere sono gremite di immagini e di alcuni simboli in particolare, come il labirinto, lo specchio, gli alberi, la città, tutti temi ricorrenti, come regolarmente presenti sono dei dualismi, quelle coppie di realtà dialettiche che tornano di libro in libro: «in questo senso la ricerca di Calvino ha privilegiato i versanti dell’alterità, della realtà opposta, accettando in pieno il rischio del confronto. Natura e urbanesimo, istinto e razionalità; caos e geometria, ma soprattutto ordine e disordine […])».

Collezione di sabbia manifesta appieno questo approccio della scrittura nel catturare il mondo visibile: l’occhio si riafferma strumento principe d’indagine. Calvino stesso precisa sempre in apertura alla raccolta che il florilegio accoglie pagine di «cose viste o che, anche se nate da letture di libri, hanno come oggetto il visibile o l’atto stesso di vedere (compreso il vedere dell’immaginazione)».

Una riflessione su cosa sia la vista e cosa significhi guardare ci è affidata nelle ultime sezioni che riguardano il viaggio: completano il volume tre gruppi di racconti su Giappone, Messico, Iran, «dove dalle cose viste si aprono spiragli di altre civiltà».

La proprietà del linguaggio è il sale dei racconti, scriveva Miguel de Cervantes. Questa collezione calviniana è un esempio della perspicacia con cui l’autore sceglie le parole, del suo stile come sempre caratterizzato da una potente semplicità, brillante, ingegnosa, in cui descrizioni e pensieri si incastrano senza sbavature, con finissima intelligenza.

In un saggio critico, Le forme del tempo, Roberto Didier sviluppa una riflessione sull’universo delle forme dell’opera calviniana e ne descrive lo stile, riaffermando il carattere della “molteplicità” che contraddistingue la sua scrittura, non solo da un punto di vista estetico ma come modello d’osservazione. Il valore che emerge dallo sguardo è dato dalla complessità ed il tipo di ricerca conoscitiva messo in campo è un’indagine per livelli, pulviscolare, parcellizzata (tipica del Novecento). Nell’ambito di questo tipo di studio le dimensioni dello spazio e del tempo sono fondamentali: lo spazio ad esempio è il grande protagonista dei viaggi che Marco Polo racconta all’imperatore Kublai ne Le città invisibili; ma in particolare è il Tempo a regnare per tutto lo scorrere della narrativa calviniana «nella forma della storia come in quella […] delle cose desiderabili, che è poi dire lo stesso. Gli oggetti desiderabili segnano con precisione lo scorrere del tempo, gli attribuiscono una qualità formale che testimonia il suo scandire i periodi dell’esistenza umana […]».

Della rilevanza del valore di spazio e tempo si legge sempre alla fine de Le Città invisibili quando Marco Polo riassume con saggezza i due modi per non soffrire: accettare l’inferno, non quello di un aldilà, ma quello che viviamo qui e ora, che abitiamo tutti i giorni stando insieme; oppure decidere di adottare un altro modo che però esige attenzione e apprendimento continui: «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno non è inferno, e farlo durare, dargli spazio». Questi concetti, in particolare la durata, si presentano subito nel primo racconto della Collezione, nell’immagine iniziale della sabbia, simbolo dello scorrere del Tempo che ha preso forma nelle ampolle.

Calvino ordina e raccoglie gli articoli della Collezione in quattro sezioni: Esposizioni-Esplorazioni; Il raggio dello sguardo; Resoconti del fantastico; La forma del tempo.

Nella prima sezione, tra i vari resoconti delle esposizioni visitate a Parigi, sono presenti più riflessioni sull’oggetto/concetto di mappa. Com’era il nuovo mondo e Il viandante nella mappa nascono rispettivamente dalla visita di due mostre: L’America vista dall’Europa e Carte e figure della terra. Nel primo brano lo scrittore riesplora il Nuovo Mondo e l’idea che gli europei si fecero di quei luoghi esotici all’epoca delle grandi scoperte geografiche. Grazie a testimonianze di vario genere, quadri, stampe e alle opere dei grandi cartografi Calvino ripercorre la storia della rappresentazione dei viaggi e delle scoperte a partire da Colombo, epoca in cui ancora miti e immagini fantastiche avevano la meglio su resoconti veritieri. A partire dal secolo successivo i nuovi territori prendono forma e anche le immagini delle popolazioni si fanno via via più reali. Tra racconti di spedizioni, esploratori, carte e mappamondi, Calvino medita sul senso di indefinito, sulle reazioni di turbamento e stupore che derivano dall’incontro con qualcosa che non rientra nelle nostre aspettative.

