STUPÓRE E FILOSOFIA. Festival Treccani della lingua italiana.

Con interventi di Mario De Caro, Gabriele Pedullà, Gilda Diotallevi

Il 27 e 28 maggio 2023 si è svolta a Garbatella, precisamente a Piazza Damiano Sauli, la VI edizione del Festival Treccani della lingua italiana, ideato appunto dalla Fondazione Treccani Cultura, con la collaborazione dell’Università di Roma Tre e dell’VIII Municipio di Roma. Un appuntamento annuale, pensato per presentare i temi più rilevanti della costante ricerca di Treccani sulla lingua italiana, prestando attenzione al valore delle parole, come mezzo di espressione, di ragionamento e di confronto tra diverse posizioni. Quest’anno il Festival si concentrava sulla parola stupore.

Dopo una breve introduzione sul nesso tra stupore e filosofia, riportiamo un estratto delle lezioni di due grandi filosofi e pensatori italiani: Mario De Caro e Gabriele Pedullà.        

Introduzione. Solo lo stupore conosce

di Gilda Diotallevi

STUPORE s. m. [dal lat. stupor -oris, der. di stupēre «stupire»]. – 1. Forte sensazione di meraviglia e sorpresa, tale da togliere quasi la capacità di parlare e di agire. 2. ant. b. Stato di stordimento, conseguente a cause fisiche o morali. c. Intorpidimento delle membra, torpore fisico.

Se consideriamo lo stupore nella sua accezione di meraviglia è possibile rintracciare il suo legame con la conoscenza già all’esordio del pensiero filosofico.

«Gli uomini, sia nel nostro tempo che da principio, hanno cominciato a filosofare a causa della meraviglia, poiché dapprincipio essi si meravigliavano delle stranezze che erano a portata di mano.» (Aristotele, libro I, Metafisica)

«TEETETO: Per gli dèi, veramente, Socrate, io mi meraviglio enormemente per cosa possano essere mai queste visioni e talvolta, guardandole intensamente, soffro le vertigini. SOCRATE: Non mi pare, caro amico, che Teodoro abbia opinato male sulla tua natura. Si addice particolarmente al filosofo questa tua sensazione: il meravigliarti. Non vi è altro inizio della filosofia, se non questo, e chi affermò che Iride era figlia di Taumante come sembra, non fece male la genealogia.»(Platone, Teeteto, 155d)

Taumante richiama il verbo θαυμάζω, utilizzato sia da Aristotele che da Platone, a indicare come la meraviglia dell’inatteso e non conosciuto, fosse anche angoscia per l’ignoto. Il θαῦμα, nella doppiezza della sua semantica che involve la meraviglia e il timore, è il vero e proprio movente dell’esercizio della filosofia. Esiste una connessione quindi tra lo stupore e la tensione alla conoscenza. Solo lo stupore conosce, scriveva Gregorio di Nissa nel IV sec, come a significare che quel disorientamento improvviso dovuto allo stupore sia ciò che spinga a porre domande. Sullo sfondo dell’inconsistenza del sapere sorge quindi la domanda intorno al senso dell’essere.

Tale posizione è rimasta centrale per lungo tempo, facendo tornare filosofi come Kant, Heidegger o Florenskij per esempio, a riflettere su tale connubio.

Non è un caso che Heidegger, nel corso di lezioni del 1937-1938 sulle Domande fondamentali della filosofia, richiami i passi di Platone e Aristotele sopra citati e definisca lo stupore (Er-staunen), con cui traduce il verbo greco  θαυμάζω, come la tonalità emotiva fondamentale del primo inizio della filosofia. Secondo Heidegger i Greci attraverso lo stupore scoprono il manifestarsi dell’ente, il suo uscire dalla latenza della visibilità. Lo stupore perciò è, in un certo senso, esperienza dell’ἀλήθεια, un dispiegarsi della φύσις.

Lo stupore potrebbe allora dischiuderci ciò che è chiuso? (M. Heidegger, Colloqui su un sentiero di campagna 1944-1945)

«Lo stupore è il nocciolo della filosofia», scriverà più avanti Pavel Florenskij in Stupore e Dialettica. Lo stupore per il filosofo corrisponde sia alla sensazione di mistero che, generando la realtà, vi si manifesta integralmente e compiutamente: «[…] tutte le idee scientifiche che mi stanno a cuore sono sempre state suscitate in me dalla percezione del mistero.» Sia a quella meraviglia, di cui parla Aristotele, da cui scaturisce la vera conoscenza.  La ragione infatti permette un’apertura all’ignoto che, secondo Florenskij, può cogliere la vita del mondo, il significato ultimo, intuito ma mai afferrato, della realtà che viviamo e sperimentiamo ogni momento. 

Ciò su cui dobbiamo riflettere è se anche oggi siamo in grado di stupirci, se può dirsi ancora valido quell’antico connubio tra stupore e filosofia.

Per rispondere a questi e ulteriori quesiti, riportiamo alcuni passaggi di due illuminanti lezioni tenute in occasione del Festival Treccani.

FILOSOFIA, STUPORE E ALTRE COSE STUPEFACENTI

Mario De Caro

Il termine stupore è abbastanza peculiare, perché se si pensa alla sua radice semantica, che deriva da stupire, essa è all’origine di termini molto diversi tra loro. Da una parte stupefacente e stupendo, dall’altra stupido e instupidito. Ci dovremmo chiedere come mai la stessa radice dia conto di due situazioni così diverse. La ragione è che questo termine può essere visto da due punti di vista. Stupendo e stupefacente è ‘qualcosa’, stupito, instupidito è ‘qualcuno che vede quella cosa’, che la contempla. In questa luce si comincia a capire perché Platone, Aristotele, sia altri fino a Heidegger hanno detto che la filosofia inizia dallo stupore. Proprio perché la filosofia è intesa come la contemplazione dei misteri più profondi della realtà.

In questo senso quando ci troviamo a contemplare misteri insondabili restiamo attoniti ma anche instupiditi. In qualche modo l’idea originaria di Platone e Aristotele è ancora con noi. Ed è ciò che accade nella filosofia che, a differenza per esempio problemi scientifici che possono essere difficili, magari irrisolvibili, ma chiari, non risulta così. Pensiamo al libero arbitrio su cui, secondo molti, non abbiamo saputo elaborare nessuna concezione veramente convincente. Non esiste un’alternativa di soluzioni plausibili, ma siamo di fronte a un problema che sembra sfuggire a tutti i tentativi di concettualizzazione.

Quando Platone e Aristotele sostenevano che la filosofia originasse dallo stupore, dicevano qualcosa di diverso dalla filosofia contemporanea, perché al tempo non esisteva ancora una distinzione netta tra la filosofia, le scienze, la matematica, ma tutto era un continuum. Diventa difficile capire oggi come un antico si confrontava con la realtà. Per l’antico il mondo è diverso, è un mondo intrinsecamente valutativo. Per i contemporanei, da Galileo in poi, l’universo fisico è invece molto democratico, è isotropico, le proprietà dello spazio sono identiche, non ci sono parti privilegiate. Nell’antichità non era così, lo spazio era connotato assiologicamente, cioè da valori. Dante, per esempio, quando immaginava l’universo, considerava il centro della terra la cloaca dell’universo, in cui collocare il diavolo, perché essa era il punto più lontano dall’empireo, ovvero da quel luogo sopra la costellazione delle stelle fisse, al di sopra del quale ci sono le gerarchie angeliche fino a Dio. La terra è il punto più lontano da questo universo. Pur essendo una visione cristiana e distante da Platone e Aristotele, condivide però il fatto che l’universo fosse connotato con valori. Pensiamo appunto ad Aristotele secondo cui l’alto vale più del basso e intrinsecamente gli elementi più nobili, come l’aria, tendono verso l’alto, mentre quelli meno nobili, come la materia, tendono verso il basso. Ma non è solo questo.

C’è anche una corrispondenza tra le cose che il pensiero moderno ha sostanzialmente cancellato.  Mi riferisco, per esempio, al pensiero astrologico, secondo cui esistono corrispondenze tra la posizione degli astri rispetto alle costellazioni al momento della nascita di un individuo che svelano chi esso sia. Esistono cioè legami tra le cose che non sono di natura causale ma di somiglianza. Nella elaborazione che ha avuto più successo, l’astrologia, che è rimasta valida fino al Rinascimento almeno e all’inizio dell’età moderna, la nascita di un individuo avviene sotto una particolare configurazione dei pianeti, che provoca un particolare equilibrio dei quattro umori, dei quattro liquidi che abbiamo nel corpo, (sangue, flegma, bile rossa, bile nera) che fa di quella persona una certa persona particolare. Essi potrebbero essere visti come dei tentativi protonaturalistici, tesi a ricercare un senso e a fornire una spiegazione alla natura, al motivo del perché siamo diversi gli uni dagli altri; spiegazione rintracciabile nella corrispondenze tra le cose.

In fondo questo è anche l’assunto del pensiero magico, ovvero che ci siano segrete corrispondenze tra le cose, tra il microcosmo e il macrocosmo, tra noi e l’intero cosmo.

[…]Con la rivoluzione scientifica tutto cambia e qualcuno sostiene che finisca la capacità di stupirsi. Ma credo che questo non sia corretto. Non cambia così radicalmente il nostro atteggiamento stupefatto davanti alla realtà, almeno per chi si impegna a cercare di comprenderla.

Non ci sono più i nessi segreti fra le cose, le cause finali. Secondo Aristotele per esempio se un corpo cade, non è perché esiste un’attrazione di gravità ma perché è nella sua natura tendere al basso, se è una cosa materiale. O il fuoco va verso l’alto, proprio perché è nella sua natura.

Tale mentalità è valsa in biologia fino a Darwin, dopo di lui invece si è cominciato a credere che gli organismi non tendessero più a qualcosa. In biologia, come era avvenuto nella fisica con la rivoluzione galileiana e newtoniana, spariscono le cause finali. Ci sono solo le cause efficienti. Qualcosa accade perché è determinato da qualche altra cosa, secondo le leggi di natura: viene in evidenza il meccanismo.

Non ci sono più le cause finali, le corrispondenze tra le cose e non c’è più, nei pensatori religiosi e nei filosofi l’intrusione di Dio quando si tratta della realtà terrena. Non si è più spiegato un fenomeno terreno con l’intervento divino. Dio, per chi crede, sovrintende a un mondo diverso dal nostro. In qualche modo possiamo affermare che la filosofia si è naturalizzata, ha perso i valori e forse anche i significati; prima la nostra esistenza era legata a un ciclo vitale di natura complessa, ora è una questione naturalistica.

Ma in tal modo, per utilizzare un termine di Max Weber, l’uomo risulta disincantato? Non c’è più quell’incantamento che ci stupefaceva, perché non c’è più quel misterioso rapporto tra le cose che si somigliano. Tutto è retto da meccanismi di causa ed effetto. Ma allora non c’è più da stupefarsi?

Io non lo credo, ma non lo credeva neanche Kant che nel Settecento, ben consapevole della rivoluzione scientifica e pur avendo aderito al newtonianesimo, scrive un passo famosissimo nella Critica della ragion pratica,

«Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me.»

Dividiamo il discorso in due parti:

Il cielo stellato, anche se non più fatto da sfere mobili mosse da gerarchie angeliche, è comunque qualcosa che ci lascia attoniti, stupiti. […]Kant parlava, in senso tecnico, di sublime, quando contemplando la natura e ci rendiamo conto della nostra piccolezza.

Se guardiamo il mondo senza preclusioni e senza barriere ideologiche ci rendiamo conto di quanto il mondo sia stupefacente, pensiamo alla relatività e al modo in cui ha cambiato la nostra concezione del tempo. O che nella meccanica quantistica si dicano cose incredibili, tipo che due particelle subatomiche che entrano in contatto, due elettroni ad esempio, anche quando si allontanano continuano a comunicare. Sembra proprio che si ritorni al vecchio legame intrinseco tra le cose. Si dice infatti che se qualcuno pensa di aver capito la meccanica quantistica allora non l’ha capita. Perché capire significa legare questa disciplina alle intuizioni chiare e distinte del pensiero comune. E questo è infinitamente difficile. Il mondo non sarebbe più deterministico, ovvero che ciò che avviene sia determinato dal passato secondo le leggi della natura. A livello subatomico non sarebbe così. Ciò che avviene, avviene perché era provabile in una certa misura ma sarebbe anche potuto non avvenire. Non è determinato.

Ieri ero a un convegno a Taormina parlavo del libero arbitrio insieme a Roger Penrose, premio Nobel per la fisica nel 2020. E Penrose sostiene proprio ciò, che il nostro libero arbitrio dipende da quei misteriosissimi fenomeni dell’indeterminismo quantistico. Se si guarda alla scienza i misteri che ci possono stupire sono infiniti.

Ma poi Kant parla della legge morale dentro di noi e il discorso si complica. Kant è un pietista (una forma di puritanesimo religioso che viene dal protestantesimo) e crede fermamente che le leggi morali siano scritte dentro di noi in modo chiaro. L’imperativo categorico è qualcosa che chiunque voglia prestare attenzione non può non notare. Abbiamo dei doveri che sappiamo essere assolutamente vincolanti. Una posizione, la sua, a sostegno dell’etica deontologica.

Perché però si stupisce? Perché non c’è più una chiara origine religiosa. Kant tenta allora un’altra operazione, un’analisi trascendentale. (Quando vedo gli altri non posso non capire che alcune volte si comportano bene e altre male. Non posso non attribuire loro una responsabilità che oggi diremmo morale. Nel film Schindler’s List, il capo dello sterminio di Auschwitz è razionale, ha il controllo delle sue azioni, ma è un sadico che usa la sua empatia per godere della sofferenza altrui. Per Kant quella persona non obbedisce all’imperativo categorico e il filosofo non ha nessun problema a condannarlo.)

Ma esiste anche un’altra posizione contrapposta a Kant e alla sua legge morale che ci stupisce ovvero una forma radicale di relativismo morale, di chi sostiene che non esista una etica oggettiva. Quando cioè si sostiene che qualcosa è ingiusto, si sta in realtà solo esprimendo una preferenza. Non è cioè possibile dimostrare che Göth (per rimanere all’esempio del film di cui sopra) fosse moralmente in errore, così come si dimostra che i corpi cadono secondo la legge di gravità. Non c’è alcuna valenza oggettiva delle nostre tendenze morali. Questa è una forma di relativismo morale molto diffusa che però ci rende un po’ incapaci di comprendere la realtà. Il discorso di Kant si complica, perché si dovrebbe dimostrare che esistono dei principi universali e contemplarli con ammirazione e meraviglia. Ma è cosa davvero complessa.

Vorrei ora parlare un altro aspetto, di cui lo stesso Kant parla, ovvero dello stupore che viene dall’arte, però legandolo alla morale. Kant si riferisce al sublime naturale, ma esiste un’altra forma di sublime legata alla grande arte. Se pensate a Stendhal, quando si reca in Italia e si trova di fronte le opere che aveva visto solo riprodotte ha dei mancamenti (la sindrome di Stendhal).

Succede che la grandezza dell’arte ci ricorda che esiste qualcosa di enorme che siamo in grado di fare e che ci sopravviverà sfidando la grandezza della natura.

Per approfondire questo punto mi servirò della forma d’arte più influente dell’ultimo secolo, il cinema.

Quando assistiamo a un’opera cinematografica ben riuscita ci succede una cosa strana, immediatamente ci dimentichiamo la finzione. Pensiamo al cosiddetto paradosso dell’orrore, noi ci spaventiamo mortalmente, rimaniamo paralizzati, pur sapendo che è finzione. Perché ci stupefacciamo? È una strana forma di identificazione.

Se però andiamo sul piano morale le cose si complicano. Se anche assumessimo come vera la posizione di Kant sulla legge morale, succede che a volte al cinema ci affezioniamo a caratteri moralmente negativi. Parteggiamo per i cattivi. Cosa succede?

Per rispondere dobbiamo prima brevemente inquadrare la questione della rappresentazione del bene e del male al cinema. C’è tutta una fase aurea del cinema, in particolare di Hollywood, almeno fino agli anni ’60 in cui risulta lampante chi sia il buono (Hero) e chi il cattivo (Villain).Per esempio i film Western classici presentano questa chiara contrapposizione tra l’eroe (Henry Fonda, John Wayne, Gary Cooper) che generalmente lo è perché non è vigliacco e affronta da solo il cattivo che lo è lo radicalmente, irrimediabilmente. Anche esteticamente sono facilmente identificabili (i cattivi sono brutti, ubriaconi, senza barba fatta).

Ma il cinema va avanti e comincia a emergere una figura nuova, quella dell’antieroe, che ha cioè degli aspetti più umani rispetto alla figura dell’eroe classico che non ha mai paura. Ha delle debolezze. Penso a James Stewart che in alcuni film di Alfred Hitchcok (L’uomo che sapeva troppo, La finestra sul cortile o La donna che visse due volte) ha paura, in Vertigo si paralizza, è eroe per caso.

Oppure a Humphrey Bogart in Casablanca con i suoi molti aspetti negativi. Per la prima metà del film è scontroso, poco generoso, tratta male tutti, incontra l’amore della sua vita che gli chiede di andare a cena e lui risponde “non faccio mai piani a così lunga scadenza”. Invece poi si dimostra l’eroe che è. Forse parteggiamo per lui ancora di più, proprio per le sue debolezze.

Mi piace citare anche un altro esempio, del cinema italiano però. Ne Il Sorpasso di Dino Risi il personaggio di Bruno Cortona, magistralmente interpretato da Vittorio Gassman è megalomane, chiacchierone, profittatore, ha molti difetti, ma ti accorgi alla fine della sua fragilità, che è sostanzialmente buono e infelice e finisci per parteggiare con lui, l’antieroe, con un trasporto emotivo.

Però, già alla fine degli anni ’50, emerge un’ulteriore categoria, il Rough Hero, che nel libro che ho scritto con Terroni (Valori al cinema) abbiamo chiamato l’eroe brutale, l’eroe cioè cattivo, che ha dei tratti negativi tali da non poter essere definito buono e tuttavia patteggiamo per lui. Potrebbe essere per esempio Michael Corleone, ovvero Al Pacino ne Il Padrino parte I e II, è un personaggio affascinante ma negativo. Allora perché ci attrae?

Secondo la teorica americana Ann Wescott Eaton, questi personaggi ci attraggono, nonostante siano assolutamente irredimibili, e ci identifichiamo con loro perché capaci di illuminare quella parte negativa di noi, quella parte brutale che teniamo nascosta. Come diceva Freud la civiltà serve a questo, a contenere le nostre pulsioni negative, ma quando le vediamo rappresentate al cinema allora simpatizziamo con questi personaggi perché parlano di noi e di queste tendenze intrinseche.

Secondo Eaton, Alex il protagonista di Kubrick di Arancia Meccanica appartiene a questa categoria.

Alex è molto intelligente, è sensibile, apprezza moltissimo, in un clima di degenerazione culturale umana, la musica di Beethoven, apprezza la grande arte, sa cogliere il bello. Allo stesso tempo però usa la sua intelligenza per orchestrare crimini tremendi, ruba, tortura, violenta, uccide e gode nel farlo. Secondo la Eaton noi simpatizziamo per lui perché appunto è capace di illuminare quella parte di nascosta di noi.

Credo che, soprattutto rispetto a questo personaggio, non sia così e che Arancia Meccanica non voglia dire questo. Noi simpatizziamo per una ragione diversa.

A un certo punto Alex viene condannato a 15 anni di carcere, simula di essere diventato buono e gli si presenta un’occasione. Viene a sapere di una terapia sperimentale chiamata Ludovico, in cui si inducono alcuni condannati a diventare persone diverse. Vengono indotti a vedere immagini violente per giorni, senza possibilità di distogliere lo sguardo al punto da avere ripugnanza per il male. Allo stesso tempo però queste immagine sono accompagnate dalla musica di Beethoven (che potrebbe avere un senso rispetto a questa terapia perché a un certo punto si vedono le immagini dei nazisti che consideravano Beethoven come un antesignano della grandezza tedesca.) Alex si sottopone a questa cura ed esce dal carcere impossibilitato a fare il male; appena cerca di aggredire, di insultare qualcuno ha un incredibile senso di nausea e non può fare nulla. Ma la stessa cosa gli succede quando sente la musica che prima tanto apprezzava, non riesce più ad apprezzarla. Metafora fortissima che viene chiarita in due dialoghi centrali nel film tra un bislacco cappellano della prigione, che Kubrick stesso definisce il personaggio positivo, e Alex. Quando Alex gli chiede di essere sottoposto alla terapia, alla fine della quale prevedeva la scarcerazione, il prete gli dice che però in quel modo sarebbe diventato una macchina per fare il bene. Non riuscendo più fisicamente a fare il male, gli dice, agirai meccanicamente nel fare il bene, perdendo la capacità di scelta. Perderà il libero arbitrio. E ciò vuol dire perdere l’umanità, perdere ciò che ci rende umani, la possibilità di scegliere di essere buoni. La morale disturbante di questo film ci dice che è preferibile Alex quando è sadico e cattivo che quando diventa una macchina per fare il bene, perché perdendo la libertà, anche di fare il male, perde anche quella di fare il bene. Il male è il prezzo che dobbiamo pagare per avere la possibilità di fare il bene, senza libero arbitrio non sarebbe il bene.

Quindi noi non ci identifichiamo con Alex per quegli istinti brutali che abbiamo nascosti in ognuno di noi, ma perché esprime quella idea del libero arbitrio.

Alex rappresenta la dualità, è cattivo, perfido ma è anche in grado di apprezzare il bello, l’arte perché può scegliere, ma dopo perde tutto, non può neanche più apprezzare il bello.

Una persona pur malvagia, proprio perché dotata di libero arbitrio, ha la capacità di scegliere il bene, di redimersi. Perciò, secondo il mio parere, quando ci identifichiamo nel personaggio cattivo di un film, come in Alex, è perché speriamo che per quel personaggio, potenzialmente, si possa aprire un futuro diverso. Che abbia dentro di sé qualcosa di bello che possa dare una svolta alla sua vita, che quindi sia redimibile.

Speranza che non riguarda solo il singolo ma l’umanità intera, che possa avere un futuro migliore.

BELLEZZA E STUPORE

Gabriele Pedullà

Qual è il ruolo dello stupore quando incontriamo qualcosa che ci appare bella?

Partirei da alcuni pensatori antichi che si sono interrogati sul ruolo dello stupore, della meraviglia e che non si sono posti in particolare il problema della bellezza, ma che ci aiutano a inquadrare il problema.

Platone, dal Teeteto: «Ed è proprio del filosofo questo che tu provi, di essere pieno di meraviglia, né altro cominciamento ha il filosofare che questo.»

Aristotele, «gli uomini hanno cominciato a filosofare ora, come in origine, a causa della meraviglia.»

Quel non comprendere, il trovarsi di fronte a fenomeni misteriosi, mette in moto il desiderio di sapere. C’è un’altra citazione autorevole «evita di meravigliarti», che sembra in qualche modo entrare in tensione con quello che dice Aristotele, quella del grande filosofo epicureo e poeta romano Lucrezio che, diverse volte nel suo capolavoro, il De rerum natura. Gli studiosi di Lucrezio dicono che questa espressione si ripete perché il poema è incompiuto, non avendo perciò l’autore fatto in tempo a eliminare le ripetizioni.

Ma perché evitare di meravigliarsi? Si capisce che Lucrezio ha risolto le grandi questioni esistenziali, non è più il momento di meravigliarsi per coloro che sono stati illuminati dalla dottrina epicurea e hanno affrontato gran parte delle questioni e anche delle paure che attanagliano gli uomini.  Se il sapere nasce dallo stupore, quando il sapere è stato raggiunto, è del tutto inutile continuare a stupirsi.

Le due posizioni, quella di Platone e Aristotele da un lato e quella di Lucrezio dall’altro non sono perciò incompatibili ma mostrano comunque una tensione sulla utilità o inutilità dello stupore.

Nel tempo infatti lo stupore sarà visto sia come pericolo, rischio che come spinta.

Spostando il discorso su questioni più prettamente estetiche, vorrei partire da una prospettiva quanto più ampia possibile. Mi rifaccio a quella branca dell’antropologia che si interessa dell’estetica delle popolazioni isolate dall’occidente, che studia come si formano i loro valori rispetto alla bellezza. Secondo gli antropologi ci sono tre qualità universali, molto diffuse, della bellezza in queste culture: la simmetria delle forme, la luminosità del materiale, la grandiosità delle dimensioni.

