Beibi Laplà, nome d’arte della poliedrica artista Elisabetta Panico, presenta Appunti Biografici, una raccolta di collage analogici, frutto di una precisa ricerca artistica personale.
Le immagini così ottenute, come fossero pagine di un diario, si fanno narrazione intima, in cui i ricordi visivi si fondono con frammenti di poesie.
Le opere, raccolte tra il 2020 e il 2023, sono tutte su fondo bianco, piccoli collage analogici delle dimensioni di cm 14,5 x 21,5. Non hanno titolo, ma un numero progressivo in grado di tracciare un discorso senza fine, piccoli accenni di memoria privata che si fanno suggestione collettiva.
La nascita di una forma d’arte
Ho cominciato a metter mano sulle riviste quando ero una bambina e finivo sempre col passare troppo tempo in mezzo ai grandi, disegnavo labbra piene con le bic rosse e lunghe ciglia alle showgirl sulle copertine di giornali che mia nonna comprava settimanalmente. Abitudine così demodé se penso a come le informazioni e le immagini veicolano oggi. Se la noia era tanta, finito il restauro e il make-up gratuito, cominciavo a fare con le forbici tante striscioline, dalle striscioline tanti pezzetti quadrati, coriandoli. Era così soddisfacente… ma ahimè, venivo rimproverata poco dopo perché, nella cultura partenopea, fare tanti pezzettini di carta porta miseria, e la scaramanzia è senz’altro una forma di superstizione tanto cara a Napoli, terra che amo da cui provengo. Con mia madre poi, alle elementari, ho scoperto una tecnica ancor più affascinante, lei nutriva una certa soddisfazione con le pagine che contenevano i miei errori di grafia o troppe cancellature visibili: le strappava. Io non ho mai raggiunto la perfezione che cercava, ma di sicuro mi lasciavo sedurre dal fascino della Carta.
Negli anni le forbici sono divenute il prolungamento delle mie mani. Più cresceva la mia consapevolezza, maggiore era il richiamo per questo strumento. C’è chi ha fatto del pennello virtù, secoli di storia passati tra nomi quali Kandinskij, Klee, Modigliani, Picasso. Nomi a caso, tra altri e altri, aggiunti a un elenco infinito che non smetterà mai di crescere. C’è poi chi ha fatto del corpo il proprio mezzo, quel corpo che non assecondava il movimento del braccio, ma diveniva presenza intera. Happening, Performance. Ho passato tutto il tempo a studiare arte o ciò che la riguardasse: prima il canonico Istituto d’Arte, poi l’Accademia di Belle Arti. Un triennio in Didattica e comunicazione dell’arte e un biennio specialistico in Pittura.
Non mi sento utile in nient’altro se non questo, non ho basi di biologia e per me le stelle sono solo corpi celesti da disegnare a cinque punte. So fare il caffè però, non smentisco le mie origini e forse un po’ rendo fiero Denis Papin.
Negli anni legati allo studio accademico, i ritagli di triangolini e piccoli rombi deformi erano consentiti, zero malocchio. Li applicavo su silhouette appena abbozzate, e finivano col dar volto astratto a figure tracciate da linee geometriche. Quei volti si son poi ingranditi. Nuove identità, nascevano per mano di ritagli che s’impossessavano di ogni spazio. Si trattava di donne per lo più. Come Frida Kahlo mi approcciavo a rappresentare ciò che conoscevo meglio. La mia ricerca è poi andata avanti, e, come amiche fedeli, ancora oggi quelle lame incrociate… ancora oggi, il Collage.
Per chi ne è a digiuno: siamo agli inizi del Novecento, delle avanguardie, del ‘polimaterismo’. A queste nuove ricerche materiche, si aggiungono pacchetti di sigarette, scatole di fiammiferi. Questa l’arma di Picasso, di Braque, dei Cubisti. Il Futurismo e l’Astrattismo finiscono col puntare invece alla geometria. Con il Neo-Dada, la Pop art e il Nouveau realisme, il collage diventa materia a tre dimensioni. La ‘tecnica d’assemblaggio’ preferita dagli artisti dell’epoca cresce, si trasforma, ma persiste. Il collage diventa satira con i fotomontaggi di John Heartfield, diventa poesia surrealista con Carolina Chocron, diventa poi opposta al suo principio, con Mimmo Rotella e i suoi strappi (décollage).
Collage, è, sovrapposizione, è un fotomontaggio analogico, una ri-visitazione di un’immagine già vista. Fotografie, giornali, carte, tutto questo diventa materiale da ‘composizione’.
A me piace vederla così…
Un giorno poi, parlo di anni addietro, ero nel mio studio, una piccola veranda dipinta di bianco, luminosa, accogliente, uno spazio ricavato nella casa d’infanzia, la casa che mi ha vista nascere e ha visto nascere le mie fasi e frasi, di parole e scarti. La veranda da sempre dà su un giardino con alberi nani e rose, un vialetto piccino che si apre in un parcheggio; la scuola materna ed elementare in lontananza, un piccolo bar dove anziani e persone del quartiere s’incontrano per passare le ore, tanto verde a chiazze.
Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Antoine-Laurent de Lavoisier
Di fronte a tutto questo divenne chiaro un pensiero; mentre osservavo immobile in attesa di spunti, mi accorsi che la natura, i protagonisti che la componevano, tra superficiale e materia viva, il semaforo all’angolo-l’aiuola appiccicata lì piuttosto che là-il sole fermo in alto-le virgole di nuvole-i camini come punti fermi-le verticali dei palazzi e l’arancio che li veste: era un collage. Ogni elemento formava insieme ad altri, scenari mutevoli, per casualità o consenso umano.
Ciò che porto su foglio è quindi, l’elaborazione di questo pensiero poetico. La mia natura. Parlando di me, sfuggono di mano tutte quelle cose che non si fermano a me. Immagini ritagliate e messe a riposare su carta, tracce verbali, e con il verbo ho sempre avuto una singolare amicizia devo dire. La parola era presente sui diari di scuola, quelli da libero sfogo di una quindicenne, nei testi pop arrangiati con un gruppo durante la fase post-adolescenza. La parola è ne Il riflesso del mondo, in una pozzanghera nel fango, e in Diavolo di sabbia, le mie due raccolte di poesie.
Appunti biografici
Con Appunti biografici, il foglio si prepara a raccontarmi per intero ogni volta. Poesia e Collage si prendono per mano, per mano mia. Accade più o meno questo: delle informazioni inconsce passeggiano sparpagliate sulle pagine di Vogue, su una rivista vecchia degli anni ’50, su vecchi fumetti o cataloghi d’arte di mostre passate; giri e rigiri, ti salutano, e tu le afferri e le maneggi con cura, le accosti ad altre, esce un discorso visivo, intimo, personale. Una sintesi della prosa disordinata che meglio di questo non saprei fare. Le parole che accompagnano e confezionano le considerazioni incollate, sono poi prese da un unico testo, sempre lo stesso. Simili ai primi Journaux intimes, di Sophie Calle o ai romanzi-collages di Max Ernst, Appunti biografici diventa così un taccuino trascritto senza margine di errore o sbavature, pagine scisse formalmente disciplinate e prive di incidenti cromatici. Una ricerca che dura da tempo, cominciata durante quegli anni che metà di noi vorremmo dimenticare, quando un virus ci ha tenuti chiusi in casa. Io creavo intanto. Il risultato? Versi sospesi in scenari onirici e surreali. Una riflessione sulle intime fragilità del quotidiano, sulle occasioni perse, quelle trattenute, divorate e lasciate andare. Un discorso privato, raccolto e riassunto in stratificazioni che scatenano le facoltà visionarie. Il riepilogo di passaggi fugaci di quotidianità.
Appunto 4Appunto 12Appunto 17Appunto 19Appunto 26
Ora, continuo a fare cose, Appunti biografici cresce, è stato in mostra un po’ qua e un po’ là, io classe ’95 ormai invecchio, e si aggiunge il fatto che non so come si metta fine a questo flusso di parole che qui leggi e che hanno la stessa valenza di un’omelia la domenica mattina mentre sei in hungover. Per cui taccio, ci do un taglio.
Fiori vivi ringrazia
Elisabetta Panico, in arte Beibi Laplá: collage artist e autrice. Ha inoltre pubblicato due raccolte di poesie Il riflesso del mondo, in una pozzanghera nel fango (BookSprint 2016) e Diavolo di sabbia (Mnamon 2020). I suoi collages appaiono su riviste indipendenti di respiro internazionale quali: The Release, Lona Fanzine, CedroMag, Salmace, Suttapress, Photo Trouvée Magazine, Vulva Fanzine. Ha curato la copertina del numero 13 di Crack Rivista, presentata al Salone del Libro di Torino (2022). Da quest’anno cura il visual della rubrica ‘Gli Scomodi’ di Limina Rivista e la rubrica ‘Asterismi’ di Spore Rivista. Porta avanti la sua ricerca artistica sospesa tra immagini e parole con Appunti biografici, esposta all’Archeologico a Nola e al Palazzo della Cultura di Avellino. Attualmente lavora presso il Museo Irpino.
Presso il Palazzo della Civiltà Italiana di Roma, fino al I Ottobre 2023, la mostra Arnaldo Pomodoro: il Grande teatro della civiltà, a cura di Lorenzo Respi e Andrea Viliani. La Fondazione Arnaldo Pomodoro, in collaborazione con Fendi, presenta una selezione di opere dell’artista che procedono dalla fine degli anni cinquanta a oggi, insieme a materiali documentari.
Scultura e scrittura
C’è una narrativa intrinseca nel semplice gesto di scrivere, come il quello di scolpire o modellare.
Barbara Chase-Riboud
Esiste una connessione tra scultura e scrittura che in Arnaldo Pomodoro diviene evidente, esternalizzata.
E se essa è sottesa a livello astratto, di ispirazione all’atto, nel caso di Pomodoro si concretizza in alcune opere. «Ho sempre subito un grande fascino per tutti i segni, soprattutto quelli arcaici. Anche la scrittura mi ha attratto, dai segni primordiali nelle grotte, alle tavolette degli Ittiti e dei Sumeri, tanto che ho dedicato una mia opera, Ingresso nel labirinto, a Gilgamesh, che è il primo (2000 a.c. circa) grande testo poetico e allegorico sull’esperienza umana. Le impronte che scavo, irregolari o fitte, nella materia artistica, i cunei, le trafitture, i fili, gli strappi, mi vengono inizialmente da certe civiltà arcaiche.» (Cfr. Nel cuore della materia. Una conversazione con Arnaldo Pomodoro, a cura di Sandro Pamiggiani, Reggio Emilia, 24 giugno 2006)
Ma è un’altra opera, Continuum, che si fa manifesto di questa arcaica e primordiale trasfigurazione del segno nella scultura.
Lo stesso Pomodoro attribuisce a quest’opera del 2010 un valore che potremmo definire antologico. In essa infatti «compaiono le grafie semplificate degli inizi: volevo tornare a occupare interamente una superficie grandiosa con i miei primi segni. Riprendendo e approfondendo le origini del mio lavoro, le prime esperienze di incisione su piccole tavole, ho creato una sorta di tracciato infinito con i codici e l’inventario di tutta la mia ‘scrittura’.»
Dalla fascinazione dello sculture per i segni infatti, scaturisce la capacità di renderli affini a se stesso e in tal modo, la possibilità di riplasmarli in uno spazio e attraverso una materialità differente. Rendendo affini a sé tutti i segni dell’uomo, «soprattutto quelli arcaici, così semplici e insieme così intensi, che tramandano memorie e racconti: dai graffiti primordiali nelle grotte ai primi tracciati di scrittura alfabetica che si ritrovano nelle tavolette degli Ittiti, dei sumeri, nei papiri degli Egizi», Pomodoro trova il proprio linguaggio, o come scriverà C.G. Argan, una illeggibile lingua perduta, che egli identifica nella continuità appunto con le sue prime opere e con quelle ancora a venire.
Ma la continuità appartiene soprattutto alla scrittura, «E la scrittura, di per sé, è continua: una riga dopo l’altra, sia che si tratti di scritture alfabetiche, che di scritture ideografiche.»
Nella serie dei Continuum compaiono le mie grafie semplificate degli inizi, nate da quelle suggestioni: ho voluto occupare interamente una superficie grandiosa con i miei primi segni. Riprendendo e approfondendo le origini del mio lavoro – le prime esperienze di incisione su piccole tavolette –, ho creato una sorta di tracciato infinito con i codici e l’inventario di tutta la mia “scrittura”, con valore di ritrovamento e anche di espansione.
Scrittura segnica di natura plastica, che rimanda a un passato comune, ma di cui si è perduta la precisa provenienza. Come una lingua che non ci appare più, dimenticata, dimentica, sconosciuta ma con cui percepiamo inconsciamente una antica connessione. Qualcosa di misterioso e ancestrale che passa attraverso il segno e lo spazio, ci lega a un tempo poco definito.
«Dei segni plastici di Pomodoro è stato anche detto che sono come un alfabeto cuneiforme. Sono piuttosto un codice di cui è perduta la cifra o che si riferisce ad una lingua sconosciuta di cui peraltro, nei documenti epigrafici che ci vengono dati, possiamo dalla frequenza e dalla distribuzione dei segni ricostruire il ritmo. La pura visività, perfino la tangibilità dei messaggi sembrano suggellare il loro mutismo. L’immagine plastica, infine, nasce al termine della distinzione di spazio e di tempo, dove alla loro scansione o suddivisione succede la loro assoluta continuità.
Continuità appunto, è il nome del movimento a cui Arnaldo Pomodoro, il fratello Giò e alcuni altri artisti diedero vita nel 1961.» (G. C. Argan, Arnaldo Pomodoro: il tempo e la memoria, in ‘Maestri contemporanei Arnaldo Pomodoro’, Edizioni Vanessa, Milano, 1978, pp. 3-4)
Arnaldo Pomodoro in molte occasioni ritorna sul legame tra scrittura e scultura.
In una mostra a San Francisco del 1985 intitolata Intimations of Egypt, in cui realizza Cippi e Papiri, riprende il lavoro Fogli del 1966, dove un foglio appunto viene dilatato e ingrandito. «L’idea portante è il foglio […]: la memoria antropologica convive col naturale, e il tecnologico affianca l’elemento arcaico.» «Mentre realizzavo il Cippo I mi sono accorto con sorpresa che una lunga spaccatura tracciata su una delle facce della scultura somigliava al Nilo visto in una carta geografica.»
Ma anche quando descrive il suo modus operandi, «Quando lavoro a un libro d’arte mi confronto continuamente con il testo in modo che si crei unità tra scrittura e segno.»
«Le rocce e le parole contengono un linguaggio che segue una sintassi di fratture e spaccature. Guardando una qualsiasi parola di media lunghezza, la si vedrà aprirsi in una serie di faglie, in un terreno di particelle ognuna contenente il proprio vuoto.» (Cfr. R. Smithson, A Sedimentation of the Mind: Earth Projects)
Tracce I- VII (1998)
Il tempo e lo spazio della memoria
Scrittura o scultura, è sempre memoria.
Barbara Chase-Riboud
In altre parole il tempo interviene nella relazione tra segni, scardinando la linearità di passato e presente, alternando calligrafie, arcaiche scritture e fratture delle materie in vista della riassunzione del tutto in un ritmo ben preciso.
«Pertanto ritmo e armonia (un ritmo musicale su un insolito spartito) convivono magicamente nell’alternanza critica delle incisioni e dei rilievi di un inesauribile racconto. Afferma Pomodoro di essere rimasto affascinato dai geroglifici, di aver scoperto uno straordinario rapporto tra il segno e una forma magmatica, in divenire, di aver sentito la necessità anche fisica di incidere qualcosa nella materia. Allora tra l’autore e l’opera che sta nascendo inizia la lotta, la battaglia non solo nei confronti della materia ma soprattutto tra l’idea e la sua adeguata realizzazione.» (Cfr. Luciano Caprile, Arnaldo Pomodoro: viaggio nel labirinto dell’esistenza)
E la realizzazione è temporale ma anzitutto spaziale. Lo stesso Pomodoro afferma infatti che «La scultura, quando trasforma il luogo in cui è posta, ha veramente una valenza testimoniale del proprio tempo, riesce ad improntare di sé un contesto, per arricchirlo di ulteriori stratificazioni di memoria»
«Guardando indietro, ora, ci rendiamo conto che il tema dominante della scultura di Pomodoro è il tempo, umanamente e umanisticamente inteso come memoria. […] Per origine e per tradizione la scultura è arte dei sepolcri; per la sua perennità è la custode della memoria, l’immagine plastica della storia e come tale si pone alla soglia tra lo spazio della vita e il tempo senza limite» (G. C. Argan, Arnaldo Pomodoro: il tempo e la memoria, in ‘Maestri contemporanei Arnaldo Pomodoro’, Edizioni Vanessa, Milano, 1978, pp. 3-4)
Grande tavola della memoria (1959-1965)
Nelle sue opere non c’è un racconto, ma la metafisica stessa della memoria che, a sula volta, torna a tradursi in segno. Come la scrittura ha bisogno della sua superficie, così la scultura di Pomodoro assorbe il ritmo del tempo e lo esprime in termini di spazio.
Rotativa di Babilonia (1991); Movimento in piena aria e nel profondo (1996-1997)
Forme del mito (1983): La macchina (Egisto), Il Potere (Agamennone).
Ritratto conclusivo
Per concludere riportiamo un ritratto dell’autore di Luciano Caprile, capace di riassumere perfettamente le connessioni di cui abbiamo parlato e che le opere di Arnaldo Pomodoro hanno messo in luce.
Tutto in Pomodoro pare ineccepibile e precario, tutto sembra sul punto di rivelarsi o di sgretolarsi nell’oblio definitivo. Il limite è determinato anche da chi si accosta alle sue opere con animo sgombro da ogni preconcetto o da ogni orgoglio cognitivo e da chi si ammanta invece della presunzione del sapere: il primo atteggiamento può favorire un viaggio verso una maggior conoscenza soprattutto di sé; il secondo può determinare la vanificazione dell’approccio, come bussare a una porta che non concede ovvie chiavi d’accesso. La maggior conoscenza può scaturire da quella “scrittura” scavata nel bronzo, suscitata dall’inconscio di Arnaldo e dall’inconscio di ciascuno di noi nella continua attesa e nel riflesso timore di inquietanti risposte esistenziali. (Luciano Caprile, Arnaldo Pomodoro: viaggio nel labirinto dell’esistenza)
L’unicorno è una delle più belle tra le ombre che vagano nelle vaste regioni del pensiero…
O. SHEPARD
La storia dell’unicorno si perde tra realtà e leggenda. Confondendo il piano dei fatti con quello dei simboli e dei significati, essa rappresenta un fulgido esempio di come un’antica credenza abbia attraversato i tempi e lo spazio, lasciando tracce di sé in quasi tutto il mondo per arrivare fino ai giorni nostri.
