di Camilla Gazzaniga
È una sera d’inverno del 1911, e le note delle sinfonie di Arnold Schönberg risuonano per le strade di Monaco.
Il giorno seguente, quella musica sarebbe stata tracciata sulla tela di un dipinto da Vasilij Kandinskij, improvvisando un concerto di segni e colore che potesse esibire in forma visiva l’aria intima degli strumenti musicali. La loro voce invisibile. «Il colore è il tasto. L’occhio è il martelletto. L’anima è il pianoforte dalle molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, mette preordinatamente l’anima in vibrazione» (Lo spirituale nell’arte, 1911).
Il colore blu, per Kandinskij così vicino al cielo quando è tenue, alla notte e al mare quando è carico, suona, per la sua aura spirituale, come le corde del violoncello. Il giallo, così acceso, ha la forza dirompente della tromba, fino ad arrivare al bianco e al nero e alla loro vicinanza al silenzio. Ciascuna suggestione uditiva diviene visibile nel colore sulla tela e l’occhio dell’artista, quando si ritrova impressionato dal mondo, vi coglie un senso e lo restituisce con i segni tracciati dalla sua mano. (M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, 1964).
Il chiasma.
«Il sensibile mi restituisce ciò che gli ho prestato, ma è dal sensibile stesso che io lo derivavo. Io che contemplo l’azzurro del cielo, non sono, di fronte a questo azzurro, un soggetto a-cosmico, non lo possiedo nel pensiero […], io sono il cielo stesso che si riunisce, si raccoglie e si mette a esistere per sé, la mia coscienza è satura di questo azzurro illimitato. Ma il cielo non è spirito: non è allora privo di senso dire che esso esiste per sé?» scriveva Maurice Merleau-Ponty (Fenomenologia della percezione, 1945) nelle pagine che avrebbero siglato la sua seconda tesi di dottorato, dove già si stagliava la relazione chiasmatica soggetto corporeo–mondo, o di più, dove essi si affermavano come i due termini del medesimo evento.
Il pensiero di Merleau-Ponty, partendo dalla fenomenologia husserliana e dal relativo impegno a sottoporre il concetto di conoscenza alla soggettività, tenta di declinare il pensiero in termini nuovi, esistenziali. Vi è una riflessività propria del corpo, perché esso sente il mondo, ma anzitutto si sente, prima ancora che la coscienza sia desta.
Il senso non va ricercato in una idealità astratta, nell’ in sé della tradizione filosofica, perché esso, scriverà Merleau-Ponty, è già nel mondo.
In altre parole, il ‘soggetto’ si inserisce in un evento di co-nascenza con le esperienze che vive, con vissuti che diventano i suoi (Fenomenologia della percezione, 1945), così che, tornando alle prime parole, il cielo è già lì, ma non può esistere in modo a sé stante. Sarò io a volgere i miei occhi a quel frammento cobalto che si estendeva già da prima che lo notassi, ad abbandonare una parte del mio corpo, o esso intero, a tale contemplazione. Così come sarà il mio atteggiamento a essere occasione per un dato evento di determinarsi, di divenire, nel nostro caso specifico, un azzurro con un significato, e di conseguenza di essere sentito.
Ma neanche l’altro termine del chiasma, il ‘mondo percepito’, permane inerte nella materialità delle cose, esso infatti significa aldilà di esse: io trovo nel sensibile una proposta di esistenza che esso mi rivolge in quanto mi è visibile. Sarò io a scegliere se accettare questa forma d’esistenza, o al contrario se inibirmi.
Mi ritrovo nel cuore del visibile, perché esso è destinato a esser visto dalla mia corporeità, e tuttavia non risiedo totalmente in esso. Vivo dall’interno l’esperienza sonora della mia voce, ma non la odo come gli altri l’ascoltano; la mia mano destra, quando è nel mentre di toccare, ha presa sul mondo, ma quando viene toccata dalla mia altra mano, ecco che la sua presa s’interrompe (Il visibile e l’invisibile, 1964).
Ciò significa che esiste una esteriorità anche del mio corpo, che però a me è nota a partire dalla mia interiorità. Io sento sempre dalla parte del mio corpo, non posso che esistere così e questo scarto tra toccato e toccante, tra la mia voce parlata e udita, è segno che la mia carne si concilia con la carne del mondo senza scomparire in essa, perché se fossi piena coscienza, pieno sapere del mondo, non potrei percepirlo.
Il corpo proprio: sentire.