Se noi guardiamo queste tre qualità, simmetria, luminosità, grandezza dal punto di vista dello stupore, ci accorgiamo che la simmetria è un fattore molto comune in natura, che perciò non desta tanta meraviglia, piace ma non è così particolare, è un ordine a cui siamo abituati. Diversa è però la posizione della seconda qualità, la luminosità del materiale, la luce che accompagna le nostre vite ha il potere di meravigliarci e l’apprezzamento per la luminosità coincide spesso con la meraviglia. Questa è una cosa che sanno molto bene i leader politici e religiosi, da sempre, la cosiddetta magnificenza dei sovrani: la lunga tradizione del potere europeo ha spesso a che fare con la luce. La luce serve a persuadere di una superiorità, con argomenti che non sono razionali, contribuisce ad attribuire autorevolezza alle persone, alle cose, è una sorta di attributo del divino e spesso del potere.

(Pensiamo alla Cupola della rocca a Gerusalemme, con la sua cupola interamente d’oro, al Buddha d’oro, la più grande statua d’oro che esiste al mondo del XIII XIV sec, o all’effetto che suscitava la vista delle armi di bronzo sfilare sotto il sole di Roma, come simbolo della protezione degli dei.)

Passiamo ora al terzo elemento, le dimensioni. Il modo migliore per evidenziare il rapporto tra dimensioni ed esperienza della meraviglia basta riportare alla mente la tradizione classica con le sette meraviglie del mondo: la piramide di Cheope, i giardini pensili di Babilonia, la statua di Zeus a Olimpia, il tempio di Artemide a Efeso, il colosso di Rodi, il museo di Alicarnasso e il Faro di Alessandria. Le sette meraviglie dell’antichità sono necessariamente grandi e luminose. Producono stupore per l’impresa delle loro realizzazione e rimandano all’idea del potere.

Grazie allo stupore, a volte, le dimensioni bastano da sole a prescindere dalla qualità architettonica della costruzione, come se esse fossero già di per se stesse significative. Il modo migliore per illustrarlo è con l’architettura americana tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. (Quartiere di Soho, palazzi di mattoni a cui si attaccavo strutture di ghisa, secondo una concezione neoclassica. Sono alti otto, nove piani. L’effetto è di una architettura estremamente convenzionale ma nel momento in cui passa in una riproduzione a scala superiore diventa qualcosa di molto diverso, già le dimensioni trasformano un’architettura banale in qualcosa di sorprendente da un punto di vista estetico)

Vorrei passare a un’altra questione, e parlare del fatto che esistono vere e proprio culture dello stupore. Non tutte le culture della nostra tradizione occidentale hanno scommesso altrettanto sul momento della meraviglia. Ma quella che l’ha fatto più di tutte è senza dubbio il barocco. E famosa rimane la dichiarazione di Giambattista Marino, massimo tra gli esponenti della poesia barocca

«È del poeta il fin la meraviglia, parlo dell’eccellente e non del goffo/chi non sa far stupir, vada alla striglia!»

Tale stupore si ottiene in modi molto diversi. Per esempio parlando attraverso metafore per descrivere in maniera inaspettata elementi semplici. (Un esempio Il canto dell’Usignolo dall’Adone di Marino, per altro uno dei poemi più lunghi della letteratura italiana, in cui un usignolo viene definito atomo sonante, voce pennuta, piuma canora, canto alato).

Ma anche fuori dalla letteratura, con la Galleria di Palazzo Spada, uno degli esempi maggiori di illusione ottica che gli specialisti chiamano prospettiva accelerata, quando cioè con un pavimento in salita e un soffitto in discesa si riesce a far sembrare di grandi dimensioni qualcosa che non lo è (la statua centrale di questa galleria alta circa 60 cm appare a grandezza naturale).

Questo mi porta a riflettere e a volervi far riflettere sulle illusioni della vita terrena e quindi sul un richiamo alla morte, aspetto tipico della cultura barocca. Pensiamo ai fuochi d’artificio, amatissimi in quel periodo, capaci di trasformare la notte in giorno, di creare un incontro di estremi opposti, di riempire il cielo di fuoco e di vita ma destinati a esaurirsi brevemente perché straordinariamente effimeri.

Un buon esempio degli artisti che si confrontano con la morte per generare la meraviglia potrebbe essere l’acrobata Philippe Petit che il 7 agosto 1974 compì un evento spettacolare passeggiando tra i campanili della cattedrale di Notre-Dame su un filo che univa le due parti, senza protezione. E più avanti anche tra le Torri Gemelle di New York, dalla cui performance hanno anche tratto un film.

Un tratto dell’arte che stupisce, a livello estetico, è la paura che non duri, che accada qualcosa a interromperlo. Perché quest’arte è troppo grande e troppo ardita e potrebbe fallire da un momento all’altro.

Vorrei fare un esempio letterario. Nel 1969 il francese Georges Perec pubblicò La Disparition, un romanzo di 300 pagine, non utilizzando mai la lettera e. In realtà la lettera e è molto più preziosa in francese che non in italiano.

Qualche anno dopo scrisse un altro libro, Les Revenentes, utilizzando solo la vocale e, ma anche qui il gioco rimanda ad altro, a un proprio al ricordo d’infanzia in cui racconta indirettamente dei genitori morti nella seconda guerra mortale. Nella dedica sul libro troviamo Per la lettera E. La lettera e, in maiuscolo, che aveva cancellato nel primo libro e che poi torna nel secondo, suona in francese come loro, ovvero i genitori a cui si rivolge il libro senza parlarne. Forse quando rintracciamo questo indizio, capiamo che la storia che ha raccontato su una delle più grandi tragedie, la seconda guerra mondiale, cammina sull’abisso e gioca, con lo stupore, per parlarci della morte.

Fiori vivi ringrazia:

Treccani cultura www.treccani.it/cultura;

Mario De Caro: filosofo italiano, professore di filosofia morale presso l’Università Roma Tre. Dal 2000, insegna anche presso la Tufts University, dove è regolarmente Visiting Professor. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Il libero arbitrio, Laterza 2004; Realtà, Bollati Boringhieri 2020; Le sfide dell’etica, Mondadori 2021; I Valori del cinema. Una prospettiva etico-estetica, (con Enrico Terrone), Mondadori 2023.

Gabriele Pedullà: critico letterario, critico cinematografico e saggista italiano. professore ordinario di Letteratura, Letteratura contemporanea comparata e presso l’Università Roma Tre. Autore di diversi libri di saggistica, con Sergio Luzzatto ha curato l’Atlante della letteratura italiana (Einaudi 2010-12). Tra i suoi libri ricordiamo inoltre Lo spagnolo senza sforzo (Einaudi 2009), Lame (Einaudi 2017) tradotto, o in corso di traduzione, in sette lingue. Biscotti della fortuna (Einaudi 2020).

La libreria Le Storie www.lestorie.it per averci ospitati nei due giorni del Festival della lingua italiana.

Jacques Maritain: un ricordo

di Giancarla Perotti

In occasione della ricorrenza dei cinquanta anni dalla morte del grande filosofo e teologo Jacques Maritain, (18/11/1882 – 28/4/1973) la scrittrice Giancarla Perotti, fondatrice del Centro Ricerche Personaliste Raïssae Jacques Maritain, condivide con noi una riflessione sulla vita e il messaggio di questo grande pensatore che, lungi dall’essere relegabile al suo periodo storico, mantiene nelle sue pagine una profonda attinenza con la modernità.

Ritratto di Jacques Maritain del Pittore Otto Van Rees

La formazione del pensiero

Cinquant’anni fa a Tolosa presso la Comunità dei Piccoli Fratelli di Gesù, di cui faceva parte dal 1970, precisamente il 28 aprile 1973 è morto uno dei più grandi esponenti del tomismo del XX secolo: mi riferisco al pensatore Jacques Maritain. Egli aveva 91 anni ed era ancora impegnato nel lavoro di filosofo nella sua ultima opera dal titolo Approches sans entraves (J. Maritain 1973) di cui stava correggendo le bozze. Tale opera infatti uscì postuma alcuni mesi dopo la sua dipartita.

Jacques Maritain nasce in una famiglia protestante, ma non praticante. Inizialmente ateo, giunge col tempo alla fede cattolica che professerà poi con convinzione e forte coerenza. Egli si convertì alla Chiesa cattolica grazie all’incontro con lo scrittore cattolico più furioso d’Europa, Léon Bloy che fu anche il suo padrino di battesimo.

Dopo il liceo, nel 1900, si iscrive all’Università della Sorbona in cui si respira un clima culturale simile a quello dei nostri giorni, dove prevale il relativismo, corrente che nega la possibilità di pervenire a verità assolute.

Nel 1901 Jacques incontra Raïssa Oumançoff, che diventerà presto sua moglie e compagna di vita; anch’essa atea, si sposano dopo tre anni. Jacques e Raïssa sono tutti e due animati da un forte desiderio di ricerca della verità che dia un senso alla loro vita e li aiuta ad abbandonare la delusione del pensiero positivista.

Maritain ha superato tantissime polemiche con gli uomini della cultura, della politica e della religione del suo tempo, che diverse volte lo avevano aggredito per la schiettezza delle sue posizioni sui problemi più delicati della storia contemporanea. Egli era fiero della sua indipendenza e del suo amore per la verità ininterrottamente ricercata e professata.

Nella prefazione al suo libro Ricordi e appunti si presentava così:

Che sono io dunque? Mi domandavo allora. Un professore? Non lo credo; ho insegnato per necessità. Uno scrittore? Forse. Un filosofo? Lo spero. Ma anche una specie di romantico della giustizia troppo pronto ad immaginarsi, a ogni combattimento, che fra gli uomini sorgerà senz’altro il giorno della giustizia come della verità. Forse sono anche una specie di rabdomante con l’orecchio incollato sulla terra, per captare il mormorio delle sorgenti nascoste, l’impercettibile fruscio delle germinazioni invisibili. E forse, come qualsiasi cristiano, nonostante le paralizzanti miserie e debolezze e tutte le grazie tradite di cui prendo consapevolezza alla sera della mia vita, sono anche un mendicante del cielo travestito da uomo del nostro secolo, una specie di agente segreto del Re dei Re nei territori del principe di questo mondo, un agente segreto che si assume i propri rischi a somiglianza del gatto di Kipling girovagante tutto solo.

Al collegio cattolico Stanislao, dove svolse la sua prima esperienza didattica i suoi colleghi tradizionalisti rimasero scandalizzati, non solo per le sue parole ma anche per la peculiarità di quel suo carattere deciso, dolce di cuore ma duro di testa, che lo accompagnerà per tutta la vita e caratterizzerà la personalità di Maritain. La moglie Raïssa descrive le lezioni di filosofia di Jacques riferendo aspetti attuali anche oggi per molte scuole che si qualificano come cattoliche:

In ottobre Jacques cominciò il primo anno del suo corso di filosofia al collegio Stanislao. […] Gli inizi del suo corso allo Stanislao non furono facili. Aveva deciso di fare della filosofia di Aristotele e di San Tommaso il centro del suo insegnamento; ma il tomismo sembrava all’amministrazione del collegio, agli studenti ed alle famiglie, singolarmente dannoso per il successo finale degli studenti agli esami di diploma, cui si limitava tutta l’ambizione del pensiero (dopo il diploma sarebbe venuta la carriera, che importava assai più delle convinzioni filosofiche). Il direttore del collegio, il canonico Pautonnier, guardava Jacques con occhio preoccupato. Era il canonico Pautonnier che gli diceva con sorridente insistenza: «Mio caro amico, passerà, passerà questo ardore di neofita…»

Ma Jacques qualche anno dopo, in risposta alla provocazione di Pautonnier, nella prefazione dell’Antimoderno, scriveva:

Non è passato, al contrario è diventato col tempo più tenace e più determinato, perdendo, almeno lo spero, l’inutile asprezza della gioventù e dell’inesperienza.

Anche oggi costatiamo che il tomismo non va di moda e tanto meno chi mette il tomismo al centro del suo pensiero.

I Circoli tomisti

O Sapientia […] veni ad docendum nos viam prudentiae

Durante tutta la loro lunga vita, in Francia, in Italia, come in America, i Maritain hanno sempre animato, nella loro casa, gruppi di studio. Sono stati per vocazione iniziatori di circoli tomisti e questo lavoro di promozione intellettuale non era un compito facile, perché sapevano di dovere contrastare coloro che asserivano che tali insegnamenti nulla avessero a che fare con la vita. Ma, come suggerisce Piero Viotto (P. Viotto, Introduzione a Maritain), gli studi di Maritain nascono attraverso una riflessione sull’esperienza. «Il tomismo usa la ragione per distinguere il vero dal falso, non vuole distruggere ma purificare il pensiero moderno […] Il tomismo è una saggezza. Tra lui e le forme particolari della cultura debbono regnare scambi vitali incessanti, ma in se stesso nella sua essenza è rigorosamente indipendente da queste forme particolari» scriverà Maritain. Al primo posto delle loro attività infatti primeggiava la diffusione della filosofia di San Tommaso nei diversi campi del sapere, dalla politica all’estetica.

Il pensiero filosofico tomista di Jacques e Raïssa Maritain lo troviamo principalmente in due volumi, il primo di Jacques Il dottore Angelico presenta le grandi linee del pensiero di San Tommaso a confronto con la filosofia moderna, il secondo di Raïssa L’Angelo della scuola è una biografia dell’Aquinate scritta per i bambini e illustrata con disegni del pittore Severini. Siamo nel 1930, proprio nella prefazione al volume di Jacques possiamo leggere le linee basilari del tomismo da lui delineate:

C’è una filosofia tomista, non c’è una filosofia neo-tomista. Il tomismo non vuole essere un ritorno al medioevo. Il tomismo usa la ragione per distinguere il vero dal falso, non vuole distruggere ma purificare il pensiero moderno e integrare tutte le verità scoperte dai tempi di S. Tommaso. Il tomismo non è né di destra né di sinistra. Il tomismo è una saggezza. Tra lui e le forme particolari della cultura debbono regnare scambi vitali incessanti, ma in se stesso nella sua essenza è rigorosamente indipendente da queste forme particolari. Giudicare il tomismo come un abito usato che si portava al XIII secolo e oggi non si porta più, è ritenere che il valore della metafisica sia una funzione di un certo tempo, e un modo di pensare propriamente barbaro. È un modo puerile giudicare la metafisica in funzione di uno stato sociale da conservare. La filosofia di S. Tommaso è in se stessa indipendente dai dati della fede e nei suoi principi e nella sua struttura non si rifà che alla esperienza e alla ragione, per cui questa filosofia, pur restando perfettamente distinta è in comunicazione vitale con la saggezza superiore della teologia e con la saggezza della contemplazione.

A questo giudizio espresso sul valore e sul significato della filosofia tomista Maritain resterà fedele durante tutta la sua ricerca confermandolo ripetutamente nelle opere successive fino al suo ultimo lavoro, già citato, Approches sans entraves del 1973, nel quale è anche presente il concetto all’autonomia del sapere filosofico pur nel suo collegamento con tutte le altre discipline.

I Maritain intanto avevano fatto della loro casa a Meudon, un centro di incontri e di dibattiti culturali ed è proprio da tali incontri che nascono i circoli tomisti per approfondire lo studio della filosofia scolastica. I circoli erano frequentati da filosofi, teologi, letterati pittori, scultori, musicisti alcuni di loro anche atei, e con ognuno hanno intessuto storie di profonda amicizia.

Si può conoscere l’attività dei Maritain nel libro Ricordi e appunti, scritta da Jacques:

Fu dunque a Meudon, come già dissi, che si svilupparono i circoli tomisti e i loro ritiri annuali. Anno per anno venne aumentando il numero dei partecipanti al ritiro ed anche quello di coloro che assistevano alle riunioni mensili. (Negli ultimi anni parteciparono ai ritiri circa due-trecento persone). Questi circoli di studi tomisti si diffusero anche all’estero, soprattutto in Inghilterra, sotto la presidenza di Richard O’Sullivan, e poi in Svizzera, in Belgio… Quando adesso mi capita di ripensare agli anni di Meudon, non so capacitarmi di come facessimo a sopportarne tutte le fatiche. Oltre alla preparazione dei corsi che tenevo annualmente all’Institut Catholique e dei miei libri (senza parlare delle conferenze all’estero), oltre al tempo dedicato agli amici vecchi e nuovi, che costituivano la nostra grande consolazione, ai visitatori sconosciuti che giungevano con speranze imprecisate e che bisognava soprattutto ascoltare, alle conversioni, ai battesimi, alle vocazioni religiose – cose alle quali non ebbi mai l’empietà di dar la caccia: non erano affar nostro, bensì opera della grazia e qualche volta di consiglieri troppo frettolosi; tuttavia non bisognava mai sottrarvisi.

In realtà, i Maritain non si occupavano esclusivamente dei circoli tomisti e dei ritiri, ma avevano tante altre attività, anche quelle che scherzando chiamavano esoteriche. Si trattava di incontri ristretti dove si discutevano tematiche filosofiche complesse. Molte riunioni terminavano purtroppo senza portare a risultati concreti, altre venivano fatte con la finalità di costituire una società di filosofia della cultura, altre per fondare una società della filosofia della natura. Quest’ultime portarono frutti; si costituì la società che inizialmente prese un buon avvio, pubblicando anche tre o quattro libri di valore, ma poi in seguito ai conflitti politici sorti fra i suoi membri si estinse.

Sul nome di Maritain erano piovuti troppi malintesi, tanti gruppi lo volevano dalla loro parte, ed ecco che egli scrive la Lettera sull’indipendenza:

Il filosofo ha una qualche utilità fra gli uomini solo se rimane tale. Ma rimanere filosofo e agire come filosofo, obbliga a tenere ferma in ogni caso la libertà della filosofia ed in particolare ad affermare a tempo e a contrattempo l’indipendenza del filosofo di fronte ai partiti quali che essi siano. Siano essi di destra, di sinistra, non appartengo ad alcuni di essi. L’indipendenza del filosofo è voluta dalla natura propria di un sapere che di per sé è una saggezza e che, anche quando si riferisce nel modo più diretto al contingente, lo domina sempre; l’indipendenza del filosofo testimonia la libertà dell’intelletto di fronte all’istante che passa. L’indipendenza del cristiano testimonia la libertà della fede di fronte al mondo. È tutto l’opposto di una fuga o di una evasione; tutto l’opposto di una defezione davanti al dramma dell’esistenza e della vita, di un rifugio in una curiosità da ‘spettatore’ disinteressato. Si tratta di un impegno tanto più reale e profondo quanto più la libertà interiore è intatta.

Per Maritain la posizione dell’educatore impegnato negli istituti scolastici, non deve mai essere svolta da un uomo di parte.

Nel 1953 in una conferenza tenuta al Graduate College dell’Università di Princeton, Maritain ritornerà sull’argomento del filosofo nella società, puntualizzando quali siano le due grandi funzioni del filosofo nella società. Queste ultime riguardano la verità e la libertà.

Il filosofo, che dedicandosi al suo compito speculativo, affranca la sua attenzione dagli interessi degli uomini, o del gruppo sociale, o dello Stato, ricorda alla società il carattere assoluto ed inflessibile della Verità. Per quanto riguarda la Libertà, egli ricorda alla società che la libertà è la condizione stessa dell’esercizio del pensiero.

Maritain nonostante non fosse stato mai iscritto a un partito e avesse dichiarato apertamente la sua indipendenza dai diversi gruppi politici dovette difendersi da fraintendimenti e incomprensioni, da chi tentava di strumentalizzare il suo pensiero, che invece rimarrà indipendente fino alla fine.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

JACQUES MARITAIN: Approches sans entravers, Fayard, Paris 1973; Ricordi e Appunti, Morcelliana, Brescia 1967; Le Docteur Angélique, Paul Hartmann, Paris 1929; Antimoderne, Édition de la Revue des Jeunes, Paris 1922; Lettre sur l’indépendance, Desclée de Brouwer, Paris 1935; Il filosofo nella società, (1960) Morcelliana, Brescia 1976.

RAÏSSA MARITAIN, Ou Saint Thomas d’Aquin raconté aux enfants, Alsatia, Paris 1957.

GIANCARLA BARRA PEROTTI Amore e Giustizia nel pensiero di Jacques Maritain, Il Cerchio, Rimini 2009.

PIERO VIOTTO Introduzione a Maritain, Laterza, Roma-Bari 2000.

Fiori vivi ringrazia:

Giancarla Perotti, filosofa, scrittrice (ricordiamo il suo Amore e Giustizia nel pensiero di Jacques Maritain, Il Cerchio, Rimini 2009), fondatrice e coordinatrice del Centro Ricerche Personaliste Raïssa e Jacques Maritain (Acquaviva Picena, Ascoli Piceno).

Costituito il 21 aprile del 2007, il centro promuove momenti artistici-culturali-musicali soprattutto delle nuove generazioni per dare loro visibilità aiutandoli e stimolandoli nelle loro ricerche e nella loro creatività. I settori di specializzazione e di ricerca nei quali l’Associazione articola la propria attività sono tutte quelle scienze e rami di attività che si riferiscono alla cultura, alla società, alla politica, all’etica, al diritto, alla religione, alla pedagogia, alla scienza, alla sanità, all’amministrazione, all’economia, all’emigrazione, all’arte, all’informazione, all’emarginazione, alla storia, all’aggiornamento professionale per insegnanti, con particolare riferimento all’ispirazione personalista e alla dimensione locale, nazionale, europea e mondiale.

[21 aprile del 2007, in occasione dell’importante tavola rotonda dal tema ‘La sfida del personalismo oggi’ il Centro riceve ospiti illustri primo tra tutti il prof. Piero Viotto e il prof. Giancarlo Galeazzi, uno dei più importanti filosofi maritainniani. Nella foto da sinistra Giancarla Perotti, Piero Viotto, Giancarlo Galeazzi, Attilio Danese.]

Lettere di Wittgenstein a Ludwig von Ficker. Intervista a Michele Ragno

Si potrebbe fissare un prezzo per i pensieri. E con che cosa si pagano i pensieri? Credo con il coraggio.
Ludwig Wittgenstein

Una premessa

Il filosofo e ricercatore Michele Ragno, che già in passato si è dedicato allo studio di Wittgenstein (suo infatti il saggio L’arte che schiude il senso. La filosofia dell’arte di Wittgenstein e Heidegger sul valore filosofico dell’arte a partire per l’appunto dai due grandi filosofi del Novecento: Wittgenstein ed Heidegger), nel 2022 cura l’edizione italiana delle lettere di Ludwig Wittgenstein a Ludwig von Ficker. Tale rapporto epistolare, inedito in Italia da decenni, insieme alle altre lettere di Wittgenstein, ci permette di accedere al pensiero più intimo di un autore in cui filosofia ed esistenza risultavano tra loro strettamente congiunti.

Mentre la figura di Wittgenstein risulta maggiormente conosciuta, e non solo nell’ambito filosofico, lo stesso non potrebbe forse dirsi per Ludwig von Ficker. Editore e letterato dei primi del Novecento, lega il suo nome alla rivista di arte e cultura Der Brenner, da lui fondata nel 1910,e subito divenuta un punto di riferimento per la letteratura d’avanguardia. Wittgenstein, dopo aver contribuito economicamente alla attività editoriale dell’amico Ludwig, nel 1919 gli sottopone il suo lavoro più importante, il Tractatus logico-philosophicus, (n.d.a. anche se all’inizio non era questo il titolo originale dell’opera) perché lo pubblicasse proprio sul Der Brenner. Alla richiesta però von Ficher oppose un rifiuto, non credendo nella commerciabilità di un testo così complesso e frammentario. (Cfr. R. Monk, Ludwig Wittgenstein: Il dovere del genio, pp. 178-185)

In dialogo con Michele Ragno

Michele, come è nata l’idea di ridare nuova visibilità editoriale a queste lettere? Sappiamo che la traduzione in italiano mancava da parecchi anni.

M. R «Credo che queste lettere siano state e siano tutt’ora essenziali per comprendere la filosofia di Wittgenstein, perché fanno breccia nella sua vita e nel legame essenziale e indissolubile che per Wittgenstein stesso c’è tra filosofia e vita. La filosofia, e qui c’è sicuramente un atteggiamento in contrasto con la modernità e fondamentalmente più vicino ai filosofi antichi greci, non si limita a teoresi, ma è quella luce che ci guida nell’esistenza. Direi quasi che l’opera essenziale di Wittgenstein non sia tanto il Tractatus logico-philosophicus, né alcun altro testo scritto, quanto piuttosto la sua stessa esistenza, le sue scelte, i suoi errori, le sue risalite.