Seguirne le evoluzioni, le confusioni, le sovrapposizioni di genere e la credenze risulta difficile, perché la storia dell’unicorno si compone e si frammenta di continuo, mettendo in connessione tradizioni diverse, provenienti da oriente e da occidente.
Classificato come animale esistente, l’unicorno ci pone di fronte i limiti epistemologici della scienza antica, la difficoltà di reperire notizie certe e la fondazione del sapere su dati riportati da viaggiatori, scrittori e mercanti. Eppure affascina l’idea che per secoli interi questo strano animale fosse stato considerato esistente. Come a dire che se il dato scientifico non era attendibile, la credenza e il mito che intorno a esso si è andato formando dice molto dei periodi storici e degli approcci conoscitivi del tempo. Simboli e significati, metafore e metonimie avevano valore pari alla realtà dei fatti.
La nascita del mito
La nascita del mito dell’unicorno non risulta affatto chiara e non solo per l’incerta provenienza, divisa tra Cina e India e poi portata in Europa, ma anche per la sua individuazione biologica.
Le prime fonti a nostra disposizioni sono del IV sec. a.C., anche se probabilmente la sua comparsa è molto più antica. Ctesia di Cnido, lo storico greco inviato alla corte di Persia per le sue capacità mediche e uomo di fiducia del Gran Re di Persia Artaserse II, ci fornisce il primo documento europeo in cui si parla di Unicorno che, stando alle indicazioni raccolte, si tratterebbe in realtà di un asino indiano. Nei suoi Indika, giunti a noi in una versione frammentata (qui riportiamo la versione del venticinquesimo frammento di Fozio)troviamo
In India ci sono degli asini selvatici grandi come cavalli e anche di più. Hanno il corpo bianco, la testa rossa e gli occhi blu. Sulla fronte hanno un corno lungo circa un piede e mezzo. La polvere di questo corno macinato si prepara in pozione ed è un antidoto contro i veleni mortali. La base del corno, circa due palmi sopra la fronte, è candida; l’altra estremità è appuntita e di colore cremisi; la parte di mezzo è nera. Coloro che bevono utilizzando questi corni come coppe, non vanno soggetti, si dice, alle convulsioni o agli attacchi di epilessia. Inoltre sono anche immuni da veleni se, prima o dopo averli ingeriti, bevono vino, acqua o qualsiasi altra cosa da queste coppe. Gli altri asini, sia quelli domestici sia quelli selvatici, nonché tutti gli animali con lo zoccolo indiviso, non hanno né astragalo né fiele, ma questi hanno sia l’uno sia l’altro. Il loro astragalo, il più bello che io abbia mai visto, è simile a quello del bue come aspetto generale e dimensioni, ma è pesante come piombo e completamente color cinabro.
Molti mercanti erano riusciti a raggiungere l’India e ad arrivare in Asia centrale, trovandosi di fronte probabilmente degli sconosciuti rinoceronti che, in base alle credenze del tempo, scambiarono per unicorni. La classificazione zoologica di questo nostro animale infatti risulterebbe improvabile, frutto di un ibrido tra specie e caratteri differenti. Odell Shepard, in particolare, nel suo bellissimo testo The Lore of the Unicorn (London 1930) ha pensato all’asino indiano di Ctesia come a una agglutinazione di rinoceronte indiano, antilope tibetana (la Pantholops hodgsonii, detta anche ‘chiru’) e onagro (Equus hemionus onager). Ma Ctesia non fu l’unico a fare confusione circa la sua provenienza. Mentre infatti, come questo ultimo, Aristotele pensava che l’unicorno fosse una specie mista di asino selvatico, Plinio, che inaugurò il termine monoceros con cui anche oggi lo conosciamo, credette che avesse il corpo di un cavallo, la testa di un cervo, i piedi dell’elefante e la coda del cinghiale. Nel Physiologus viene descritto come un animale simile a una capra, mentre per i Persiani era un asino a tre zampe, per gli Ebrei un mostro enorme, grande come il Monte Tabor, per i Cinesi una specie di ariete, di leopardo, di volpe, o di cavallo. Mentre Eliano, lo storico romano del II d.C. pensava fosse una specie di rinoceronte
[…] l’unicorno, che si chiama cartazon (kartazonos). Questo animale è grande come un cavallo adulto e ha la criniera e il pelo rossicci, le zampe simili a quelle dell’elefante e la coda di capra. È velocissimo. In mezzo agli occhi ha un corno singolo, nero, non liscio ma con certi anelli naturali, che si assottigliano per finire con una punta molto sottile. Fra tutti gli animali, è quello con la che gli si avvicinano, ma lotta con quelli della sua stessa razza: non solo i maschi lottano naturalmente tra loro, ma anche contro le femmine, e spingono il combattimento fino ad un esito mortale. È un animale dotato di grande forza fisica, e inoltre è armato del suo corno invincibile. Ricerca i luoghi più deserti, dove erra in solitudine. Nella stagione degli amori diventa gentile con la femmina che si è scelta, e pascolano l’uno a fianco all’altra, ma quando la stagione è finita ridiventa feroce e ricomincia a vagare in solitudine….
«[…] una semplice confusione tra dati zoologici abbastanza esatti; riguardanti il rinoceronte (ma con qualche probabile confusione con qualche altro animale, come l’antilope tibetana o l’orice), e dati forse d’origine mitica passati dalla cultura vedica e da quella mazdaica all’Occidente attraverso Ctesia prima, Megastene e il ciclo leggendario di Alessandro poi. In un certo senso, l’unicorno è il primo segnale della vocazione all’esotismo della cultura occidentale.» (F. Cardini)
Occidente
Tra il II e il III sec. d C, ad Alessandria venne diffuso il Physiologus, un testo scritto in greco allo scopo di aiutare i cristiani d’Egitto a interpretare la natura secondo i principi della nuova religione che si stava diffondendo in tutto l’Impero Romano. Questo volume enciclopedico, che offriva l’interpretazione degli animali e delle loro caratteristiche in chiave simbolica e religiosa, venne poi ripreso nell’Alto Medioevo. Ispirato a esso, cominciarono poi a diffondersi i Bestiari in lingua latina, veri e propri manuali che permettevano l’interpretazione di tutti gli elementi naturali come segni del male o di Dio, secondo le dottrine accettate nel Medioevo.
Fu proprio attraverso questi Bestiari che si diffuse in tutta Europa la tradizione popolare dell’unicorno come elemento allegorico. «Per mezzo di questo animale viene rappresentato il Cristo, e per mezzo del suo corno la sua indomabile forza. Colui che si posò in grembo alla Vergine fu catturato dai cacciatori; ovvero fu scoperto in forma umana dai suoi amatori». (Onorio di Autun, Speculum de mysteriis Ecclesiae) Le antiche credenze, retaggio di mitologie e religioni ancestrali, politeistiche e immanentistiche, non potendosi con facilità eliminare, venivano fatte convergere, attraverso il pensiero allegorico e morale, nel mondo cristiano.
Oltre alla sovrapposizione tra l’Unicorno e Cristo «è divenuto per noi corno di salvezza. Non hanno potuto aver dominio su di Lui gli Angeli e le potenze, ma ha preso dimora nel ventre della vera e immacolata Vergine Maria», viene in risalto il tema della giovane fanciulla, l’unica in grado di catturare l’animale, identificata iconograficamente con la Vergine Madre, soprattutto nel secoli XIII e XIV quando la devozione mariana aumenta significativamente. Il motivo risiedere nel fatto che nell’Antico Testamento, secondo la traduzione greca dei Settanta, viene citato l’Unicorno per ben sette volte, anche se in realtà si tratterebbe di una traduzione errata del termine Re’em. «Nel passaggio dall’ebraico al greco molti zoonimi originali il cui significato risultava opaco ai traduttori (ma in fondo, in molti casi, anche agli stessi membri delle comunità ebraiche) venivano resi con nomi di animali presi di peso dalla tradizione naturalistica greca ed ellenistica.» (A. Angelini, Dal Leviatano al drago. Mostri marini e zoologia antica tra Grecia e Levante)
C’è un animale assai gentile, che i cacciatori non possono catturare, a motivo della sua grande forza. Sulla fronte ha un corno solo. Ma osservate con quale espediente i cacciatori lo prendono. Conducono sul posto una giovane vergine casta e pura, e l’animale, quando la vede, le si avvicina, abbandonandosi in braccio a lei. Allora la fanciulla gli offre il seno e l’animale comincia a succhiare e a comportarsi affettuosamente con lei. Poi la fanciulla, tranquillamente seduta, allunga una mano e afferra il corno dell’animale: a questo punto intervengono i cacciatori, catturano la bestia e vanno con essa al palazzo del re. Similmente il Signore Gesù ha innalzato per noi un corno di salvezza in mezzo a Gerusalemme, nella casa di Dio, una vergine, pura, casta, piena di grazia, immacolata, intatta. (Anecdota Syriaca)
Diverse interpretazioni si aggiunsero a quella cristiana, come quella, apertamente atea, che si trattasse di una simbologia erotica. Nel Bestiaire d’amour di Richard de Fournival del XII sec., che associa gli animali alle diverse forme dell’amore tra uomo e donna, l’unicorno diviene simbolo dell’amor cortese:
Solo in tuo dolce profumo mi ha condotto fino a te, come l’unicorno che si addormenta al dolce profumo della verginità di una damigella. […] si inginocchia davanti a lei e si inchina con umiltà e dolcezza come volesse mettersi al suo servizio. Sicché i cacciatori avveduti che conoscono la sua natura mettono una vergine sul suo passaggio, e l’unicorno si addormenta nel suo grembo; […] e lo uccidono. Così crudelmente Amore si è comportato con me; [..] Amore, abile cacciatore, ha messo sul mio cammino una fanciulla, al profumo della cui dolcezza mi sono addormentato, e così muoio della morte a cui ero destinato.
Un altro aspetto importante nell’iconografia dell’unicorno è il valore sacro del corno.
Nel 1604 Basilio Valentino spiega la capacità del corno dell’Unicorno, ovvero l’alicorno, di proteggere dai veleni sulla base dell’attrazione dei simili e repulsione dei contrari, «Il vero corno dell’unicorno tutti i veleni da sé rigetta… ma se ad un puro pezzetto di pane non adulterato che nuoti nell’acqua si accosti, lo stesso corno senza contatto subito attirae il pane… è meravigliosissimo che tutte le cose a sé omogenee lo [il corno] seguitino e le contrarie lo odino e lo fugghino» (Basilio Valentino, Il cocchio trionfale dell’antimonio, p. 62) Proprio nelle leggende medievali troviamo l’Unicorno che accorre al fiume dove gli avvelenatori hanno inquinato le acque «coi loro segreti veleni insidiosi» e «affonda il suo corno nell’acqua, ripulendola dal veleno e ridonando purezza al suo corso affinché gli abitanti possano bere dalle sue sponde.»
Oltre a scoprire la presenza del veleno, si credeva che il corno avesse virtù terapeutiche, taumaturgiche e alessifarmacologiche, «chi beve da questo corno è al sicuro da tutte le malattie inguaribili, come le convulsioni e il cosiddetto morbo sacro, e non può essere ucciso dal veleno.» (Claudio Eliano). Di fronte allo sviluppo del metodo del veleno «Si frugò nella farmacopea, si ricercarono gli antichi testi, si resuscitarono superstizioni preistoriche, ma tutto ciò non servì a nulla» (O. Shepard, op.cit. p. 143), se non a farne lievitare il prezzo. Così Re, gran Duchi e i potenti delle corti d’Europa si contendevano gli alicorni, (in realtà erano denti di narvalo e zanne di elefante messi in commercio a partire dal Cinqucento), che esponevano nelle loro wunderkammern, ai poveri era destinato quello polverizzato come medicinale. Il dato più incredibile è che tale superstizione era così radicata che solo nel 1746 l’alicorno andò scomparendo dalle farmacie europee, alcune delle quali invece continuarono a vendere la polvere per molto tempo ancora.
Col tempo si scoprì un altro dato sorprendente. Per creare l’alicorno veniva usato un animale marino, ovvero il narvalo o monodon monoceros. I maschi adulti di questi mammiferi sono infatti provvisti di un dente, o una zanna, d’avorio puro sul lato sinistro della mascella superiore, puntato in avanti e leggermente incurvato verso il basso. Era proprio questo, insieme alle ossa di balena, che i mercanti vendevano al posto dell’alicorno e che i collezionisti custodivano come tesori. (O. Sheppard, op.cit., pp. 312-316)
Oriente
A testimonianza del fatto che la tradizione dell’unicorno si estendesse da oriente a occidente, troviamo molte fonti cinesi. Alcuni scrittori sostenevano che l’unicorno (il K’i-lin), avvistato per la prima volta nel 2697 a.C., non fosse originario del loro paese ma che venisse da molto più lontano. Secondo un’antica tradizione il nostro animale apparve alla madre di Confucio poco prima della nascita di quest’ultimo. Come i buddisti più perfetti, il K’i-lin «non mangia creature viventi, né animali, né vegetali…non calpesta mai nemmeno un insetto o un filo d’erba… E nell’aspetto fisico risplende dei cinque colori sacri, simbolo della perfezione […] distingue il bene dal male. A differenza dell’unicorno occidentale, il K’i-lin non ha mai valore commerciale e non si fanno medicine con alcuna parte del suo corpo: esso esiste per se stesso. […] Esso verrà in forma d’uomo incomparabile, svelatore di misteri, soprannaturale e divino, che porterà amore a tutta l’umanità.» (O. Shepard, op.cit., p.104)
Risultano così evidenti, nonostante alcune varianti, le stesse simbologie messianiche, capaci di accomunare oriente e occidente.
Gli unicorni nell’arte
Now I will believe that there are Unicorns, That inn Arabia there is one tree, the phoenix trone….
W. SHAKESPEARE La Tempesta, atto III
Nell’arte, soprattutto quella Rinascimentale, l’unicorno assume un ruolo di grande rilievo. Questa incredibile creatura fantastica, indipendentemente dalla sua controversa origine, costituirà un immaginario ben preciso, capace di giungere fino ai giorni nostri. I riferimenti sono davvero tantissimi, sia in letteratura che in pittura. Qui ne verranno citati solo alcuni, capaci di mostrare la lunga storia del suo mito.
Tra le prime rappresentazioni medievali, troviamo l’unicorno presente nel Bestiario di Rochester del XII sec. Tranne qualche rara eccezione infatti, fino al XII sec. gli unicorni raffigurati su capitelli, affreschi, vetrate e arredi sacri, corrispondono tutti ad allegorie cristologiche.
Verso la metà del Duecento l’unicorno inizia a essere raffigurato vicino a una giovane, a testimonianza della leggendaria cattura dell’animale, possibile solo per mezzo di una vergine capace di attirarlo e renderlo mansueto.
Arazzi Millefleur de La caccia all’Unicorno tessuti intono al 1480 per Francois de la Rochefoucauld. I pannelli originali erano sette e già dai loro titoli (I cacciatori entrano nel bosco; L’unicorno viene trovato; L’unicorno viene attaccato; L’unicorno si difende; L’unicorno viene ucciso e portato al castello; La mistica cattura dell’unicorno; L’unicorno in cattività) capiamo che l’ambientazione è quella tipica della caccia aristocratica medievale, anche se qui l’animale non è un cervo ma appunto l’unicorno. Quest’ultimo viene qui raffigurato come un cavallo bianco, che ricorda il candore, ma di dimensioni più piccole. Ricchi di dettagli naturalistici, vi sono tessute più di cento piante, la maggior parte delle quali identificabili. Nonostante compaiano anche le iniziali A.M. (Ave Maria) la scena è di impronta laica, tanto che l’interpretazione sarebbe duplice: potrebbe rispondere all’allegoria cristologica o rappresentare, come molti poemi d’amor cortese, il simbolo della fedeltà coniugale.
Arazzid’Aubusson La Dame à la Licorne (nel Musee de Cluny), resi noti dalla scrittrice George Sand che li vide presso il castello di Boussac nel XIX secolo. La scrittrice parlò brevemente degli arazzi nel romanzo Jeanne pubblicato nel 1844 e successivamente, in maniera più estesa, in un articolo pubblicato nel luglio 1847 sulla rivista «L’Illustration», con disegni realizzi dal figlio Maurice Sand.
Considerati gli arazzi più eleganti del Medioevo, hanno un fondo rosso e una lavorazione che segue un disegno gotico ricco di particolari. La serie di arazzi, la cui trama e dimensione è impressionante, è costituita da sei pannelli, cinque dedicati ai sensi (le goût; l’ouïe; la vue; l’odorat; la touché), mentre l’ultimo, A mon seul désir, più grande e di stile differente. Esso raffigura una dama, di fronte una tenda con la scritta Al mio unico desiderio, mentre ripone in un cofanetto una collana, con accanto un unicorno e un leone.
Il tema della Dama capace di ammansire l’unicorno, inizia a diffondersi nel Medioevo per confluire, iconograficamente, fino in età moderna. All’inizio infatti la giovane veniva identificata con la Vergine Madre del culto mariano, per poi identificare il valore della castità, fino a rappresentare il simbolo dell’amore e della fecondità. Dal mondo religioso, che si fonda sull’incarnazione del figlio di Dio nel grembo di una Vergine, si arriva quindi a quello di carattere prettamente erotico. A testimonianza di questa evoluzione del binomio Dama e Unicorno:
Santa Giustiniana del Moretto, dipinta verso il 1530, ora alla Galleria Belvedere di Vienna. La particolarità di questo dipinto risiede nel corno dell’animale che qui viene rappresentato di colore nero, così come era stato descritto da Plinio. Alla sinistra della Santa è seduto un unicorno dal manto chiaro, simbolo di purezza verginale, derivato dall’antichità ma molto usato nel Rinascimento.
Dama con Liocorno, opera di Raffaello Sanzio del 1505, anche qui il simbolo è quella della purezza verginale. L’animale è anche associato alla famiglia Farnese e al suo stemma araldico. Non si hanno notizie certe sulla committenza del dipinto che raffigura una giovane con lo sguardo fisso che tiene in grembo un piccolo unicorno.
Dama e Unicorno di Luca Longhi, nelle collezioni di Castel Sant’Angelo, realizzato intorno al 1540, raffigura una giovane seduta accanto a un unicorno che la guarda intensamente, il tutto in una ambientazione idilliaca. Si pensa che la fanciulla sia Giulia Farnese, sorella di papa Paolo III, la cui casata aveva come simbolo proprio l’unicorno.