La necessità di disegnare mappe viene dunque dal viaggio. Questo bisogno di rappresentare il mondo nasce sì da un’occorrenza pratica ma è anche accompagnato da un’istanza estetica: c’è uno spazio di confine in cui cartografia e pittura paesaggistica s’incontrano, come in un prezioso rotolo giapponese del Settecento (19 m) in cui è rappresentato il percorso da Tokyo a Kyoto, un paesaggio accuratamente disegnato, lungo cui si muove il viandante tra sentieri, villaggi e boschetti.

All’origine della cartografia si pone poi un altro tipo di urgenza/opportunità: comprendere in un’immagine le dimensioni dello spazio e del tempo. «La carta geografica, insomma, anche se statica, presuppone un’idea narrativa, è concepita in funzione d’un itinerario, è un’Odissea».

In questa prima parte della raccolta Calvino include anche diverse riflessioni sulla scrittura.

Ditelo con i nodi è un articolo breve che ha in sé l’incanto di una fiaba. Lo scrittore visita una mostra Nodi e legature, presso la Fondazione Nazionale d’Arti Grafiche e Plastiche, un’esposizione che esorta a pensare il linguaggio dei nodi come una primordiale forma di scrittura. Calvino riporta il pensiero di Agamben nel sostenere che questa forma di espressione antichissima riesce a mantenere il contatto con l’origine mitica della parola.

Le cordicelle dei Maori, i fili di cotone del Perù (i quipu degli Incas), gli dei Annodatori dello Shintoismo giapponese (quelli che legano il cielo alla terra, lo spirito alla materia, la vita al corpo) sono tutti esempi di come «l’arte di fare nodi, culmine insieme dell’astrazione mentale e della manualità, potrebbe esser vista come la caratteristica umana per eccellenza, quanto e forse ancor più del linguaggio…».

Nella seconda sezione della Collezione Calvino prosegue la sua riflessione sulla scrittura, ma si aprono anche indagini più profonde sulla natura degli oggetti.

Ne La redenzione degli oggetti, piccolo saggio dedicato alla figura di Mario Praz, alla sua Antologia Personale (Voce dietro la scena, Adelphi) e alla sua casa (diventata il Museo delle collezioni di mobilio, quadri, cere e opere varie raccolte in una vita), Calvino ha l’occasione di esprimere il proprio punto di vista sull’esistenza delle cose legata a quella dell’uomo: «L’umano è la traccia che l’uomo lascia nelle cose, è l’opera, sia essa capolavoro illustre o prodotto anonimo d’un epoca. È la disseminazione continua d’opere, oggetti e segni che fa la civiltà, l’habitat della nostra specie, sua seconda natura. Se questa sfera di segni […] viene negata, l’uomo non sopravvive. E ancora: ogni uomo è un uomo-più-cose, è un uomo in quanto si riconosce in un numero di cose, riconosce l’umano investito in cose, il se stesso che ha preso forma di cose».

Il collezionismo si rivela così come una possibilità di ricreare un’unità, per esorcizzare il senso di dispersione e perdita, dando rilevanza al particolare, alla dimensione del privato.

La terza sezione dell’opera traccia un percorso di viaggio nel fantastico.

Si apre con Le avventure di tre orologiai e di tre automi, la storia dei Jaquet-Droz, famiglia di grandi artisti e scienziati dell’orologeria settecentesca. Ammaliante è il racconto delle meraviglie meccaniche ideate e realizzate in particolare da Pierre Jaquet-Droz: non solo fine artigiano ma anche vero e proprio inventore, concepisce e costruisce (insieme al figlio e a J.F. Leschot) quelli che possono essere considerati tra i primi automi della storia: “lo scrivano”, “il disegnatore” e “la musicista”. La vita rocambolesca dei tre androidi influenza quella dei suoi artefici che li rendono famosi in tournée, mostrandoli in giro per l’Europa.  Nel corso del XVIII secolo cresce e si espande l’azienda, viene aperta una sede a Londra, e iniziano le esportazioni in Oriente delle opere, carillons, uccelli canori, orologi preziosissimi, tutt’oggi tra gli esempi più alti di questa raffinatissima arte (per un approfondimento si rimanda anche al sito Jaquet-Droz).