Non è un caso che, sul letto di morte, egli senta il bisogno di dire queste ultime parole: «Dite loro che ho avuto una vita meravigliosa». Questa affermazione racchiude una carica emotiva intrinseca tale da essere stata per me oggetto di studio e di riflessione.

La prima volta che presi visione di queste lettere le trovai necessarie per capire il Tractatus, per svelare l’anima che si nascondeva dietro quelle fredde e ordinate proposizioni numerate. Pubblicarle dopo così tanti anni di oblio non fa parte di un mero progetto biografico – Heidegger infatti introdusse un corso universitario affermando che della personalità di un filosofo ci interessa soltanto questo: nacque quel tal giorno, lavorò e morì –, un feticcio ossessivo che spesso ci porta a voler ‘spulciare’ ogni singolo aspetto personale – talvolta anche irrilevante – di un personaggio che ammiriamo, ma significa fornire quel tassello mancante del puzzle.

Probabilmente mai nella storia della filosofia vi è stato qualcuno come Wittgenstein tanto capace di racchiudere in se stesso struggente dolore, perfetta coerenza personale e ricerca di autenticità. E leggendo quelle lettere ci si rende conto di come la filosofia di Wittgenstein si possa perfettamente specchiare negli eventi della sua vita: la scelta di spogliarsi dei propri averi per donarli ad artisti austriaci privi di mezzi economici, di partecipare alla Prima Guerra, di abbandonare – ormai da punta di spicco della filosofia anglosassone – un ruolo prestigioso nell’Accademia inglese per fare l’insegnante di scuola elementare in Austria, etc.»

A proposito di queste scelte, nella sua introduzione a Lettere a Ludwig von Ficker. Vienna la guerra, il Tractatus di Ludwig Wittgestein (di cui lei è il curatore) menziona l’abbandono dell’ambiente universitario di Wittgenstein dopo la pubblicazione del Tractatus. Qual era il rapporto di Wittgenstein con l’accademia?

M. R «Sì, tale abbandono si è effettivamente verificato e il rapporto avuto con l’Accademia in generale è abbastanza complesso. Wittgenstein è sempre stato abbastanza sospettoso e diffidente nei confronti della filosofia accademica, da lui criticata perché pensava fosse improprio professionalizzare il pensiero.

Il pensiero ha dei tempi: tempi in cui bisogna seminare e tempi in cui bisogna raccogliere. Il fatto che il pensare sia un lavoro, che dia il sostentamento di un individuo, potrebbe forzare dei processi che secondo Wittgenstein dovrebbero essere assolutamente spontanei. Wittgenstein ha infatti scoraggiato diversi suoi allievi dal perseguire una strada accademica. Per essere filosofi non bisogna essere necessariamente professori di filosofia o accademici ricercatori filosofici. Al contrario, il percorso accademico potrebbe essere un ostacolo per la vera filosofia. Paradossalmente potrebbe essere maggiormente filosofica la vita di un operario – ed egli stesso prese in considerazione l’idea di abbandonare Cambridge per fare l’operaio in Unione Sovietica – rispetto a quella di un insegnante di filosofia.

Sottolineo che lo stesso Tractatus non è nato a Cambridge, in un ambiente accademico: quelle proposizioni sono state piuttosto concepite nella trincea della Prima Guerra Mondiale.»

Wittgenstein viene spesso descritto come il pensatore più antiaccademico che sia esistito. «Ricchissimo, rinuncia all’eredità e vive di borse di studio senza avere nessuna cattedra prima dell’ultima parte della vita. Voleva solo pensare. Non scrivere libri o articoli su riviste. Pensare, perché la sua ambizione era di essere perfetto sotto tutti i punti di vista. Segno d’un egocentrismo che farà poi scuola.» (R. Monk, idem)

Quello che vorremmo chiederle Michele però è se, nel concreto, l’avversione nei confronti della filosofia accademica si traduca necessariamente in avversione verso la disciplina della storia della filosofia?

M. R «Questa è una domanda molto interessante e richiede una risposta piuttosto lunga. In realtà proprio mesi fa mi ero imbattuto in un testo, edito dal Mulino, che conteneva un insieme di saggi sull’importanza della storia della filosofia nel pensiero contemporaneo. Il libro esordiva citando la prefazione al Tractatus di Wittgenstein

In che misura i miei sforzi coincidano con quelli di altri filosofi non voglio giudicare. Ciò che qui ho scritto non pretende già essere nuovo, nei particolari; né perciò cito fonti, poiché mi è indifferente se già altri, prima di me, abbia pensato ciò che io ho pensato

e presentando Wittgenstein come il filosofo analitico par excellence, intenzionato a rompere del tutto i rapporti con la storia della filosofia. Il testo denuncia l’ignoranza wittgensteiniana in materia di storia della filosofia, e bisogna sottolineare come questa sia una critica abbastanza comune al filosofo austriaco. Vero è che Wittgenstein non ha mai avuto una formazione filosofica ‘classica’: ciò è dovuto al fatto che la scelta di dedicarsi alla filosofia sia stata improvvisa, nata nel bel mezzo di studi ingegneristici. Ciò però non annulla l’interesse che Wittgenstein sin dall’inizio aveva avuto nei confronti della filosofia: da giovane infatti aveva letto Schopenhauer, Nietzsche – di cui era grande estimatore –, Kierkegaard. Sappiamo delle sue letture di Agostino, Spinoza e persino Platone, i cui dialoghi sono da lui più volte citati. Su Platone egli stesso scriverà questo pensiero:

I filosofi non sono più prossimi al significato di Realtà di quanto lo fosse Platone… Che strana situazione. Sconcertante che Platone sia comunque riuscito a spingersi così lontano! O anche che noi non siamo riusciti a spingersi oltre! È stato forse perché Platone era così bravo?

Viene perciò da chiedersi il perché di quel passo nella prefazione al Tractatus. Credo che Wittgenstein volesse mettere in chiaro una serie di cose: innanzitutto che la filosofia, essendo appunto strettamente connessa all’esistenza, è un percorso personale e in quanto tale non conta l’originalità: non è importante che io sia il primo a giungere ad una idea vera. L’importante è arrivarci e ciò basta.

L’altro aspetto decisivo che emerge è che la filosofia non è fatta solo di contenuti, ma anche di forme. Ed è forse questa la vera novità del Tractatus. O, ancora meglio, la forma incide su un pensiero tanto quanto il contenuto che viene espresso.»

Le difficoltà del Tractatus

Michele può parlarci della storia editoriale del Tractatus che, in parte, emerge proprio da una serie di lettere scritte dal nostro filosofo?

M. R «Il Tractatus ha incontrato non pochi ostacoli editoriali: essendo un testo breve e ostico nella comprensione, nessun editore era disposto a pubblicarlo. Wittgenstein chiese una referenza al suo mentore Gottlob Frege presso la rivista Beiträge zur Philosophie des Deutschen Idealismus, che aveva pubblicato il saggio di Frege Der Gedanke.

Frege in realtà non fece ciò: era disponibile a scrivere alla rivista per raccomandare la serietà dello scrittore, ma aveva diversi dubbi sul Tractatus – per la poca chiarezza di diverse proposizioni – e su esso sentiva di non poter esprimere alcun giudizio.

L’idea di Frege fu dunque di sezionare il testo, affrontando ogni singolo problema filosofico in una sezione che sarebbe stata poi pubblicata da un periodico, in modo da rendere più chiaro il pensiero nascosto dentro il difficile schema del Tractatus.

Wittgenstein ovviamente rifiutò immediatamente la proposta della suddivisione: come disse a Russell ciò era inaccettabile, perché significava mutilare l’opera dall’inizio alla fine e, in una parola, farne un’opera completamente diversa. La via era improponibile poiché suddividere il testo significava modificarne la forma e modificare la forma a sua volta comportava la snaturazione del testo stesso e dei suoi pensieri. L’importanza della forma, a cui sopra mi riferivo, è ribadita nella prefazione: Se questo lavoro ha un valore, questo consiste in due cose. In primo luogo, pensieri son qui espressi; e questo valore sarà tanto maggiore quanto meglio i pensieri sono espressi. Quanto più se colto nel segno.

Ed è strano che una simile proposta sia venuta proprio da Frege, che in una corrispondenza con Wittgenstein – a proposito del testo –, scrive:

Il piacere della lettura del suo libro non può pertanto raggiungersi sulla scorta di un contenuto già noto, bensì unicamente in base alla sua forma, nella quale s’imprime la peculiarità dell’autore. Per cui il libro è efficace più sul piano artistico che su quello scientifico; ciò che vi si dice è secondario rispetto al modo in cui lo si dice.

Wittgenstein dunque non era disponibile ad alcun compromesso per aumentare le probabilità di pubblicazione, perché l’importanza della sua opera consisteva proprio nella forma con cui quei pensieri erano espressi.»

Lettera a L. von Ficker, fine ottobre 1919

Per concludere riportiamo un estratto di una lettera che Wittgenstein scrisse a Ludwig von Ficker in allegato al manoscritto del Tractatus perché questi glielo pubblichi.

[…] Forse Le sarà di aiuto, se le scrivo un paio di parole sul mio libro: dalla lettura di questo, infatti, Lei, e questa è la mia esatta opinione, non ne tirerà fuori un granché. Difatti Lei non lo capirà; l’argomento Le apparirà del tutto estraneo. In realtà, però, esso non Le è estraneo, poiché il senso del libro è un senso etico. Una volta volevo includere nella prefazione una proposizione, che ora di fatto lì non c’è, ma che io adesso scriverò per Lei, poiché essa costituirà forse per Lei una chiave alla comprensione del lavoro. In effetti io volevo scrivere che il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto, ed inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante. Ad opera del mio libro, l’etico viene delimitato, per così dire, dall’interno; e sono convinto che l’etico è da delimitare rigorosamente solo in questo modo.
In breve credo che: tutto ciò su cui molti oggi parlano a vanvera, io nel mio libro l’ho messo saldamente al suo posto, semplicemente col tacerne. E per questo il libro, a meno che io non mi sbagli completamente, dirà molte cose che anche Lei vuol dire, ma non si accorge forse che son già state dette lì.
Le consiglierei di leggersi la prefazione e la conclusione, poiché sono queste che conducono il senso del libro alla sua più immediata espressione.

Bibliografia di riferimento

RAY MONK Ludwig Wittgenstein: Il dovere del genio, Bompiani, Milano 1991.

LUDWIG WITTGENSTEIN Lettere a Ludwig von Ficker. Vienna la guerra, il Tractatus, goWare 2022.

Fiori Vivi ringrazia

Michele Ragno Filosofo, studioso e scrittore di articoli a carattere scientifico. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo David Foster Wallace come esperienza filosofica (AM 2020); L’arte che schiude il senso. La filosofia dell’arte in Wittgenstein e Heidegger (goWare 2021).

La seduzione del falso. Intervista a Emiliano Ventura

di Claudio O. Menafra

Senti, Filocle,

mi sai dire qual è mai la molla che scatena in tanta gente un’attrazione per il falso così forte,

che ci godono a non dire nulla di sensato, e,

addirittura, più uno racconta un’assurdità, più gli danno retta.

Luciano di Samosata

In occasione della presentazione del libro di Emiliano Ventura la Cattiva Moneta. Un ragionamento sul falso, Claudio O. Menafra ha discusso con l’autore sul concetto di falso, sollevando questioni filosofiche e letterarie.

Questo saggio non vuole essere una storia del falso, cosa in se contraddittoria, ma un ragionamento filosofico su di esso.

Qual è la gestazione del tuo libro, Emiliano? O meglio: come nasce il desiderio in un filosofo che, per definizione, – etimologicamente parlando – ‘ama il vero’, di dirottare le sue ricerche verso il falso?

Che si possa, in qualche modo, raggiungere la verità per mezzo del suo contrario, quasi come una teologia negativa?

E.V «Non è facile rispondere a questa domanda, sicuramente ai filosofi a volte piace presentare in negativo gli argomenti, anche perché la doppia negazione ha il pregio di ricondurre al positivo e spesso è una meravigliosa via di fuga, almeno da certe argomentazioni. La gestazione di un libro è sempre lunga ed enigmatica all’autore stesso, diciamo che la lunga frequentazione con la logica mi ha sensibilizzato contro la retorica, oggi la trovo insopportabile, visto che il falso si nutre spesso di retorica ho cercato di capire i motivi di questo suo spudorato successo. Ecco direi che è stata la curiosità verso il successo del falso a spingermi a questa ricerca.»

Perché la metafora della falsa moneta e qual è la sua origine?

Mi spiego: una falsa moneta nasce perché ne esiste una originale, oppure ha uno statuto ontologico a sé?

E.V «È la legge di Gresham (Thomas Gresham, mercante e banchiere inglese del XVI sec.) secondo cui la cattiva moneta scaccia la buona moneta. Mi sembrava la metafora migliore per suggerire la dinamica tra vero e falso. Se abbiamo tra le mani una banconota in pessime condizioni e una nuova di zecca, noi cerchiamo di spacciare prima quella rovinata, così come il falso, si spaccia molto più facilmente e velocemente del vero.»

Mi piacerebbe ora ripartire da qualche delucidazione tassonomica: in che rapporto stanno i termini: originale, falso e copia?

E.V «Originale e falso sono due categorie. È stato però il falso a far nascere la nozione di originale, ed è un concetto moderno, rinascimentale. Il medioevo e l’antichità greco-romana non conosceva il concetto di originale o di unicità, la bravura dell’artigiano consisteva nel copiare un modello nel miglior modo possibile, non cercava l’originalità ma l’imitazione perfetta. Solo nella modernità, con lo sviluppo dell’arte e la rivoluzione del concetto di artigiano e artista, si è sentita la necessità di attestare la paternità di un’opera per difendersi da falsari o attribuzioni improprie, (qui poi entra in gioco anche un contesto economico molto più florido). Per cui è stato il falso a stabilire l’originale.

Per quanto riguarda le copie, i plagi, le contraffazioni, i simulacri, questi sono tutti concetti inseriti nella macro categoria del falso.»

Ora, scendiamo un po’ nel dettaglio della tua riflessione. Nel tuo libro lasci intendere chiaramente che il falso è più seducente del vero perché ‘avvera’ i pregiudizi, trova il suo fondamento in un contesto di credenze già fornito, risponde a delle idee sotterranee che aspettano solo di essere (ri)evocate – penso ad esempio ai protocolli di Sion. Il vero, invece, di solito scardina e disorienta, e per questo infastidisce.

Può anche essere uno dei motivi per cui il filosofo ha da sempre avuto vita difficile nelle società?

E.V «La filosofia e il filosofo hanno fin da subito una natura agonistica, conflittuale. Il logos si contrappone immediatamente al mythos, poi ci saranno i conflitti con i vari regimi politici, che siano tirannie o democrazie poco importa, la relazione sarà sempre agonistica, gli esempi di Socrate, Seneca, Boezio, Bruno non fanno che confermare questa natura agonica.

Il filosofo inglese Simon Critchley lo ha affermato chiaramente la maggior parte dei filosofi sono stati uccisi o hanno corso il rischio di esserlo.

Detto questo, per rispondere al tuo primo quesito, ribadisco che il falso ha un successo spudorato perché conferma i nostri pregiudizi, o conferma una tradizione orale secolare alla quale tutti credono ma che però è falsa o non dimostrabile.

Il vero al contrario è spiazzante, confuta i pregiudizi, costringe a cambiare idea, teoria, abitudine. Pensa alla difficoltà di passare da una visione del cosmo geocentrica a una eliocentrica, è stato un passaggio lento e non privo di eventi dolorosi. I protocolli di Sion (n.d.r il falso documentale creato dalla polizia segreta zarista nel XX sec. col chiaro intento di diffondere l’odio verso gli ebrei nell’Impero russo.) sono emblematici in questo, un documento falso, apertamente falso e già dimostrato dal ‘Times’ di Londra, viene creduto vero perché confermava il pregiudizio di un complotto ebraico nell’Europa del primo Novecento.»

Se diamo per vera la definizione nietzschiana per cui non esistono fatti, ma solo interpretazioni, allora si può dire – estremizzando, come piace ai filosofi del sospetto – che il falso è in un certo senso connaturato all’uomo? Che gli è più congeniale del vero, quasi biologicamente parlando? Se non possiamo vedere i fatti nudi e crudi, allora siamo in un certo senso già predisposti alla distorsione

E.V «Leonardo Da Vinci diceva che la nostra mente ha la bugia come quinto elemento, tanto il falso è connaturato al nostro modo di percepire e dare un senso alle cose. Anche le neuroscienze hanno dimostrato che spesso i ricordi sono falsati, la mente copre gli inevitabili ‘buchi’ con immagini o fatti incongruenti, avvenuti prima o dopo un certo fatto.

La cosa interessante è che ci sono dei falsi ricordi che ci accompagnano per anni e che sono funzionali, svolgono una funzione significante che può essere anche positiva, in altri casi può essere negativa ovviamente, ciò non toglie che un falso ricordo agisce e modifica il nostro comportamento.

Lo studioso di neuroetica Neil Levy, afferma che una dose di incongruenza (falsità) nelle narrazioni di noi stessi non è compromettente per un sano sviluppo.»

Puoi raccontarmi il falso che fra tutti ti ha stupito per l’enorme presa che ha avuto sulle coscienze? Il falso che ha saputo, in sostanza, sostituirsi alla verità tanto da annientarla.

E.V «Sicuramente la Donazione di Costantino, (Costitutum Costantin) il documento medievale redatto attorno al VII o VIII secolo d.C., la falsità venne affermata già dal cardinale diacono Giovanni dalle dita mozze che lo svela all’imperatore Ottone III nel X secolo. Nonostante questa dichiarazione il falso documento è stato creduto vero fino alla confutazione filologica di Lorenzo Valla (De falso credita et ementita Costantini donatione) nel XVI secolo, e oltre. Tutta la politica delle monarchie europee e dei pontefici è stata condizionata da questo falso documento, che ricordo attestava la superiorità del potere papale su quello imperiale. Una superiorità basata su un documento falso. Questa è la forza del falso, la sua capacità di creare un dominio di verità che agisce realmente e condiziona azioni. Una copia, o un plagio, non ha questa capacità.»

Questa ‘predisposizione’ dell’uomo rispetto al falso, e quindi alla sovra-interpretazione del reale, è anche il motivo del grande successo della letteratura attraverso i secoli?

Di fatto, la letteratura si differenzia dalla cronaca perché crea un universo parallelo, autonomo, indipendente, ma fittizio, non-vero, in una parola: falso.

E.V «La letteratura non ha pretese di verità storiche e non è essa stessa una cronaca, o almeno non lo sarebbe senza perdere la sua cifra più autentica, ovvero la possibilità di tentare di rispondere al problema fondamentale di capire cosa sia un essere umano; come agisce, come pensa, ama, sogna e via dicendo. Questo è sempre stato il suo compito, almeno fino alla nascita delle scienze come la psicologia, l’economia, l’etnologia.

Tali ambito del sapere hanno poi assunte il compito di definire in maniera scientifica il problema uomo e del suo ambiente di vita. La letteratura, pur non essendo una scienza esatta, ha svolto un ruolo esemplare di conoscenza dell’uomo, usando spesso strumenti o argomenti fantastici o mitici, il che non toglie valore al suo modo di essere. Inoltre, se pensiamo alla lingua inglese, la letteratura è fiction, finzione e la saggistica è non fiction

Il falso può insinuarsi ovunque mi sembra di capire: anche nell’empirismo induttivo della scienza? Pensi che questo sia un pericolo concreto?

E.V «Assolutamente sì. Il falso ci tiranneggia partendo dall’esperienza personale. Pensa di nuovo alla teoria cosmologica geocentrica, l’esperienza diretta ci mostra ogni giorno che il sole si muove, sorge e tramonta, così la luna, mentre in realtà siamo noi a muoverci, e la luna, mentre il sole resta fermo. Il falso ci tiranneggia, è spudorato.»

Un’ultima domanda, in cui vorrei chiamare in causa un tema a te caro, di cui hai discusso ampiamente anche in altri libri e che rappresenta un po’ una delle pietre dello stagno intorno alla quale ruota la carpa del tuo pensiero – per usare un’immagine zolliana – e cioè il concetto di pharmakon.

Qual è il pharmakon per il falso? E soprattutto, abbiamo bisogno di un pharmakon?

E.V «Per il falso non vi è un pharmakon, è esso stesso pharmakon nel senso dell’ambiguità del significato, può essere sia rimedio che veleno. Il falso non è eliminabile dalla nostra capacità di cogliere il reale né di argomentare o di conoscere, possiamo solo essere sempre migliori e più professionali nelle nostre capacità di riconoscerlo, ma non potremmo mai sconfiggerlo. Il falso distrugge carriere o le costruisce, ci costringe a non abbassare mai la guardia ma dobbiamo essere consapevoli che spesso sbagliamo e sbaglieremo nel riconoscerlo o non riconoscerlo. Noi possiamo solo cercare di sbagliare il meno possibile.»

Fiori vivi ringrazia

Claudio O. Menafra: linguista, articolista ed insegnante di letterature straniere. Collabora con diversi giornali e riviste, compensando la cronaca con la terza pagina e seguendo le principali uscite letterarie contemporanee, con recensioni e saggi.

Emiliano Ventura: saggista, scrittore e filosofo. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Il mito di Diana e Atteone in Ovidio, Arbor Sapientiae 2018, Mario Luzi. La poesia in teatro, Scienze e Lettere 2010, David Foster Wallace. La cometa che passa rasoterra, Elemento115 2019, Giordano Bruno. Tempo di non essere, Aracne 2021.

La libreria le Storie www.lestorie.it per aver ospitato la tavola rotonda sul Falso e cattiva moneta

La Malattia Mortale: disperazione e peccato in Kierkegaard

di Giancarla Perotti

Genesi dell’opera

La malattia mortale, scritta da Søren Aabye Kierkegaard nel 1849 sei anni prima della sua morte e pubblicata con lo pseudonimo usato per la prima volta di Anti-Climacus, tratta due categorie fondamentali dell’antropologia umana: la disperazione e il peccato. Infatti nella prima parte del testo egli afferma che l’uomo è mortalmente malato e che, tale malattia, è la disperazione, nella seconda dichiara che la disperazione è il peccato. L’opera appartiene, quindi, alla fase più matura e meglio definita del pensiero Kierkegaardiano, a quel momento culminante in cui lo stadio religioso domina e campeggia in uno spazio sovrano e autonomo mentre sempre più recedono lo stadio etico e lo stadio estetico, tappe comunque sempre presenti nell’itinerario spirituale di Kierkegaard.

Già il sottotitolo dell’opera, Un’analisi di psicologia cristiana per l’edificazione dello spirito, sembra mettere a fuoco e circoscrivere l’orizzonte del suo significato. L’argomento viene presentato come un saggio di psicologia cristiana per edificazione e risveglio, in cui Kierkegaard ha un chiaro intento, quello di presentare il problema del cristianesimo con il preciso ed esplicito proposito di contrapporlo al fenomeno degenere della cristianità ufficiale, impigrita e cristallizzata nel suo ordine costituito. Il filosofo ha anche come obiettivo quello di mettere in rilievo il senso di responsabilità che deve avere un uomo cristiano, per questo adotta una forma ansiosa, ma di un’ansia che edifica. Egli fa notare che la disperazione di cui si parla in questo scritto è intesa, come dice il titolo, come malattia.

Il filosofo con tale opera vuole difendere il cristianesimo scomodo, difficile da vivere perché tutto modellato sulla figura del Cristo deriso, umiliato, offeso, percorso e, infine, crocifisso. Il cristiano di Kierkegaard non è colui che ammira il Cristo risorto sfolgorante nel suo trionfo, ma l’iniziatore del Cristo perseguitato che affronta la sofferenza, l’angoscia, la persecuzione, la morte crudele, percorrendo tutte le tappe del suo calvario. Kierkegaard rimprovera con uguale furore due diverse negazioni del Cristo: quella dei nemici che si contrappongono apertamente al suo messaggio e quella dei suoi seguaci imborghesiti che si rifugiano in una cristianità accomodante, benpensante, tutta immersa nelle comodità di una esistenza che non si priva di alcun piacere.