Vergine e Unicorno del Domenichino, affrescata sopra la porta d’ingresso della Galleria di Palazzo Farnese a Roma tra il 1604 e il 1605, presenta la stessa ambientazione di Luca Longhi. Qui però la ragazza abbraccia l’unicorno, in un clima di estrema dolcezza.
Le suggestioni di questa creatura e dell’immaginifico che involve giungono fino a noi. Gustave Moreau, ispirato dal mito degli arazzi de La dama e l’unicorno, dipinge un’opera in cui alcune vergini allevano unicorni.
Per finire Remedios Varo ci regala un suo autoritratto con a fianco un unicorno, Self-portait with a unicorn 1947, rappresentando in tal modo il suo mondo magico-simbolico.
Anche Dalì e tutto il movimento surrealista fu affascinato dal mito dell’Unicorno, così come successe negli anni novanta all’artista newyorkese Will Cotton che, con la sua reinterpretazione, trascende la vera origine del mito e riporta l’unicorno in un nuovo immaginario pop.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
ANNA ANGELINI, Dal Leviatano al drago. Mostri marini e zoologia antica tra Grecia e Levante, Il Mulino, Bologna 2018.
ELIANIO, La natura degli animali, (a cura di) F. Maspero, BUR, Milano 1998.
LUIGINA MORINI (a cura di), Bestiari medievali, Einaudi, Torino 1996.
MARCO RESTELLI, Il ciclo dell’unicorno. Miti d’Oriente e d’Occidente, Marsilio, Venezia 1992.
ODELL SHEPARD, La leggenda dell’unicorno, Sansoni, Firenze 1930.
H.B.TRISTRAM, Natural History of the Bible, London 1867.
BASILIO VALENTINO, Il cocchio trionfale dell’antimonio, (a cura di) M. Gabriele, Mediterranee, Roma 1998.
La letteratura e il cinema di Pasolini sono attraversati dall’esaltazione mitica delle forme naturali, degli elementi primari della vita: aria, terra, acqua. La natura appare come una sorta di mistero religioso e carnale.
Nei versi friulani il corpo del poeta e dei suoi personaggi è immerso in un paesaggio fatto principalmente di cielo e di terra, di acque fluviali e piovane, di odore dell’erba, di luce che piove dal cielo, di aria che avvolge, di sole che illumina e arde, di colori e di fiori. È una sorta di Eden primitivo in cui la vita e la morte sono strettamente legate e ripetono il ciclo delle stagioni, il ritmo delle albe e dei tramonti. La natura è vista come una forma del mondo (La nuova gioventù, p. 182), che appartiene all’arcaico mondo contadino, caratterizzato da un eterno ritorno dell’identico, in cui i figli ripetono le sembianze dei padri e ciò che è morto rinasce costantemente, come il seme piantato nella terra. In questo universo, scrive Pasolini, il tempo non si muove (Ibidem), ovvero il tempo non è quello lineare della storia e del progresso, ma quello del ciclo naturale che si ripete all’infinito.
Il mito di Aprile
Ezio Vitale, P.P.Pasolini con il suo autoritratto col fiore in bocca del 1947, 1962.
Il paesaggio friulano rappresenta una sorta di Paradiso che già reca in sé i segni della perdita: ciò che appartiene alla vita è contemporaneamente proiettato nella morte e scivola verso il nulla, verso il mistero delle origini e della fine. Proprio questo continuo senso del nulla stimola quello che Franco Fortini (F. Fortini, Attraverso Pasolini, p. 155) ha definito il più floreale manierismo funerario di Pasolini: il Friuli è rappresentato come un giardino pieno di odori e di colori; il colore predominante è l’azzurro del cielo; il fiore prediletto la viola e il mese l’aprile, a cui è legata anche una delle sue poesie più belle, scritta molti anni dopo il periodo friulano e intitolata Il glicine (aprile 1960, compresa nella raccolta La religione del mio tempo). Pasolini affida a questo ‘rampicante’ il compito di rappresentare la forza e insieme la caducità della natura, la sensualità dell’esistenza, l’immersione del corpo nella natura e la frattura con il mondo della storia:
Tra il corpo e la storia c’è questa / musicalità che stona, / stupenda, in cui ciò ch’è finito / e ciò che comincia è uguale, e resta / tale nei secoli: dato dell’esistenza.
L’aprile è una figura del ritorno, della nascita connessa alla morte, che rimanda al culto dell’alba e della primavera. Straordinarie appaiono a mio giudizio le sintonie tra Il glicine e i primi famosissimi versi della Terra desolata (The Waste Land, 1922) di Thomas S. Eliot:
April is the cruellest month, breeding /Lilacs out of the dead land, mixing /Memory and desire, stirring /Dull roots with spring rain.
Il mito di aprile evoca una sensualità funerea della natura, in cui il pieno è legato al vuoto, la luce all’ombra. In La religione del mio tempo (1957-59) Pasolini scrive:
Non c’è più niente / oltre la natura – in cui del resto è effuso / solo il fascino della morte – niente / di questo mondo umano che io ami.
(P.P. Pasolini, Tutte le poesie, tomo I, p. 985).
In Edipo re (1967), a conclusione di un percorso che riproduce quello autobiografico di Pasolini, il protagonista, interpretato da Franco Citti, esclama: «La vita finisce dove comincia».
La natura friulana viene rappresentata come la scena originaria della vita che coincide con quella della morte. Esemplari in questo senso appaiono le prime e le ultime sequenze. Nel prologo il mondo è una sorta di emanazione del corpo della madre e consiste nell’unione primordiale di terra e di cielo esplorati dallo sguardo di Edipo bambino che compone una sorta di cantico del creato innalzandosi dal prato all’azzurro del cielo incorniciato dai pioppi e poi ridiscendendo dal cielo al verde dell’erba. Nell’epilogo, dove Edipo è ormai vecchio e accecato, si ripetono gli stessi movimenti degli occhi sulla medesima immobilità cangiante della natura. In Medea (1970) l’immagine sacrale, che simbolicamente accompagna il personaggio della protagonista interpretata da Maria Callas, è quella della terra infuocata dal sole che vediamo nei titoli di testa, nell’inquadratura finale e quando la tragica eroina rievoca la sua origine.
Natura e Storia
Il mito pasoliniano della natura contrapposta alla storia viene affidato alle parole del centauro Chirone il quale afferma che la natura è un’apparizione, che la scena naturale è abitata da un Dio, che la natura non è naturale ma è una visione, un’esperienza religiosa. La storia, il cammino del cosiddetto progresso, allontana l’uomo dalle sue origini, ma non può distruggerle del tutto. L’impronta sacra del mondo si conserva anche nelle forme sconsacrate della storia e della modernità e la natura può ancora configurarsi sia come il luogo dell’autenticità e della pienezza vitale sia, contemporaneamente, come il luogo del dolore e del mistero dell’esistenza.
Nell’incontro con la storia il giardino friulano delle prime poesie salta in aria senza mai scomparire del tutto. I romanzi e i film sulle borgate romane mostrano un paesaggio di rovine: le baracche, le case diroccate, i resti antichi del passato, i cumuli d’immondizia, gli stracci, il fango, la terra smossa e desertificata. Su questo spazio sconnesso di rifiuti, il sole e gli elementi naturali continuano a imprimere un timbro atemporale e astorico, simile a quello che ancora vibra nei corpi barbarici dei sottoproletari mitizzati da Pasolini. Nella scarpata ricoperta di spazzatura di Che cosa sono le nuvole? (1968) Totò, davanti alla visione del cielo, inneggia alla «straziante meravigliosa bellezza del creato». E non a caso alcuni brevi film come appunto Che cosa sono le nuvole? o La terra vista dalla luna (1967) recano fin dai titoli il richiamo agli elementi del cosmo. I meravigliosi titoli di testa cantati da Domenico Modugno in Uccellacci e uccellini (1966) hanno come sfondo una luna di giorno su cui si muove una nuvolaglia.
Le immagini astrali connotano tutta l’opera pasoliniana fino al progetto non realizzato di Porno-Teo-Kolossal in cui i personaggi inseguono, come i re magi, una cometa. In Poema per un verso di Shakespeare (compreso nella raccolta Poesia in forma di rosa, 1964) il poeta è rapito in cielo e dall’alto osserva la terra come uno spazio di scintillanti frantumi, di casuali rifiuti (Ivi, p. 1165).
Tra terra e cielo
Una delle forme simboliche che la scena naturale assume di frequente nei suoi film è quella della nudità, dell’unione di cielo e di terra senza più alcun ornamento, floreale o di altro tipo. Nel passaggio dai prati friulani, dal paesaggio acquoso e aereo del Nord alle borgate romane e poi agli aridi spazi africani e arabi dei film sul mito greco, lo spazio tende sempre più a desertificarsi, a ridursi alle sue entità primarie di cielo e di terra.
Una sorta di immagine desertica è già la visione che Accattone ha della propria morte, quando nel sogno chiede al becchino di scavargli la fossa al sole. Attraverso due panoramiche simmetriche, dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto, lo sguardo si apre su monti e vallate inondate di luce che – commenta Pasolini – sembrano dipinte da Corot e sono chiamate a evocare il paradiso della natura (Il paradiso di Accattone, «Vie Nuove», 1° luglio 1961).
Totò e Ninetto Davoli in Uccellacci e uccellini camminano dentro immagini del tutto spoglie, divise a metà tra cielo e terra, in un paesaggio stilizzato che Pasolini definisce ormai appartenente a una sorta di “dopostoria”, totalmente disarticolato e sconnesso. In questo spazio la modernità ha seminato le sue icone distruttive, il passato e il presente si contaminano in forme stridenti e il deserto diventa una figura dell’apocalisse causata da una industrializzazione selvaggia. Nell’episodio medievale di Uccellacci e uccellini, al contrario, l’essere umano è sprofondato nel paesaggio composto dalla natura e da antiche, sacre costruzioni del passato. Totò che parla francescanamente con gli uccelli appare addirittura come una figura arborea, totalmente fuso nel mondo vegetale e animale. In Teorema (1968) il personaggio della serva, legato all’antica cultura contadina, vive analogamente tra la terra e il cielo. Può innalzarsi in cielo come una santa o sprofondare nella terra come il seme che muore per risuscitare.
Nel film sul Vangelo (1964) e poi in quelli sul mito della tragedia classica (Edipo re, Medea, ma anche Porcile, 1969) il deserto si configura come un luogo della narrazione, in cui si radicano gli eventi e, insieme, come una sorta di spazio originario della vita.
Paradiso e deserto
Vittorio La Verde, P.P. Pasolininel giardino della casa di Monteverde Vecchio, Roma 23 Maggio 1962
Teorema (libro e film) offre la più conseguente teorizzazione e rappresentazione del deserto come spazio materiale e simbolico: investito da una trasfigurazione biblica, rimanda alla dimensione originaria dell’essere ormai smarrita nel mondo moderno, dominato dai consumi della società di massa. Le immagini desertiche qui solcano il film senza una motivazione narrativa, per indicare un’origine rimossa e una violenta contestazione del presente, dell’omologazione sociale contemporanea.
In Teorema (libro) si trova un approfondimento filosofico di questa icona. Il deserto è «la realtà di tutto spogliata fuori che della sua essenza». Non c’è niente «oltre a ciò che è necessario» (P.P. Pasolini, Romanzi e racconti, volume secondo 1962-1975, p. 1053): la terra, il cielo e, come avviene nel finale del film, il corpo nudo. È il luogo da cui si proviene e a cui si ritorna, che precede addirittura il prato friulano della nascita rappresentato in Edipo re. Pasolini elabora la teoria dei due Paradisi, entrambi perduti: il primo è rappresentato, appunto, dal deserto che è il luogo di una prima nascita, nel grembo di un padre androgino (donna e uomo insieme come nel mito raccontato da Aristofane nel Simposio di Platone); il secondo ha il colore verde del prato friulano, lo stesso odore delle primavere e delle primule, gli stessi fiumi. Rappresenta una seconda nascita, nel grembo di una madre e poi di un padre che Pasolini definisce adottivi. Il primo paradiso è il regno della comunione dei sensi, di una unicità primigenia governata dall’ambivalenza. Nel deserto non c’è inizio, fine, limite, distinzione o sviluppo. Esso, scrive Pasolini, «nasceva da se stesso, continuava in se stesso e finiva in se stesso» (Ivi, p. 961). Al di là del deserto non c’è altro che deserto: qui si sperimenta un tempo che non procede, che non si muove, uno spazio che non cambia pur mutando incessantemente. Il deserto è l’idea del tutto che coincide con il nulla, dell’origine che si unisce alla fine. La sua immobilità mutevole (per usare uno dei tipici ossimori pasoliniani) è suggerita nelle inquadrature di Teorema dal vento che alza la polvere e dalle nubi che si riflettono sulla terra. Nei versi che concludono Teorema (libro) Pasolini lo definisce un «luogo immaginato dalla mia povera cultura» (Ivi, p. 1055) dove risuonano domande senza risposta.
Il deserto è vibrante e misterioso come la vita, sta prima e dopo la storia. È il regno di una natura impenetrabile, che dà insieme la vita e la morte. È qualcosa di simile a ciò che Pasolini ha definito in alcuni suoi versi Inespresso Esistente o nulla lucente (Ivi, p. 1055).
Ebbro di erba e tenebre
Attraverso la rappresentazione della natura – di cui ho ricordato soltanto qualche squarcio all’interno della sua opera – Pasolini esprime così la sua filosofia dell’esistenza e, insieme, la sua concezione dell’arte: da una parte esalta il mito di una vita anteriore alla storia, inafferrabile nel suo mistero, in cui si realizza una sorta di indifferenziazione tra uomo e natura e i rituali fisici si presentano come rituali conoscitivi; dall’altra fonda il processo artistico e in specie quello dell’immagine cinematografica sul desiderio di ritrovare la scena naturale, di immergersi nella sensualità degli elementi, direi quasi di liquefarsi in quella che Maurice Merleau-Ponty ha definito la «carne del mondo». Dagli anni sessanta in poi Pasolini attribuisce al cinema la capacità di essere un linguaggio della presenza, che rende possibile una immersione fisica nella realtà. La letteratura, invece, gli appare come un’arte dell’assenza. Mentre la parola si limita a evocare la vita quando questa è ormai passata, l’immagine sembra mantenere il contatto con il mondo e con il suo fluire.
La passione che aveva assunto la forma di un grande amore per la letteratura e per la vita – dichiara nel ’69 – si era spogliata dell’amore per la letteratura diventando ciò che era davvero, ossia una passione per la vita, per la realtà, per la realtà fisica, sensuale, oggettuale, esistenziale attorno a me. Questo è il mio primo, unico grande amore e in un certo qual modo il cinema mi ha costretto a rivolgermi ad esso e a esprimerlo in forma esclusiva.
(O. Stack, Pasolini on Pasolini, Thames & Hudson, London-New York 1969; pubblicato in traduzione italiana con il titolo Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, Guanda, Parma 1992; poi in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, p. 1302).
All’isolamento del tavolino dello scrittore, il cinema contrappone l’ebbrezza sensuale del set, che assume quasi i caratteri di una droga, come afferma Pasolini in un’altra intervista del 1969 (Pietro Bianchi, Con il cinema non ho respiro e… l’ulcera è roba passata, «Il Giorno», 1° aprile 1969). Il rapporto fisico che lo lega al cinema è lo stesso che impronta la sua immersione nella realtà, nella natura, nei corpi. Già nel 1960, ricostruendo in poche righe la sua autobiografia, scrive:
Amo la vita così ferocemente, così disperatamente, che non me ne può venir bene: dico i dati fisici della vita, il sole, l’erba, la giovinezza: è un vizio molto più tremendo della cocaina, non mi costa nulla e ce n’è un’abbondanza sconfinata, senza limiti: e io divoro, divoro… come andrà a finire non lo so… (E. F. Acrocca, a cura di, Ritratti su misura, 1960, p. 321).
Concludendo la sua pièce teatrale Bestia da stile (1966-1974) offre il suo ennesimo autoritratto definendosi ebbro di erba e di tenebre, perennemente sospeso su quel ciglio dove la vita e la morte si incontrano nella tragica beatitudine che unisce l’esistenza e la creazione estetica.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:
ELIO FILIPPO ACROCCA (a cura di), Ritratti su misura, Sodalizio del Libro, Venezia 1960.
PIETRO BIANCHI, Con il cinema non ho respiro e… l’ulcera è roba passata, «Il Giorno», 1/04/1969.
FRANCO FORTINI Franco Fortini, Attraverso Pasolini, Einaudi, Torino 1993.
PIER PAOLO PASOLINI La nuova gioventù, Einaudi, Torino 1975.
Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2003.
Romanzi e racconti, volume secondo 1962-1975, Mondadori, Milano 1998.
Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999.
Poesia in forma di rosa, Garzanti, Milano1964.
OSVALD STACK Pasolini on Pasolini, Thames & Hudson, London-New York 1969
FIORI VIVI ringrazia
STEFANIA PARIGI, scrittrice, studiosa e profonda conoscitrice di cinema, prevalentemente italiano. Attualmente Professoressa ordinaria di cinema presso l’Università di Roma Tre, si è occupata di Moravia, Pasolini, Ferreri, Maselli, Zavattini, Rossellini e altri, curando e scrivendo testi di notevole rilievo. Tra i suoi ultimi lavori si segnalano: Cinema-Italy (Manchester University Press, 2009); Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra (Marsilio, 2014); la nuova edizione di Pier Paolo Pasolini. Accattone ( Lindau 2021)
La libreria Le Storie e in particolare Stefania Stefanini
A Ibla, l’antico centro storico e oggi il quartiere più antico di Ragusa, questa mattina di agosto sta per piovere, e tutto si è tinto di uno strano grigio. Sarà per questo che l’entrata nel Teatro Donnafugata di Ragusa, in cui si tiene dopo tre anni di assenza la mostra del maestro Biagio Schembari, è ancora più sorprendente.
In netto contrasto con l’atmosfera esterna, un’esplosione di luce inonda l’atrio. Sembra di essere entrati in una fornace, dove alcuni quadri presenti emanano calore e ipnotizzano.
Ad accoglierci ci sono il maestro Schembari e la sua splendida moglie Margherita, che da anni lo segue e lo sostiene.
Sembra un sogno poter parlare direttamente con il Maestro, perché un vero artista lo si riconosce subito per un motivo. Evoca autenticità. E Schembari non fa che dimostrarlo, attraverso il suo lavoro, la sua poetica, la sua idea di pittura e di arte.