I capitoli successivi raccolgono una miriade di spunti immaginifici. La geografia delle fate e L’arcipelago dei luoghi immaginari, non solo portano il lettore in un mondo di sogno e in un altrove magico ma, come già in tutto il libro, offrono suggerimenti di lettura e (s)punti da cui partire per acquisire nuove conoscenze.

Nel primo di questi passi è citato uno dei romanzi forse meno conosciuti di Jules Verne, Le Indie Nere, ambientato in Scozia, nella contea di Stirling, dove le vicende di una famiglia di minatori si combinano con la scoperta di una dimensione fantastica.

L’arcipelago dei luoghi immaginari invece è una sorta di enciclopedia in cui sono elencati e illustrati i luoghi irreali e fantasiosi di tante narrazioni e libri: The Dictionary of Imaginary Places di Alberto Manguel e Gianni Guadalupi.

Un altro atlante immaginario è quello che si scopre nell’articolo successivo, I francobolli degli stati d’animo. The World of Donald Evans, commentato da Willy Eisenhart, è un libro in cui sono raccolte 85 tavole di francobolli realizzati da Evans, tutti inventati e frutto dell’immaginazione di quello che potremmo definire più che un appassionato, un artista.

Non si tratta solo di un esempio di filatelia ma di un tipo di collezionismo che dà vita a un altrove fatto di piccole cose uniche, ad un personale mondo di legami con paesi vissuti e sognati, ad una geografia di stati d’animo e nostalgie.

L’ultima sezione della raccolta calviniana, come già detto in apertura, porta il lettore in paesi lontani.

La prima parte è dedicata al Giappone e qui il fil rouge del discorso sulla visione si ripresenta in termini di esperienza e comportamento dello sguardo. Proustianamente si può dire che il vero viaggio verso la scoperta è quello che ti consente di avere nuovi occhi. Calvino infatti spiega che muoversi in un nuovo Paese comporta il conferire un valore proprio a quello che si vede: «quando tutto avrà trovato un ordine e un posto nella mia mente, comincerò a non trovare più nulla degno di nota, a “non vedere” più quello che vedo. Perché vedere vuol dire percepire delle differenze, e appena le differenze si uniformano nel prevedibile quotidiano lo sguardo scorre su una superficie liscia e senza appigli.

Viaggiare non serve molto a capire  […] ma serve a riattivare un momento l’uso degli occhi, la lettura visiva del mondo».

Il racconto sul Sol levante prosegue con delle preziose riflessioni sui colori della natura e sull’importanza e la bellezza dei giardini giapponesi. Qui tutto è frutto di un ordine e di un percorso di senso, come il Tempio di Legno è un simbolo del Tempo: la struttura in legno può condurre nella dimensione della continuità e dell’infinito proprio per mezzo del suo contrario, «il tempo frammentato di ciò che si avvicenda, si dissemina, germoglia, si dissecca […]».

(Cicerone scriveva che un uomo possiede tutto ciò che conta quando ha a disposizione una biblioteca ed un giardino).

L’ultima immagine della Collezione è quella fiabesca ed esotica che viene agli occhi del lettore dall’Iran: i tappeti intessuti dai nomadi, «oggetti variegati e leggeri che si stendono sul nudo suolo dovunque ci si ferma a passare la notte e si arrotolano al mattino per portarli via con sé insieme a tutti i propri averi sulla gobba dei cammelli».

Portare via con sé quello che conta e ripartire.

Calvino stesso scrive che di una città non si apprezzano tanto le sue meraviglie ma le risposte che quella città offre. Questo libro si pone su un versante diametralmente diverso: da questa collezione si portano via miriadi di meraviglie e domande. Chiusa la stanza delle meraviglie c’è il mondo.  

BIBLIOGRAFIA

I. CALVINO, Le città invisibili, Mondadori, Milano, 2019.
I. CALVINO, Collezione di sabbia, Mondadori, Milano, 2017.
P. CIAMPI, Il sogno delle mappe, Ediciclo Editore, Portogruaro (Venezia), 2018.
R. DEIDIER, Le forme del tempo. Miti, fiabe, immagini in Italo Calvino, Sellerio Editore, Palermo, 2004.