Il pensatore danese presenta la disperazione sia come l’elemento che caratterizza la vita dell’esteta, sia come la condizione che permette il salto dalla vita etica a quella religiosa. Si tratta di due aspetti, spiega il filosofo, di due facce della stessa medaglia. La disperazione è sempre una negazione di sé, del proprio io; ma nel primo caso essa ha luogo in quanto l’uomo è sempre alla ricerca di se stesso, di un io che non coincide mai con quello che di volta in volta egli è, e che non trova mai; nel secondo caso essa è rifiuto totale di sé, è quella rinuncia a sé che si traduce, sul piano della fede, nella assoluta autodonazione a Dio.

La disperazione è una malattia nello spirito, nell’io, e può essere triplice: disperatamente non essere consapevole di avere un io (disperazione in senso improprio); disperatamente non voler essere se stesso; disperatamente voler essere se stesso. (La malattia mortale, p. 13.)

La disperazione appartiene all’uomo come spirito, come io.

Ma che cos’è l’io? È un rapporto che si mette in rapporto con se stesso, oppure è, nel rapporto il fatto che il rapporto si metta in rapporto con se stesso; l’io non è il rapporto, ma il fatto che il rapporto si mette in rapporto con se stesso. (Ivi, p. 13.) 

La gradualità con la quale si sviluppa questo rapporto è che l’uomo è sintesi di finito e infinito, temporale ed eterno, di possibilità e necessità. Ma la sintesi, come rapporto tra due elementi, non è ancora l’uomo; nel rapporto fra due elementi, infatti, il rapporto è un terzo negativo. Così solo quando il rapporto si mette in rapporto con se stesso, il rapporto diventa un terzo positivo, e questo è ’l’io.

Ora l’io, come rapporto che si rapporta a se stesso è un rapporto posto da un altro, quindi oltre ad entrare in rapporto con se stesso, è anche un rapporto con ciò che ha posto il rapporto intero. Di conseguenza possono nascere due forme di disperazione in senso proprio: la prima è la disperazione di non voler essere se stesso, cioè di volersi liberare da se stesso. La seconda è la disperazione di voler essere se stesso che nasce dalla consapevolezza di non potere giungere da solo in uno stato di equilibrio e calma, ma può farlo solo se si rapporta a ciò che lo ha creato come rapporto. Kierkegaard conclude 

la formula che descrive lo stato dell’io quando la disperazione è completamente estirpata è questa: mettendosi in rapporto con se stesso, volendo essere se stesso, l’io si fonda, trasparente, nella potenza che l’ha posto. (op.cit., p. 15).

Anche la disperazione dunque, come ’l’angoscia, caratterizza un rapporto: la seconda, quella del singolo con il mondo, la prima quella del singolo con se stesso. Infatti l’angoscia si manifesta al cospetto di quegli infiniti possibili, e dell’infinità del possibile che il mondo rappresenta per l’uomo; la disperazione nasce invece di fronte a quella radicale incognita che è il proprio io. Due sono i possibili modi di relazionarsi a se stesso; uno è quello di accettare di essere se stesso, l’altro è quello di rifiutare di essere se stesso; ma la disperazione si verifica in entrambi i casi, sia quando l’uomo vuole essere se stesso, sia quando non vuole assolutamente essere se stesso, cioè quando egli rinnega totalmente se stesso, quello che è e quello che potrebbe essere. Nel primo caso il singolo si dispera perché vuole ma non riesce a trovare se stesso nei vari possibili, in quanto tutte le possibilità di essere se stesso si rivelano insufficienti e inadeguate. Nel secondo caso egli si dispera quando percepisce che non c’è più alcuna possibilità di trovare il vero se stesso, e vi rinuncia; e vorrebbe semplicemente distruggere se stesso senza potervi riuscire. Questa seconda è dunque la forma piena, totale, della disperazione; è quella che Kierkegaard chiama malattia mortale.

Cadere nella malattia mortale è non poter morire, ’perché morire significa che tutto è passato, ma morire la morte significa vivere e sperimentare il morire. Su questa definizione iniziale si amplia tutta la prima parte dell’opera: la malattia mortale è la disperazione.

 La realtà del peccato invece, trattata nella seconda parte dell’opera (la disperazione è peccato), viene posta in termini nuovi, concreti, storici. Il peccato non è solo negazione, né una fondamentale funzione dialettica, ma una posizione, non è qualcosa da capire, ma un paradosso, di cui la ragione non riesce a percepire la dimensione teologica. C’è una demoniaca coscienza del peccato che si chiude al bene facendo aumentare la profondità del distacco e non soltanto esclude il bene ma anche il pentimento. È il peccato contro lo Spirito dice Kierkegaard, il peccato che non sarà perdonato, la disperazione finale.

L’uomo e la malattia mortale

Nella Malattia mortale attraverso l’indagine della disperazione e del peccato Kierkegaard studia in modo globale il vivere in rapporto a Dio, tanto da rivoluzionare l’uomo dal profondo della sua esistenza interiore. Per capire bene cosa è la disperazione secondo il filosofo dobbiamo cercare di capire come egli definisce l’uomo. Cos’è l’uomo? L’uomo è una creatura che sintetizza corpo e spirito, è inoltre un rapporto di finito e infinito, di tempo ed eternità, di possibilità e necessità; e questo rapporto si rapporta con se stesso, nel senso che è cosciente di se stesso. Ma in realtà, il rapporto più importante che l’uomo intrattiene è quello con Dio: l’uomo non può e non deve dimenticare di essere creatura divina. 

La disperazione

La disperazione è la malattia dello spirito dell’io cioè dell’uomo. L’opera è ontologica, l’uomo infatti è definito un rapporto che si rapporta a se stesso, come una sintesi di finito e infinito, di tempo ed eternità, di possibilità e di necessità. All’uomo si apre due possibilità: essere se stesso, che comporta di rispettare la natura dei propri elementi costitutivi; non essere se stesso, svilupparsi quindi in maniera arbitraria e unilaterale sovvertendo il proprio intimo equilibrio. Inoltre la disperazione è un’opera di autodistruzione dell’attività dell’essere umano. L’uomo è un essere creato e solo nella fede egli può davvero realizzare se stesso. Quando l’uomo è pienamente consapevole di fronte a Dio, la sua disperazione diventa profonda, diventa la negazione volontaria e cosciente della essenzialità divina per l’esistenza stessa e diventa peccato.

È evidente in Malattia mortale che il filosofo tenta di scuotere l’apatia del lettore affinché possa aderire alla verità edificante con tutto il suo impegno e abbandona la tiepida esposizione cattedratica, per far crescere tutto il pathos dialettico e poetico fondamentale a questa missione di risveglio.

L’uomo è spirito. Ma che cos’è lo spirito? Lo spirito è l’io. Ma che cos’è l’io? È un rapporto che si mette in rapporto con se stesso oppure è, nel rapporto, il fatto che il rapporto si metta in rapporto con se stesso; l’io non è il rapporto, ma il fatto che il rapporto si mette in rapporto con se stesso. (op.cit. p.13).

L’io è sempre in rapporto con un altro. Il fragile equilibrio la cui rottura fa precipitare il rapporto in una disperante stasi spirituale, è mantenuto fino a che il rapporto che si rapporta con se stesso si rapporta con ciò che l’ha posto come rapporto.

Nell’io che spezza i legami con l’altro che l’ha posto come rapporto c’è disperazione. Se tronca tali legami infatti, l’io si immobilizza, diventa statico in se stesso; al contrario, l’io che tiene solidi i legami con l’altro che l’ha posto come rapporto, accetta la propria esistenza come un continuo rapporto di apertura rispetto questo altro, volendo essere se stesso, cioè essenzialmente rapporto, si riflette nello stesso tempo infinitamente nel rapporto con la potenza che l’ha posto. L’io che vuole essere se stesso non nega la propria trascendenza. Nell’apertura all’altro che l’ha posto come rapporto, il rapporto si fa trasparente. Nella disperante chiusura il rapporto si fa opaco e indecifrabile. L’uomo scopre la propria finitezza nell’apertura che segna il limite oltre il quale si dà altro. A differenza dell’animale, che non sa nulla della propria finitezza, poiché non gli è dato di vedere, e che è immune da quella malattia che è la disperazione, l’uomo, e ancor di più il cristiano, siccome questi ha imparato a pensare tutte le cose terrestri e mondane, compresa la morte, è condannato a vedere e a guardarsi. Nel momento della creazione l’uomo è quasi scivolato via dalle mani di Dio.

Dov’è poi l’origine della disperazione? Nel rapporto in cui la sintesi si mette in rapporto con se stessa, nel momento in cui Dio, il quale creò l’uomo come rapporto, se lo lascia quasi scivolare di mano, cioè nel momento in cui il rapporto si mette in rapporto con se stesso. (op.cit. p.17)

     Egli è caduto e si è poi rialzato in un mondo che lo sovrasta per estensione, mentre di fronte a sé infiniti spazi tacciono la possibilità ch’egli possa percorrerli per intero. D’innanzi a ciò che gli è altro e che lo supera da ogni lato, l’uomo che dispera si riconosce miserabile. E in questo riconoscimento c’è grandezza.

     Quindi l’opposto della disperazione, che è la fede, è la speranza e la fiducia in Dio. Tuttavia, la fede è assurdità, paradosso, scandalo, conduce l’uomo al di là della ragione, della logica, della comprensione. Lo scandalo fondamentale del cristianesimo è che la realtà dell’uomo sia quella di un individuo isolato di fronte a Dio.

     Nonostante diversi paradossi del pensiero religioso, la fede crede, ma resta comunque qualcosa di incerto, precario, in quanto essa è espressione della condizione esistenziale umana, che è rischiosa perché dominata dalla precarietà delle possibilità: poiché Dio, è la gigantografia delle possibilità, l’uomo che ha fede non fa altro che rafforzare la condizione dell’esistenza.

     Di fronte all’instabilità costitutiva dell’esistenza dominata dal possibile, la fede si appella alla stabilità di Dio, cui tutto è possibile. Ricapitolando Kierkegaard chiama malattia mortale la disperazione. Perché mortale? Non perché conduce alla morte, molto peggio! È mortale perché consiste nel vivere la morte del proprio io, sentirsi insufficiente e limitato, ma non poter andare oltre se stessi; è un provare la disperazione vivendo. Si continua a vivere in un’eterna agonia, in uno stato di impotenza, come un moribondo, e senza la speranza di morire. Ma essere consapevoli della disperazione è già un passo avanti, perché in qualche modo è possibile superare questo stato. Certo, è necessario un salto, il salto della fede: solo accettando di essere nelle mani di Dio è possibile combattere questo sentimento. 

Il peccato

Per Kierkegaard, il peccato è il rifiuto dell’amicizia con Dio che si è fatto uomo per salvare l’uomo. Il peccatore è colui che non ascolta la voce del Salvatore, che agisce contro l’alleanza.

É questo concetto identico con il concetto del primo peccato, del peccato di Adamo, della caduta del primo uomo? Così talvolta lo si intende, e di conseguenza il compito di spiegare il peccato originale fu identificato con quello di spiegare il peccato di Adamo. (Il concetto dell’angoscia, p. 29)

Secondo i concetti tradizionali la differenza che corre tra il primo peccato di Adamo e il primo peccato di ogni uomo è questa: il primo peccato di Adamo condiziona la peccaminosità come conseguenza, mentre il primo peccato degli altri presuppone la peccaminosità come condizione. (Ivi p. 33)

Kierkegaard esaminando il racconto biblico della genesi del peccato originale, definisce Adamo innocente, fintanto che resta ignorante, finché non conosce le proprie infinite possibilità; ma tale ignoranza contiene già in sé l’elemento che determina la caduta, e tale elemento non è né calma, né riposo, né perturbamento, né lotta, perché non c’è alcunché da cui riposarsi o contro cui lottare. Non è che un niente: ma è proprio questo niente a generare angoscia. A differenza del timore e di altri stati analoghi, che si riferiscono sempre a qualcosa di determinato, l’angoscia non si riferisce a nulla di preciso. Essa è il puro sentimento della possibilità.    

Lo scrittore danese distingue così fra peccato originale e primo peccato.  

Nel cristianesimo il peccato è atto di libertà e il suo muoversi verso la propria perdizione: perché l’io si scandalizza perché non supera la possibilità dello scandalo.

L’uomo che disperatamente non vuole essere se stesso poiché non sa scendere fino nel fondo della sua anima, o perché, giunto di fronte ad essa, dispera per la debolezza che gli impedisce di stringersi nel rapporto con chi l’ha posto come rapporto, è un peccatore. E peccatore è anche l’uomo che disperatamente vuole essere se stesso perché insegue ostinatamente l’infinito che custodisce in sé nel tentativo di farsi assoluto, o perché, spinto dall’odio per un’esistenza colma di sofferenze e percossa dall’assurdo, si scontra con forza contro chi l’ha posto come rapporto.

Qui il peccato è disperazione, è farsi distante da Dio, infatti il peccato è una posizione. L’uomo si fa scivolare di mano Dio quando disperatamente non vuole essere se stesso; ovvero quando disperatamente vuole essere se stesso. Cosa dice la disperazione? Essa dice che si è nel peccato, ovvero in un rapporto ormai compromesso tra l’uomo e chi l’ha posto come rapporto. Chi è colpevole di questo rapporto compromesso? Non certo chi ha posto il rapporto, ma l’uomo che sceglie di non rapportarsi con chi l’ha posto come rapporto

Vi sono dunque due gradi distinti di colpevolezza, di disperazione. In quanto compromesso rapporto con chi l’ha posto come rapporto, v’è il peccato di chi ignora Dio, ossia di chi ignora cosa è il peccato, di chi ignora il rapporto; e c’è il peccato di chi non ignora cosa è il peccato, giacché conosce Dio, ma che insiste ostinatamente nel peccato. Nel primo caso c’è l’uomo naturale, il pagano; nel secondo caso c’è il cristiano.

Il peccatore cristiano, il più disperato tra i disperati, è colui che, dopo aver saputo, per mezzo di una rivelazione da Dio, che cosa è il peccato, davanti a Dio disperatamente non vuole essere se stesso, o disperatamente vuol essere se stesso. La distanza scellerata che il disperato cristiano pone tra sé e Dio, la posizione disperante di fronte a questo, misura l’incapacità di accogliere, tramite le fede, la Rivelazione. Se la possibilità dello scandalo testimonia la distanza infinita che corre tra Dio e l’uomo, il peccato dello scandalo fissa disperatamente il posizionamento di tale distanza. Per Kierkegaard quindi l’individuo è nello stato equivoco di ’un’innocenza colpevole per generazione e di una colpa innocente che si traduce nella malinconia dell’innocenza perduta e nella possibilità del peccato.

M. Ernst, Castor and Pollution 1923

La definizione socratica del peccato

Il peccato è ignoranza. Questo è, come si sa, la definizione socratica la quale, come tutte le cose di Socrate, è sempre un’istanza degna di essere presa in considerazione. Però a riguardo di questo detto socratico è successo lo stesso che di molti altri detti socratici: gli uomini hanno imparato a sentire l’impulso di oltrepassarlo. (La malattia mortale, p. 123).

Il peccato è definito da Socrate come: ignoranza. Il difetto di tale definizione è che non spiega se tale ignoranza sia originaria o sia prodotta a posteriori. Se fosse vera quest’ultima, il peccato non consisterebbe nell’ignoranza ma in altro. La domanda diventa allora un’altra, ovvero se quando l’uomo ha cominciato a oscurare la propria conoscenza, ne fosse cosciente. Se ne fosse stato cosciente allora il peccato non starebbe nella coscienza ma nella volontà. Se il peccato è ignoranza, allora propriamente non esiste, perché il peccato è coscienza.

Ma l’uomo è cosciente di questo processo? E se ne fosse stato inizialmente cosciente allora il peccato non sarebbe il risultato dell’ignoranza, ma piuttosto il risultato della volontà dell’uomo stesso. E che rapporto ci sia tra volontà e conoscenza Socrate non lo puntualizza così come non presuppone l’esistenza del peccato in se stesso; cosa che è ammessa dal pensiero cristiano che si configura nel dogma del Peccato Originale. Se invece l’uomo è ignorante, cioè non ha la consapevolezza del peccato, ovvero non sa cosa sia il giusto, allora il peccato secondo l’impostazione socratica non esiste. Questa è la posizione di partenza del Cristianesimo secondo cui l’uomo non ha coscienza del peccato, in quanto tale, e necessita di un aiuto divino perché si renda a lui manifesto. Sarebbe stata un’obiezione molto pericolosa contro il cristianesimo se il paganesimo avesse avuto una definizione del peccato che il cristianesimo doveva riconoscere come giusta.

Qual è allora la determinazione che manca a Socrate per definire il peccato? È questa: la volontà, l’ostinazione.

La grecità non riesce a comprendere che un uomo possa coscientemente tralasciare di fare il bene, oppure in coscienza conoscendo il bene, fare il male, fare l’ingiusto pur conoscendo il giusto. Per Socrate se un uomo comprendesse in verità una cosa allora la sua vita lo esprimerebbe non come un risultato intellettuale, ma come concezione etica per la vita di ogni giorno. Quindi tra il comprendere il bene e fare il bene manca un passaggio fondamentale, una pietra miliare che il cristianesimo ha definito, cioè la volontà dell’individuo e la sua ostinazione. Il peccato per Kierkegaard consiste nella volontà, non nella conoscenza, e la degradazione di questa volontà non è alla portata dell’individuo, ma trascende la sua coscienza e la sua conoscenza. La possibilità dello ‘scandalo’ consiste nel fatto che è necessaria una divina rivelazione per insegnare all’uomo che cosa è il peccato e quanto profonde siano le sue radici

Allora, che cos’è lo scandalo? Lo scandalo è ammirazione infelice; è perciò una specie di invidia, ma un’invidia che si rivolge contro l’uomo stesso, in un senso più stretto: è la forma peggiore di invidia contro se stesso. La grettezza di cuore dell’uomo naturale non può non invidiare a se stesso lo straordinario che Dio gli ha voluto concedere; perciò si scandalizza. (La malattia mortale p. 120)

La definizione di peccato è: davanti a Dio, disperatamente non voler essere se stesso.  Il peccato non è una negazione, ma una posizione. Se il peccato è determinato negativamente allora il cristianesimo perde il suo carattere, quindi ci deve essere per forza una rivelazione, per insegnare all’uomo cosa sia e questa rivelazione deve essere creduta.

Il pensiero di Kierkegaard è perciò un pensiero essenzialmente religioso: è la difesa dell’esistenza del Singolo, esistenza che si fa autentica soltanto davanti alla trascendenza di Dio.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

CANTONI R., La coscienza inquieta, Mondadori, Milano 1949.

CORTESE A., Kierkegaard oggi, Vita e Pensiero, Milano 1986.

GARAVENTA R., Angoscia e peccato in Søren Kierkegaard, Aracne, Roma 2007. 

GARFF SAK J., Søren Aabye Kierkegaard. Una biografia, Castelvecchi, Roma 2013.

KIERKEGAARD S., Il concetto dell’angoscia, Se, Milano 2007.

KIERKEGAARD S., La malattia mortale, Newton Compton, Roma 1995.

MARIO PIZZUTI G., Invito al pensiero di Kierkegaard, Mursia, Milano 1995. 

MASI G., Disperazione e speranza. Saggio sulle categorie Kierkegaardiane, Gregoriana Libreria, Padova 1971.

Ringraziamo Giancarla Perotti, filosofa, teologa Sacramentaria, scrittrice e fondatrice del Centro Ricerche personaliste Raissa e J. Maritain. Tra i suoi lavori segnaliamo Amore e Giustizia nel pensiero di Jacques Maritain del 2009.

Il paradigma: intervista a Francesco Tigani

di Emiliano Ventura

Parlo di paradigma riferendomi alla prassi leopardiana di unire la poesia e la filosofia, all’impostazione moderna di Poe e di Baudelaire che prevede che non ci sia poeta senza critico. Essendo tu autore di una raccolta poetica e anche filosofo, ci muoveremo proprio su questi campi d’azione.

Nella tua raccolta poetica Il taccuino di Enmerker  recuperi la figura del fondatore della città di Uruk, imparentato con Gilgameš. Da cosa dipende questa tua scelta?

F.T «Per rispondere, prendo spunto proprio dal concetto di paradigma, nel significato più semplice di ‘modello’, di archetipo. In questo senso, potremmo dire che Enmerkar sia un paradigma. È una figura mitologica e in quanto tale funge da modello per qualcos’altro, è di per sé il calco di un’idea. Cerchiamo allora di spiegare che genere di idea sia. Nel poema sumerico Enmerkar e il signore di Aratta viene narrata l’invenzione della scrittura, che gli antichi abitanti di Sumer attribuivano a questo glorioso re, come gli Egizi l’attribuivano a Thot. La differenza è importante, perché per gli Egizi l’inventore di un così grandioso strumento era una divinità, mentre per i Sumeri era un semplice uomo, sebbene un uomo dalle doti straordinarie, tanto da configurarsi come un eroe culturale.

La scrittura è insomma una materia umana, che ha il compito di eternare gli oggetti del pensiero, i moti del cuore, i dubbi, le gesta dei condottieri e il ricordo delle persone comuni, cioè tutte cose espressamente umane.

A un dio non serve la scrittura: la sua onnipotenza e onniscienza gli consente di padroneggiare ogni ente e non dimenticare nulla. La scrittura serve all’uomo, che ha una memoria labile, si lascia sfuggire le cose, e ha bisogno di tramandare le nozioni che possiede per mantenere vivo il passato, avendo a disposizione solo la dimensione del tempo. Se disponesse invece della dimensione dell’eternità, non si porrebbe il problema della successione cronologica, ossia di dover collocare un determinato evento prima o dopo di un altro. E la scrittura serve a questo: a immortalare, a creare una struttura logica laddove vi sarebbero unicamente casualità e incoerenza. Ho dedicato la mia silloge a Enmerkar per rendere contezza di quella che sento come una necessità: la necessità di risalire alle origini della parola.

Il taccuino di Enmerker (Robin 2021)

Io sono sempre stato, fin da piccolo, ossessionato dal linguaggio: dall’impellenza di trovare la parola giusta, di dire le cose nel modo migliore, essendo consapevole che di modi ve ne sarebbero stati in numero illimitato. Enmerkar rappresenta una garanzia mitica, ancestrale, avendo fissato una volta per tutte le parole, imprimendole nell’argilla: un gesto che ha segnato l’inizio alla Storia, innescando la fondamentale evoluzione dall’homo loquens all’homo scrivens. Ma il suo legame dinastico con Gilgameš lo rende ancora più paradigmatico, giacché Gilgameš è l’eroe che cerca la vita eterna, il primo vero predatore del Graal, l’antesignano di Parsifal e della lunga schiera dei suoi emuli. E l’immortalità è proprio quella che Enmerkar ha consegnato a chiunque si avvalga della sua invenzione, che permette di creare qualcosa che rimane, un monumentum aere perennius, come dirà Orazio.

C’è peraltro una forma di purezza nella parola, che è legata al concetto stesso di mito, che in greco vuol dire sia ‘racconto’ che ‘parola’: parola scabra, essenziale, nuda e cruda, intesa come potenzialità significante, come veicolo di costruzione di una moltitudine di significati. In questo senso, la poesia, la filosofia, la storia, la sapienza in generale sono mythoi, perché nascono dalla parola: sono figlie della capacità enunciativa dell’uomo.»

Il mito è il fondamento di ogni possibile strutturazione linguistica, precorre e accompagna la facoltà umana di interpretare la natura. È il segno da cui scaturisce l’orizzonte di senso dell’ermeneutica, che colloca gli individui all’interno di coordinate ben precise e ineludibili: lo spazio, il tempo, la mentalità e il linguaggio stesso.»

In questa raccolta risulta evidente un legame con l’origine o la fondazione, anche in senso generale, mi ha fatto pensare alle Opere e i giorni di Esiodo, in un verso affermi: Un attimo può essere epocale/ e un’epoca svanire in un attimo.