Ci racconta della Accademia delle Belle Arti a Firenze che ha frequentato durante i moti del Sessantotto e della vivacità culturale di Roma negli anni Settanta, quando a parlare non era la teoria ma l’arte stessa.
Come un vero anfitrione ci conduce nelle sale interne del Teatro in cui sono sistemati i suoi quadri. Una serie di dipinti con il suo stile inconfondibile. Simili eppure tutti completamente differenti.
La mostra
La mostra è allestita in un luogo insolito ma che ben si adatta alle opere di Schembari, tutte di forte impatto scenico. Nel Teatro Donnafugata, costruito nella prima metà dell’Ottocento e che prende il nome da uno dei più significativi palazzi di Ragusa, alcune sale ben illuminate accolgono la mostra e permettono di ammirare le opere che, quest’anno, hanno tutte dimensioni notevoli.
È il Maestro stesso ad accompagnarci in questo viaggio, svelando pian piano le opere che compongono la sua personale di pittura.
Passiamo così, attraverso dei tendaggi simili a sipari, da una sala all’altra, ammirando figure femminili e maschili giganti, la cui origine affonda nel mito, e che a tratti si confondono con le stesse architetture dipinte. Non è un caso che il Maestro abbia studiato come scenografo, perché lo spazio della tela diventa per lui una quinta di un teatro, in cui la luce e il buio, la staticità e il movimento prospettico parlano una lingua misteriosa ma al contempo universale.
Le sale si illuminano al nostro passaggio, permettendoci di osservare una tela dopo l’altra, come fossimo trasportati fuori dal tempo. Eppure qualcosa di incredibile succede proprio nel momento in cui le luci si spengono. Se ci si sofferma a osservare il quadro in penombra accade una magia. Dal centro del dipinto sembra accendersi una luce, qualcosa capace di autoilluminare la storia che ogni dipinto cela.
«Alla fine ad impressionare davvero non sono le forme, ma i colori»,
ci confessa il Maestro Schembari, la cui tecnica pittorica innovativa, affinata negli anni, conferisce la qualità centrale del lavoro. Sarà per quella lucentezza dovuta alla cera che l’artista passa sulla tela, dopo aver dipinto il legno con l’acrilico, o sarà la capacità di ricreare giochi di ombre e luce, ma qualcosa si accende e brilla dal centro esatto del dipinto.
Aldo Cottonaro scrive a riguardo che «… in questa pittura spesso la luce giunge di traverso come una luce di tramonto, […]. Sulle immagini domina il silenzio, ma la pittura con un originale trattamento tecnico del colore crea volumi che contraddicono la propria staticità».
Grazie a questa emanazione di gialli, rosa, bianchi, che crea un colore unico e personalissimo, una mistura che sembra provenire dal manierismo, una porosità materica che dona profondità, le immagini riescono a suggestionare e a raccontare una storia.
«Ogni quadro deve contenere gli elementi essenziali di un momento storico, del tema centrale del quadro»,
ci dice Schembari. Partendo da alcuni segni infatti, come ad esempio scudi, tori, carri, si disvela un mondo fatto di giganti, di uomini e donne simbolo, di angeli e di animali. Come in una rappresentazione teatrale, vengono raffigurati miti ed eroi, in un connubio unico di classicismo e surrealismo.
Nell’immaginazione poetica di Schembari, che si traduce nella produzione di composizioni plastiche, tutto viaggia su un doppio binario, congiungendo e sovrapponendo il mito, la cui origine è ben piantata nelle radici della civiltà, al mondo contemporaneo; come dire che la dimensione arcaica, ancestrale e originaria sia in qualche modo correlata a quella del tessuto attuale.
Siano tutti figli di una storia che con un sottile filo ci tiene ancorati all’origine, al passato, ma che al contempo ci spinge in avanti, verso uno sfondamento, una rivoluzione che solo l’arte è in grado di decodificare e suggerire. Quando infatti chiediamo al Maestro cosa significhi per lui l’arte, non ha dubbi.
«L’arte, nel mio caso la pittura, deve rompere con gli schemi»,
ci risponde.
«Voglio che l’arte parli, che crei una rottura».
Ed è ciò che accade, perché basta osservare i suoi lavori perché qualcosa dentro di noi avvenga.
Le parole del Maestro
Vogliamo sapere di più da Schembari, il cui modo di parlare e raccontarsi disvela una poetica personale e ragionata.
La mia pittura ritorna ancora più impetuosa, incisiva, è ancora più forte la sperimentazione, la ricerca di nuove soluzioni.
Il mito, l’arte classica, impregnano le tele ed è un continuo riaffiorare di vecchie statue, giganti che un tempo erano idoli, adesso semplici reperti archeologici dei miei continui scavi, che compongo come vedute panoramiche di paesaggi e luoghi arcaici, dove un tempo l’uomo trovava riparo.
Antichi eroi, guerrieri e dei immortali, matriarche, simboli di guerre, cavalli immensi, tutto passa attraverso l’immaginazione, la sintesi della volontà, del bisogno instancabile di aprire uno squarcio (nell’arte) e creare una via nuova.
Il risultato è la forza scabra che emana la pittura e rende il mito protagonista del nostro tempo.
La matrice metafisica e surreale si fonde con la concezione etnica che è nel mio bagaglio culturale di autore. Si ha l’impressione di rivivere il momento eroico in cui il Kuros si muove dopo secoli di rigidità; il pennello, i colori gli danno vita, le cave di pietra di Cosimo diventano fonte inesauribile della materia di cui sono costituiti questi giganti.
Di figura in prosa
Scopriamo inoltre che il Maestro ha scritto dei libri, in linea con la sua idea di arte e di vita. Strade di pietra (Lampi di stampa, 2010) e Il giardino delle mele marce (Il Filo, Roma 2008), in cui prosa, versi e documenti di vita reale si alternano in una narrazione che parla di dolore e amore. Il testo è anche un atto di denuncia, ma al contempo una dichiarazione d’amore, per la Sicilia, sua terra madre, capace di riportare l’autore sempre a sé.
Dietro a te lasci un fiore e una carezza,
seguendo il tempo che ti accompagna. (p. 98)
Per concludere questo breve ritratto di artista, riportiamo un estratto di un brano che il Maestro stesso ha scritto, un augurio che fa a se stesso e, in fondo, anche a noi.
Che augurio mi posso fare, adesso che riesco a malapena a ridere del tempo che passa e del sole che tramonta sui ricordi del mio passato incensurato? Mi auguro che le mie urla, i miei colori, le mie forme, non disturbino la povera gente; mi farò coraggio per affrontare i pareri negativi, le ansie mattutine, le mie lettere che tornano indietro.
Ho perso anche le chiavi dell’ultimo cassetto, dell’ultimo mio sogno, sotto una montagna di tante altre cose.
Mi auguro di poter stare zitto e dipingere il mondo a modo mio, di poter leggere in silenzio e sbandare con le frasi, da sembrare ubriaco di solitudine, un albero senza ombra. (7/03/2015)
Fiori Vivi ringrazia
Il Maestro Biagio Schembari e sua moglie Margherita
«Signore del Cielo, se qualcuno in punto di morte ricorda questo divino Dharani, anche solo per un momento, la sua vita si allungherà e acquisirà la purificazione di corpo, parola e mente. Senza soffrire alcun dolore fisico e secondo le sue azioni meritorie, godrà ovunque della tranquillità. Ricevendo benedizioni da tutti i Tathagata, e costantemente sorvegliato dai deva e protetto dai Bodhisattva, sarà onorato e rispettato dalla gente, e tutti gli ostacoli malvagi saranno sradicati.»
(Versione tradotta del Maestro Buddhapala durante la dinastia Tang)
Nell’ottobre del 1966, in occasione dei lavori di restauro della Pagota Seokgatar (석가탑) Sŏkkat’ap in Corea del Sud, precisamente nella città di Gyeongju, nel tempio principale dell’Ordine Joyge del buddhismo coreano Bulguksa (불국사), venne alla luce un sorprendente ritrovamento, una antica trascrizione in cinese del Dharani Sutra.
Tale copia rappresenta la traduzione dal sanscrito (उष्णीषविजयधारणीसूत्र) del famoso Uṣṇīṣa Vijaya Dhāraṇī Sūtra, appartenente al periodo dell’espansione del buddismo mahayano in Corea e in Cina. Mentre il sutra originale però, per altro diffusissimo in alcune regioni dell’Estremo Oriente che avevano provveduto a tradurlo e distribuirlo, era inciso su tavolette di pietra, la traduzione ritrovata nella pagoda di Seokgatar è oggi considerata la xilografia più antica al mondo. Il Great Dharani Sutra, così viene infatti definito il ritrovamento, èdatabile intorno al 704 d.C. Composto da 12 fogli di carta, per un totale di 620 cm di lunghezza e 8 di altezza, colpisce per un ulteriore elemento. Da una accurata indagine al microscopio si è infatti scoperto che il Great Dharani Sutra fu realizzato servendosi di una particolare carta, ovvero la tradizionale carta coreana hanji.
La stampa del sutra, che prende in Corea il nome di Mugujŏnggwang Taedaranigyŏng (무구정광 대다라니경), ha quindi almeno 1250 anni e viene riconosciuta come il più antico materiale stampato al mondo, su una carta che lo ha conservato per più di mille anni.
L’inizio di una lunga storia
Davvero complesso risulta stabilire la data d’origine della carta.
Il suo etimo latino charta richiama il greco χαράσσω, col significato di incidere e imprimere, che forse a sua volta deriva dall’origine egizia del papiro, pianta utilizzata dagli Egizi per scrivere, confluito poi nelle derivanti anglosassoni (paper), francesi/tedesche (papier) e spagnole (papel).
Mentre la leggenda vuole che l’inventore della carta sia stato Ts’ai Lun, ufficiale imperiale della dinastia Han, intorno al 105 d.C., i ritrovamenti di differenti siti archeologici (pensiamo a quello di Fangmatan in provincia di Gansu, o a quelli di Dunhuang e Yumen) anticipano di molto la sua datazione.
In un passo dell’Hou Hanshu, l’opera di storiografia cinese ufficiale scritta da Fan Ye nel V secolo sulla base di documenti precedenti, che descrive il periodo della dinastia Han Orientale dal 25 al 220 d.C. leggiamo:
Nell’antichità le scritte e le iscrizioni erano generalmente realizzate su tavolette di bambù o su pezzi di seta[…]. Ma essendo la seta costosa e il bambù pesante, non erano convenienti da usare. Cai Lun ha quindi avviato l’idea di produrre carta dalla corteccia degli alberi, dalla canapa, dai vecchi stracci e dalle reti da pesca. Ha presentato il processo all’imperatore nel primo anno di Yuanxing [105] e ha ricevuto elogi per la sua abilità.Da quel momento, la carta è stata utilizzata ovunque ed è universalmente chiamata la carta di Lord Cai. (Hou Hanshu 78/68:2513-14)
Sempre nelle cronache della dinastia Han si narra, anche se tale teoria non pare essere supportata da prove concrete, che Ts’ai Lun si recava ogni giorno a meditare in uno stagno che di solito veniva usato dalle donne per lavare i vestiti e le stoffe. Un giorno notò che le fibrille, staccatesi dai panni sporchi per opera dello strofinio, si erano riunite in un angolo dello stagno come a formare un tessuto. Lui le raccolse e le fece essiccare. Alla fine si accorse che si era venuto a creare una sorta di foglio in cui si sarebbe potuto scrivere.
Al di là dei racconti, certo è che Ts’ai Lun abbia dato l’avvio a un tipo di carta differente, i cui fogli erano orditi non da fibre animali ma vegetali. Già nel 123 d.C. impiegava nel procedimento di produzione infatti stracci di vestiti, fibre del gelso da carta, erba cinese (Bohìehmeria), canna di bambù, materiali ancora oggi utilizzati, soprattutto da alcune popolazioni orientali. I materiali venivano lasciati immersi nell’acqua per parecchio tempo, fino a quando, ormai macerati, creavano una poltiglia che, scaldata al sole veniva piegata in sottili strati.
Il materiale adottato però da Ts’ai Lun, una volta messo a punto il procedimento di fabbricazione, fu la corteccia del gelso da carta (Brussonetia papyrifera). La parte fibrosa della corteccia veniva messa a macerare in acqua, risciacquata e successivamente battuta in mortai di pietra fino ad ottenere una pasta uniforme di fibre.
I cinesi custodirono il segreto della loro produzione di carta fin quando nel 610 d.C. i sacerdoti inviati in Cina dalla Corea ne appresero l’arte, finendo poi per eccellerne. Secondo alcuni studiosi l’introduzione della carta in Corea fu opera della Cina tra il II e il VII sec. All’inizio prodotta con scarti di canapa e rmaji (ramiè), già intorno al IV la Corea aveva sviluppato e perfezionato la tecnica per produrre la carta hanji.
Tale innovazione arrivò a sua volta anche in Giappone, grazie al monaco buddista coreano Damjing inviato da Goguryeo.
In primavera, marzo, diciannovesimo anno [dell’imperatrice Suiko], il re di Koma offrì [i] sacerdoti Doncho e Hojo come tributo [al Giappone]. Doncho conosceva i Cinque Classici. Produsse bene colori, carta e inchiostro, inoltre fece mulini ad acqua. (Nihon Shoki, vol. 22, 720 d.C.)
Ts’ai Lun con Donchō (sinistra) e Mochizuki Seibee
La carta giapponese, che prese il nome di Washi, era infatti prodotta utilizzando fibre vegetali del gelso da carta, nonché altre piante locali come la Diplomorpha sikokiana, la Edgeworthia papyrifera e l’Euonymus sieboldianus.
Dal suo luogo di origine la carta si diffuse in Medio Oriente e in Occidente. Le sue peculiarità infatti erano tali da poter sostituire ogni altra trama e la sua malleabilità permetteva un utilizzo ulteriore, non relegabile alla sola scrittura sacra.
La connessione tra carta e Buddhismo
La storia della connessione tra la carta e il buddhismo è lunghissima e si stabilisce fin dall’inizio. Durante il regno Goryeo, individuabile tra il 918 e 1392 e corrispondente al periodo di massimo splendore del buddhismo in Corea, si compivano lavori di copiatura e di stampa dei sutra e di altri testi sacri. Se è vero che da un lato proprio la stampa contribuì alla diffusione e al mantenimento della religione buddhista in Corea, è pur vero che la principale necessità fosse quella di preservare i sacri testi dalle continue invasioni, soprattutto mongole. I monaci buddhisti a tal fine perfezionarono le loro tecniche, producendo la più ricercata carta dell’Estremo Oriente che, per malleabilità e resistenza fuori dal comune era diventata un vero tesoro. Di questo periodo sono i Tripitaka Koreana, delle scritture buddhiste, derivate in gran parte dal Canone buddhista cinese, scolpite su tavolette di legno. Tale maestria nell’incisione non era un semplice esercizio, ma era al contrario considerato un modo per invocare l’aiuto di Buddha durante i periodi di guerra. Il valore dei Tripitaka era individuabile per l’estetica, la perfezione della trascrizione e per essere storicamente la collezione più ricca di trattati, leggi e canoni buddhisti. Nonostante poi siano state riprodotte, queste prime tavolette furono quasi completamente distrutte dall’invasione mongola in Corea nel 1232.
Nel 1234 la dinastia Goryeo incaricò il ministro Choe Yun-ui di stampare un altro testo buddhista, il rituale prescritto del passato e del presente (Sangjeong Gogeum Yemun). Lungo quasi cinquanta volumi avrebbe richiesto un numero troppo elevato di blocchi di legno. Il ministro civile così pensò di alterare il metodo utilizzato per coniare le monete di bronzo e di applicarlo alla carta. I caratteri venivano rivestiti di inchiostro e premuti su molti fogli di carta in successione. Nonostante il tentativo riuscì perfettamente, anche tale esemplare è andato distrutto e disperso.
Per cui, ad oggi, il più antico libro esistente stampato con caratteri mobili è l’Antologia degli insegnamenti Zen dei grandi sacerdoti buddhisti, il Baegun hwasang Chorok Buljo Jikji simche yojeol (백운화상초록불조직지심체요절), conosciuto semplicemente come Jikji.
In realtà i caratteri mobili erano già stati inventati in Cina durante la dinastia Song che però era solita utilizzare un materiale troppo fragile come la porcellana prima e il legno poi. Solo nell’epoca Goryeo si introdussero i caratteri in lega metallica.
Il Jikji perciò, essendo databile nel 1377, anticipa di molti anni Gutenberg e l’omonima Bibbia stampata intorno al 1452, oggi conservato nella biblioteca nazionale di Francia.
La carta coreana, con le sue principali caratteristiche di malleabilità e resistenza, comincia ad essere richiesta e utilizzata anche per usi differenti rispetto alla trascrizione di testi sacri.
Caduto infatti il regno Goryeo, la nuova burocrazia di impronta neo-confuciana richiedeva quantità maggiori di carta e un minore investimento in essa. La produzione della carta hanji comincia così ad essere sottratta all’esclusività dei monaci e lasciata a privati che ne realizzavano, necessariamente, una qualità inferiore con una minore accuratezza.
Nel periodo Joseon (1292-1919) poi l’uso della carta hanji si estende anche ad aspetti non legati alla scrittura. Essa comincia ad essere impiegata nella produzione di oggetti di uso quotidiano, come suppellettili e ventagli, fino ad essere utilizzata per le armature. Tale tendenza sembrava poi coadiuvata dall’ideale di austerità tipico di questo periodo che tendeva a rinunciare allo sfarzo. Pensiamo ad esempio a come alcuni materiali preziosi venivano sostituiti dalla carta. Esemplare al riguardo è l’abbandono dei fiori artificiali composti con cera e seta a favore di fiori di carta che finivano così per entrare all’interno dei riti e delle feste buddiste. Proprio per supplire alla continua richiesta di dak (ovvero della corteccia del gelso da cui veniva ricavata la carta hanji), accanto alla versione tradizionale della produzione di carta se ne affiancano altre, prodotte con corteccia di pino, paglia di riso e bambù.
Propri del periodo Joseon sono gli Uigwe. Genere di testi che descrivevano i rituali reali e le cerimonie della dinastia Joseon. Una sorta di protocolli reali lunghissimi, in cui le cerimonie pubbliche e gli affari della famiglia reale (matrimonio, funerali, successioni) si intrecciavano. Essi contenevano una descrizione dei fatti molto dettagliata che si serviva anche dell’ausilio di illustrazioni fatte a mano, estendendo in tal modo l’uso della carta hanji anche alla pittura.