Ogni mia sensazione dipende da una sensibilità che l’ha preceduta e le sopravvive al termine di quella stessa esperienza che si situa nel corpo prima che vi sia coscienza sul mondo. La sensibilità è la voce di una acquisizione originaria corporea, e i suoi vari registri sensoriali emergono nella loro singolarità o contaminandosi a vicenda.
Ciascun senso, nel suo ruolo specifico, costituisce un piccolo mondo rispetto alla totalità sensoriale del corpo, e traccia un confine netto con gli altri sensi nel caso anomalo in cui l’integrità dell’organismo venga offuscata dal corso di una patologia o di una lesione. In ciò che è anomalo emergono quegli elementi che sono invece taciti nella normalità, perché nel loro equilibrio non destano l’attenzione: nella malattia l’integrazione di un senso con l’altro non avviene e al corpo è chiesto di riconfigurarsi secondo nuovi criteri che possano colmarne la mancanza. Nel caso dei ciechi dalla nascita, il campo tattile non può tradursi nel linguaggio della vista senza perdita alcuna, anche laddove la vista venga recuperata. Il cieco può sentire, in una piena continuità fra il suo tocco e il mondo, la fattezza più recondita di una mano o di volto, di un qualsiasi oggetto; ma quando i suoi occhi vedranno per la prima volta, egli non riconoscerà il nuovo aspetto del mondo e si meraviglierà di essi, che appaiono tanto distinti l’uno dall’altro (Fenomenologia della percezione, 1945). In un primo momento tutto sorge disordinato; la cognizione delle forme e dei colori, il loro apprendimento, avverrà solamente quando il paziente avrà inteso cosa è vedere.
La sinestesia.
I sensi, nella loro distinzione, tuttavia comunicano. Essi inter-vengono, si incontrano, aldilà del loro perimetro specifico, in uno strato ancestrale e originario, dove la differenziazione sensoriale non è ancora avvenuta. Lì si realizza l’ascolto dei colori o la visione dei suoni: si ode la fragilità del vetro, quando esso s’infrange emettendo un suono cristallino, si vede la morbidezza di un tessuto dalla curva soave delle pieghe.
Se in ambito neurologico la sinestesia è pensata come condizione rara, traccia di un difetto percettivo, per Merleau-Ponty non è ossimorico considerare ciascun senso come una parzialità che si conferma tale, e insieme operante con il tutto (Fenomenologia della percezione). Non è il soggetto a decidere la sintesi intersensoriale, è il corpo, prima ancora del pensiero, che riunisce il suo movimento verso un fine ultimo a partire da una sua primordiale sinergia. Questa sintesi dona l’unità dello spazio percettivo, poiché se è vero che con il tatto tocco la prossimità attorno a me, è solo con la vista che posso estendere il mio campo d’esperienza e riempire di significato i termini “vicino” e “lontano” rispetto a dove permango.
È nel movimento che appare compiersi l’intersensorialità, poiché l’altro che si muove o l’oggetto che viene mosso sono lo spostamento visibile di colori e forme. Dal tocco con cui affondano a terra si desume la loro flessibilità o la gravezza del peso, dal rumore continuo dei passi, o dall’intermittenza delle loro pause, s’intuisce la conformazione dello spazio adiacente.

Lo stesso colore significa oltre la qualità visibile, celando un senso motorio, così come affettivo: l’esperienza cromatica va a determinare la motilità del corpo. Sull’eco di Kandinskij, il rosso e il giallo favoriscono un movimento di estensione, il blu e il verde, con un tono riposante inducono a un raccoglimento del corpo in se stesso. Ancor prima di essere uno scenario oggettivo, il mondo dei colori viene abitato dal corpo con le sue modalità d’esistenza, a seconda delle suggestioni che può trarne.
Vedere melodie, udire la musicalità delle forme avviene perché il corpo non è una mera associazione di un organo, di un arto dopo l’altro, ma è un sistema sinergico in cui tutte le funzioni si riprendono seguendo il disegno dell’esistere al mondo.
«Quello del corpo è[…] l’unico mezzo che io ho di andare al cuore delle cose, facendomi mondo e facendole carne» (M. Merleau-Ponty, VI, p.162).
Bibliografia di riferimento
V. KANDINSKIJ, Lo spirituale nell’arte, SE, Milano 2005.
M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2018.
M. MERLEAU-PONTY, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 2009.
M. MERLEAU-PONTY, L’occhio e lo spirito, SE, Milano 1989.
G. NIFOSÌ, Arte in primo piano. Guida agli autori e alle opere, vol. III, Laterza, Roma-Bari 2011.