F.T. «Con Esiodo siamo nella stagione in cui la poesia mitologica diventa poesia gnomica, sapienziale. Già nella Teogonia si parla della nascita di divinità che vengono subito associate a concetti (pensiamo a Mnemosine, la Memoria, tanto per fare un esempio). Il nesso fra mitologia e filosofia è dunque segnato fin da questo poema, che riunisce le tematiche profonde che allignano nella coscienza dell’uomo a partire da una loro simbolizzazione, da una loro immagine. Esiodo si può considerare, in un certo senso, come l’antesignano del platonismo: a Platone spetterà il compito di definire lo stretto legame che intercorre fra i pensieri e le immagini. Il termine ‘idea’, che deriva dal greco eidomai ed è imparentato con eidolon, significa proprio ‘immagine’. Le idee sono tali in quanto vengono viste dalla mente: sono presenti alla coscienza sotto forma di idoli, di simulacri. Ma il collegamento con Esiodo, come fai giustamente notare, si coglie con maggior precisione attraverso le Opere e i giorni, che è un poema di fondazione appunto, dedicato al lavoro, alle attività, alle praxeis: a quella dimensione che, avvalendoci del lessico politico della Arendt, potremmo indicare come vita activa. Bisogna comprendere, tuttavia, che la vita activa non è solo quella finalizzata all’utile collettivo e non può essere separata dalla vita contemplativa, giacché essa stessa costituisce una praxis a tutti gli effetti, richiedendo tenacia, concentrazione e una notevole dose di tempo. Il poetare e il filosofare sono dunque modalità di esistenza che rientrano a pieno titolo nella vita activa. Il poeta crea con le parole dei mondi concettuali, il filosofo li decostruisce e li rielabora. Con il termine ‘mondo’ intendo una modalità di esistenza di qualcosa. Esistono allora mondi umani e mondi non-umani: mondi avulsi dalla dimensione abitativa che gli uomini cercano ugualmente di colonizzare, come il mare (dove comincia ad affermarsi il fenomeno delle floating cities, delle città galleggianti) e lo spazio (dove le stazioni orbitanti sono già una realtà). Nella poesia Cristalli di ghiaccio rendo omaggio agli esploratori che per primi raggiunsero l’Antartide, col proposito di antropizzare un luogo dove la vita risulta impossibile e il tempo biologico degli esseri sussiste in uno stato di sospensione, di ibernazione. Qui troviamo infatti l’elemento fondamentale che dà la vita (l’acqua, la prima arché) convertito nel suo allotropo (il ghiaccio), nell’eterna lotta fra le forze del caldo e del freddo che Telesio ricondurrà alla dialettica universale della natura. In questa dimensione, però, l’uomo viene sopraffatto dall’angoscia del Nulla, che per difendersi dal suo baratro maschera con il Sogno e la Speranza. Il che rimanda, per tornare a Esiodo, al mito di Pandora, che finisce per identificarsi con la natura stessa: colei che tutto dona e tutto toglie.»

Non è un caso che torni il concetto del mito.

F.T «Aristotele nella Metafisica lo dice esplicitamente: i primi filosofi sono philomythoi, sono ‘amici del mito’. Questo vale per i presocratici, ma vale anche per i socratici: Platone ricorre spesso al mito e non si potrebbe concepire la sua filosofia separata da quella costellazione di miti che ne costituiscono l’ossatura (i miti di Theut, di Gige, di Er, della caverna, della biga alata, delle cicale, giusto per citare i principali). Ma nel corso dei secoli la filosofia si è progressivamente allontanata dal mito, scegliendo la strada del discorso, del logos. Si è trattato di una trasformazione naturale, ma a lungo andare non credo che abbia giovato alla filosofia: tutt’altro. Fintanto che il passaggio ha riguardato i poli del mythos e del logos, il trauma è stato inavvertito. Ma quando si è aggiunto il polo dell’episteme, della scienza, che ha preteso di dettare legge sugli altri due, relegando l’uno nella sfera della fantasia e l’altro in quello della fumisteria, ecco che la filosofia ha cominciato a perdere il suo ubi consistam. Per recuperarlo bisognerebbe dunque, ritengo, ripartire da quei linguaggi che fortunatamente sono rimasti impermeabili alla scienza e vengono infatti etichettati, senza ombra di dubbio, come “non-scientifici” dalla sensibilità neopositivista della nostra epoca. Mi riferisco alla poesia e al mito, che sono autenticamente alla base dell’universo filosofico e possono condurre sulla strada dell’epistrophé, del ritorno all’Uno, e alla conseguente ‘ricomposizione dell’infranto’, che nel lessico teologico assume il nome di apocatastasi

Tu sei autore di diversi saggi il più recente è un testo di filosofia, L’oscuro argonauta. Sulla forma del tempo e del mistero. Leggendo il libro ho subito colto un aspetto che mi ha molto colpito, il tuo è un saggio di filosofia con un’impronta tradizionale, ovvero presenta una pagina pulita senza note in cui l’argomentazione filosofica non rinuncia, ma anzi provoca, la prosa letteraria. In parole povere non è in linea con i dettami accademici che prevedono un tasso di ‘scientificità’ che finisce per mortificare l’autore e il lettore. Posso chiederti il perché di questa scelta?

L’oscuro argonauta. Sulla forma del tempo e del mistero (Transeuropa Edizioni)

F.T «Io sono sempre stato legato a un’idea tradizionale, originaria, della filosofia. Non a caso, è soprattutto la filosofia antica a essere richiamata costantemente nelle mie pagine. E anche quando mi confronto con autori contemporanei, come Spengler e Schmitt, lo faccio partendo da concetti classici, quali polis, polemos, homonoia, koinonia, katechon etc. A ciò si aggiunga che sono per indole e coscienza un antiaccademico. I miei maestri mi hanno insegnato a diffidare degli schematismi, specie quando questi diventano delle gabbie. “L’uomo nasce libero, ma ovunque si trova in catene”, per citare Rousseau. L’accademia, se cessa di essere un luogo di formazione, di accrescimento, può assumere i connotati di un’enclosure, di un recinto che viola lo ius naturae e stabilisce dei diritti artificiali per alcuni che sono per altri la negazione degli stessi in chiave universale. Se opporsi a questo stato di cose significa essere anarchici, ebbene lo sono. Meglio ancora, preferisco identificarmi nella figura dell’anarca di Jünger, che è uno di quei maestri antiaccademici (come Emerson, Borges, Camus o Sgalambro, e naturalmente Nietzsche) che hanno avuto un ruolo preponderante nella mia crescita personale. Ciò non toglie che altri miei saggi rispondano ai dettami di scientificità previsti dall’accademia, con il loro bell’apparato di note dettagliatissime e una ricca bibliografia primaria e secondaria. In quel caso, trattandosi di “studi” a tutti gli effetti, nel significato più completo del termine, questo tipo di tecnicismi era ammissibile e in un certo senso doveroso. Ma devo dire che anche nei miei studi più convenzionali sono sempre stato abbastanza parco nella disseminazione delle note, tanto da attirarmi molte critiche a livello accademico, perché (come mi venne detto da un professore) in un testo scientifico non è possibile esprimersi con la propria voce, bisogna sempre citare qualcun altro, quindi non può esistere una pagina dove non sia presente almeno una nota. In realtà, quest’ansia citazionista non è affatto garanzia di scientificità o lo è specificamente in un’ottica italica. Sfogliando alcune opere capitali, come quelle di Foucault (per esempio, L’archeologia del sapere e La volontà di sapere), si vedrà che le note sono ridotte all’osso: ciò significa che non sono testi scientifici?»

Assolutamente no, soprattutto se prendi in considerazione, oltre ai testi da te citati, anche La nascita della clinica o La storia della follia, parliamo infatti di un autore che ha faticato non poco per essere accolto anche dall’accademia.

F.T «Il problema è un altro: che, come osservi tu, i dettami accademici finiscono per svilire il valore di un testo filosofico, che dovrebbe essere anzitutto un testo letterario, piacevole da leggere. Se la differenza fra la letteratura filosofica e quella generica risiede in una certa specificità del linguaggio, significa che un testo filosofico è tale per il modo in cui si esprime. L’espressione presuppone però un livello di libertà che dovrebbe costituire la cifra stilistica di un autore, mentre si rivela l’esatto opposto, perché nell’ambito della cosiddetta letteratura scientifica ciò dipende da alcuni orpelli tecnici, come l’apparato delle note e dei riferimenti bibliografici. Si è passati insomma dall’espressività come criterio di originalità a una standardizzazione di elementi comuni, con il conseguente prevalere del conformismo sull’autorialità e dello schematismo sulla libertà di espressione. Nei miei testi più personali, come La nave di Teseo e Virotopia, avevo già abiurato a molti aspetti del conformismo scientifico imperante. Con L’oscuro argonauta, che è un testo ancora più personale, ho deciso di fare un passo ulteriore, concedendomi il lusso di argomentare in totale libertà.»

Il tuo libro di filosofia è anche un omaggio alla filosofia stessa, è presente quella dialettica originaria con cui ogni filosofo deve confrontarsi, mi riferisco all’essere e al divenire, se vuoi l’essere e il tempo. Potresti tornare su questo tema?

F.T «Il tempo è la questione intorno a cui ruota la filosofia nella sua interezza. È l’argomento principe: tutti gli altri ne conseguono inevitabilmente e non possono che confrontarsi e scontrarsi con esso in una lotta all’ultimo sangue. In fondo, la tauroctonia praticata nei culti antichi (come quello mitriaco) è una sorta di cronomachia, perché il Toro rappresenta astronomicamente la precessione degli equinozi e la sudditanza della Terra alle leggi del cambiamento, quindi testimonia la volontà dell’uomo di dominare e uccidere il tempo per garantirsi una stabilità che a livello cosmico non esiste. Dal tempo dipende la forma del nostro essere: siamo e non siamo, aspiriamo all’immobilità e all’imperturbabilità e siamo sempre inquieti e transeunti, cerchiamo la terra promessa, un luogo in cui riposare, e finiamo per vestire perennemente i panni del viandante. E l’ombra che ci accompagna è quella dell’Essere, che ci costringe a interrogarci sulla nostra origine e sul nostro destino. E qui viene a inserirsi il dilemma della nave di Teseo, che mutando è rimasta identica a se stessa, ma solo per un artificio. Chi siamo veramente? Quelli che eravamo? Quelli che siamo adesso, in questo preciso momento? Quelli che saremo? Chi può rispondere a questa domanda una volta per tutte, prima che la propria vicenda personale sia conclusa? La verità dovrebbe forse apparire hegelianamente al crepuscolo, portata dalla nottola di Minerva. Ma non bisogna dimenticare che il crepuscolo ha una doppia facies, di cui quella serotina è solo una delle due. L’aspetto più esoterico del crepuscolo si evince al contrario dalla sua variante mattutina, quando la tenue oscurità che lo caratterizza prelude alla luce abbagliante dell’alba. È in questo frangente che si consuma l’opposizione fra il dionisiaco e l’apollineo, fra i chiaroscuri del baccanale e gli accecanti strali del dio del sole, che è tutore dell’ordine cosmico. Ciò che rimane fra la tenebra e il barbaglio, fra il trambusto e il silenzio è la gnosi del profondo. Nella sapienza orientale è il rintocco di una campana a risvegliare l’Essere: una vibrazione che racchiude nei suoi echi i cicli delle reincarnazioni, che contengono ciascuna un risvolto dell’Essere, una sua determinazione particolare. Nella dialettica fra Essere e tempo, l’Essere sembra uscire sconfitto: la nave di Teseo, che ha mutato ogni singolo pezzo che la componeva, ha perduto la sua identità. Ma in questo libro io parlo di un’altra nave: parlo di Argo, la ‘Rapida’, la nave magica che riportò indietro il Vello d’Oro, la reliquia dai poteri risananti, immortalizzanti, come la pianta di Gilgameš, come il Soma del Rigveda e l’Haoma dell’Avesta, come il Graal dei cavalieri. La vittoria dell’Essere sul tempo avviene quando si realizza che il tempo non è qualcosa di irreversibile, non segue un’unica direzione: quando all’immagine della freccia si sostituisce quella del cerchio, dell’ouroboros, del serpente autofagico, della ruota del chakra. Allora si può comprendere che il senso del tempo non è quello di passare, di scorrere e basta, ma è quello di ritornare. E il ritorno permette una riacquisizione dell’Essere, la reintegrazione delle sue facoltà apparentemente transitorie. E l’epopea degli Argonauti, che può leggersi come il primo nostos, racconta proprio il grande ritorno dal mare del tempo, che è il mare delle possibilità (per citare il titolo di un altro mio saggio): un mare che può essere navigato infinite volte sulle medesime rotte, in un verso come nell’altro.»

Mi fa piacere che hai accennato alla simbologia del serpente, che tu hai illustrato in maniera dettagliata, approfondita. Volevo chiederti di tornare sulla polifunzionalità di un tale simbolo, esso cambia significato con il mutare di una cultura, per gli antichi greci o romani ha un significato diverso da quello assegnato dai cristiani. È forse il simbolo che richiama immediatamente l’idea del pharmakon, su cui ti soffermi. Inoltre tu riporti la presenza del serpente anche nello Zarathustra nietzschiano, un filosofo che con l’eterno ritorno dell’uguale ha posto una personale sintesi della dialettica essere e tempo, ti chiedo di tornare su questi due aspetti, la simbologia del serpente e la sintesi nietzschiana.

F.T «Questa domanda, di cui ti sono grato, è molto importante e impegnativa e costituisce probabilmente il nocciolo del discorso. Va detto subito che la simbologia legata al serpente assume una particolare rilevanza, in quanto varia da religione a religione e presenta una stretta attinenza col modo di intendere il tempo in diverse civiltà. Laddove s’impone una concezione ciclica, ecco che troviamo l’ouroboros, raffigurato come un cerchio graficamente concluso ma non concettualmente. Infatti è un cerchio vivente e feroce: il serpente si morde la coda e promette di divorarsi poco per volta fino alla fine. Il che crea un paradosso, come osserva Ernst Gombrich (in Freud e la psicologia dell’arte): che cosa farà il serpente quando non sarà più in grado di mordere, ormai ridotto a un moncherino? Quindi la sua immagine, che dovrebbe sciogliere l’enigma del tempo ciclico, finisce invece per alimentarlo: come succede ne L’enigma dell’ora di De Chirico, dove il vero enigma consiste nel capire quale sia l’enigma (a parte la discrasia fra la luce e l’ora segnata sul quadrante, il dipinto appare del tutto privo di mistero; in effetti, usando la logica, si potrebbe supporre semplicemente che l’orologio sia rotto). Il potere del mistero è dunque quello di replicare sè stesso. Il tema del doppio è uno dei più affascinanti e ricorrenti nella storia della letteratura dall’antichità ai nostri giorni, passando per Plauto, Dostoevskij e Borges, la cui ossessione per gli specchi deriva proprio dalla paura di essere duplicato, di scindersi in Io e non-Io. Il serpente è una sorta di specchio vivente, perché riesce a duplicarsi cambiando pelle, ringiovanendo, lasciandosi dietro le spoglie del tempo per vestire un nuovo corpo, come Sata, il ‘serpente dagli infiniti anni’ del Libro dei Morti. Sempre nella civiltà egizia troviamo un altro serpente, Mehen, che ha un ruolo fondamentale, perché protegge Ra, il dio del sole, nel suo viaggio notturno agli Inferi, creando con il suo corpo una cabina protettiva intorno al dio. Nella fattispecie, il serpente diviene nuovamente garante della ciclicità cosmica, ossia del regolare sorgere del sole al mattino. L’uomo ha quindi cercato di domare questa creatura (simultaneamente mistica e demoniaca) per poter imbrigliare il tempo, senza riuscirci. Non è un caso che dallo zodiaco sia stato escluso un segno, il tredicesimo, che raffigura proprio un uomo nell’atto di domare un serpente: l’Ofiuco, già conosciuto e studiato dagli astrologi babilonesi. Spostandoci oltreoceano ci imbattiamo nel serpente celeste chiamato dai Maya Kukulkán e dagli Aztechi Quetzalcóatl, che è dotato di piume come un uccello e si caratterizza come una creatura ibrida, in grado di volare fra le nubi e saettare sulla terra. Del resto, anche quella del Genesi è una creatura ibrida, descritta inizialmente in posizione eretta (al pari dell’egizio Sata) e solo in seguito, come punizione per il suo inganno, costretta a strisciare sul ventre, mangiando la polvere. Da ciò è dipesa la sua demonizzazione in ambito cristiano, dove il serpente diviene un simbolo satanico, con la Vergine raffigurata spesso nell’atto di schiacciargli la testa: una caratterizzazione diametralmente opposta rispetto alla civiltà greco-romana, che lo associa allo scettro di Hermes (il caduceo), che dissipa le nubi ed è quindi latore di conoscenza, di schiarimento mentale e morale, e alla verga di Asclepio, portatrice di risanamento e assurta a emblema della scienza medica. E a questa si connette la duplicità del concetto di pharmakon, che in greco significa sia veleno che medicamento: ogni farmaco è infatti potenzialmente venefico se assunto in dosi errate, perché il concetto di pharmakon presuppone l’annientamento di qualcosa. Il suo compito è quello di annientare il male che possiede una persona per consentirle di continuare a vivere, ma se non annientasse il male potrebbe annientare la persona stessa e la cura si dimostrerebbe peggiore della malattia. Il farmaco oscilla fra questi due estremi, ecco perché è essenziale la protezione di un dio come Asclepio, che funga da mediatore: la sua verga con il serpente attorcigliato serve a calibrare l’effetto del pharmakon, agendo da equilibratore, da ago della bilancia (la bilancia appunto con cui lo speziale deve dosare attentamente i composti nella preparazione del farmaco). L’immagine del serpente sintetizza allora, alla perfezione, l’ambivalenza del farmaco: il serpente che con il suo morso può uccidere, può anche, allo stesso modo, guarire. Sicché nell’antichità spiccano diversi culti connessi alla venerazione di un serpente guaritore o pantocratore, come i semidei Nāga degli Indù e il dio Glicone di Alessandro di Abonotico, per arrivare al serpente “eucaristico” degli Ofiti. E veniamo così a Nietzsche. La velenosa insinuazione con cui un demone gli prospetta la possibilità dell’eterno ritorno si rivela l’autentica cura per un tempo lineare, teleologico, che non conserva e non restituisce nulla. Solo l’Übermensch può farsi carico del peso di una simile eventualità, utilizzando questo veleno come antidoto contro la mortalità e la fatuità di ogni istante. Nell’eterno ritorno tutto è vano e niente è vano: è vano perché ogni istante ritornerà, quindi perde la sua essenzialità, la sua unicità; non lo è per la medesima ragione, perché ogni istante si qualifica come permanente, eterno, necessario: anche quando sembra fuggire via, in realtà è custodito per sempre, è un frammento ineludibile intessuto nella trama del destino. Il Superuomo è allora l’Ofiuco disceso in terra dal cielo, come il Demiurgo fuggito dall’Iperuranio con la sua particella di eternità stretta fra i denti, l’exaiphnes, l’istante infinito con cui darà forma al tempo, plasmandolo secondo l’ordine della successione cronologica. Il Superuomo è il vero dominatore del serpente, come rivela Nietzsche in un capitolo dello Zarathustra, quello Della visione e l’enigma, dove il profeta della “trasvalutazione dei valori” insegna come trasvalutare il primo fra tutti i valori, cioè il tempo. In questo capitolo troviamo infatti un uomo che sta per avere divorata la lingua da un serpente che si è intrufolato nella sua bocca mentre dormiva e per liberarsene Zarathustra gli consiglia di addentarlo, mozzandogli la testa. Così facendo, il Superuomo porta a compimento il lavorio dell’ouroboros: sottrae al serpente la facoltà di divorarsi a partire dalla coda, rubandogli la forza che lo caratterizza, quella del morso, per appropriarsene. Un’azione che esige il sacrificio del serpente, che viene simbolicamente decapitato. L’Übermensch-Ofiuco ha così vinto la sua battaglia cosmica, come Mitra che sgozza il toro e offre al serpente ormai domato di bere il suo sangue, sancendo il proprio definitivo trionfo sulla tirannia del tempo. Il serpente dei mitrei può intendersi perciò come una raffigurazione eterna del mysta, dell’iniziato, che prenderà posto nel taurobolium per il bagno di sangue e la regeneratio in aeternum, come il serpente egizio Sata che costituisce la forma ultraterrena del defunto immortalizzato.»

Francesco ti ringrazio molto per il tempo che ci hai dedicato, i temi sono talmente tanti e affascinanti che son sicuro avremo modo di continuare questo nostro dialogo, non più intervista ma vero e proprio dialogo.

In dialogo

Francesco Tigani, storico delle dottrine politiche, scrittore e poeta. Tra le sue opere, oltre quelle già citate nell’articolo, ricordiamo Vita d’Europa. La nascita e il declino della coscienza europea, Rubettino 2018, Le ceneri del politico in due capitoli: il teologo e l’erostrato, Moltemi 2019.

Emiliano Ventura, saggista, scrittore e filosofo. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Il mito di Diana e Atteone in Ovidio, Arbor Sapientiae 2018, Mario Luzi. La poesia in teatro, Scienze e Lettere 2010, David Foster Wallace. La cometa che passa rasoterra, Elemento 115 2019, Giordano Bruno. Tempo di non essere, Aracne 2021.

Il valore filosofico dell’arte. Intervista a Michele Ragno

di Gilda Diotallevi

La ponderazione senziente dello stanziarsi dell’arte è interamente e fermamente intonata solo al problema dell’essere. (M. Heidegger, Der Ursprung des Kunstwerkes, Reclam, Ditzingen, 1978, p. 99)

Per affrontare il tema dell’arte e del suo valore filosofico, incontriamo il filosofo Michele Ragno.

Gentile Michele, nel suo ultimo lavoro L’arte che schiude il senso. La filosofia dell’arte di Wittgenstein e Heidegger, lei sostiene che proprio l’interrogazione dell’arte sia in grado di risvegliare la domanda sull’Essere e sul senso del nostro stare al mondo.

Innanzitutto volevo ringraziare la redazione per l’interesse mostrato nei confronti dei miei libri.

Ritengo che ormai la domanda che l’uomo pone sull’Essere sia stata volutamente eclissata e ritenuta ormai obsoleta nella riflessione filosofica a noi contemporanea. Il che non è un bene. Ma il nostro tempo storico è ancora (e chissà per quanto) quello del nichilismo.

Che cosa significa nichilismo? Significa che i valori supremi si svalutano. Manca lo scopo. Manca la risposta al: perché? […] La logica del pessimismo fino all’ultimo nichilismo: che cosa lo agita? Concetto della mancanza di valore, mancanza di senso: in quale misura le valutazioni morali si trovano dietro tutti gli altri valori superiori. Risultato: i giudizi morali di valore sono condanne, negazioni; la morale è volgere le spalle alla volontà di esistere. (F. Nietzsche, Volontà di potenza)

Ora, con il passare del tempo, grazie a più di un secolo di assimilazione del pensiero nietzscheano, siamo riusciti a comprendere che anche quello di Nietzsche è in realtà un sistema – nonostante lui supponga la negazione di tutti i sistemi – morale, nel senso che è una determinata interpretazione del mondo, legata a una determinata teoria biologico-scientifica evoluzionista, nel quale gut è ciò che sopravvive, incarnato inizialmente dal profilo dell’aristocratico forte, vigoroso, che Nietzsche delinea nelle prime pagine della Genealogia della morale. La morale è per Nietzsche – e infatti non distingue platonismo e cristianesimo, ma li vede come un tutt’uno, così come assimilabili potrebbero essere i filosofi e i preti – uno stratagemma che i più deboli hanno utilizzato per rivendicare potere.

Una via d’uscita dal nichilismo potrebbe per me essere proprio la riscoperta del valore di quella domanda. Essa non è puro vaneggiare, né pura sopravvivenza della specie. Anzi, rappresenta il valore in più dell’essere umano.

Quella domanda ha una fondamentale importanza ‘esistenziale’ – poiché definisce il senso del nostro stare al mondo – e quindi anche ‘etica’: il mio modo di agire dipenderà inevitabilmente dall’idea che io ho rispetto a tutto ciò che mi circonda.