Addirittura il governo creò un’agenzia amministrativa che commissionava armature impermeabili utilizzando proprio il materiale hanji, che si era sperimentato possedesse proprietà altamente isolanti. Proprio quest’ultima caratteristica fece estendere l’utilizzo di tale carta (nella versione oliata) all’architettura interna delle abitazioni tradizionali, riscontrando infatti in essa la capacità di controllare il calore e l’umidità. Venivano così ricoperte con carta le porte di legno, così da garantire il raffreddamento in estate e il mantenimento del calore in inverno.
Tutti questi fattori e la difficoltà dei monaci buddhisti di far fronte alla crescente richiesta, portarono alla industrializzazione della carta e al lento abbandono della hanji a favore di altri tipi di carta meno costosi e più facilmente reperibili. Anche il cambio delle unità abitative, sostituite pian piano da moderne abitazioni che eliminavano i tetti in paglia, le coperture e le rifiniture fatte in carta hanji, nonché l’economicità della carta cinese contribuirono ad estromettere l’hanji da quella quotidianità di cui, per anni, aveva fatto parte.
Non è un caso che l’attuale produzione delle bambole ricavate da carta hanji, considerata una vera e propria arte, raffigura personaggi tradizionali che si sarebbero potuti incontrare nei villaggi intenti a esercitazione abitudini familiari nelle tipiche case o giochi legati comunque all’antica tradizione.
(한지)Hanji
Per Hanji si intende la tipica carta coreana interamente prodotta a mano, secondo una procedura tradizionale che richiama il valore della lentezza e della ritualità. La particolarità è data dalla sua provenienza totalmente naturale, non chimica, che richiede la complicità della ciclicità della natura.
Essa si ottiene dalla corteccia interna della Broussonetia payrifera, (in coreano prende il nome di Dak) comunemente detto gelso di carta, albero originario dell’Asia appartenente alla famiglia delle Moraceae. Le fibre di cellulosa estratte dalla corteccia del gelso, i cui rami vengono tagliati a dicembre, sono infatti lunghe e capaci di impigliarsi le une alle altre.
A completare la procedura per creare tale carta viene utilizzata anche la mucillagine derivante dalla radici di un altro albero, ovvero l’Hibiscus manihot, ibisco del tramonto, aibika. Il materiale usato per l’incollatura non è chimico, ma è ottenuto dalla linfa (dak pul), una sostanza naturale ricavata dalla pianta omonima, che si dissolve in acqua, non influendo con la propria neutralità ma permettendo una conservazione della carta per secoli. Anche il colore successivo che può essere utilizzato per la carta è di origine naturale, il più delle volte ad esempio si usano petali di fiori.
Produrre la carta richiede grande precisione, un lavoro complesso appreso nel tempo suddiviso in diverse fasi che si susseguono secondo un ordine di ore e di giorni.
Il legame con la natura si riflette sulla sua lunga procedura, su una ciclicità sacra che non può essere compromessa. I tempi corretti sono essenziali alla riuscita del processo. Senza di essi il foglio non può prendere forma, senza di essi la carta non svilupperà quella lucentezza e resistenza al tempo. Alla base perciò rimane una sorta di ritualità ancestrale, una arte, una poiesis in comunione con una dimensione meditativa tipica delle filosofie e delle discipline di stampo orientale.
L’intero processo è basato su fasi, ritmi, passaggi in una correlazione tra azione e inazione.
E proprio l’azione simbolica è ciò che sorregge i riti e gli ordinamenti di una comunità, che ne descrive il suo valore identitario. La Corea, nello specifico, riconosce nella carta hanji un valore eccedente, una declinazione della propria cultura, della propria identità nazionale. In Oriente infatti, questa tecnica millenaria esprime un processo identitario la cui produzione investe nazioni, centri, addirittura villaggi.
Il recupero della tradizione
Avevamo già citato la carta artigianale giapponese Washi, realizzata con la corteccia interna dell’albero di gelso e l’ausilio della linfa dell’ibisco del tramonto.
Ma dalla fibra del gelso si ricava anche una altra tipologia di carta, il Tengujo, inventata a Gifu, la provincia giapponese che viene considerata il luogo di nascita della carta giapponese stessa. Già presente nel periodo Muromachi (1336-1573 d.c.) era molto più spessa della sua versione successiva di soli 0,3 mm. Sarà proprio la sua trasparenza e sottigliezza a renderla utilissima per gli interventi di recupero e di risanamento di altri testi.
L’acidificazione dei libri fatti di carta prodotta con la pasta di legno vanno necessariamente incontro a deterioramento, che dal semplice ingiallimento arriva fino alla possibilità di sbriciolarsi. Motivo per cui si utilizza la carta Tengujo per riparare le parti mancanti.
Al di là della sua indiscussa ricchezza, la carta hanji ha vissuto un periodo di declino. La lentezza di tale procedimento, la difficoltà spesso degli antichi artigiani di trovare loro successori rischia costantemente di far perdere una trazione millenaria. Ciò che inizialmente aveva permesso l’archiviazione di una sapienza antica, religiosa, sacrale, ciò che aveva contribuito a creare uno scambio culturale e un progresso dell’intera civiltà umana rischia di perdere il suo valore.
Eppure questa incredibile sapienza artigianale deve essere preservata. E meraviglia che le forme di tutela, sviluppo e mantenimento di una parte della nostra storia siano affidate esclusivamente ad artisti e calligrafi del sud della Corea.
Perciò nonostante commuova che sia poeticamente l’arte a recupere l’arte, una tale ricchezza dovrebbe essere tutelata anche in altre forme.
Una forte testimonianza in tal senso è stata la recente mostra dedicata alla carta hanji e al suo utilizzo artistico tenutasi presso il museo Carlo Bilotti di Roma.
Frutto della collaborazione tra l’Accademia di Belle Arti di Roma e l’Istituto Culturale Coreano, si è dato vita a un progetto espositivo il cui intento era quello di recuperare la dimensione artigianale, prettamente manuale degli artisti, chiamati a ricreare in laboratorio la carta secondo il procedimento tradizionale. Ne sono scaturiti disegni, dipinti, sculture, opere sonore, fotografiche e performative, in grado di mostrare il potenziale inalienabile di una tradizione millenaria.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
Lee Seung Chul, Hanji- Everything you need to know about traditionale Korean paper, Hyeonamsa, Corea 2012.
Jan C. Heestermann, Il mondo spezzato dal sacrificio, Adelphi 2007.
Fiori Vivi ringrazia Flavia Sorato per il reportage sulla Mostra Carta coreana – Hanji, Museo Carlo Bilotti Aranciera di Villa Borghese di Roma https://www.museocarlobilotti.it/it
Pur non così temerario da pensare di comprendere il nocciolo della creatività sono curioso di spiarla quanto più è possibile. (Paul Klee)
Secondo quanto sosteneva Arthur Schopenhauer,«Con un’opera d’arte bisogna avere il comportamento che si ha con un gran signore: mettervisi di fronte e aspettare che ci dica qualcosa». Immaginando una tale disposizione, le esposizioni si offrono come occasioni e luoghi grazie ai quali oggetti ed opere possono entrare in relazione con un pubblico, assumendo una loro particolare risonanza e mostrandosi alla società che, interpretandone forme e contenuti, crea il proprio bagaglio culturale.
La pratica espositiva è segnata da una sua propria evoluzione e ha un profondo valore sociale nel divulgare sia le espressioni artistiche e culturali del passato, tramandando la memoria di una data collettività, sia quelle del presente, diffondendo la conoscenza e la consapevolezza della contemporaneità, del mondo e del contesto in cui si vive.
«La società ha bisogno di fondarsi su un passato, nessuna civilizzazione umana può durare senza». Così lo storico dell’arte Jean-Michel Leniaud descrive l’importanza del ruolo svolto dal museo che, con la sua opera di tutela, conservazione ed esposizione, assolve ad una funzione fondamentale per la sopravvivenza del patrimonio culturale di una società.
Breve storia dell’evoluzione espositiva
All’inizio del Settecento le grandi collezioni reali ed aristocratiche d’arte erano private. Come può essere riscontrato nella letteratura artistica del tempo, però, si comincia a far strada una concezione diversa, aperta all’idea di un importante valore formativo delle opere: Diderot nella sua Enciclopédie afferma che i collezionisti privati di quadri devono consentire l’ingresso non solo agli artisti «ma a tutti quelli che vogliono realmente istruirsi, senza eccezione di condizione». A partire dalla metà del secolo in questione, sulla base di tali presupposti e grazie al diffondersi di donazioni, in diverse città europee cominciano ad essere aperte alcune collezioni e fondati musei (che mantengono però ancora una natura sostanzialmente privata). Un primo esempio di vera collezione pubblica si ha a Roma quando, nel 1734, Papa Clemente XII apre i Musei Capitolini al pubblico. Da qui in avanti la strada si costella di momenti incisivi per la storia museale, fino ad arrivare a fine del secolo, che vede l’apertura pubblica del Louvre ed il diffondersi delle Accademie in cui fioriscono le esposizioni d’arte. A fine Settecento infatti, soprattutto in conseguenza della Rivoluzione del 1789, si affaccia e sedimenta l’idea di un bene comune che deve essere condiviso, come fosse una conquista collettiva, e maggiormente accessibile, non solo quindi godibile da una ristrettissima cerchia: come afferma il pittore Jaques-Luis David, la base ideologica su cui deve ergersi il nuovo Musée de la Republique, il Louvre, è quella di proporsi come scuola «in cui i maestri condurranno gli allievi e il padre accompagnerà il figlio».
Il Salon parigino diviene, così, la prima mostra regolamentata di Belle Arti, ma è da subito un’istituzione fondata su un sistema di controllo delle opere tramite veri e propri organismi di valutazione, commissioni che ne giudicano valore e moralità, con lo scopo di salvaguardare la “grande pittura”, quella storica, di volta in volta proposta secondo gli stili in voga. Si comprende, quindi, come la cristallizzazione di un tale sistema conduca alcuni artisti all’esigenza di una coraggiosa rottura nei confronti di un apparato che s’impone e giudica, lasciando a margine tutto ciò che ‘non è regola’.
Nella seconda metà dell’Ottocento, il sistema entra inevitabilmente in crisi. Il XIX secolo è un’era complessa: industria, commercio, l’affermarsi della borghesia, tutto porta a nuovi assetti sociali e culturali. Nasce un mercato privato dell’arte e germina l’idea dell’opera-merce che, come prodotto, trova spazio in eventi quali le esposizioni universali, prima fra tutte quella di Londra del 1851, The Great Exhibition of Works of Industry of All Nations. Alla scuola e all’Accademia ormai si affiancano raggruppamenti artistici liberi, sostenuti da scrittori, letterati e critici militanti e da nuove realtà espositive, rappresentate da collezionisti e galleristi.
Si è ormai estremizzato il rapporto tra passato e nuove realtà, espressioni d’indipendenza culturale. Da una parte è questa l’età in cui si consolida l’immagine delle istituzioni, in cui l’arte ufficiale si decide a Parigi ed il museo diventa un simbolo roccaforte di un sapere artistico lontano dal sentire vivo della società che cambia, divenendo appunto un emblema di ciò che è visto e vissuto come antiquato, alla stregua di un deposito o di un cimitero. Ma d’altra parte, nel corso dei decenni si formano ed infine divampano critiche e sistemi alternativi, sulla scia dei cambiamenti sociali, economici, culturali e dei nuovi movimenti artistici che si oppongono all’autorità uniformante. Il cambio di rotta a metà secolo è segnato, appunto, da eventi seminali come il Pavillon du Realisme, organizzato da Gustave Courbet nel 1885, il Salon des Refuses, del 1863 (è qui che viene esposto il quadro di Manet, Le Dejeuner sur l’herbe), e le mostre impressioniste organizzate tra il 1874 e il 1886. La prima viene organizzata nello studio parigino del fotografo Nadar, al 35 di Boulevard des Capucines e, come evidenzia Argan, sono queste le occasioni in cui si configura una nuova modalità espositiva. La rottura è anche in questo, nel considerare lo spazio in modo diverso: così, se nel Salon le opere vengono giustapposte e poco valorizzate, il gruppo impressionista che espone in questi contesti ha un approccio critico all’allestimento, anzi si può dire che comincia a delinearsi una consapevole azione curatoriale.
La nuova condizione dell’arte, che fonda un sistema anche privo di imposizioni (per partecipare al Salon des Independants non ci sono criteri o limiti d’ammissione), apre sipari su nuovi palcoscenici, luoghi di risonanza per le tendenze più avanzate. «Non esistono più scuole, esistono soltanto dei gruppi che si frazionano continuamente. Tutte queste tendenze mi fanno pensare ai mobili disegni geometrici del caleidoscopio, che ora si riuniscono, ora si intersecano per separarsi e allontanarsi poco dopo, ma nondimeno girano tutti in una stessa sfera, quella dell’arte nuova». (Emile Verhaeren)
La svolta ormai avviata, infatti, giunge ad un punto di non ritorno con le Avanguardie, movimenti che assumono posizioni di netto contrasto con il passato e la sua relativa e incriminata immobilità, una collisione fortissima impersonata da Marinetti e dal suo inneggiare alla modernità, simboleggiata dall’automobile ruggente più bella della Vittoria di Samotracia.
Quello che si contesta è quindi l’immagine e il ruolo conservatore proprio del museo, non più capace di essere e contenere testimonianza della società, poiché mutando totalmente il modo di concepire l’opera d’arte, tutto si riforma: con il ready-made di Duchamp, con le serate e gli eventi futuristi e dadaisti si attua il passaggio fondamentale dall’oggetto al concetto, dalla materia al gesto.
Cambiano, quindi, di conseguenza anche le modalità espositive, dal momento che si trasforma sia il ruolo dell’artista, ormai agitatore sociale e curatore egli stesso, sia quello dello spettatore, coinvolto nell’azione artistica, e si acquisisce un nuovo senso dello spazio, non più vissuto e percepito in modo chiuso, ma aperto all’interazione del pubblico con le opere.
Gli sviluppi artistici di fine Ottocento avevano, dunque, assunto il ruolo di aprire la via a queste sperimentazioni che portando sconvolgimento sul piano creativo, hanno anche svolto la funzione di riformare il sistema curatoriale: il Futurismo ed il Dadaismo, con le loro peculiarità, hanno concorso in modo decisivo alla definizione di una nuova concezione di mostra, intesa come azione-partecipazione, introducendo anche forme nuove di comunicazione, come le operazioni commerciali volte a pubblicizzare l’evento. Tutto il senso dissacratorio si converte, perciò, in intervento diretto e diviene «[…] vitale soltanto quell’arte che trova i propri elementi nell’ambiente che la circonda». Partendo da questo presupposto la modalità di presentazione dell’arte non riguarda più gli aspetti comuni dell’allestimento, ma concerne l’ideazione e la messa in scena di un vero e proprio evento. In questo senso vanno viste le serate futuriste realizzate con lo scopo di essere «[…] un momento di fondamentale interazione con il pubblico che viene coinvolto in prima persona. A metà tra spettacolo teatrale, balletto, concerto, mostra e agitazione politica le serate segnano la definitiva fusione di ambiti artistici e culturali fino ad allora ben distinti».
La rivoluzione espositiva
Cos’è, dunque, che viene rivoluzionato in ambito espositivo? Come si è visto, prima di tutto, la relazione con lo spazio, il ruolo dell’artista, che diventa protagonista, e la posizione dello spettatore, non più distante dall’opera, ma da essa coinvolto; a questo, poi, si aggiunge la consapevolezza di un dato cruciale, ossia la comunicazione che, nella forma di pubblicità su giornali e volantini lanciati durante gli eventi, diventa un mezzo di presa sulla realtà con lo scopo di diffondere le idee e il nuovo stile di vita/arte.
Un simile modus operandi viene assunto anche dal movimento Dada. Il Cabaret Voltaire al n.1 della Spielgasse, a Zurigo, diviene il punto di ritrovo e la base operativa degli interventi dadaisti che si legano anch’essi al teatro e alla performance. Duchamp e Tzara, infatti, come Marinetti ed altri, hanno dato un contribuito fondamentale nello svincolare l’arte da sistemi di presentazione definiti, diventando loro stessi curatori, organizzatori e critici.
Vi è, però, un aspetto di Dada ancora più sovversivo rispetto agli altri movimenti, poiché secondo il loro manifesto l’arte stessa deve essere demolita, negata e con essa tutto ciò che le gravita intorno: diventa allora un’azione senza senso, sono sospesi giudizi, tutto si paralizza ed il mercato crolla dinanzi a una tale illogicità. Una conclusione estrema questa, complessa da figurarsi, tanto da domandarsi come possa essere stata messa in atto. Nel 1920, a Colonia, viene organizzata una mostra da Ernst, Arp e Baargdel:
L’esposizione di quadri, sculture, ed oggetti ebbe luogo nel cortile di un caffè centrale: per accedervi bisogna attraversare i gabinetti di decenza. All’ingresso una ragazza in costume da prima comunione recitava dei versi osceni. In mezzo al cortile di alzava un oggetto di legno di Ernst, con accanto una scure attaccata ad una catena: il pubblico era invitato ad impugnare la scure e a distruggere la scultura. In un angolo Baargdel aveva addirittura collocato un acquario, pieno di un liquido rosso come il sangue e tutto intorno erano appesi fotomontaggi di carattere sacrilego […]. I visitatori infuriati a varie riprese devastarono il locale e sfregiarono le opere, finché le autorità impedirono la mostra.
La centralità dello spazio espositivo
Se gli impressionisti avevano avuto il merito di svincolare il sistema dell’arte da quello delle istituzioni, le Avanguardie con il loro atteggiamento di rottura netta nei confronti della ‘regola’ hanno per di più creato nuove (anti)logiche e nuovi canoni.
Con il Surrealismo, poi, si affermano ulteriori modalità di presentazione legate al mondo dell’onirico, dell’inconscio e del caso. L’opera diventa un qualcosa in grado d’innescare un processo immaginativo e creativo nello spettatore e quindi anche lo spazio espositivo diventa il luogo in cui ricreare questa dimensione. Una mostra esemplificativa in tal senso è l’esposizione Art of this Century voluta da Peggy Guggenheim nella sua galleria omonima a New York, nel 1942. Vengono lì esposte opere di movimenti europei, in particolare della corrente surrealista e dell’astrattismo, con un allestimento decisamente sperimentale messo a punto dall’architetto Kiesler: per rompere il senso di fissità e la staticità, la sezione dell’arte surrealista è pensata come una struttura con pannelli curvi ed i quadri, privi di cornici, sono montati su bracci mobili che li tengono sospesi nella sala. Ne consegue che il quadro si trasforma quasi in un oggetto tridimensionale. Luci intermittenti, poi, rendono difficile, se non impossibile, qualsiasi continuità visiva, mettendo in discussione le abituali condizioni in cui l’identità del soggetto è definita. Allo stesso modo, la sala dedicata all’astrattismo presenta soluzioni particolari e inaspettate: le pareti blu e turchesi sono ricoperte con tendaggi di simile tonalità tanto da creare un ambiente equoreo immaginifico. Le opere, anche qui, non appese alle pareti ma, tese da corde, sono come mobili nello spazio, libere tra soffitto e pavimento.
