di Carlo Vittorio Giabardo
Per riflettere “giuridicamente” (e filosoficamente) sulla crisi ambientale, che caratterizza così potentemente il nostro tempo, occorre partire da lontano.
Che la vera emergenza sia (stata) la mancanza dell’emergenza – come aveva già messo in luce Heidegger – o che il solo evento più filosoficamente significativo dell’ultimo scorcio del secolo scorso sia (stato) la stagnazione di eventi, «la grève des événements» (lo «sciopero degli eventi») – per dirla con Baudrillard – è cosa vera solo se declinata al passato (naturalmente intendo qui Emergenza ed Evento con la lettera maiuscola, nel senso più radicale possibile, solo cioè in quanto accadimenti capaci di squarciare il dominio della tecnica che caratterizza il presente, nonché di mettere in discussione il funzionamento meccanico e totale del sistema in quanto tale, le regole dell’ordine globale, la totale Verwaltung, nel senso usato da Adorno e dalla Scuola di Francoforte).
Uso il passato perché – ora – una Emergenza di tal portata, un Evento di tale potenza c’è, o meglio, accade. E qual è? Come noto, Baudrillard in un testo inizialmente apparso su Le Monde all’indomani dell’attentato al World Trade Center – L’esprit du terrorisme (2001) – aveva parlato di quell’attacco come del ri-apparire dell’Evento nella Storia, anzi, come dell’«événement absolu, la “mère” des événements, [à] l’événement pur qui concentre en lui tous les événements qui n’ont jamais eu lieu». Ma vi è un Evento, a mio parere, ancora più estremo e radicale, che scuote alle radici non solo la civiltà che conosciamo, ma la sua stessa possibilità: la catastrofe climatica, ambientale (e quindi umanitaria) che si sta, oramai, consolidando.
Non si tratta solo del moltiplicarsi di fatti ambientali avversi, dotati di una copertura più o meno intensa (e più o meno strumentale) da parte dei media – da ultimo, la foresta amazzonica che va in fumo. Si tratta, piuttosto, di un processo costante che non è localizzato in un luogo preciso o in un tempo preciso; avviene dappertutto (seppur con intensità differenti) e in ogni momento (seppur con episodi differenti). È una crisi pervasiva nei luoghi e costante nei tempi, che non conosce né confini né sospensioni, né frontiere né tregue. Avviene ovunque e sempre.
È proprio a partire da questa considerazione che la riflessione sulla tecnica oggi si fa urgentissima. Se “tecnica” è quel «complesso di strumenti totalmente integrati tra loro», tale da essere «un “mondo” che sfugge sempre di più alla nostra possibilità di controllo e di comprensione», (Vattimo, 2018) allora della tecnica non resta che accettare passivamente le risposte, in qualsiasi parte esse conducano. La tecnica – nel senso che qui utilizzo – rappresenta quindi un ostacolo quasi insormontabile per la pensabilità di nuove categorie (sociali, politiche, economiche, giuridiche, tecnologiche) che possano far fronte al mutato paradigma climatico e ambientale. Ma proprio la realtà dell’Evento – nel senso poco sopra definito – ci impone di fare i conti con esso.
Ora, non v’è dubbio che anche il diritto sia una tecnica. Jack Balkin ha detto che il diritto è in grado di produrre le sue proprie verità. Vi sono cioè verità che sono tali solo “agli occhi del diritto” («in the eye of the law»), perché è proprio e solo il diritto a stabilire i criteri e i confini per i quali ed entro i quali certe affermazioni sono vere o false (banalizzando: solo l’esistenza di una disposizione normativa che stabilisca cosa sia il furto rende possibile che qualcuno sia un ladro, in senso giuridico). Questo ruolo che potremmo chiamare “veri-poietico” del diritto è nient’affatto scontato (anzi, è densissimo di implicazioni), ma non deve sorprendere. In fin dei conti, il diritto, nel corso delle varie epoche, ha funzionato proprio così: i concetti, le definizioni, le distinzioni, le categorie (giuridiche) hanno creato un universo tecnico (giuridico) attraverso cui leggere e poi “confinare”, “forzare”, “imprigionare” il reale. Ora, l’inevitabilità, la violenta imminenza e – forse – l’irreversibilità della catastrofe climatica ci impone di fare l’inverso. Il mio intento, qui, è metodologico: è un invito a non farci governare dai concetti (in questo caso giuridici, ma potrebbero ben essere quelli economici, sociali, politici, geopolitici, ecc.), bensì a governarli. Dobbiamo far sì, cioè, che ciò che è stato creato (il diritto) smetta di farsi a sua volta creatore incontrollabile di un ordine tecnico immodificabile, ma che torni ad essere, per così dire, addomesticato. È un invito a decretare la fine dell’espressione «perché ti lamenti? è l’economia – è il capitalismo, è la tecnica ecc. – bellezza!» (ma qui direi, è il diritto, bellezza!), ossia un modo di dire – che è prima di tutto un modo di pensare – che ha «più o meno lo stesso significato del francese c’est la vie!, che usiamo per accettare rassegnati le leggi immodificabili della realtà, che non possiamo cambiare e che non sembrano neanche dipendere dalla decisione di qualcuno…» (Vattimo, 2018).
Qui sta quello che io definisco il ruolo sovversivo della catastrofe ambientale per il diritto. Questa sovversione influenza ogni settore del diritto, sia pubblico, sia privato. Si pensi alla nozione di sovranità, ai poteri e ruolo dello stato e delle sue istituzioni (parlamenti, corti, strutture governative), ma anche a concetti apparentemente più tecnici, come responsabilità giuridica individuale, danno, causa, legittimazione ad agire, e via dicendo. Persino l’idea stessa di «diritto soggettivo» – secondo alcuni – necessiterebbe di esser rimeditata.
In questo scenario, il filosofo è quanto mai necessario; anzi, direi che è la figura più necessaria di tutte. Necessaria è la capacità immaginifica, quasi visionaria, della filosofia del diritto, chiamata – nel contesto di cui qui si parla – a riscrivere in termini nuovi la relazione tra persone, stati e istituzioni e a costruire un nuovo vocabolario, che sia anche un nuovo “orizzonte di concetti”, che sia capace di fornire una nuova cornice (in questo caso, giuridica) entro la quale la nostra azione possa muoversi con efficacia.
Bibliografia di riferimento
J. BALKIN, The Proliferation of Legal Truth, in 26, Harvard Journal of Law & Public Policy, 2003, 5 e seg.
J. BAUDRILLARD, L’Esprit du terrorisme, Paris, 2002.
A. SARAT, L. DOUGLAS, M. MERRILL (eds.), Law and Catastrophe, Stanford University Press, 2007.
G. VATTIMO, The Question Concerning Technology, in C. Mendes (ed.), in Humanity and Difference in the Global Age, Rio de Janeiro, 2012, 93 – 104 (ora in G. Vattimo, Essere e dintorni, Milano, 2018, col titolo La questione della tecnica oggi, trad. in italiano a cura di A. Martinengo, 194).