David Foster Wallace, autore a me caro proprio per il suo tentativo di elaborare una via d’uscita dal grigiore dei nostri tempi, scriveva in quello che potrebbe essere considerato il suo manifesto anti-nichilistico, Questa è l’acqua, queste parole:

‘Imparare a pensare’ di fatto significa imparare a esercitare un certo controllo su come e cosa pensare. Significa avere quel minimo di consapevolezza che permette di scegliere a cosa prestare attenzione e di scegliere come attribuire un significato all’esperienza. Perché se non sapete o non volete esercitare questo tipo di scelta nella vita da adulti, siete fregati. […] Questa è la vera libertà. Questo è imparare a pensare. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo: essere continuamente divorati dalla sensazione di aver avuto e perso qualcosa di infinito. (D. F. Wallace, Questa è l’acqua)

Quando siamo di fronte a un’opera d’arte degna di questo nome, siamo colpiti infatti dalla meraviglia per il fatto che qualcosa sia. Come ho già detto in altre sedi, l’arte conserva in sé una immanente potenza di comunicare e quindi la possibilità di cambiare le cose, noi stessi e il mondo che ci circonda. È questa la migliore chiave di lettura per entrare nell’atmosfera artistica e soprattutto costituisce ancora oggi il miglior ‘metro’ di giudizio per distinguere l’arte che vale (che crea un ponte tra artista e fruitore) da quella autoreferenziale, che finisce per essere un mero esercizio tecnico o il tentativo di fruttare qualche spicciolo. Quindi il rispetto verso l’arte positiva, che comunica, è il primo passo che precede la successiva discussione critica del ‘comunicato’, ovvero il messaggio portato.

Spesso però il riconoscimento di questo non è immediato, ma dobbiamo acuire il nostro sguardo, in certi casi ascoltare attentamente, interpretare: non è un fruire passivo, ma noi stessi siamo artisti della stessa opera d’arte, in quanto plasmiamo e organizziamo i dati che giungono ai nostri sensi, rielaborandoli in modo coerente.

Per approfondire il valore dell’arte, nel più ampio senso possibile, lei propone un raffronto tra pensatori apparentemente lontani, come Heidegger e Wittgenstein. Perché proprio la filosofia dell’arte è in grado di operare una connessione tra le loro teorie?

Nonostante la storia della filosofia del XX secolo, in parte ancora fortemente condizionata dalle etichette di ‘filosofia analitica versus continentale’, abbia fatto di loro le icone di due movimenti filosofici praticamente contrapposti, le loro filosofie hanno molto in comune. Soprattutto quando si cerca di giungere a quelle domande filosoficamente impegnative. Per quanto riguarda il pensiero sull’arte ciò che è interessante, ed è comune sia al pensiero di Heidegger quanto a quello di Wittgenstein, è che esso non si limita ad essere mera teoria estetica. La vera filosofia dell’arte non ha a che fare semplicemente col mero gusto estetico. L’estetica è una dimensione superficiale della riflessione sull’arte, che indaga sul come la nostra sensibilità è colpita da oggetti (tra cui quelli cosiddetti artistici) e su come siano diverse le reazioni a tale incontro.

Wittgenstein annotava infatti nei Tagebücher – gli appunti che hanno dato vita al Tractatus – che «L’opera d’arte è l’oggetto visto sub specie aeternitatis; e la vita buona è il mondo visto sub specie aeternitatis. Questa è la connessione tra arte ed etica». Nel Tractatus invece scriveva: «La visione del mondo sub specie aeterni è la visione del mondo come totalità – delimitata –. Il sentimento del mondo come totalità delimitata è il sentimento mistico».

Etica ed estetica (nel senso wittgensteiniano del termine) infatti non possono formularsi come teorie, perché hanno a che fare con il valore assoluto e questo a sua volta non si costituisce come fatto o nei fatti:

Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore. Se un valore che abbia valore vè, esso dev’essere fuori di ogni avvenire ed essere-così. Infatti ogni avvenire ed essere-così è accidentale. Ciò che li rende non-accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev’essere fuori del mondo.

E nel silenzio e dal silenzio che l’io, il mondo e la parola emergono tra loro originariamente uniti. […] quel silenzio che la parola custodisce e reca in sé, scriveva Carlo Sini, per lei il silenzio è un tentativo di cogliere l’Essere?

Non abbiamo probabilmente compreso – i filosofi della scienza di certo fortunatamente sì – che, sia pur incredibilmente utili e sviluppate, le teorie della fisica sono incapaci di dare risposte concrete, complete alle nostre domande. Ricordo ancora un incontro sull’astronomia con Corrado Lamberti, noto divulgatore scientifico che ha diretto con Margherita Hack la rivista “L’astronomia”. Lui ha fatto notare che le onde gravitazionali sono state rilevate solo 101 anni dopo le scoperte di Einstein, allo stesso modo il famoso Bosone di Higgs, che è stato teorizzato nel ’64 e rilevato nel 2012. Tutti gli scienziati in questi anni di risultati pressoché nulli hanno continuato a fare ricerche ed esperimenti, sicuri del fatto che questi esistessero, nonostante nessuna prova concreta, proprio perché rispondevano ad una idea di bellezza, ordine e armonia.

I disegni del matematico (e allo stesso modo del fisico) come quelli del pittore o del poeta, devono essere bellissimi; le idee, come i colori o le parole, devono combinarsi in modo armonioso. La bellezza è la prima prova da superare; al mondo non c’è posto per la matematica brutta. (G. H. Hardy, Apologia di un matematico)

La teoria fisica della supersimmetria è questo. Ad ogni particella ne corrisponde una opposta (fermioni-bosoni) di uguale massa. E quindi dobbiamo chiederci: perché la bellezza? Perché la simmetria?

E se fosse esattamente il contrario? Se tutto ciò che vedessimo dell’universo conosciuto fosse una minuscola parte, delle dimensioni di un piccolo punto, di un universo molto più grande? In questo contesto numeri misteriosi come la costante cosmologica sono completamente casuali e nel multiverso esistono altre regioni con altri valori casuali. Solo in una piccolissima parte, per motivi del tutto accidentali, i numeri assumono valori speciali che permettono alle stelle di formarsi e agli esseri viventi di vivere.

Rischio così di andare fuori tempo, ma il punto è questo: il silenzio permette di cogliere l’aspetto ancora misterioso del mondo per noi. In un periodo come il nostro ciò non è scontato. Al contrario, pare che l’uomo si senta in grado – e qui la riflessione di Heidegger è fondamentale – di poter utilizzare il mondo come un oggetto qualsiasi nato per realizzare i suoi scopi. Non a caso Heidegger stesso scrive, ne La questione della tecnica:

Poiché l’essenza della tecnica non è nulla di tecnico, bisogna che la meditazione essenziale sulla tecnica e il confronto decisivo con essa avvengano in un ambito che da un lato è affine all’essenza della tecnica e, dall’altro, ne è tuttavia fondamentalmente distinto. Tale ambito è l’arte. (M. Heidegger)

Bibliografia di riferimento:

G. H. HARDY, Apologia di un matematico, Garzanti, Milano 2002.

M. HEIDEGGER, La questione della tecnica, goWare, 2017.

F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, Bompiani, Milano 2001.

M. RAGNO, L’arte che schiude il senso. La filosofia dell’arte di Wittgenstein e Heidegger, goWare, 2021.

D. F. WALLACE, Questa è l’acqua, Einaudi, Torino 2017.

L. WITTGESTEIN, Tractatus logico-philosophicus. Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 2009.

R: FLORILEGIUM II

di Gilda Diotallevi

In questa sede abbiamo a lungo discusso circa l’idea del bello e dell’arte in generale, tralasciandone però un aspetto che sembra essersi perso nell’attuale concezione di estetica moderna. Se è vero infatti che alcuni elementi su cui oggi ci troviamo a riflettere derivano, in maniera più o meno diretta, dalla tradizione antica del pensiero filosofico, (pensiamo ai caratteri della luminosità della bellezza in Omero, allo splendore del sensibile o alla simmetria e proporzione che caratterizzano la bellezza dei Pitagorici), altri aspetti invece sembrano essersi eclissati.

Esistono sfumature inattese che legano indissolubilmente il bello al rischio dell’inganno e alla necessaria chiamata in causa di una prospettiva etico-morale. Se in Esiodo Afrodite, dea della bellezza, esercita un vero e proprio potere sull’uomo, in Platone la bellezza assume una forza diversa, quella della persuasione, in grado di attrarre e ingannare.

Proprio tale elemento della forza persuasiva, della capacità ingannatrice, che il pensiero arcaico aveva accentuato, viene pian piano scomparendo. L’arte perciò perde il suo legame con il bello, che recupera attraverso una normatività che non trattiene alla sua base il bello ma altri valori.

Ed ecco che a noi giunge quella condanna platonica alla poesia, che la tradizione considera diretta alle arti tutte, in grado solo di imitare la natura. Non è cioè una forma di conoscenza ma, al contrario, una forma di inganno, un allontanamento dal vero e dal disvelamento, un velo sulla realtà. Essa non educa e non migliora l’uomo perché si rivolge alle sue facoltà arazionali, alla parte meno nobile dell’anima.

Nella Repubblica, in particolare nel libro X, Platone definisce l’arte, in ogni sua espressione, mimesi da un punto divista ontologico, imitazione del sensibile. E se il sensibile è solo immagine dell’Idea, l’arte si trova a essere imitazione di un’imitazione, producendo un allontanamento ulteriore dell’anima dalla visione delle Idee.

Eppure proprio l’arte, se sottomessa alle leggi del bene e del vero, può continuare a esistere. Si sviluppa in tal modo una relazione intensa tra il bello e il bene, veicolata dalla presenza della sovrapposizione tra bene e vero. La bellezza può essere persuasione, corruzione come la retorica, ma può essere anche virtù se corrispondente al giusto.

Di questi aspetti parla il Gorgia, Γοργίας, l’opera platonica di cui riportiamo alcuni passi scelti.

IL GORGIA, Platone

Personaggi:

Socrate = filosofo

Gorgia di Leontini = famoso retore e sofista

Polo = retore siciliano allievo di Gorgia, molto giovane

Callicle = giovane aristocratico

La persuasione (arte e retorica)

Passi 453a-455b

SOCR. Ora sì, Gorgia, ora mi sembra che tu abbia [453a] chiarito molto meglio cosa tu intenda con arte retorica, e, se ti ho ben capito, sostieni che la retorica è fattrice di persuasione e che tutta la sua opera e la sua stessa essenza hanno questo fine; o puoi affermare che le possibilità della retorica vanno oltre tale scopo, oltre la capacità di produrre persuasione nell’animo degli ascoltatori? GORG. Oh no, Socrate! Mi sembra, anzi, che tu l’abbia definita perfettamente. Tale è l’essenza della retorica. SOCR. E ora ascoltami, Gorgia! Devi sapere che se altri esiste, il [b]quale si metta a discutere con la ferma volontà di rendersi chiaramente conto di quello che sia l’argomento del discorso, ebbene, sono convinto che uno di questi sono proprio io, e anche tu, voglio credere. GORG. E con questo, Socrate?  SOCR. Ti dirò sùbito. In cosa consista codesta persuasione, di cui tu parli, frutto della retorica, e a cosa essa persuada, sappi che davvero non lo so con chiarezza, anche se credo di supporre quale ne sia, secondo te, la natura e quale l’oggetto. Nonostante ciò ti pregherò di volermi dire tu stesso in che consiste, secondo te, questa [c] persuasione frutto della retorica e in quali campi essa operi. Ma perché, pur supponendo il tuo pensiero, lo chiederò a te e non lo dico io stesso? Non lo faccio per te, ma in funzione del discorso, perché così esso proceda in modo da farci risultare quanto più è possibile chiaro il nocciolo dell’argomento. Guarda un po’, dunque, se non ti sembra giusto che io ti ponga delle domande. Se, per esempio, ti avessi chiesto che tipo di pittore è Zeusi e tu mi avessi risposto: “Un pittore di figure animate”, avrei, o no, il diritto di chiederti quali figure dipinge? GORG. Senza dubbio. SOCR. Per questo, forse, ché vi sono altri pit-[d]tori che dipingono molte altre specie di figure viventi? GORG. Sì. SOCR. E se, invece, nessun altro, all’infuori di Zeusi dipingesse, avresti risposto correttamente? CORG. Come no? SOCR. E allora, anche rispetto alla retorica, dimmi: secondo te, solo la retorica ha la funzione di persuadere, o anche altre arti? Voglio dire: chiunque, qualsiasi cosa insegni, di ciò che insegna persuade, oppure no? GORG. Senza dubbio, Socrate, persuade e sopra tutti. SOCR. [e] E allora veniamo di nuovo a quelle arti, di cui parlavamo sopra: l’aritmetica e chi si occupa di aritmetica non c’insegnano le proprietà dei numeri?  GORG. Esatto. SOCR. L’aritmetica ha, dunque, una funzione persuasiva?  GORG. Sì. SOCR. Ma allora, anche l’aritmetica è artefice di persuasione? GORG. Evidente. SOCR. Se qualcuno ci domandasse, dunque, di quali specie di persuasione si tratta e quale ne sia l’oggetto, risponderemo che si tratta della persuasione relativa all’insegnamento delle quantità [454a] pari e dispari. E così potremmo dimostrare che tutte le altre arti, precedentemente enumerate, sono artefici di persuasione, e dire di che specie di persuasione si tratta e quale ne sia l’oggetto. O no? GORG. . SOCR. Non la sola retorica, dunque, è artefice di persuasione. GORG. Vero! SOCR. E allora, poiché non la sola retorica, ma anche altre arti producono tale effetto, abbiamo il diritto, come nel caso del pittore, di porre al nostro interlocutore un’ulteriore domanda, e chiedergli: quale specie di persuasione si realizza mediante la tecnica retorica e di cosa per-[b]suade? Non ti pare giusto aggiungere una tale domanda?  GORG. Sì.  SOCR. E allora rispondi, Gorgia, dal momento che anche tu lo ritieni giusto. GORG. Sostengo, Socrate, che la persuasione retorica è quella che ha luogo nei tribunali e in altri luoghi ove si riunisce la folla, come già prima dicevo, e che oggetto di tale persuasione è il giusto e l’ingiusto. SOCR. Supponevo anch’io, Gorgia, che tu pensassi a questo tipo di persuasione e a questo genere di argomenti: ma perché non ti sembri curioso se, tra un momento, ti farò ancora qualche domanda sullo stesso [c] punto che pur sembra tanto chiaro, ebbene, ripeto, non lo faccio per te, ma perché il discorso proceda con ordine in tutti i suoi passaggi, e perché non si prenda l’abitudine di procedere per supposizioni e di strapparci l’un l’altro la parola di bocca, ma tu possa svolgere il tuo pensiero come vuoi entro i termini della tua ipotesi. GORG. Mi sembra, Socrate, che il tuo procedimento sia esatto. SOCR. Avanti, allora, ed esaminiamo quest’altro punto. C’è qualcosa che tu chiami ‘sapere scientifico’? GORG. Sì. SOCR. E ancora, c’è qualcosa che chiami ‘credere’? GORG. Io sì! SOCR. E secondo te, sapere scientifico e credere, [d] scienza e credenza, sono una stessa cosa o cose diverse? GORG. Personalmente, Socrate, credo che siano diverse. SOCR. Giusto, e potrai convincertene con questa osservazione. Se uno ti chiedesse: “Gorgia, può esserci credenza falsa e credenza vera?”, tu, secondo me, dovresti rispondere di sì. GORG. Sì. SOCR. Ancora: può esserci una scienza falsa e una scienza vera? GORG. Assolutamente no! SOCR. É chiaro, dunque, che credenza e scienza non sono la stessa cosa. GORG. Vero! SOCR. [e] Eppure tanto coloro che sanno, quanto coloro che credono, sono persuasi. GORG. Proprio così! SOCR. Vuoi allora che poniamo due specie di persuasione, l’una dovuta alla credenza non accompagnata da sapere, l’altra frutto di scienza? GORG. Senz’altro! SOCR. Ma quale delle due specie di persuasione è quella dovuta alla retorica nei tribunali e nelle altre pubbliche riunioni in relazione al giusto e all’ingiusto? La persuasione da cui proviene il credere non accompagnato dal sapere, o l’altra specie di persuasione, quella dovuta al sapere? GORG. Evidentemente, Socrate, quella da cui si genera la credenza. SOCR. La retorica, dunque, a quanto pare, è sul giusto e [455a] l’ingiusto, fattrice di persuasione fondata sul credere e non di persuasione fondata sull’insegnamento. GORG. . SOCR. Neppure il rètore, dunque, è maestro nei tribunali e nelle altre pubbliche riunioni per ciò che riguarda il giusto e l’ingiusto, ma suggerisce solo una certa credenza. D’altra parte, in sì breve tempo, non potrebbe certo veramente istruire tanto grande massa di gente su tanto alte questioni. GORG. Evidentemente no!

Il pensiero estetico di Gorgia (Lentini, Siracusa, 490- 391/88 circa a. C) è dato dalla teoria apatetica (apate, inganno, illusione), secondo cui l’arte consiste nella suggestione che genera e nelle conseguenti false convinzioni di che ne è coinvolto. Essa è perciò capace di produrre nell’anima un incantesimo (γοητεία). Gorgia precisa che γοητεία e μαγεία sono due tecniche messe a punto (δισσαὶ τέχναι εὕρηνται) per procurare ‘errori’ ἁµαρτήµατα della psiche e deliberati ‘inganni’ ἀπατήµατα della doxa.

In fondo Peito (Pειθώ) era la divinità o daimona della mitologia greca personificante la persuasione (auspicabile nelle relazioni amorose) e denominata Suada o Suadela (in latino), della seduzione e della persuasione retorica. (Da ricordare che ad Atene la statua di Peito e Afrodite Pandemos erano collocate molto vicine, come anche a Megara, ove la statua di Peitò era situata nel tempio di Afrodite, per cui le due divinità andrebbero non solo ritenute connesse, ma una attributo dell’altra).

Nel pensiero platonico invece il bello è legato al suo aspetto sensibile ma è principalmente connesso al comportamento morale, al buono (καλόν τε καὶ ἀγαθὸν). Così come il male al brutto (κακὸν καὶ αἰσχρόν). Si tratta di una bellezza morale-ontologica, motivo per cui prima di arrivare a definire cosa sia il bello, il Gorgia parte dalla distinzione tra bene e male, giusto e ingiusto.

Le posizioni dialettiche di Socrate da una parte e Gorgia e i suoi allievi dall’altra attestano due stili di vita completamente differenti.

Per Gorgia il sommo bene va raggiunto anche a discapito degli altri, anzi si ottiene opponendosi agli altri e vincendoli, perché il più grande male è subire un’ingiustizia. Con quale arma combattere? Con la persuasione, poco importa la verità. La critica feroce che Platone vuole sollevare verso la retorica è proprio legata al disinteresse per la verità che la squalifica da arte τέχνη, a ἐμπειρία, a una sorte di destrezza nell’adulare il pubblico e producendo piacere.

Per Socrate invece la ricerca della verità è mossa da un autentico desiderio di conoscenza e non dalla volontà di persuadere l’altro. Per lui la cosa peggiore, più brutta, è perpetrare il male, non subirlo.

Subire ingiustizia è meglio che commetterla

Passi 469b-474b

SOCR. Sta attento a come parli, Polo! POLO. Perché? SOCR. Perché non bisogna invidiare chi non è affatto da invidiare, né invidiare bisogna i miserabili, ma compiangerli. POLO. Ma come, ti sembra che debbano essere compianti gli uomini di cui parlo? SOCR. Come no? POLO. Qualsivoglia uomo, dunque, manda a morte chi gli pare, e giustamente, ti sembra un miserabile, degno di compianto? SOCR. No! Ma neppure da invidiare. POLO. Ma non sostenevi proprio ora che è un miserabile? SOCR. Chi ingiustamente uccide, sì, mio caro [b] compagno, e anche oggetto di compianto! mentre chi manda a morte giustamente non è certo da invidiare. POLO. Davvero degno di compianto, miserabile davvero, è chi viene ucciso ingiustamente! SOCR. Meno di chi uccide, Polo, e meno di chi è giustamente ucciso. POLO. Ma che vuoi dire, Socrate? SOCR. Che il supremo male, il male peggiore che possa capitare, è commettere ingiustizia. POLO. Ma come, questo il male supremo? Ma non è un male ancora più grande patire ingiustizia? SOCR. Niente affatto! POLO. Ma tu, tu vorresti piuttosto patire che commettere ingiustizia? SOCR. Non vorrei né patirla né [c] commetterla, ma, tra le due, se fossi costretto a scegliere, preferirei piuttosto patire che commettere ingiustizia. POLO. Tu, dunque, non vorresti essere tiranno? SOCR. No! se dai a tiranno il significato che a tiranno do io. POLO. Ma io do a tiranno il significato che già ora dicevo: esser tiranno significa, per me, avere il potere di fare nella città quello che a uno sembra, mandare a morte, in esilio, fare, insomma, tutto secondo il proprio arbitrio. SOCR. Beato uomo! controbatti pure quello che [d] dico io! Se, ad esempio, nell’ora in cui più affollata è l’agorà, tenendo un pugnale nascosto sotto l’ascella, ti dicessi: “Polo mi sono procurato un potere, un dominio meraviglioso! perché se mi parrà che una di queste persone che tu vedi sia sui due piedi soppressa, ebbene, quella che mi sembrerà cadrà sùbito morta! e se mi sembrerà che debba avere la testa rotta, avrà sùbito rotta la testa, e se lacerata la veste, avrà la veste lacerata: tanto grande è il [e] potere che ho in questa città”, e se tu fossi incredulo, ed io, per prova, ti mostrassi il pugnale, probabilmente tu mi risponderesti: “Socrate, tutti, così, sarebbero capaci di avere un gran potere, e, in tal modo, si potrebbe mettere a fuoco qualsiasi casa ti sembri, l’arsenale di Atene, le triremi, tutte le imbarcazioni pubbliche e private”. Solo che il gran potere non consiste nel fare tutto ciò che ci paia. Ti sembra? POLO. In questo modo, evidentemente [470a] no! SOCR. Ma sai spiegarmi perché non approvi un simile potere? POLO. Certo! SOCR. Perché, dunque? Parla! POLO. Perché chi così agisce deve necessariamente pagarne la pena. SOCR. Ma non è un male la pena? POLO. Senza dubbio. SOCR. Stupefacente uomo, ma, allora, se si fa ciò che si vuole e se ne trae vantaggio, ciò ti pare un bene, e questo, sembra, è il “gran potere”; [b] altrimenti è un male e uno scarso potere. Ma esaminiamo anche questo altro aspetto del problema: è o no vero che compiere quanto dicevamo, mandare a morte, esiliare, confiscare beni, talvolta può essere meglio talaltra no? POLO. Certo! SOCR. Su questo, sembra, siamo tutti e due d’accordo. POLO. Sì. SOCR. E quando, secondo te, è meglio? Entro quali termini? POLO. Rispondi tu stesso, [c] Socrate! SOCR. Personalmente, Polo, se preferisci ascoltare la mia risposta, sostengo che è meglio quando si fanno certe azioni per giustizia; quando le si fanno, invece, per ingiustizia, è peggio.

POLO. Difficile davvero è confutarti, Socrate! Ma non vedi che anche un bambino dimostrerebbe che non sei nel vero? SOCR. Molto grato sarò a questo bambino, e a te sarò grato, se, confutandomi, mi liberi dai miei abbagli. Non stancarti, dunque, dal fare del bene a un amico, e, perciò, confutami! POLO. Non c’è bisogno, Socrate, di ricorrere a vecchie testimonianze per confutarti: [d] bastano fatti di ieri e di oggi per convincerti d’errore, e dimostrarti che molti pur commettendo ingiustizia sono felici. SOCR. Quali sono queste testimonianze? POLO. Non vedi Archelao, figlio di Perdicca, governare in Macedonia? SOCR. Anche se non lo vedo, ne sento parlare. POLO. E felice ti sembra, o infelice? SOCR. Non lo so, Polo; non mi sono mai incontrato con lui. POLO. Ma [e] come, lo sapresti solo se t’incontrassi con lui, e in un altro modo non potresti sapere se è felice? SOCR. Per Zeus, non ho altro modo! POLO. Ma, Socrate, evidentemente neppure del Gran Re potrai dire, così, di conoscere se è felice. SOCR. E direi il vero, perché non so nulla della sua paidèia e della sua giustizia. POLO. Ma come, tutta la felicità consiste in questo? SOCR. Secondo me sì, Polo. L’uomo e la donna veramente belli e buoni, dico, sono felici; l’uomo ingiusto e malvagio è infelice. POLO. Secondo il tuo ragionamento Archelao è, dunque, infe-[471a] lice? SOCR. Se è ingiusto, sì, amico mio. POLO. Ma come non può essere ingiusto? egli non aveva alcun diritto alla signoria che ora possiede, essendo figlio di una donna schiava di Alceta, fratello di Perdicca: secondo il diritto, e se avesse voluto agire secondo giustizia, egli avrebbe dovuto essere schiavo di Alceta, e seguendo il tuo ragionamento, sarebbe stato felice. Egli, invece, è ora divenuto straordinariamente infelice, poi che ha commesso i più gravi delitti. Invitò dapprima presso di sé Alceta, suo [b] padrone e zio, con il pretesto di restituirgli il governo che Perdicca gli aveva tolto, e, dopo avere ospitato lui e suo figlio Alessandro, che gli era cugino e quasi coetaneo, li ubriacò e spintili su di un carro, di notte, li portò via, e dopo averli sgozzati, li fece entrambi sparire. Compiuto tale delitto, non si accorse, certo, d’esser divenuto estremamente infelice, e non si pentì; anzi, poco tempo dopo, an-[c] cora una volta mostrò di non voler essere felice: invece di allevare onestamente suo fratello, figlio legittimo di Perdicca, un fanciullo di sette anni, a cui secondo giustizia spettava il governo, e di restituirgli il potere, lo gettò in un pozzo, lo annegò, e andò a dire a sua madre, Cleopatra, che il ragazzo, inseguendo un’oca, era precipitato in un pozzo, dove era morto. Proprio per questo, dunque, avendo commesso i più gravi delitti, che in Macedonia siano stati commessi, di tutti i Macedoni egli è il più disgraziato, non [d] il più felice, e, forse, esiste un qualche Ateniese, cominciando da te, che preferirebbe essere un qualsivoglia altro Macedone piuttosto che Archelao.