È un ambiente disorientate, quello che si viene a creare, e l’atmosfera magica di opere a mezz’aria mostra più che mai la verità delle parole di Duchamp, secondo il quale sono gli spettatori a fare il quadro.
Il Novecento si apre con questo forte spirito di rinnovamento radicale, ma dopo aver assistito all’uscita dell’opera dall’idea classica di quadro e dai luoghi istituzionali, vi è un ritorno entro certe cornici dell’ufficialità. In modo nuovo si assiste alla creazione di un diverso sistema, quello delle gallerie e dei musei d’arte contemporanea, la cui nascita è causa e conseguenza dell’affermarsi di differenti poli culturali mondiali: nei decenni tra le due guerre mano a mano l’America guadagna spazio e toglie centralità all’Europa e New York, così, prende il posto di quella che un tempo era stata la città dell’arte, Parigi.
Questo celere sviluppo degli Stati Uniti è dovuto soprattutto a un sistema fondato su una connessione stretta tra artisti, musei, collezionisti, il tutto vitalizzato da un mercato dinamico. Si ricordi che è stata la stessa Peggy Guggenheim ad aver promosso e sostenuto fin dall’inizio un artista come Pollock, e la pittura dell’espressionismo astratto americano, tra le cui opere anche quelle di Rothko. Vi è, infatti, nell’America di quegli anni una forte attenzione nei confronti delle espressioni artistiche della contemporaneità che trovano casa presso le nuove forme dell’architettura del tempo: nel 1929 viene fondato il Museum of Modern Art di New York; l’anno successivo nasce il Whitney Museum, e poi tra il 1943 e il 1959 viene al mondo il capolavoro di Frank Lloyd Wright, il Guggenheim Museum.
Mentre modernità e contemporaneità corrono sui binari del Novecento, questo secolo assiste anche, però, all’ascesa di sistemi reazionari che creano apparati di controllo su cultura e arti visive. I decenni tra le due guerre sono quelli in cui prendono potere dittature, dedite a condurre campagne violente verso espressioni dell’arte moderna. Tale azione culmina in eventi specifici, come la Entartete Kunst, mostra di arte degenerata inaugurata a Monaco nel 1937, con l’intento di presentare al pubblico tedesco il disfacimento dell’arte, in rovina a causa di movimenti come l’espressionismo, il cubismo e l’astrattismo. Evento questo che, però, presenta un risvolto della medaglia indesiderato al regime: la mostra è stata così tanto visitata, da aver ottenuto l’effetto contrario, quello cioè di pubblicizzare la stessa avanguardia che si voleva sopprimere.
La seconda metà del Novecento si distingue, infine, per un fiorire di numerose manifestazioni, con l’avvicendarsi di esposizioni Biennali e Triennali: il passaggio al Ventunesimo secolo è infatti caratterizzato da un’arte ormai globale che propone una serie di contenitori espositivi che rivaleggiano con gli eventi più tradizionali ed insigni, come la Biennale di Venezia (la cui prima rassegna risale al 1895) e la Documenta di Kassel.
Negli ultimi decenni, alcune mostre hanno segnato un passaggio decisivo in senso artistico e curatoriale, in particolare gli anni Novanta del secolo passato hanno delineato un certo nuovo corso: nel 1992 la nona Documenta di Jan Hoet (grande figura di curatore, come Szeeeman, Fuchs, Celant) rappresenta un ponte tra l’arte contemporanea del Novecento e quella del Duemila, conducendo in un mondo dell’arte non più eurocentrico ed filoamericano, ma globale, appunto: un circuito ormai vastissimo che si estende dalla Corea, al Brasile, passando per il Sudafrica e arrivando a manifestazioni come le biennali di Mosca, Shangai, Taiwan, Santa Fe, Atene, Istabul.
Bibliografia di riferimento:
G. BORA, G.FIACCADORI, A. NEGRI A.NOVA, I luoghi dell’arte. Storie, opere, percorsi, Volumi 5 e 6, Mondadori, Milano 2003.
M. DE MICHELI, L’arte sotto le dittature, Feltrinelli, Milano 2000.
M. DE MICHELI, Le avanguardie artistiche del novecento, Feltrinelli, Milano 2005.
G. DI GIACOMO, C. ZAMBIANCHI (a cura di), Alle origini dell’opera di arte contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2010.
P. GUGGENHIEM, Una vita per l’arte, Skira, Milano 2008.
F. HASKELL, La nascita delle mostre, Skira, Milano 2008.
A. NEGRI, L’arte in mostra, Mondadori, Milano 2011.
F. POLI, M. CORGNATI, G. BERTOLINO, E. DEL DRAGO, F. BERNARDELLI, F. BONAMI, Contemporanea. Arte dal 1950 ad oggi, Mondadori, Milano 2008.
D. SCUDERO, Manuale del curator. Teoria e pratica della cura critica, Gangemi, Roma 2006.
Dialogando con il professor Marco Maria Gazzano, tra i massimi esperti di arti elettroniche e teorie dell’intermedialità, mi rendo subito conto di come tutto il suo lavoro sia incentrato sul valore della ricerca. Acuto osservatore del mondo e delle sue dinamiche nascoste, Gazzano mira a estendere e approfondire le sue conoscenze delle arti in modo sistematico, secondo un metodo che, nella sua accezione etimologica, crea una connessione tra un μετα- l’andare in direzione di, in cerca di, e un ὁδός, un cammino, una via.
Non meraviglia quindi che il suo testo Kinema, il cui titolo è già un manifesto, si componga di una serie di saggi, atti di convegni, scritti d’artista, inediti che testimoniano il lungo percorso necessario per giungere alla reale comprensione di un ambito tanto complesso ed eterogeneo come quello del cinema.
MMG «Il tema trattato in Kinema è molto ampio, è la definizione del concetto e della parola ‘cinema’ che è cambiata nei due, tre secoli che ne coprono la storia. Ma soprattutto è cambiata potentemente in funzione delle tecnologie che fanno il cinema, perché le tecnologie sono gli elementi che modificano i linguaggi, con cui si costruiscono le forme, i racconti, le immagini, i raccordi con le altre arti, con le performance con la musica, con l’arte contemporanea, col corpo, col corpo virtuale. Cambiano i linguaggi e non cambiano mai completamente, perché molto del passato rimane nel presente, cambia di forma, cambia di posizione all’interno dell’opera ma rimane. È sempre una transizione verso qualcosa che non sappiamo ancora, ma è comunque un passaggio che tiene conto di tutto ciò che c’è stato prima. Nonostante tutti i cambiamenti tecnologici l’immagine fotografica, il fotogramma, non perde mai di senso. Anche in digitale ci sarà sempre un campo medio, un campo lungo, un dettaglio, un particolare. Fatti costruiti in maniera diversa e allo stesso tempo persistenti.
Questa ricerca sulla definizione di cinema riguarda i linguaggi, le forme, le modalità interpretative, i significati. L’arte non cambia i contenuti, forse perché l’umanità stessa in fondo non è mai cresciuta. Motivo per cui i classici greci del V, VI sec a.C. sono così attuali.
L’arte è interessante perché cambia le forme con cui esprime i contenuti. Ciò che rende affascinate l’arte, che la vivifica, è che ogni cambiamento linguistico, espressivo, cambia il modo di rappresentare e formalizzare quei temi che possiamo definire eterni come la guerra, l’amore, la pace, il sesso, il corpo, lo specchio, il virtuale, il rapporto con la natura.
Eppure non sembra un concetto così chiaro, poco compreso in primis dalla politica così come da chi ha distinto arti e scienze. Manca la capacità di concepire l’arte oltre l’abbellimento. In realtà tutto ciò è lontanissimo dal vero significato di arte che abbiamo riscoperto anche grazie ai grandi pensatori del Novecento come ad esempio Heidegger e Nietzsche. Arte è di per sé una parola che parla del rapporto tra arte e tecnica e che usa quest’ultima non in senso tecnico ma in senso espressivo, come κινέω, come capacità del fare. A ricordarcelo è la stessa radice greca di τέχνη che non pone distanza epistemologica tra arte e tecnica nel loro senso più ampio. Il vero artista si è sempre occupato delle tecniche (dalla creazione dei pennelli, alla rielaborazione del colore rosso di Rembrant che studia Pompei, alla chimica appunto, forse più creativa dell’algoritmo di oggi dal punto di vista del rapporto con l’uomo), di quegli strumenti cioè con cui creare le forme e inventarne di nuove. Tutto questo non è un mero gioco edonistico ma un modo per sviluppare l’interpretazione della realtà nella sua infinita e inconoscibile complessità.
Il cinema è interessante perché è l’ultima di questa evoluzioni, non è cioè frutto di una singola evoluzione tecnica, ma di mille di esse che si sono intrecciate, dalla fotografia di inizio Ottocento passando per il digitale (in realtà per ciò che oggi conosciamo, esistendo un mondo legato al digitale che ancora dobbiamo scoprire). L’arte cinematografica va quindi interpretata non come un punto di arrivo ma di passaggio, che ha obbligatoriamente necessità di tener conto del passato e di trovargli, per riconoscerlo, una forma, un luogo, come parte del presente. Se invece ci fossilizziamo esclusivamente sulla dimensione del presente rischiamo di non comprendere la realtà nella sua interezza.
Questa era la suggestione iniziale da cui tutto è partito. Se fin da giovane mi ero reso conto della complessità del cinema, solo successivamente ne ho scoperto la diversità dei modi e delle forme. Non a caso infatti Ėjzenštejn ha chiamato il cinema la sintesi delle arti.
Tutta la mia ricerca è quindi una interrogazione sul concetto di cinema, dall’impianto dei miei studi nei primi anni Settanta all’intreccio con le nuove teorie della comunicazione di massa (mi riferisco per esempio a mcLuhan) e la filosofia. Alcuni pensatori hanno infatti capito l’importanza del problema e hanno suggerito delle strade. I miei pensatori di riferimento sono anche politicamene differenti tra di loro, da Heidegger (penso ai saggi sulla tecnica e la televisione), ad Adorno che odiava il cinema ma che nelle cui pieghe del pensiero nasconde una sapienza cinematografica che non è ancora nota oggi, a Nietzsche, che si interessava di mitologia, passando per Pasolini e Carmelo Bene. Personaggi che nella loro follia aprono squarci di verità,
perché l’arte è proprio questo, cercare di stracciare i molti veli dell’apparenza, gli stereotipi, i luoghi comuni, le banalità, per provare ad acquisire punti di vista diversi.
Mi viene in mente un passaggio di Joyce,
«[…] per epifania …intendeva una improvvisa manifestazione spirituale, o nella volgarità del discorso o in un gesto o in un giro di pensieri, degno di essere ricordato. Epifanie…attimi assai delicati e evanescenti. L’anima dell’oggetto comune ci appare radiante. L’oggetto raggiunge l’epifania» (J. Joyce, Stephen Hero, Gente di Dublino).
Il cinema, tutta l’arte, ci avvicina a questa capacità epifanica, a questa struttura conoscitiva che scopre dietro una apparente realtà una realtà più profonda e anche discordante. La tecnica cinematografica ci dà degli strumenti molto più potenti che naturalmente l’industria cinematografica e i politici hanno ridotto a un minimo comun denominatore, allo specchio di ciò che vediamo senza elaborazione concettuale.
Invece ogni immagine è una interpretazione della realtà, un fraintendimento, uno spostamento.
Ogni fotografia lo è. Poi se alla capacità ottica si aggiunge la capacità del numerico si moltiplica la relazione tra immagine e arte. Banalmente considerati effetti speciali, sono dei falsi, fatti a volte per ingannare i sensi e far vendere semplicemente un prodotto, altre volte sono ciò che quel prodotto nega di essere, una vera magia che ‘potrebbe’ far capire di cosa si sta parlando…
La mia ricerca, continua, è arrivare a capire di cosa stiamo parlando.
Avevo sempre avvertito l’insoddisfazione degli artisti, penso ad Antonioni, Ėjzenštejn, Lizzani, sul modo in cui i giornalisti e i professori raccontano il cinema, così come l’insoddisfazione nei confronti della realtà che cerchiamo di cambiare politicamente, ma che intanto cambiamo formalmente, insoddisfazione per lo stato di analfabetismo audio visivo in cui versa il popolo, preso in giro continuamente. L’ignoranza alfabetica nel Novecento si fa specifica, è audiovisiva. La gente usa la fotografia senza conoscerla, non capendo che anche una singola angolatura è in grado di cambiare l’intero significato di quell’immagine. Non sapendolo sono in balia di ogni forma di interpretazione falsificante della realtà. Non conoscere la musica può far credere che il suono sia solo un accompagnamento di un film o che se l’attore parla sia un guitto sul palcoscenico, quando invece la voce è parte della musica, del suono ed è in grado di creare con l’immagine combinazioni a volte banali, a volte meravigliose. Tutto ciò è analfabetismo cinematografico, fotografico, audiovisivo e oggi digitale, su cui da anni mi batto. Sembrano passare gli anni ma non la mentalità dominante se penso alla battuta, per altro attualissima, che fece Togliatti una volta che si era recato a Siena a una mostra d’arte concettuale più astratta del solito. Al piano di sopra c’era una mostra del Cinquecento dei Medici, così va dai pittori dell’astrattismo suoi amici comunisti e dice loro “Sì, sì siete bravi, però vi piacerebbe dipingere come quelli del Cinquecento”.
La tecnica di pittura di questi pittori astratti era buona come quella del Pinturicchio, ma usavano forme diverse, forse più adatte alla terza guerra mondiale imminente in quegli anni. Picasso sapeva dipingere, ma non voleva farlo in quel modo. Lo stesso vale, oggi, per gli artisti di videoarte. Non è che non siano capaci di fare un cinema narrativo alla Visconti, ma non vogliono più farlo, lo ha già fatto Visconti. Vogliono provare ad andare avanti con il linguaggio. Non sono meno bravi, sono bravi quanto, a volte di più.
La ricerca della conoscenza passa anche attraverso la ricerca delle definizioni. Così quando nel 1989 cercavo un nome per la mia associazione culturale, che già lavorava da 10 anni con artisti e organizzava mostre e convegni, ho scelto Kinema.
Ho così scoperto, grazie anche a una mia amica filologa classica, che cinema non vuol dire scrittura per movimento ma è un participio passato del verbo κινέω, che vuol dire movimento avvenuto. Che è esattamente ciò che accade nel cinema che si sostanzia in un movimento ma già avvenuto, già fissato nell’immagine. (Discorso che vale anche con il digitale perché in realtà la simultaneità della ripresa di un evento crea comunque uno scarto tecnologico, e quindi anche lì è κίνημα).
Questa parola greca, non un sostantivo ma un participio, aiuta a capire che stiamo ragionando sempre con l’illusione della presenza ma che in realtà lavoriamo su qualche cosa che già c’è stato e che, attraverso la memoria e la tecnica, elaboriamo. Produciamo una rielaborazione di ciò che è accaduto e lo chiamiamo cinema. Non è un caso che gli americani la traducano con movie picture, cancellando completamente l’atto della scrittura, ovvero del mezzo attraverso cui poter elaborare il pensiero. Si apre un problema di identità culturale europea».
Il professor Gazzano, proprio per illustrarmi il senso di questa rielaborazione, mi cita un caso, quello legato ai primordi del cinematografo. Scopro così non solo di dover retrodatare la nascita del cinema al 1892, anno in cui Leon Bouly inventò questa parola meravigliosa che i potenti fratelli Lumiere fecero invece loro. Ma anche che quello dei Lumiere può essere considerato il primo film sul lavoro, incentrato su alcune donne che escono dalla fabbrica (e quindi anche il primo film di genere). Eppure ciò che più mi meraviglia è il fatto che il professore lo rielabori attivamente. Mi cita infatti una intuizione di Peppino Ortoleva, professore a Torino di cinema ma anche di antropologia culturale secondo il quale questo stesso film potrebbe essere considerato il primo spot pubblicitario sulla officina Lumiere. In realtà tutte quelle donne che escono dalla fabbrica, non le vediamo lavorare, mostrano la potenza dei fratelli Lumiere che, così facendo, pubblicizzano il loro Cinema Lumiere.
MMG «Quanto appena descritto è un esempio di come sia possibile interpretare cose archeologiche non in maniera archeologica, ma intrecciandole con ciò che sappiamo della comunicazione oggi, dei nuovi prodotti audio visivi e degli spot pubblicitari. Propone nuove chiavi di lettura come le identità di genere. Mostra la possibilità di cambiare il punto di vista di un oggetto che continua a essere vivo, ma che non può essere bloccato nella archeologia del cinema dicendo solo che è il primo film sugli operai. È diverso. È una operazione trasversale di interpretazione. E tutto questo lo si deve a quegli studiosi, a quegli intellettuali che non si fermano ai confini della propria disciplina ma provano a muoversi tra filosofia, storia, etimologia. Ed è proprio muovendosi in direzione transcuturale, transreligiosa che si acquisiscono punti di vista nuovi, che si lotta contro la semplificazione».
Questa intensione di mettere in correlazione più ambiti è ciò che ho ritrovato anche in un altro bellissimo testo, La lotta e l’utopia in cui lei afferma: […] tante correnti – un insieme di voci più che un movimento – trasversali a tutte le arti, sempre meno sperimentali, e sempre più coscienti di sé e avviate alla conquista degli spazi istituzionali, che inaugurano pratiche diffuse di spostamento semantico, di critica alle ideologie dominanti, di nuove attorialità, di riposizionamento dei materiali espressivi, di spiazzamento del crocianesimo dominante a destra come a sinistra. Pratiche di dis-locazione dei linguaggi e delle modalità conoscitive: e di ri-locazione in inedite relazioni espressive. (M.M. Gazzano, La lotta e l’utopia, pp.159-160)
Ciò che più affascina di questo suo pensiero è che tutti gli elementi di cui parla vengono proposti in una visione sincretica.