SOCR. Fin dal principio di questa nostra discussione, ti ho lodato, Polo, perché mi sembri eccellentemente preparato in retorica, mentre mi pare che tu non abbia curato affatto la dialettica. Questo sarebbe, ora, il discorso mediante cui perfino un ragazzo mi convincerebbe d’errore e col quale adesso, secondo te, avresti confutato la mia affermazione, che felice non è l’ingiusto? Ma come, mio ingenuo amico? Assolutamente nulla ti concedo di quello che sostieni! POLO. Perché non vuoi, ma in [e] realtà la tua opinione non è diversa dalla mia! SOCR. Beato uomo, tu cerchi di convincermi d’errore retoricamente, come coloro che ritengono di convincere d’errore nei tribunali, ove, appunto, gli uni credono di avere confutato gli altri, quando presentano molti e reputati testimoni di quello che sostengono e gli avversari ne presentano uno o nessuno. Evidentemente la prova non ha così nessun valore [472a] rispetto alla verità, ché, talvolta, contro uno possono premere le false testimonianze di molte e reputate persone. Così ora, se voi presentate testimoni contro di me a prova che dico il falso, deporranno a tuo favore quasi tutti gli Ateniesi e i forestieri. Se vuoi, testimonieranno a tuo favore Nicia di Nicerato e i suoi fratelli, dei quali nel tempio di Dioniso stanno in fila esposti i tripodi; e, se vuoi, [b]Aristocrate di Scellia, del quale c’è in Pito una bellissima offerta; e tutta la casa di Pericle, se vuoi, o qualsiasi altra famiglia ateniese tu desideri scegliere. Eppure io solo non sono d’accordo, poiché tu non mi costringi con vere prove, ma, presentando contro di me testimoni falsi, cerchi di togliermi quella che è la mia ricchezza, la verità. Se io non presenterò proprio te quale unico testimonio a conferma di quello che dico, non mi sembrerà di aver [c]raggiunto nulla di degno sul nostro argomento. E, così, neppure tu, credo, sarai convinto se non ti sarò testimonio io solo, lasciando da parte tutti gli altri. C’è una forma di confutazione che tu e molti altri accettano e ve n’è un’altra accettata da me. Poniamo ora le due forme di confutazione, una di fronte all’altra, ed esaminiamo se sono diverse tra di loro: non cose da poco sono gli argomenti di cui stiamo discutendo; si tratta, anzi, di una questione bellissima a sapersi, bruttissima a ignorarsi, ché tale, appunto, è il nocciolo del problema: sapere o ignorare chi è felice [d] o no. In primo luogo, dunque, per tornare alla nostra discussione, tu ritieni possibile che un uomo che commetta ingiustizie, un uomo essenzialmente ingiusto, sia beato, tanto è vero che ingiusto ritieni Archelao, ma felice. Questo, dobbiamo credere, il tuo punto di vista? POLO. Esattamente.

SOCR. Io dico, invece, che è impossibile. Ecco un punto preciso su cui non andiamo d’accordo. Ma ancora: sarà felice l’ingiusto, qualora sia colpito dalla giustizia e debba pagare il fio della sua colpa? POLO. Per nulla! infelicissimo sarebbe, anzi, in tale caso. SOCR. [e] Ma se si sottrae alla giustizia, secondo te sarà felice? POLO. Sì. SOCR. Secondo la mia opinione, invece, Polo, chi commette ingiustizia, l’uomo ingiusto, è in ogni caso infelice, ma più infelice ancora se non paga il suo debito alla giustizia e non sconta la pena dei suoi delitti, meno infelice se paga alla giustizia e viene colpito dalla giustizia degli dèi e degli uomini. POLO. Ma Socrate, cerchi [473a] proprio di dire assurdità! SOCR. Compagno mio, cercherò, invece, di farti dire le stesse cose che dico io, proprio perché ti considero amico. Questo, ad ogni modo, è il punto su cui ora abbiamo opinioni diverse: vedi un po’ anche tu! io, dunque, prima ho detto che commettere ingiustizia è peggio che patirla. POLO. Esatto! SOCR. Tu hai sostenuto, invece, che peggio è patirla. POLO. Sì. SOCR. Io, di contro, che coloro che commettono ingiustizia sono infelici, e tu mi hai confutato. POLO. Sì, per Zeus! [b]SOCR. Lo credi tu, Polo! POLO. Quello che credo è vero! SOCR. Forse! Tu, comunque, sostenevi che felici sono coloro che commettono ingiustizie, qualora riescano a non pagare il loro debito alla giustizia. POLO. Esattamente. SOCR. Mentre io sostengo che sono estremamente infelici, ma meno infelici, certo, quelli che pagano il debito alla giustizia. Vuoi confutare anche questo? POLO. Questo punto, Socrate, è senza dubbio più difficile ancora dell’altro da confutare! SOCR. No, Polo! non è più difficile, è impossibile, ché inconfutabile è la verità! POLO. Ma che dici! Poniamo il caso di uno che, sorpreso, mentre aspiri [c]illegalmente alla tirannide, venga arrestato, sottoposto a torture, mutilato, accecato col fuoco, e dopo aver sofferto molti e grandi strazi di ogni sorta, e veduto i figli e la moglie patire per gli stessi tormenti, sia alla fine legato alla croce o bruciato vivo in un sacco di pece, ebbene quest’uomo sarà più felice in tal modo, sarà più felice che se, sfuggendo alla giustizia, riesca a fondare una tirannide e viva dominando la città, facendo tutto quello che vuole, invidiato e felicitato da tutti, cittadini e stranieri? Questa la verità [d] che dici inconfutabile?

SOCR. Nobile Polo, tu impaurisci come un bau-bau: non confuti! ora presenti spauracchi, come dianzi testimonianze. Ad ogni modo, fammi ricordare un po’: “se uno aspira illegalmente alla tirannide”, hai detto? POLO. Sì. SOCR. In alcun caso, mai, nessuno dei due sarà più felice, né quello che delittuosamente si sia procurato la tirannide, né quello che abbia pagato il suo debito alla giustizia – di due infelici nessuno può esser più fe-[e]lice -, ma più infelice, certo, chi è sfuggito alla giustizia e si è fatto tiranno. E che, Polo? ridi? E questa, forse, un’altra forma di confutazione, quando uno abbia fatto una certa affermazione, mettersi a ridere, non portare prove ch’egli è in errore? POLO. Ma Socrate, non credi d’esser già confutato enunciando tesi che nessuno sosterrebbe? Prova a interrogare qualcuno dei presenti. SOCR. No, Polo, io non sono un politico; l’anno passato, anzi, sorteggiato membro del Consiglio dei Cinquecento, quando la pritania passò alla mia tribù e toccò a me presiedere la [474a] votazione, mi resi ridicolo, inesperto com’ero della procedura. E, dunque, non mi chiedere ora di far votare i presenti, e se non hai un miglior metodo per confutare, cedi a me la tua parte, come dianzi dicevo, e sperimenta come, secondo me, si deve confutare. Delle mie affermazioni io non so produrre che un solo testimonio e precisamente quello con il quale discuto, tutti gli altri li accantono: uno [b] solo io so fare votare! con molti, impossibile è il dialogo. Vedi un po’ ora se, a tua volta, vuoi passare a me la parte della prova, rispondendo alle mie domande. In realtà io sono convinto che non solo io, ma anche tu, tutti gli uomini, tutti pensiamo che commettere ingiustizia sia peggio che patirla, e che sottrarsi alla pena sia male maggiore che l’essere punito. POLO. Ed io, invece, dico che né io né altro uomo pensa in questo modo. Sei tu, solo tu, che preferiresti patire anziché fare ingiustizia, non è vero? SOCR. Non io solo, ma tu e tutti gli altri.

Subire un’ingiustizia è peggiore che compierla

Passo 474c

Quando Socrate domanda pensi che sia peggio commettere o patire ingiustizia?  κάκιον εἶναι, τὸ ἀδικεῖν ἢ τὸ ἀδικεῖσθαι, Polo, riprende la posizione del suo maestro Gorgia e risponde che subire una ingiustizia sia peggiore che compierla, pur riconoscendo che fare ingiustizia è più brutto (αἴσχιον), cioè moralmente più riprovevole che patirlo.

Per Polo καλόν τε καγαθν (bene e male), così come κακν καασχρόν (bello e brutto) non sono sinonimi (474d)

SOCR. Rispondimi, allora, affinché tu sappia, come se ricominciassimo da capo la nostra discussione. Polo, pensi che sia peggio commettere o patire ingiustizia? POLO. Secondo me, patirla. SOCR. E che ? è moralmente più brutto commetterla o patirla? Rispondi! POLO. Commetterla! SOCR. É, dunque, anche peggio, se è più brutto. POLO. Niente affatto! SOCR. Capisco: secondo il tuo pa-[d]-rere sembra che bello e buono, male e brutto, non siano la stessa cosa. POLO. No davvero!

Il nodo centrale: il bello e il brutto καλόν e αἰσχρόν che nella tradizione esprimono una valutazione morale.

Passi 474e- 477e

[e]SOCR. E allora? Tutte le cose belle – corpi, colori, figure, suoni, istituzioni umane – tali le dici – di volta in volta belle -, senza tener d’occhio nulla? Ad esempio, cominciando dagli oggetti corporei, non li chiami belli relativamente al loro uso, a seconda della loro funzione, o al piacere che dànno a chi li contempla, se contemplandoli allietano? Al di fuori [e] di tali criteri puoi dire belli gli oggetti corporei? POLO. No! SOCR. Ma, allora, anche tutte le altre cose, colori, figure, le potrai denominare belle o per il piacere che suscitano o per la loro utilità, o per l’una e l’altra causa insieme? POLO. Secondo me, sì. SOCR. E lo stesso dobbiamo ripetere per i suoni e per la musica in tutte le sue manifestazioni? POLO. Sì. SOCR. Anche le leggi, anche le istituzioni umane, per ciò che riguarda la loro bellezza, neppure esse sono belle al di fuori di queste ragioni, o per la loro utilità, o per il piacere che suscitano, o per l’una e l’altra causa insieme. POLO. Non per altro, mi sembra. [475a] SOCR. E lo stesso dobbiamo ripetere per la bellezza delle scienze [tòn mathemàton] ? POLO. Senza dubbio; anzi, Socrate, buona è la tua attuale definizione, il tuo porre il bello entro i termini del piacere e del bene. SOCR. Ma il brutto si dovrà, allora, definire entro i termini contrari, dolore e male? POLO. Necessariamente! SOCR. Ne segue, dunque, che quando di due cose belle una è più bella dell’altra, la più bella è tale per una delle due ragioni o per ambedue insieme, il piacere, l’utilità, o per il piacere e l’utilità, a un tempo. POLO. Certo! SOCR. E quando di due cose brutte una è più [b] brutta dell’altra, la più brutta è tale a causa di un eccesso di dolore e di male. Non deve essere così? POLO. Sì. SOCR. Suvvia, dunque, cosa dicevamo un momento fa sul commettere e sul patire ingiustizia? Non sostenevi, forse, che patire ingiustizia è peggio, ma commetterla è più brutto? POLO. Proprio questo sostenevo. SOCR. Ma allora, se commettere ingiustizia è più brutto che patirla, ciò, appunto, è più brutto o perché produce un maggior dolore o perché causa un maggior danno, o per l’una e l’altra cosa insieme. Non deve essere così anche questo? POLO. Senza dubbio!

SOCR. Ma cominciamo con l’esaminare se com– [c] mettere ingiustizia superi per dolore il patirla: chi commette ingiustizia, cioè, prova maggior dolore di chi la patisce? POLO. No, Socrate! questo poi no! SOCR. E va bene, commettere ingiustizia non supera per dolore il patirla. POLO. Certamente no! SOCR. Ma allora, se non supera per dolore, neppure lo supererà per l’una e l’altra insieme delle due cause. POLO. Sembrerebbe di no! SOCR. Non resta, dunque, che l’altra causa. POLO. Sì. SOCR. Il male. POLO. Sembra! SOCR. Commettere ingiustizia è, dunque, peggio che patirla, perché superiore è il male che ne deriva. POLO. È chiaro che lo è! SOCR.[d] Ma tu, non eri prima convinto – d’accordo con l’opinione della maggioranza – che commettere ingiustizia è più brutto che subirla? POLO. Sì. SOCR. Ora, invece, si è mostrato che non solo è cosa più brutta, ma peggiore. POLO. Sembra! SOCR. E tu preferiresti un male peggiore, più brutto, a uno minore? Rispondi, Polo, non aver paura! non ne avrai danno! Francamente affidati[e] alla ragione sì come a un medico, e rispondi o sì o no alle mie domande. POLO. No Socrate, non lo preferirei! SOCR. Nessun uomo lo potrebbe. POLO. Secondo il tuo ragionamento no, non mi sembra. SOCR. Dicevo dunque la verità, quando sostenevo che né io, né tu, nessun uomo preferisce commettere ingiustizia piuttosto che patirla: patirla sarebbe, appunto, il caso peggiore. POLO. Sembra! SOCR. Vedi, Polo, come, poste l’una di fronte all’altra, le due forme di confutazione non si somigliano affatto. Con te andavano d’accordo tutti gli altri, eccettuato me; a me, [476a] invece, basti tu solo, che tu solo sia d’accordo e ti presenti come testimonio, e facendo votare te solo accantono tutti gli altri. E su questo ci siamo capiti. Passiamo ora ad esaminare il secondo punto del nostro contrasto, se, cioè, pagare alla giustizia il debito delle proprie colpe sia per l’ingiusto il male più grande, come tu credevi, o se male maggiore sia sfuggire alla pena come ritenevo io. Consideriamo la questione sotto questo aspetto: pagare alla giustizia il debito delle proprie colpe ed essere giustamente punito avendo commesso atti ingiusti, significa la stessa cosa? POLO. Secondo me, sì! SOCR. Puoi so[b]stenere ora che tutte le cose giuste, in quanto giuste, non siano belle? Rifletti e rispondi. POLO. A me sembra di sì, Socrate!

[477a]SOCR. Ma, se cose belle, sono anche buone? Il bello non è forse tale o per il piacere o per l’utilità? (Οὐκοῦν εἴπερ καλά, ἀγαθά; ἢ γὰρ ἡδέα ἢ ὠφέλιμα).  POLO. Necessariamente. SOCR. Un bene è, dunque, il patire di chi paga il debito delle proprie colpe? POLO. Sembra. SOCR. Perché ne ricava un utile? POLO. Sì. SOCR. E quale mai altro utile se non quello che penso io? che migliore diviene la sua anima, se è giustamente punito? POLO. Naturale! SOCR. Perché chi paga il debito della propria colpa si libera dalla malvagità dell’anima? POLO. Sì. SOCR. Si libera cioè dal male più grave? Rifletti: se[b]consideriamo le ricchezze, quale altro male puoi pensare che capiti all’uomo se non la povertà? POLO. Non altro, se non la povertà! SOCR. E se consideriamo lo stato del corpo? non dirai che mali del corpo sono la debolezza, la malattia, la deformità e così via? POLO. . SOCR. E non credi che anche l’anima possa trovarsi in cattivo stato? POLO. Certo! SOCR. E tale cattivo stato non lo chiami ingiustizia, ignoranza, viltà e così via? POLO-[c]Senza dubbio! SOCR. Di queste tre cose, dunque, beni di fortuna, corpo, anima, hai citato tre specie di mali: povertà, malattia, ingiustizia? POLO. Sì. SOCR. Ma quale di questi mali è il più brutto? Non è forse l’ingiustizia, in una parola il vizio dell’anima? POLO. Senza, paragone! SOCR. Ma, essendo il più brutto, è anche il peggiore? POLO. Che vuoi dire, Socrate? SOCR. Questo: entro i termini di quanto sopra abbiamo ammesso dobbiamo concludere che la cosa più brutta, sempre, è tale in quanto provoca il più gran dolore o il più gran danno, o l’uno e l’altro insieme. POLO. Proprio così! SOCR. E non abbiamo convenuto ora che l’ingiustizia e ogni altro vizio[d] dell’anima è la cosa più brutta? POLO. Lo abbiamo convenuto. SOCR. Il male dell’anima è, dunque, il male più brutto di tutti, o perché estremamente tormentoso per l’eccesso del dolore, o perché più dannoso, o perché più tormentoso e più dannoso a un tempo? POLO. Necessariamente. SOCR. Ma è più doloroso essere ingiusto, dissoluto, vile, ignorante, ch’essere povero o ammalato? POLO. Non mi sembra, Socrate, che si possa trarre una simile, conclusione. SOCR. La malvagità dell’anima, per il danno mostruosamente grande e per lo straordinario male, superando ogni altro male, è di tutti il più turpe,[e] se, come tu dici, ciò non è dovuto al dolore. POLO. Sembra. SOCR. Ma quello che supera tutto per l’immensità del danno non può non essere che il male più grande. POLO. . SOCR. L’ingiustizia, la dissolutezza, tutti gli altri vizi dell’anima costituiscono, dunque, il male più grande che ci sia? POLO. Sembra!

Passi 506c-507c

SOCR. E tu ascolta: riprenderò, fin dal principio il filo del discorso. Piacere e bene sono la stessa cosa? – No, come io e Callicle abbiamo convenuto. – Ma è il piacere che deve essere usato in funzione del bene, o il bene in funzione del piacere? – Il piacere in funzione del bene – .Piacere è ciò la cui presenza suscita [d] in noi piacere, e bene è ciò la cui presenza ci rende buoni? – Esattamente. – Ma siamo buoni, noi e tutte le cose buone, per la presenza di qualche virtù? – Mi sembra necessario, Callicle! – Ma la virtù propria di qualsivoglia cosa, quella di un arnese, come quella di un corpo, di un’anima, di ogni essere vivente, non si forma a casaccio, ma grazie a un ordine, a una rettitudine, a un’arte, [e] propri di ciascuna cosa: vero? – Direi di sì. – La virtù di ciascuna cosa, dunque, consiste in un ordine e in un’armonia risultante da una giusta proporzione? – Mi parrebbe di sì. – Un ordine, che si venga formando in una cosa, e che, perciò, le sia proprio, non la rende forse buona? – Mi sembra. – Anche l’anima, dunque, che sia ordinata, secondo il proprio ordine, è migliore di un’anima disordinata? – Necessariamente. – Ma l’anima che si venga ordinando secondo il proprio ordine è ordinata? – Senza dubbio. – E assennata [507a]è un’anima ordinata? – Assolutamente. – E un’anima assennata è un’anima buona. Amico Callicle, a tutto questo non ho nulla da obbiettare, ma se tu hai da dire qualcosa in contrario, fammi sapere di che si tratta! CALL.Parla pure, mio caro. SOCR. Bene, e dico che se è vero che un’anima assennata è buona, è altrettanto vero che un’anima, che sia stata determinata in modo opposto alla saggezza, è cattiva: e tale è l’anima dissennata e non castigata. – Perfettamente. – Non solo, ma l’uomo di senno si comporterà come deve di fronte agli dèi e agli [b] uomini: non sarebbe saggio se si comportasse inaltro modo. – Necessaria conclusione. – Agire nei confronti degli dèi è agire piamente, e chi agisce secondo giustizia e secondo pietà è necessariamente uomo giusto e pio. – Proprio così!- E altrettanto necessariamente è coraggioso, ché non sarebbe da uomo di senno ricercare e fuggire ciò che non si deve cercare e fuggire: ma di qualunque cosa si tratti, cose e uomini, piaceri e dolori, fuggirà e cercherà ciò che è bene cercare e fuggire, e, quando sia necessario, resisterà, tenendosi fermo al suo posto. Neces-[c]saria conseguenza, Callicle, è, dunque, che l’uomo di senno, come abbiamo detto, sia giusto, coraggioso, pio, e, perciò, perfettamente buono, e che, appunto in quanto buono, tutto quello che fa lo fa bene, virtuosamente, e che necessariamente beato e felice è chi agisce bene, mentre infelice è il malvagio in quanto agisce male; tale è chi sia l’esatto opposto dell’uomo di senno, quel dissoluto che tu dianzi esaltavi.

Socrate riprende il discorso

Passi 508e-509e

SOCR. Io sostengo, Callicle, che l’essere ingiustamente preso a schiaffi non è la cosa più [e]che ci sia, né l’aver tagliato il corpo e la borsa, ma che più brutto, più malvagio è battermi, ferirmi, derubarmi, ingiustamente, che cioè derubarmi, ridurmi in servitù, violare il mio domicilio, fare, insomma, violenza contro di me e contro le mie cose, è più brutto, è peggio per chi commette tali ingiustizie che per me che le subisco. Tali punti di arrivo, che già dai precedenti ragionamenti sono risultati non poter essere che giusti, stanno lì, come [509a] dico io, se troppo grossolana non è l’espressione, fissi e incatenati con ragioni di ferro e di adamanto – per quanto almeno sembra fino ad ora -, e se tu, o altro più ardito di te, non riuscirai a rompere tali ragioni, non si può, a voler pensare come si deve, se non giungere alle conclusioni cui sono giunto io. Ad ogni modo, ancora una volta lo ripeto, io non so affatto come in realtà stiano le cose, ma questo sì, lo so, che ogni qual volta mi sono incontrato con qualcuno, come ora con voi, nessuno, mai, ha parlato in maniera diversa, senza coprirsi di ridicolo. Io, dunque [b]pongo che così stiano le cose: se così sono, se l’ingiustizia è per chi la commette il più grande dei mali, se male ancor più grande – fosse possibile! – è non pagare alla giustizia i propri debiti, quale l’aiuto che l’uomo deve dare a se stesso, se non vuole ricoprirsi davvero di ridicolo? Non forse quell’aiuto che serva a salvarci dal danno più grave che ci sia? Questa, fatalmente, è la più vergognosa mancanza che possa capitare: non poter venire in aiuto a noi stessi, agli amici, ai propri familiari; mentre, in secondo luogo, si presenta l’impotenza di venirci in aiuto contro il [c]secondo male, in terza posizione l’incapacità di difenderci dal terzo malanno, e così via di séguito. Quanto grande, in una parola, è il male, tanto grande è la bellezza di poterci venire in aiuto e tanto grande la vergogna di non poterlo. È o no così, Callicle? CALL.Proprio così!

SOCR. Di questi due mali, dunque – commettere e subire ingiustizia – , io sostengo che maggiore è commetterla, minore subirla. (υοῖν οὖν ὄντοιν, τοῦ ἀδικεῖν τε καὶ ἀδικεῖσθαι, μεῖζον μέν φαμεν κακὸν τὸ ἀδικεῖν, ἔλαττον δὲ τὸ ἀδικεῖσθαι) Di cosa, allora, dovrà preoccu-[d]parsi l’uomo per procurarsi un aiuto nei confronti dell’uno e dell’altro male, sia contro il commettere ingiustizia sia contro il patirla? Potere o volere? Voglio dire cioè: basterà che non voglia, perché non gli venga fatta violenza; o, invece, non gli verrà fatta violenza solo se riuscirà a procurarsi il potere di evitarla? CALL. Chiaro, solo in questo modo, se riuscirà a procurarsi il potere! SOCR. E come farà per non commettere ingiustizia? Basterà che [e]non voglia essere ingiusto, per non commetterla, o, invece, anche per questo, dovrà procurarsi una qual certa capacità e un’arte, senza apprendere, senza esercitare le quali seguiterà a commettere atti ingiusti?

Non la morte ma l’ingiustizia deve spaventare

Passo 522b-522e

SOCR. Se mi si accusasse poi che corrompo i giovani, angosciandoli con le mie questioni, o che offendo i vecchi dicendo su di loro, sia in privato che in pubblico, cose troppo pungenti, non potrei rispondere la verità – cioè: parlo come è giusto che parli, e, giudici, io faccio [c]il vostro stesso interesse -, né altro potrei dire, onde, probabilmente, mi accadrà quello che mi deve accadere. CALL. Ma Socrate, ti sembra bello che un uomo, nella sua città, si trovi in simile condizione e non abbia la possibilità di difendere se stesso? SOCR. Sì, Callicle, purché gli rimanga quell’ultima difesa, sulla quale tu sei rimasto più volte d’accordo! ch’egli sia venuto in soccorso di se stesso, non avendo mai detto, non avendo mai fatto cosa ingiusta [d]né verso gli uomini né verso gli dèi. Che questo sia il più valido aiuto che si possa dare a se stessi, già lo abbiamo ammesso più volte. Se mi si dimostrasse, dunque, che non sono capace di dare questo aiuto a me e ad altri, allora sì che mi vergognerei di una simile dimostrazione, sia di fronte a una gran folla, sia a poca gente, sia solo di fronte a me solo, e se a causa di questo mio non sapermi difendere dovessi essere condannato a morte, oh se mi dispiacerebbe morire! Ma se fosse per mancanza di retorica adulatrice che dovessi morire, sono convinto che serena-[e] mente mi vedresti affrontare la morte. Nessuno, che sia totalmente irragionevole, che non sia uomo davvero, ha paura della morte; l’ingiustizia, piuttosto, deve spaventare: il supremo di tutti i mali è che l’anima nostra giunga all’Ade carica di ogni ingiustizia. (τμν γρ τἀποθνσκειν οδες φοβεται, στις μὴ παντάπασιν λόγιστός τε κανανδρός στιν, τδδικεν φοβεται· πολλν γρ δικημάτων γέμοντα τν ψυχν ες ιδου φικέσθαι πάντων σχατον κακν στιν).

Socrate, pur riconoscendo la difficoltà di afferrarne completamente il senso, ci mostra l’importanza dell’opporsi all’abbandono della verità. Solo inseguendola infatti, potremo trovare quella luce in grado di guidare l’agire umano.

Il dispiegarsi della bellezza in Severino e Heidegger


di Rinaldo Riccio

Parlare di bellezza è sempre estremamente complesso, ed è evidente come tutti coloro che nel corso dei tempi abbiano voluto tentarne una definizione si siano trovati al cospetto di un qualcosa di ‘indefinito’ e indefinibile.

E rileviamo come l’estetica moderna stessa abbia certamente contribuito a diffondere questa convinzione, secondo cui appunto il suo contenuto sia un qualcosa di effimero, evanescente.

Baumgarten infatti, prima ancora di Kant, nel suo Meditazioni filosofiche su argomenti concernenti la poesia del 1753, riserva all’estetica il campo della conoscenza che, dipendendo dalla percezione (il significato discende etimologicamente dal termine greco aisthànomai, percepisco con i sensi, sento; àisthesis, sensazione), ha ad oggetto non idee chiare e distinte, ma vaghe e confuse.

Abbiamo così l’impressione che il bello, e più in generale la sua disciplina Estetica, si interessino del non necessario, del superfluo.

I contenuti della religione, della scienza, della tecnica, avrebbero invece a che fare con i beni necessari, indispensabili, quelli che Heidegger inserirebbe nella ‘sfera della progettualità dell’Essere in quanto tale, nella sua gettatezza nel mondo’.

Noi consideriamo questo invece: la bellezza è primaria, fondamentale, determinante.

La bellezza dunque è in grado di salvarci, come troviamo ne l’Idiota di Dostoevskij  e non a caso è Emanuele Severino, che con il suo estremo acume, riesce a parlarne in modi e tempi appropriati, mettendo in relazione la bellezza e la ‘festa arcaica’.

Tra Eterno, progettualità e tecnica

Dobbiamo chiederci, con Severino, perché l’uomo fa festa; evidentemente, per trovare un rimedio al pericolo della vita, ad una ermeneutica della finitudine (Kant).

Il rimedio come festa include, unifica, ciò che poi verrà chiamato religione, filosofia, tecnica, arte; la bellezza è quindi un aspetto fondante del ‘rimedio’, non legato ad una staticità dell’evento dell’Essente, ma piuttosto legato e incontrovertibilmente derivante dal progettare esistenziale heideggerianamente inteso.

Si noti come Severino, citando il Simposio di Platone arrivi ad affermare che:

si vuole il bene mediante il bello per essere vincitori sulla morte e questo può essere ottenuto dai mortali tramite la generazione dei figli, che li continuano. L’uomo è colui che contempla la verità e contemplando l’idea della bellezza è in grado di partorire ciò che più conta: la vera virtù che produce la vita immortale. Il bello compare quindi come strumento mediante il quale è possibile, sia nel corpo che nell’anima, liberarsi della morte. Infatti in tutta la storia dell’occidente la storia della verità è storia della bellezza.

Sostanzialmente, rileviamo come per il Severino, e per Platone evidentemente, il bello sia strumento essenziale per arrivare al bene-progettato-progettualità e si capisce chiaramente come questa concezione sia ben diversa da quella secondo cui il bello-bellezza è un semplice ornamento per commentare, adulare, dire cose non necessariamente vere.

Ma il filosofo Severino va oltre, e non potrebbe essere altrimenti per un pensatore che ha ottimamente gestito il campo dell’ignoto come nessuno mai prima di lui:

La bellezza appartiene alla categoria del rimedio, è tutto ciò che resta dopo che la civiltà della tecnica avrà fallito. Cosa vuol dire rimedio? Vuol dire fede nell’esistenza del pericolo, il pericolo è quel divenire, quel fuoco annientante al quale anche l’uomo appartiene. La bellezza è il grande rimedio contro la morte, oltre ogni forma di nichilismo. La bellezza ci consente di guardare in faccia la morte e il nulla, andando oltre.

Dobbiamo chiederci a questo punto: c’è un filo conduttore tra il pensiero di Severino, una relazione filosoficamente rilevante tra il dispiegarsi vitale della bellezza attraverso l’eternità dell’Essente in quanto essente, e quindi di ogni Essente, che è vita corroborata dalla struttura originaria della verità, ed il farsi-progettuale di Martin Heidegger?

Ad oggi, ritengo estremamente possibile e probabile questo filo conduttore, se solo si consideri il motivo dominante del discorso di Severino, esposto per la prima volta nel saggio Metafisica e filosofia pratica in Aristotele:

La negazione del divenire scaturisce immediatamente dall’autentico principio di Parmenide; l’essere è. Se l’essere diviene, se il positivo sopraggiunge, prima di sopraggiungere, non era. Ed è appunto questo l’assurdo, o è questa la definizione dell’assurdo, che l’essere non sia…Tutto è necessario allora.

(E. Severino, La metafisica classica e Aristotele, in Fondamento della contraddizione)       

Platone chiama bello ciò che massimamente risplende e attrae, cioè, per così dire, la visibilità dell’ideale.

Ciò che riluce in tal modo più di ogni altra cosa, che possiede in sé una tale luce persuasiva della verità ed esattezza, è quel che noi tutti percepiamo come il bello nella natura e nell’arte, e che necessita la nostra approvazione quando diciamo: «questo è il vero». […] l’essenza del bello non consiste nel fatto di essere solo posta di fronte od opposta alla realtà; essa consiste piuttosto nel fatto che la bellezza, per quanto inaspettata possa essere, sopraggiunge, è come una garanzia che, in tutto il disordine del reale, in tutte le sue incompiutezze, cattiverie, storture, parzialità, in tutti suoi fatali sconvolgimenti, il vero purtuttavia non resti irraggiungibilmente lontano, ma ci si faccia incontro attraverso l’intuizione, ed è proprio la funzione ontologica del bello  quella di colmare l’abisso che si apre tra l’ideale e il reale.

Imprescindibile derivazione del pensiero di Heidegger, nei concetti di essere, di divenire, sopraggiungere.

Cosa sono se non progettualità ontologicamente intesa, come non rinvenire nei criteri di bellezza-progettualità i crismi di un superamento della morte biologicamente intesa e che appare vinta da quella bellezza generalmente intesa che è vita eterna, progettualità, ossia l’anticipazione della possibilità. Sostanzialmente, come direbbe Heidegger, la «sua (dell’Essere) costituzione ontologico-esistenziale più propria» (M. Heidegger, Essere e Tempo, p. 31).

Per quanto, va rilevato come la nozione di progettualità sia entrata a far parte della terminologia filosofico-scientifica contemporanea, al di là dell’ambito strettamente esistenzialistico, per designare le più disparate condizioni della vita umana.

A questa dinamica dell’apparire e del nascondimento Heidegger riconduce poi la stessa nozione di bellezza: «Ponendosi in opera, la verità appare. L’apparire, in quanto apparire di questo essere-in-opera e in quanto opera, è la bellezza»

Il bello rientra pertanto nel farsi evento nella verità.

La struttura dell’apparire-della-bellezza, evidenzia Severino, non necessariamente ci dice come le cose appaiono, come le vediamo (vediamo, in termini di conoscenza sensibile e di bello-Assoluto).

Un elemento del bello necessariamente si mostrerà insieme al suo apparire; nel momento in cui ciò che decifriamo come bello scompare, all’esperienza sensibile comunque rimarrà l’Essenza di quel bello-Assoluto-percepito-vissuto-introiettato e progettato evidentemente come possibilità d’essere dell’Essere.

La questione relativa al nesso tra ciò che è occultato e ciò che occulta, la bellezza, inerisce il rapporto tra realtà e illusione; il nascosto, il concetto di eterno-bello, è una  realtà che la scienza non può descrivere.

Fenomenologicamente, i concetti di Eterno-bello-Assoluto-bellezzanon esistono, sono ‘pura intuizione’ del soggetto, che, unico, li intuisce, ed è nel momento dell’intuizione del bello-Assoluto che il soggetto lo fa proprio e quella Essenza sarà bellezza per quell’Essente che l’ha colta.

Tutto ciò chiaramente alimenta il desiderio di trovare una qualche forma di conferma che l’anima esiste e ha il potere di superare la morte intuendo il bello e farlo proprio. É un aspetto centrale del nostro discorso: salvaguardare il nostro cuore e il nostro più intimo sentimento di immortalità, che possiamo chiamare spiritualità, la quale è sempre alla ricerca di immagini con cui manifestarsi.

Gadamer:

Il concetto del bello ci si fa incontro, ancor oggi, nei molteplici usi in cui sopravvive ancora qualcosa del senso antico – ed in ultima analisi greco – della parola kalovn. Anche noi talvolta colleghiamo ancora al concetto del “bello” il fatto che esso sia riconosciuto pubblicamente da usi e costumi e cose del genere; che esso, come noi diciamo, sia gradevole alla vista, e che sia destinato a fare bella figura.

(H.G. Gadamer, L’interpretazione del bello, 1977).

Al di là del nichilismo cinico: sapere di essere già da sempre salvi, nella bellezza

L’errore fondamentale del pensiero occidentale, secondo Severino e secondo il primo Heidegger, è il nichilismo, «una filosofia della nientità delle cose, che pensa e vive le cose come un niente».

Per Severino l’identificazione tra niente e non-niente-bello-progettualità  rappresenta  la follia estrema , la violenza originaria, «l’alienazione essenziale in cui cresce la storia dell’Occidente».

A partire dall’Idea platonica, sfociata nel Dio cristiano, fino ad arrivare al compimento della razionalità tecnico-scientifica, la storia dell’Occidente diviene il susseguirsi di maschere pronte a nascondere il grande peccatum originalis: la dimenticanza dell’essere.

In Severino queste maschere prendono il nome di ‘Immutabili’, ovvero entità e valori che si sottraggono all’incombenza del divenire assumendo le vesti dell’Eterno, dell’immutabile. 

Ora, se tra i primi Immutabili troviamo Dio, considerato il ‘Primo tecnico’, oggi siamo dinanzi all’’Ultimo Tecnico’, cioè la tecnica stessa, capace di creare e annientare il mondo e il bello-Assoluto (la bellezza) attraverso l’incremento indefinito della propria potenza.

La tecnica, nella sua essenza, è qualcosa che l’uomo di per sé non è in grado di dominare.

E allora: solo la bellezza ci potrà salvare. La civiltà della tecnica ha già fallito.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:

H.G. GADAMER,I sentieri di Heidegger, Marietti, Bologna 2018.
H.G. GADAMER, Fondamento della contraddizione, Adelphi, Milano 2005.
M. HEIDEGGER, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2009.
E. SEVERINO, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1995.

Libertà e Giustizia in Benedetto Croce

di Rinaldo Riccio

Il filosofo idealista Benedetto Croce è stato certamente il protagonista del rinnovamento culturale del Novecento; prima Ministro e poi Senatore, è stato autore di numerosi saggi che hanno rappresentato una pietra miliare nel campo della riflessione filosofica.

Spicca, per la profondità dei contenuti, quello intitolato Libertà e Giustizia.

In questo saggio, Benedetto Croce dichiara di non accettare come uniti, come unibili, i concetti di Libertà e di Giustizia, anche se ammette possibile una certa relazione di pensiero:

«Non posso accettare quei due concetti così come si vuole presentarli e raccomandarli uniti, quasi si pongono sulla tavola e si offrano, l’una accanto all’altra, due noci. I concetti non stanno tra loro come noci, numerabili in due, tre, quattro o in altro numero, ma in viva relazione di pensiero, che dissolve quelli di essi che sono fantastici, mette fuori della sua cerchia gli altri di carattere d intenzione empirica, e a ciascuno dei concetti genuini assegna il suo posto come momento necessario dell’unità che essi tutti compongono, col precedente e il conseguente proprio di ciascuno, cosicché, ove si traggano fuori di questi loro posti, diventano tra loro disparati e  smarriscono significato e vigore» (B. Croce, La mia filosofia, p. 96).

Per Croce, la libertà è la spiritualità stessa dell’uomo, è un qualcosa che si trova già dentro l’uomo e per questo non bisogna donargliela.

«E poiché  la libertà è l’essenza dell’uomo, e l’uomo la possiede nella sua qualità stessa di uomo, non è da prendere letteralmente e materialmente l’espressione che bisogni all’uomo ‘dare la libertà’, che è ciò che non gli si può dare perché già l’ha in sé. Tanto poco gli si può dare che non si può neanche togliergliela; e tutti gli oppressori della libertà hanno potuto bensì spegnere certi uomini, impedire più o meno certi modi di azione, costringere a non pronunziare certe verità e a recitare certe menzogne, ma non togliete all’umanità la libertà cioè il tessuto della sua vita, che anzi, com’è risaputo, gli sforzi della violenza, invece di distruggerla, la rinsaldano e, dove era indebolita, la restaurano» (La mia filosofia,  pp. 96-97).

Per Croce, quindi, la libertà è dentro l’uomo, solo attraverso la libertà ci può essere l’espressione dello spirito. A tale riguardo, egli dice:

«Si ha il dovere morale di sempre favorire e promuovere la libertà, cioè la vita dell’umanità, e, ponendo nell’aspetto negativo della formula il divieto a ogni azione che la sminuisca, in quello positivo pone il comandamento di  aumentarla e accrescerla di continuo. E poiché la libertà, come si è detto, è l’attività stessa dell’uomo, per quale via si può mai accrescerla se non accrescendo in ogni campo la produttività umana, con nuovi concetti di verità, nuovi ritrovati di scienza e di tecnica, nuove creazioni di bellezza, nuove opere di elevazione spirituale?» (La mia filosofia, p. 97).

Per Croce, la libertà è un qualcosa di molto profondo,

«E il suo contenuto e il suo produrre ha sempre a fine l’elevazione morale mercè delle creazioni estetiche e filosofiche e scientifiche ed economiche, perché la morale non è di là di questi vari ordini di creazioni, come qualcosa che vi si aggiunge dal di fuori» (La mia filosofia, p. 97).

La libertà, quindi, si esprime «in tal vario creare che essa stimola e regge e col quale attua un suo fine che è di accrescere e innalzare la vita» (La mia filosofia, p. 98).

La libertà è un concetto eterno, un ideale che rimane intatto nel tempo, che incontrerà delle difficoltà, sarà   soffocato, ma non per questo morirà.

Essa coincide con lo spirito morale, che compendia in sé ogni dovere morale e per questo semplice motivo non possiamo accettare quella connessione che per forza si vuole dare alla libertà, quella compagnia che prende il nome di Giustizia.

Infatti la Giustizia dovrebbe correggerla, integrarla, migliorarla; non ne ha bisogno, la libertà.

«No: la libertà non ha uopo di ciò, perché tutto quanto è da fare moralmente, fa e deve fare da sé, traendolo da sé stessa e non trovando mai fuori di sé altra forza» (La mia filosofia, p. 96). La Giustizia è un qualcosa di storicamente mutevole, è uno pseudoconcetto, un’idea su come si possa organizzare una società egualitaria.

Viene sottolineato da Croce come il significato del termine Giustizia sia vuoto, incoerente, nebuloso, invischiato di falsi e nulli ideali che ne fecero la fortuna dandola la risma di strumento perfetto, ma bisogna sapere che il criterio di una giustizia assoluta coincide con la morte della libertà, la quale deve essere posta a fondamento della Giustizia per realizzare riforme giuste. Allora, il criterio di una giustizia assoluta coincide con la morte della libertà.

Per il nostro autore quindi, la libertà ci deve spingere a organizzare la società in modo che vengano riconosciute esigenze sempre nuove. Il filosofo, si sofferma in particolare sul quarto significato che viene dato al termine Giustizia, è il meno vero di tutti e intende la giustizia come esigenza di eguaglianza tra gli uomini ma non esigenza di eguaglianza che è riconoscimento della dignità spirituale di ogni essere ma di una eguaglianza materiale.

«Questa critica della giustizia come eguale benessere di tutti ed eguale capacità di tutti a tutto, prende andamento assai facile, non par altro che perché  la giustizia, come esigenza di eguaglianza, è l’assurdo trasferimento di una finzione matematica alla realtà che non consente finzioni, alla vita che è antimatematica.  E nondimeno essa provoca e nutre, coi suoi fanatismi che forma, i cattivi sentimenti dell’invidia verso ogni sorta di superiorità, né già solo della fortuna, ma finanche dell’ingegno, del genio o della incorruttibile viltà, laddove l’uomo buono, trovando sempre nel suo proprio ufficio la propria superiorità e nella modestia la superbia, non invidia nessuno» (La mia filosofia, p. 102).

 Questo aspetto della giustizia, che tanto ha illuso le genti sulla raggiunta età di continuo e pacifico progresso, tramite la giustizia che tutto equalizza, doveva spingere la meditazione storica e filosofica a considerare che

«Satana e il male dell’illibertà covano sempre nel petto dell’uomo e si celano sotto ogni forma di vita sociale e storica, e che l’idea del progresso non può discacciare ma deve accogliere in sé e subordinare e farne suo strumento quella dei circoli o dei corsi e ricorsi, dell’avvicendarsi di civiltà e di decadenze e imbarbarimenti, dalle quali si esce col salire sempre più in alto. Come potrebbe la libertà disconoscere questa legge, se nel suo principio stesso si contiene che la vita è lotta e che la lotta è perpetua e che la stasi del bene è altrettanto assurda quanto la stasi del male? L’etica della libertà, severa nel suo intrinseco per questo suo carattere di perpetua combattente, trova sempre a fronte e contro di sé gli altri ideali dal più al meno eudemonistici, che pongono il fine della vita nel piacere, nel riposo, nella felicità, nella beatitudine, ora mondana e ora oltremondana, da possedere o conseguire sulla terra sia col ridurre la società umana a un ovile guidato da un unico pastore (teocrazie e regimi assoluti),sia col dare forma a una convivenza di soddisfatti bisogni e di pace per virtù della concorrente volontà di tutti gli individui parimente disposti» (La mia filosofia, p. 110).

Ora, contro tutte queste etiche inferiori, Croce contrappone l’etica della libertà che, unica, può consentire l’espressione di quell’unico protagonista della storia che è lo spirito assoluto della filosofia idealista.

Gli ideali eudemonistici contrappongono all’idea di libertà quella di questa giustizia, perché così è comodo loro, così possono star tranquilli, non si intacca il loro quieto vivere inoperoso. A questo errore d’impostazione logica delle etiche eudemonistiche, che vogliono far derivare la libertà dell’individuo dalla giustizia, intesa come forma di eguaglianza, cadde Marx, tanto osteggiato da Croce perché  nelle parole del Marx  la poesia, la religione, la morale, tutta la spiritualità, sono inganno, finzione, se non vi è l’azione economica. Ma poesia, religione, morale, come fanno ad essere inganno e finzione se sono quanto di più vero abbiamo, frutto del nostro essere liberi.

Il Croce non accetta la diade Libertà-Giustizia perché si è cercato di unire un problema morale e dottrinale con un problema pratico.

«Ma la diade “Libertà e Giustizia”, dalla quale ho preso le mosse in questa delucidazione, mi offende in modo particolare, perché è un tentativo di assopire un aspro e pungente problema dottrinale e morale, con quel procedimento eclettico che è altrettanto odioso alle menti filosofiche quanto   gradito agli amanti del quieto vivere e del poco pensare….» (La mia filosofia, p. 111).

Evidenti i guasti: «Dietro le invocazioni passionali od oratorie della libertà che dovrebbe essere convalidata e ribattezzata dalla giustizia, stanno le difficoltà, le angosce, le insofferenze, le ribellioni, la spinta a migliori assetti…la realtà insomma delle lotte e dei contrasti che cercano di comporsi in nuovi rapporti e raggiungere nuove forme di produzione economica e di vita sociale» (La mia filosofia, p. 108).

Sempre sul concetto di libertà, che, tra l’altro, è al centro delle grandi opere storiche di Croce, quali Storia d’Italia dal 1871 al 1915 e Storia d’Europa del secolo decimonono, dobbiamo notare come l’insegnamento crociano sia nobilissimo, al di là di quella che è la forma dello Stato, che deve attenersi all’unico criterio della libertà e cioè  l’elevamento della civiltà:

«La libertà, per Croce, non è la semplice condizione dell’operare umano, bensì la stessa produttività dell’uomo, ciò per cui l’uomo acquista un valore e trova una ragion d’essere della sua esistenza nel mondo. Non consiste nel semplice non aver vincoli esterni o non esser determinati nelle proprie volizioni da cause esterne, ma è la positiva realizzazione dello spirito umano nelle sue opere. Anzi, se vogliamo essere più precisi, è lo spirito universale, che si produce nelle opere degli uomini singoli, là dove queste hanno positivo valore. La libertà, insomma, è la vera ed unica protagonista della storia. L’azione politica e giuridica, perciò, hanno una sola, universalissima norma, quella della difesa e promozione della libertà, in sé e negli altri» (C. Antoni, Il liberalismo di Benedetto Croce, pp.74-76).

In chiusura, Croce chiarisce il rapporto tra libertà e materia economica:

«Non c’è cautela che la libertà non possa e non debba, all’occorrenza, usare nel maneggiare le cose dell’economia, che sono rette dalla propria legge alla quale non si comanda nisi parendo; ma, dal pari, non c’è ardimento che non possa e non debba, in altre occorrenze, osare. Un ardimento tanto più risoluto e sicuro in quanto ubbidisce non a singoli interessi economici di una singola classe sociale, ma unicamente alla voce della propria coscienza e alla ispirata visione delle vie della storia. A questo punto l’uomo del pensiero sa che l’opera sua è terminata e che il campo spetta all’uomo dell’azione, che è veramente tale se è tutt’insieme cauto ed ardito, conservatore e   rivoluzionario» (La mia filosofia, p. 113).

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

B. CROCE, La mia filosofia, Adelphi, Milano 1993.
C. ANTONI, Il liberalismo di B. Croce, ERI, Torino 1954.