MMG «Durante il mio percorso, lavorando con Aristarco, dialogando con Visconti, Antonioni e conoscendo i miei amici musicisti o artisti come Paik, Vasulka ho capito che le arti non possono essere chiuse in settori troppo rigidi. Tutti loro, da Zavattini a Paik, erano persone transculturali e transdisciplinari, a prescindere dalle categorie in cui oggi li separiamo per spiegare e catalogare l’inspiegabile, ovvero la scenografia, l’arte, il cinema, la poesia. Non ho mai sentito un pittore, penso a Lucio Fontana che ho conosciuto, che parlasse di pittura. Parlava di musica, di televisione, di politica…la sua pittura quindi, ovvero la forma che aveva prescelto, era un modo per far entrare il suo pensiero. Ciò che mi sono sempre chiesto fin da piccolo è stato “Perché Fontana fa dei tagli sulle tele?” Perché in quel taglio c’era tutta questa complessità che non era detta apparentemente. Il suono musicale, concettuale, del musicista sembra solo una nota, ma dentro c’è un mondo che io, come spettatore prima e come critico poi, ho sempre cercato di comprendere. Questa è stata la mia impostazione fin dall’inizio, cercare di vedere oltre il dato visibile.
Nascono così le mie lezioni, solo apparentemente eclettiche, che hanno un centro preciso: realizzare un punto di vista che metta in relazione gli spostamenti tra le tecniche, tra i concetti, tra le ideologie. Non mi sono mai fermato solo al cinema o alla televisione, anche se mi piacevano molto, ma mi sono occupato criticamente di teatro, di musica, di pittura e ho tentato di annodarne i fili.
Prima insegnavo le materie classiche, come storia e critica del cinema, e per farlo avevo comunque la stessa impostazione, partivo dalla fotografia, che fa parte della storia del cinema, per arrivare fino alla videoarte. Punto di vista non molto condiviso, non lo era negli anni ottanta, non lo è oggi. Alcuni grandi professori di cinema mi dicevano di non insegnare cinema ma televisione; in realtà cambia il linguaggio e il modo di rappresentazione ma, nella mia logica della cinematografia, è comunque immagine in movimento. Per alcuni invece era solo televisione per cui dovevano occuparsene i sociologi dei media. C’era questa separazione disciplinare molto fondamentalista.
Quando nel 2004 ho scelto il titolo della materia da insegnare ho optato qualcosa di ampio, Cinema (Kinema, nel senso più ampio), arti elettroniche (perché sono arti al plurale, che hanno una base elettronica) e intermediali (perché il mio punto di arrivo teorico è che questi intrecci non creino solo multimedialità o cose che servono all’industria ma devono creare dei salti di sensi ulteriori, ovvero le estensioni dei linguaggi che certe tecniche producono).
All’inizio delle lezioni racconto che questo corso presenta un punto di vista diverso da come viene di solito raccontato il cinema sui libri di testo, perché mescola i tempi, le arti, le parole. Il tentativo è quello di consegnare differenti chiavi di lettura. Dopo il 2000 abbiamo avuto una regressione politica, etica, in realtà incredibile anche solo per la mente del ’68, siamo tornati anche al fondamentalismo disciplinare. Una regressione disciplinare che tende a rinchiudersi nel già conosciuto, senza più interrogarsi sul futuro.
Abbiamo delle eccezioni come Cassese, Zagrebelsky che ogni tanto si interrogano con uno sguardo più ampio, ma gli altri lavorano su codici che già possiedono, senza pensare di creare altro. Così anche gli studiosi di cinema sono ritornati sui loro passi magari aggiungendo l’elettronica al discorso cinematografico, perché non potevano farne a meno, ma senza porla in relazione con il resto. Ecco perché il mio corso risulta inusuale, come l’idea di cambiare lo stato delle cose esistenti (prima, 50 anni fa era un tema, seppur in alcuni casi declinato in maniera opportunistica o giovanilistica, ma era un tema non una bizzarria). Ora i giovani se vogliono produrre qualcosa di veramente artistico saranno costretti a interrogarsi e a reinventarsi il mondo».
Lei professore parla infatti del ruolo dell’artista, di responsabilità, di interpretazione dell’esistente, tematiche che difficilmente trovo così esplicitate nei testi di altri autori. Quindi chiedo proprio a lei se sia ancora possibile oggi, in cui l’attitudine al dissenso e alla critica viene meno, parlare di arte e cinema politico.
MMG «Sono cresciuto col dissenso, con Oppenheimer che criticava in televisione il progetto Manhattan e la bomba nucleare che lui stesso aveva contribuito a creare. Ma oggi manca qualcosa. Mi chiedo come sia stato possibile passare da quella foto iconica delle olimpiadi del’68 in cui i due atleti statunitensi alzarono il pugno guantato di nero (simbolo dei black Panthers) per sostenere i diritti civili contro le discriminazioni razziali al caso di Floyd, ucciso dalla polizia, con un tiepido sostegno da parte dei calciatori.
Anche se gli artisti sono sempre stati politicamente impegnati, io mi appassiono a quelli che lo dichiarano, magari non facendo politica direttamente, ma nei loro testi. Leopardi ad esempio ha fatto più politica con la Ginestra, ha dichiarato più cose sul socialismo e sull’utopia in quella poesia che tutti quelli che erano vicini a Mazzini in quegli anni. Pensiamo a Manzoni, Dante autori particolarmente impegnati.
Il problema del cinema politico, mi riferisco al libro, è che ci siamo ritrovati in pochi, il filosofo Pietro Montani che insegnava estetica alla sapienza, Giovanni Spagnoletti, un professore di cinema dell’Università di Tor vergata figlio di un poeta e studioso di cinema e letteratura tedesca, ed io a chiederci nel centenario della rivoluzione di ottobre (2017), se sia ancora possibile parlare di cinema politico. Cosa è il cinema politico? È cinema che fa propaganda politica? No, tutti noi pensavamo che non fosse così. Per questo è iniziato questo progetto che dal 2017 ha visto la luce nel 2021, anno in cui ricorre il centenario del partito comunista e i 50 anni del ‘Manifesto’».
Il bello di questo progetto è che non ci leggo alcun compiacimento nostalgico.
Esattamente, anche se abbiamo consapevolezza di essere potentemente sconfitti, magari amati, ma sconfitti dalla realtà e dalla chiusura che troviamo di fronte a noi.
In un altro suo testo, Comporre audiovisioni, si legge
L’educazione pluriculturale oggi è il primo luogo di educazione alla percezione della complessità, contro le semplificazione, gli slogan indotti dalla situazione politica, come dallo stesso sistema dei media, dalla pubblicità come dalla maggior parte del cosiddetto mondo della cultura.
L’artista deve e può saper scegliere tali linguaggi di volta in volta, di opera in opera, intrecciandoli e facendoli interagire tra loro per creare opere non soltanto tecnologicamente avanzate ma che ci aiutino a cogliere il senso profondo e stratificato dell’esistenza, oggi. (M.M. Gazzano, Comporre Audio Visioni, p. 143).
Un’affermazione suggestiva, capace di esemplificare una questione centrale, la relazione tra educazione, complessità e responsabilità.
MMG «Il tema principale è la complessità, spesso considerata indigeribile o, come direbbe Francesco Merlo giornalista di Repubblica, da radical chic. (Ed io sarò radical ma neanche troppo chic!).
Ma di enorme importanza è anche la responsabilità. Parlo non solo della responsabilità politica dell’artista ma del pubblico. Questo tipo di opere così intrecciate, a volte intermediali, mette naturalmente, anche se non è così intuitivo, il pubblico di fronte a qualcosa che stupisce, che dovrebbe far capire che ciò che stai vedendo non è ciò che pensi di vedere. Ci si dovrebbe sentire curiosamente impegnati nella comprensione. L’affermazione che tanti linguaggi insieme non fanno una somma ma una sintesi ha senso se si capisce davvero dove sia e cosa sia e a cosa serva tale sintesi.
Da preservare è proprio la complessità unita al senso di responsabilità del pubblico che invece il mondo della politica e dei media cerca invece di arginare deresponsabilizzando. Mi riferisco ai moniti di non andare a votare, di farlo on line, di mettere il like (come si fa a mettere mi piace o non mi piace a una proposta politica). Tutto ciò non è solo drammatico, ma è la fine dell’elaborazione. La mancanza di senso di responsabilità del pubblico è gravissima. Già negli anni’80 sostenevo a Strasburgo che queste nuove forme artistiche (che sono cinematografiche, audiovisive) presuppongono un punto di vista più responsabile degli artisti che devono conoscere le tecniche e capire le loro differenze (in realtà gli artisti, i poeti pensano ogni gesto che fanno…altrimenti non sono artisti e non possono farlo)».
Lei è ideatore anche del progetto La torre della pace: strategie dell’arte contro la strategia della violenza. E anche in questo caso è riuscito a sorprendermi perché se risulta intuitivo il ruolo del cinema o dell’arte nella preservazione della memoria, nella lotta contro l’oblio, lo stesso non può dirsi per quel suo potere strategico contro la violenza.
MMG «In realtà il progetto a cui lei si riferisce può essere considerata la prima opera di videomapping. Oggi ne parlano in molti come della proiezione di immagini su un palazzo o su una discoteca, ma in tutto ciò non c’è nulla di artistico. Nel senso che artistico per me è la rielaborazione dei linguaggi in funzione di un significato. Proiettare suoni e luci, ad esempio, su un palazzo barocco a Roma pone in relazione l’architettura barocca, che è un tipo di arte, con il cinema. Non si può pensare che sia uno schermo e che sia neutrale. Chi usa indifferentemente i palazzi della Garbatella come quelli del centro sbaglia, perché fare una videoproiezione su Garbatella ha un senso ma la stessa proiezione su un altro palazzo ha un altro senso. È multimedialità, che può diventare anche intermedialità.
La torre della pace era nata da un’idea di Veltroni, che conosco da tantissimi anni, che voleva dare una risposta ai tragici avvenimenti dell’11 Settembre.
A me piaceva l’idea di ricostruire una torre, proprio perché ne avevano abbattuta una, e mi viene in mente quella che abbiamo qui a Roma, che erroneamente chiamano il Colosseo quadrato. È un’opera modernista, una torre di richiamo metafisico che ha però il problema di avere dei fornici difficili da gestire. Profondi 4 metri e alti 12, soprattutto con le tecniche degli anni ‘90, nessun video proiettore era in grado di raggiungerli e i ballatoi erano troppo stretti per permettere di posizionarne uno. Ho capito che esiste una forma di architettura che offre delle resistenze strutturali alle nostre stupidaggini tecnologiche. Non volevo una proiezione lontana, ma una che rispettasse l’architettura, per cui la struttura non doveva essere totalmente coperta. La rientranza doveva vedersi. Non volevo proiettare Paik solo per fare spettacolo. Allora abbiamo costruito, con grandi spese personali, degli schermi alti quanto i fornici, posizionati dietro di essi su cui sparare con proiettori da 10.000 lux contro il palazzo, uno sopra l’altro coassiali, delle immagini, un loop di immagini di artisti diversi. L’idea era che ogni fornico avesse la sua immagine d’artista contemporaneo diversa e in movimento.
L’immagine finale era molto bella, avevo fatto il possibile nonostante il budget limitato e le difficoltà burocratiche. Avrei voluto ottenere la proiezione sul lato della torre visibile dalla Roma-Fiumicino. Avevo detto a Veltroni che sarebbe stato bello per gli americani che arrivavano in città dall’aeroporto vedere le immagini sulla facciata. Il senso del progetto era di non abbattere una torre ma di riedificarla attraverso l’arte contemporanea che propone sguardi diversi sulla realtà, non violenti. Non facciamo vedere pistole, kalasmikov, ma belle immagini, pezzettini, senza suono, con una sfumatura ancora più contemporaneo perché il suono glielo dà la città. Lasciamo che la città e il movimento si muovano insieme. Così è nata questa bellissima video istallazione, molto apprezzata a Parigi, in Spagna, in Colombia, in giro per il mondo, ma non molto a Roma.
Una volta terminata l’opera ho messo queste immagini d’artista in movimento nei primi schermi a led della stazione Termini in mezzo alla gente, col rumore della città. Ed era la prova che queste immagini erano diverse da quelle della pubblicità che stavano sui cartelloni. Le persone si incuriosivano. Andavo alle 5 del mattino e vedevo i pendolari che si fermavano davanti alle immagini dei grandi maestri della videoarte e accanto avevano la pubblicità di Armani. Era commovente».
Potremmo asserire quindi che contraltare della responsabilità sia l’educazione all’arte e alle nuove forme di espressione artistica?
MMG «La proiezione di quelle immagini d’artista era un rischio, non sapevo se avrebbe funzionato o meno. La gente comune che non sa nulla di arte, né tanto meno di videoarte, doveva fare ciò che poi ha fatto, ovvero fermarsi e domandarsi, interrogarsi.
Nel 2006 alla festa dell’Unità feci un esperienza simile. In uno stand istallai degli schermi posizionati in verticale, non come i televisori ma come dei quadri con delle mie immagini in movimento corredate da suoni. Il pubblico, perlopiù generalista, si comportava come in chiesa. Entravano timidamente, guardavano e si stupivano. Non c’era una etichetta esplicativa accanto allo schermo, non c’era un catalogo, una spiegazione didattica, o il professor Gazzano pronto a raccontare. Entravano nella caverna delle arti elettroniche e, liberi, se lo spiegavano da soli.
Ma la stessa esperienza l’ho avuta anche con un pubblico diverso, con persone che leggevano libri, che frequentavano le accademie straniere polacche, ungheresi. Spesso mi è capitato che mi chiedessero perché queste cose non erano mai state mostrate in televisione. ‘Chiedetelo alla televisione’ rispondevo.
Perché ci sono in televisione molte serate d’arte, documentari su artisti, ma nulla sulla videoarte? Rimarremo l’unico paese che non se ne è occupato. Le faccio un altro esempio. Avevo organizzato una mostra alla Galleria d’arte moderna dedicata a un fotografo di scena bravissimo, Enrico Appetito sui set di Antonioni. L’ho voluta chiamare 400 scatti per Michelangelo Antonioni (come omaggio ai 400 colpi della nouvelles vagues). Ho riempito la galleria di queste straordinarie foto inedite, anche di Monica Vitti, e poi vi ho accostato i quadri della collezione anni’60 della galleria che richiamavano le fotografie dei film di Antonioni. Ma la direzione sembrava non capire. Io posizionavo Rotella con i manifesti stracciati e di fianco le foto di Appetito che fotografa Antonioni davanti a un manifesto stracciato. Al centro della sala ho posizionato un Fontana, una palla rotonda con un taglio, e intorno solo le foto di Monica Vitti in una Avventura che accarezza un pezzo di pietra della stessa forma. Eppure il commento finale fu “troppe cose”!».
Per quanto riguarda invece i suoi prossimi progetti?
Sto cercando, con il ministero, di organizzare un corso di preservazione e restauro di nastro magnetico, video e arte. Visto che non riesco più a esporre, cerco di preservare. Perché un altro tema che mi preme molto è proprio il recupero, l’archivio. Sono anni che cerco il modo di tutelare questo patrimonio che vive un problema di restauro e preservazione necessario. Ho provato più volte ad agire concretamente in tal senso, ma senza successo.
La mia associazione Kinema ha inoltre un archivio ricchissimo, che non ha nessun museo italiano. La curiosità è che ad esempio le prime opere di artisti come Barbero Corsetti che ora dirige l’Argentina o di Martone, che dirige il teatro di Roma, sono videoteatro. Il problema è che quando qualche giornalista fa loro qualche domanda sembrano rinnegare quel passato, relegando quelle esperienze a sperimentazioni giovanili. Ho opere di entrambi che conservo e racconto ma loro se ne sono dimenticati, perché il loro teatro e il loro cinema è tornato a essere molto meno sperimentale, più tradizionale.»
Da questa breve incursione nel mondo di Gazzano comprendiamo l’importanza della complessità, della ricerca di nuovi linguaggi, come della vivificazione delle cifre più tradizionali. Ma più di ogni altra cosa scopriamo come la relazione tra immagini e tecnologie sia davvero in grado di consegnarci uno sguardo nuovo, più consapevole sul mondo che abitiamo.
Bibliografia di riferimento:
M.M. GAZZANO, Kinema. Il cinema sulle tracce del cinema. Dal film alle arti elettroniche, andata e ritorno Exòrma, Roma 2013.
M.M. GAZZANO, Comporre AudioVisioni. Suono e musica nell’esperienza della videoarte, Exòrma, Roma 2021.
M.M. GAZZANO, Ultraimmagini. Verso la producibilità elettronica del cinema attraverso le metamorfosi delle arti, Exòrma, Roma 2021.
Le lotte e l’utopia 1968-1970. Il progetto e le forme di un cinema politico, (a cura di), M. M. GAZZANO, P. SCARNATI, E. TAVIANI, Effigi, 2021.
«Van Gogh […] si interroga, pieno di angoscia, sul significato dell’esistenza, del proprio essere nel mondo. E, naturalmente, si pone dalla parte dei diseredati, delle vittime: i lavoratori sfruttati, i contadini, a cui l’industria con la terra e il pane, toglie il sentimento dell’eticità e della religiosità del lavoro» (C. Argan, L’arte moderna).
Spesso descritto come asociale, dal carattere burbero e l’aspetto poco, anzi pochissimo, conciliante l’approccio, Vincent van Gogh tuttavia amava visceralmente le persone. Specialmente quelle avvilite dalla fatica del lavoro quotidiano. I poveri, i dimenticati dalla cosiddetta società civile. Gli operai e i minatori del Borinage, così come i tessitori, ostaggi di macchine infernali per più di dieci, dodici ore al giorno.
Tessitore al telaio, Nuenen, maggio 1884. Kroller-Muller Museum, Otterlo, Netherlands.
E poi loro, i suoi amati contadini. I volti solcati dagli sforzi di una vita dedicata inevitabilmente al lavoro, i corpi costantemente protesi verso la terra, come fossero parte di essa.
La terra non mente mai. La terra dice sempre la verità. Profuma di verità e concime.
Contadino che vanga, Nuenen, luglio-agosto 1885. Van Gogh Museum, Amsterdam, Netherland.
E con quella verità, con quel concime, Van Gogh scolpiva le sue tele, ritraendo loro, i lavoratori instancabili della terra, cogliendone gli aspetti più tormentati dalla vita, dando loro dignità. La stessa dignità che spesso, troppo spesso, la società non era in grado di riconoscergli. Così l’artista, come fosse un cronista della verità, un testimone dal polso eclettico e vibrante, sentiva sulla pelle e nel cuore l’urgenza di raffigurare il mondo dei contadini senza abbellimenti, senza retorica.
Testa di giovane contadino con berretto, Nuenen, marzo 1885. Koninklijke Museum, voor Schone Kunsten, Bruxelles, Belgio.
Il pittore sapeva entrare dentro quel mondo di stanchi, affamati e veri, sapeva mettere a nudo tutta la loro rozzezza, la graffiante e drammatica condizione sociale nella quale erano relegati. Così, attraverso colori tetri e tonalità sporcate di grigio, retaggio della scuola dell’Aja e dei paesaggi monocromi della sua amata Olanda, a Nuenen ogni occasione era buona per fermarsi a dipingere. Dopo l’esperienza mortificante scaturita dalla convivenza con Sien, la donna che proprio all’Aja nel 1882 Vincent van Gogh decise di adottare per spirito caritatevole più che per amore, decide di rincasare dopo una brevissima parentesi a Drenthe. E lì, nella sua terra, vive il più possibile all’aperto, noncurante delle spesso avverse condizioni atmosferiche, spinto da un impellente e inderogabile bisogno di vivere la natura e dipingere la vita dei contadini ogni qual volta il piccolo villaggio del Brabante olandese gliene offre la possibilità.
Camminare e dipingere, al freddo, sotto la neve o la pioggia, diventano la sua missione giornaliera.
Contadini con fascine sulla neve, Nuenen, settembre 1884, Yoshino Gypsum Foundation, Tokyo, Giappone.
Fermarsi nel bel mezzo di un campo a respirare il silenzio portato dal vento gelido del suo nord. Null’altro chiedeva Vincent. Si spingeva oltre i propri limiti d’essere umano, prima che d’artista, con l’unico scopo di placare quella tremenda sete di umanità. L’artista come un contadino, alla stessa stregua di un reietto della società. Lontano anni luce dai salotti stracolmi di ipocrisia e strette di mano che aveva avuto modo di frequentare e, allo stesso tempo, detestare durante il soggiorno parigino. A Nuenen fra campi di patate e odore di speck che fumava con ferocia dai piatti dei contadini, non c’era modo di fermarsi a pensare, tantomeno a giudicare il prossimo.
La semina delle patate, Nuenen settembre 1884, Von der Heydt Museum, Wuppertal, Germania.
Van Gogh poteva solo lavorare, una benedizione e alle volte una condanna. Per lui lavorare significava dipingere, significava annusare la miseria di quella gente, scrutarne persino le ombre, immedesimarsi nella loro vita dei contadini. Sentirla nelle vene, prima che nel polso. Ammirare le rughe che segnavano quei volti stanchi ma fieri. Bellissimi nella loro genuina semplicità.
Ritrarne l’anima, prima che la pelle, era urgenza inderogabile.
Testa di contadina, Nuenen, marzo 1885, Van Gogh Museum, Amsterdam, Netherlands.
Così dopo decine e decine di studi rivolti a esaltare dettagli e sfumature dei volti dei contadini, avvicinandosi persino a caricaturizzarne incarnati e espressioni,
Testa di contadina, Nuenen, gennaio 1885, National Gallery, Londra, Gran Bretagna.
Vincent van Gogh si apprestava a dipingere uno dei quadri che sarebbe poi entrato di diritto nella storia dell’arte. Uno dei suoi quadri-icona. Uno dei più celebri in assoluto: I mangiatori di patate.
Nuenen
Con questo straordinario capolavoro, l’artista ci prende per mano e ci conduce all’interno di un tipico cottage nei pressi della campagna olandese. Una famiglia di contadini sta consumando il pasto serale, molto probabilmente l’unico della giornata.
Le mani e i volti diventano testimoni della fatica, testimoni della verità.
Ho cercato di sottolineare come questa gente che mangia patate al lume di lampada, ha zappato la terra con le stesse mani che ora protende verso il piatto, e quindi parlo di lavoro manuale e di come essi si siano onestamente guadagnato il cibo.
Lettera a Theo, 30 aprile 1885
Realizzare un vero quadro contadino. Questo era l’intento dell’artista. E l’effetto senza dubbio riesce perfettamente. I colori così tetri, l’atmosfera appesantita da un silenzio eclatante, i lineamenti e i gesti dei protagonisti saziano ogni curiosità, anche quella più spudorata e impertinente che, una volta soddisfatta, lascia sulla pelle l’impressione di aver spiato quella scena di vita quotidiana e non di averla semplicemente ammirata.
Eccoli nudi e crudi, raffigurati nella loro più intima versione, i contadini che si sfamano. Si nutrono, nutrono il loro corpo senza abbandonarsi a chiacchiere o eccessi. Morigerati e distrutti dalla stanchezza, avvolti dalla solenne necessità di mangiare e poi riposarsi, prima che il giorno successivo incomba puntuale e li conduca nuovamente ai campi da coltivare.
Un quadro non deve necessariamente essere profumato.
Lettera a Theo, 30 aprile 1885
E questo quadro, pur non profumando forse, permette al contadino, all’uomo prima ancora del lavoratore della terra, di risorgere, riscoprendo dignità e considerazione grazie a tanta autenticità. Il linguaggio non verbale dei protagonisti squarcia ogni esitante silenzio, si fa presenza eloquente, esigente rispetto e ammirazione. Lo stesso rispetto che l’artista intendeva loro conferire attraverso una cornice dorata, che per esigenze cromatiche prima ancora che sociali, avrebbe garantito all’opera di splendere in tutta la sua unica bellezza.
Quanto ai mangiatori di patate, è un quadro che starà meglio in una cornice dorata, ne sono sicuro.
Fotografie sparse in giro per la casa. Fotografie che vengono custodite con cura nelle scatole riposte dentro gli armadi e che di rado vengono tirate fuori per essere guardate. Fotografie di parenti, amici, viaggi e ricorrenze. Le foto di famiglia assumono un valore completamente diverso rispetto a quelle documentaristiche, artistiche o comunque scattate per essere pubblicate e vendute. Se queste ultime solitamente si ricollegano a una memoria storica collettiva e generano delle sensazioni legate esclusivamente a quel dato avvenimento, le fotografie che, invece, si riconducono alla sfera privata possono suscitare, in una ristretta cerchia di persone, gioia, ricordi, nostalgia, disillusione per un passato che non c’è più. Una semplice immagine è in grado di dare vita a una vasta gamma di emozioni contrastanti: il mezzo fotografico non rappresenta soltanto una testimonianza visiva e oggettiva della realtà, ma racchiude in sé una forte carica emotiva che deriva dalla presenza di una indubbia componente soggettiva. A tal proposito, tornano alla memoria le parole di Ferdinando Scianna: «Credo che la massima ambizione per una fotografia sia di finire in un album di famiglia» (F. Scianna, Quelli di Bagheria, p. VI). Parole che, nella mente di Scianna e nella nostra successiva riflessione, racchiudono l’obiettivo e il significato ultimo dell’espressione fotografica.
La fotografia tra documento e ritratto privato
Nella tenuta della famiglia Cavazza a Pantano Borghese, nella campagna romana, sono conservati gli album fotografici della principessa Anna Maria de Ferrari in Borghese (1874-1924), fotografa amatoriale autodidatta. Tra il 1898 e il 1924 la principessa, accompagnata dalla sua macchina fotografica Kodak Bulls-Eye Special N. 2, ha scattato oltre 8.000 fotografie di piccolo formato (9×9 cm) – ad eccezione di alcune immagini riprese probabilmente dal marito Scipione Borghese – da lei poi appuntate, datate e cronologicamente ordinate in circa ottanta album. Facilitata nell’utilizzo del mezzo fotografico dai progressi che si compiono nel campo della produzione delle immagini alla fine degli anni ’80 dell’Ottocento, Anna Maria può servirsi di una delle piccole Box Camera messe in commercio con lo slogan pubblicitario «you press the button, we do the rest» dalla Kodak – azienda dell’imprenditore statunitense George Eastman – e che permette agli amatori di accedere al mondo della pratica fotografica, trasformandola in uno svago e in uno strumento di piacere.
Sulla scia di altri fotografi dilettanti del tempo come Giuseppe Primoli e il principe Francesco Chigi, per la maggior parte appartenenti alla nobiltà e all’alta borghesia italiana, la principessa si dedica alla fotografia «per il desiderio di fissare in immagine il mondo e serbare il ricordo di attimi fuggevoli che, altrimenti, sarebbero inesorabilmente scomparsi dalla propria memoria; un interesse divenuto presto una passione indomita e bruciante» (M.F. Bonetti, M. Peliti, Racconto di un’epoca. Fotografie dagli album della principessa Anna Maria Borghese, p. 12).
Anna Maria Borghese incarna quell’«insaziabilità dell’occhio fotografico» (S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, p. 3) di cui parla Susan Sontag e che si manifesta già a partire dalla metà dell’Ottocento: il desiderio irrefrenabile di fermare in immagine la realtà e di osservarla in un secondo momento con una vista ampliata, quasi che la macchina fotografica potesse dilatare i nostri sensi, donarci consapevolezza e migliorare la nostra vista. Sulla base di ciò che ha detto Émile Zola, ossia che non si può pretendere di conoscere la realtà se non la si è prima fotografata, con la comparsa della fotografia si manifesta nell’uomo della società moderna una fede incrollabile nella conoscenza del mondo visibile: «La fotografia non solo riproduce tutto ciò che l’occhio vede, ma fa vedere tutto ciò che l’occhio non vede» (J-C. Lemagny, A. Rouillé, Storia della fotografia, p. 71). Di conseguenza, al ruolo esclusivamente artistico che inizialmente si attribuiva alla fotografia, si affianca ben presto un’altra interpretazione della pratica fotografica come rito, documentazione e studio sociale; dovranno passare anni prima che queste visioni apparentemente contrastanti possano coesistere senza alimentare dibattiti e recriminazioni sullo stato della fotografia.
A riprova del nuovo status artistico e sociale ricoperto dalla fotografia, la principessa Borghese utilizza la sua macchina fotografica sia per diletto sia per documentare alcuni degli eventi storici dei quali è testimone all’inizio del Novecento. Sposatasi nel 1895 con il principe Scipione Borghese, nel 1898 Anna Maria inizia a fotografare, in Italia e all’estero, i paesaggi, le città e la grande varietà delle persone che incontra nel corso dei suoi numerosi viaggi in compagnia del marito o da sola (basti citare il suo viaggio in solitaria sulla Transiberiana): Turchia, Egitto, Siria, Palestina, Russia, Giappone, Cina e Uzbekistan sono soltanto alcune delle località visitate e fotografate dalla principessa in un’epoca in cui viaggiare per le donne era considerato un privilegio. Altre fotografie di Anna Maria che testimoniano la realtà di un’epoca sono quelle della vita contadina nell’Agro romano e nella proprietà di famiglia – acquisita in seguito al matrimonio di Paolo Borghese, padre di Scipione, con la contessa ungherese Ilona Apponyi – in Ungheria; le vedute urbane che registrano la modernizzazione della società; la vita negli ospedali da campo e in trincea durante la Prima guerra mondiale, dove si impegnò attivamente come crocerossina; eventi drammatici come il terremoto di Avezzano nel 1915 o la ricostruzione della città di Messina (1913) dopo il terremoto del 1908.
Terremoto di Avezzano Avezzano, 1915
A questa notevole produzione documentaristica, la principessa Borghese affianca una serie di fotografie private che scatta nelle tenute di famiglia, specialmente all’Isola del Garda, o in altre località a parenti ed amici. Foto di caccia, tuffi nel lago, attività sportive e ritratti dei vari membri della famiglia e dei propri animali domestici danno vita ad un archivio fotografico più personale e introspettivo, che rivela l’occhio sensibile e profondo di una donna dedita a registrare la vita che scorre intorno a lei.
Anna Maria utilizza la sua macchina fotografica sia per diletto sia per impegno sociale (rimanendo comunque al di fuori della politica), confermando così il potenziale espressivo molteplice e vario di cui è dotato l’apparecchio fotografico e realizzando «un raro e prezioso racconto visivo, che coniuga sapientemente l’intimismo di momenti sobriamente vissuti all’interno della propria cerchia familiare alla partecipazione emotiva e all’abilità di catturare, nel mondo, soggetti, condizioni, situazioni e accadimenti di interesse pubblico e sociale» (M.F. Bonetti, M. Peliti, op. cit., p. 16).
Nora Balzani Isola del Garda, 1907
Ciò che colpisce dell’intero corpus fotografico di Anna Maria Borghese è la freschezza e la libertà della composizione delle sue immagini. In quanto fotografa amatoriale, la principessa rimane sempre fedele alla sua idea di fotografia ed estranea alle nuove correnti artistiche e d’avanguardia che si manifestano a partire dalla fine dell’Ottocento, scattando comunque fotografie che risentono dello spirito d’innovazione e del vento di cambiamento che soffia in Europa e negli Stati Uniti. In un certo qual modo, al di là degli artisti d’avanguardia, chi osa di più sono i fotografi amatoriali, non legati a specifiche richieste dei clienti degli studi fotografici o questioni economiche, e per i quali il collezionista e critico d’arte Lamberto Vitali ha coniato la definizione di “fotografi irregolari”.
Mentre i pittorialisti rigettano il reale tramite filtri, luci e finzioni retiniche che gli permettono di prendere le distanze da esso, Anna Maria non ricorre mai a manipolazioni di tipo pittorico, anche se mostra un vivo interesse per le atmosfere crepuscolari e melanconiche dei preraffaelliti (soprattutto nei ritratti) e per gli effetti naturalistici tipici degli impressionisti. Nelle sue fotografie è evidente l’urgenza di restituire l’immagine istantanea così come è stata catturata, giocando con i contrasti tra luce e ombra e con la mobilità dell’obiettivo fotografico, che le permette di sperimentare soluzioni audaci, avvicinandosi così ai risultati ottenuti dagli avanguardisti all’inizio del Novecento e rientrando a pieno titolo nella modernità.
Migliarino 1899 Tenuta di Migliarino, 1899
La soggettività della memoria
La collezione di fotografie della principessa Borghese è rimasta protetta tra le mura della residenza di famiglia fino al 2011, anno della mostra Racconto di un’epoca. Fotografie dagli album della principessa Anna Maria Borghese, curata da Maria Francesca Bonetti e Mario Peliti presso l’Istituto Centrale per la Grafica di Roma. In quell’occasione, l’ingegner Novello Cavazza – nipote della principessa Borghese e proprietario della raccolta degli album fotografici nella tenuta di Pantano Borghese – ha concesso che alcune delle fotografie scattate da Anna Maria fossero esposte e raccolte nel catalogo della mostra, pubblicato dalla casa editrice Peliti Associati.
Solo in altre rare occasioni le fotografie della principessa sono uscite al di fuori della cerchia familiare e presentate al pubblico. Nel 1903, il marito Scipione Borghese pubblicò il suo libro In Asia: Siria, Eufrate, Babilonia (Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1903), corredato da numerose illustrazioni, tra cui le stesse immagini che la principessa aveva scattato durante il loro lungo viaggio in Oriente. Ancora, nel 2013 una piccola selezione delle fotografie di Anna Maria viene portata per la prima volta fuori dall’Italia in occasione della Biennale moscovita Moda e stile in fotografia ed esposta presso la Fondazione Ekaterina di Mosca. Infine, vale la pena citare la mostra Questa è guerra! 100 anni di conflitti messi a fuoco dalla fotografia (2015), curata da Walter Guadagnini presso il Palazzo del Monte di Pietà a Padova e nella quale – accanto a immagini di autori celebri come Gabriele Basilico, Robert Capa, Henri Cartier-Bresson e Philip Jones Griffiths – sono state presentate circa venti fotografie scattate dalla principessa Borghese, raffiguranti la vita dei soldati al fronte e altri momenti salienti vissuti in prima persona nel corso della Prima guerra mondiale.
Le fotografie di Anna Maria che sono state rese pubbliche negli anni, sono per la maggior parte foto di viaggi, di guerra, di popoli e delle loro tradizioni; insomma, fotografie che ricoprono un ruolo documentaristico e che, come tali, possono essere accostate al fotogiornalismo. Le fotografie dei membri della famiglia e degli amici, con qualche eccezione, sono invece rimaste custodite con cura nella tenuta di Pantano Borghese. Trattandosi di fotografie che, ancora soggette all’azione del tempo, hanno un significato particolare per gli eredi della principessa, queste immagini rimangono private proprio per preservare la storia e la vita della famiglia.
Lo stesso Roland Barthes, in seguito alla morte della madre, nel suo saggio La camera chiara afferma di non poter mostrare quella che lui chiama la “Fotografia del Giardino d’Inverno”, che ritrae sua madre da bambina e che per lui rappresenta la Storia, l’essenza stessa della Fotografia: «Io non posso mostrare la Foto del Giardino d’Inverno. Essa non esiste che per me. Per voi, non sarebbe altro che una foto indifferente, una delle mille manifestazioni del “qualunque”; essa non può affatto costituire l’oggetto visibile di una scienza; non può fondare un’oggettività, nel senso positivo del termine; tutt’al più potrebbe interessare il vostro studium: epoca, vestiti, fotogenia; ma per voi, in essa non vi sarebbe nessuna ferita» (R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, p. 75).
Barthes testimonia dell’unicità che alcune fotografie assumono soltanto per alcune persone: come egli ha deciso di non mostrare la foto di sua madre per tenerla viva nella sua memoria, così la maggior parte delle fotografie della principessa Borghese ricopre un significato particolare solo per i suoi discendenti. Tuttavia, la famiglia ha deciso di rendere pubblica un’attenta selezione di questa preziosa raccolta fotografica, in modo da offrire alla società di oggi la sensibilità e la versatilità dello sguardo di una fotografa amatoriale che raccoglie in sé le innovazioni della fotografia e lo spaccato di un’epoca, ormai lontano e cristallizzato nel tempo.
Il ruolo della soggettività nella fotografia, il suo utilizzo come mezzo di espressione e il suo indissolubile rapporto con il tempo si possono allora sintetizzare, per concludere, nelle parole di Susan Sontag: «La fotografia è un’arte elegiaca, un’arte crepuscolare. […] Ogni fotografia è un memento mori. Fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un’altra persona (o di un’altra cosa). Ed è proprio isolando un determinato momento e congelandolo che tutte le fotografie attestano l’inesorabile azione dissolvente del tempo» (S. Sontag, op. cit., p. 15).
Riferimenti bibliografici:
R. BARTHES, La camera chiara. Nota sulla fotografia (1980), Einaudi, Torino 2003. M.F. BONETTI, M. PELITI, Racconto di un’epoca. Fotografie dagli album della principessa Anna Maria Borghese, Peliti Associati, Roma 2011. J-C. LEMAGNY, A. ROUILLÉ, Storia della fotografia (1986), Sansoni, Firenze 1988. F. SCIANNA, Quelli di Bagheria, Peliti Associati, Roma 2003. S. SONTAG, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società (1977), Einaudi, Torino 2004.