Pietralata Post-Pasoliniana

di Angela Colace e Francesca Consoli

Pietralata è un quartiere periferico romano, sorto su un antico e vasto latifondo, da cui prende il nome latino (prata lata, grandi prati). Un luogo importante, simbolo della resistenza romana nel periodo della seconda guerra mondiale, che la nostra memoria storica lega inevitabilmente all’epica pasoliniana del sottoproletariato di Ragazzi di vita e di Una vita violenta. Nonostante infatti il quartiere sia stato raccontato in altri libri, pensiamo a La Storia di Elsa Morante o ai Racconti romani di Alberto Moravia, e abbia fatto da scenario a innumerevoli film, primo tra tutti l’Onorevole Angelina di Luigi Zampa, dobbiamo a Pasolini l’aver suggellato nel nostro immaginario la sua visione di tragicità e bellezza. 

Una vita violenta

di Angela Colace

Una vita violenta è unanimamente riconosciuto dalla critica come uno dei romanzi più importanti del dopoguerra italiano. Il suo autore, Pier Paolo Pasolini, ha subito e subisce tutt’ora, ragionevolmente o meno, un giudizio che travalica i confini della letteratura e riflette la percezione morale del lettore e, soprattutto del non lettore. Non è raro che i più crudi giudizi morali, non quelli sorretti da un percorso logico e comparativo, ma quelli più prossimi alle ordalie divine, siano spesso propri dell’incolto. Certo è che, attraverso le sue opere, Pasolini ha aperto uno squarcio sulla vita, impietoso e attuale, che nonostante sembri radicato nella realtà italiana e romana in particolare, è privo di una reale collocazione spazio-temporale e, ancora oggi, riflette la condizione dei tanti individui che vivono ai margini delle città e della società, imprigionati non solo dalle condizioni di povertà economica, ma soprattutto umana e psicologica. Una vita violenta è proprio questo, un’opera amara e dura sulla condizione umana.

Dura è la città di Roma, che ne è una coprotagonista e che ci appare diversa da quella che tutti conosciamo. La ritroviamo soprattutto nella descrizione delle strade che Tommasino e gli altri percorrono in lungo e in largo, dalle malfamate, assolate o fangose periferie, al centro, brulicante di ragazzi di vita, ruffiani, individui preda dei propri istinti e desolazioni, prostitute disfatte, erano tracagnotte tutte e due, con la pancia che parevano incinte, le cianche corte e grosse, due facce nere e pelose con la fronte bassa da scimmie e la borsa in mano.

I luoghi descritti da Pasolini sono fin dall’inizio una presenza costante, quasi un personaggio che si aggiunge agli altri, a «Tommaso, Lello, il Zucabbo e gli altri ragazzini che abitavano nel villaggetto di baracche sulla Via dei Monti di Pietralata».

Non vi è traccia della magnificenza architettonica della città o degli altri suoi abitanti, se non per qualche fugace descrizione, capace di far apparire i protagonisti del libro ancora più soli ed emarginati. Eppure questi ultimi, come la loro stessa realtà, sono una presenza inevitabile e strisciante che travalica i confini delle periferie e delle baracche e alberga nella stessa miseria umana.

Duro è il cielo che, impietoso, rende rovente le lamiere dei tuguri di Pietralata o che le trascina nel fango con i materassi, le scarpe rotte e la disperazione di chi perde tutto senza che, in verità, possegga nulla. Un cielo di piombo, vischioso, di catrame che riflette la genesi dell’opera

«La trama di Una vita violenta mi si è fulmineamente delineata una sera del ’53 o ’54… C’era un’aria fradicia e dolente…Camminavo nel fango. È lì, alla fermata dell’autobus che svolta verso Pietralata, ho conosciuto Tommaso. Non si chiamava Tommaso: ma era identico, di faccia, a come poi l’ho dipinto…Come spesso usano fare i giovani romani, prese subito confidenza: e in pochi minuti mi raccontò tutta la sua storia». (P.P. Pasolini, Le belle bandiere, 1966).

Dura è la gelosia che consuma i giovani protagonisti che, già sui banchi di scuola, imparano “la vita” e si contendono le attenzioni del froscio!, del sor maè.

Dura è l’immagine di Tommasino con il sudicio colletto della camicia indossata per una settimana e stretto in una logora lingua di cravatta viola.

Ma duro è, soprattutto, l’epilogo.

Tommasino muore. Una morte riassunta in poche parole. Tanto si è raccontato della strada, della vita, delle vicende umane, al punto che talvolta ci si è persi nel dialetto romanesco, quanto poco è stato concesso all’ultimo respiro del protagonista tossì, tossì, senza più rifiatare, e addio Tommaso. Una fine così rapida, seppur figlia di un gesto eroico, che ammanta immediatamente di morte l’intero romanzo. Non conosciamo il perché di un epilogo così triste e brusco, ma, indubbiamente, Pasolini ha risolto in poche parole la triste vicenda umana, la resa, la disfatta del suo protagonista, vinto dalla vita, come un incipit al contrario, perfetto nella sua sintetica drammaticità. Perché per i perdenti delle desolate borgate, che si affannano senza scrupoli per una piotta in più, non c’è redenzione se non nella morte. Rimane solo Tommasino, rimane solo il cadavere di un ragazzo di vita.

Da Pasolini ai giorni nostri

di Francesca Consoli

Il testo di Pasolini rappresenta, al di là del suo valore letterario, una forma di memoria storica di un quartiere che nel tempo è cambiato considerevolmente. Nonostante infatti mantenga sempre una sua precisa identità, lo spazio ha subito trasformazioni sostanziali. La campagna romana che circondava Pietralata e che ricordava l’originario latifondo agricolo, così come quell’inizio di città fatto di fango e lamiere, è oggi in gran parte ricoperta di cemento, rendendo difficile rintracciare l’ambientazione descritta da Pasolini.

«Dove il camion s’era fermato, poco prima di entrare in borgata, c’erano da una parte e l’altra della strada distese di campi che dovevano esser di grano, ma ch’erano tutti pieni di fratte, buchi e canneti» (Una vita violenta, op.cit.)

Sicuramente le lente, ma invasive, modifiche che dagli anni ’50 si sono susseguite fino agli anni ’70 hanno contribuito al suo cambiamento, ma saranno gli anni ’90, con l’inaugurazione della linea B metropolitana e successivamente l’apertura della stazione ferroviaria Tiburtina, a stravolgere la fisionomia dell’intero spazio. Si è infatti posto fine a una specie di isolamento a cui Pietralata, così come molte borgate romane, era stata condannata.

Oggi convivono, in una sorta di paradosso, alcune baracche adiacenti a edifici industriali, antiche attività commerciali che la sera lasciano campo libero a locali notturni.

Esiste una emarginazione di tipo differente, una forma di abbandono da un lato, ma anche una spinta costante al ripristino dell’attività industriale, visibile attraverso la sua stessa architettura degli spazi.

E in certi tratti, soprattutto a ridosso dell’Aniene, è ancora possibile immaginarsi Tommasino camminare per la sua periferia.

Bibliografia di riferimento:

P.P PASOLINI, Le belle bandiere, 1966.
P.P PASOLINI, Una vita violenta, Garzanti, Milano 2001.
Per le foto, F.CONSOLI, Pietralata Concept, Settembre 2020.

UNO SGUARDO INCORNICIATO

di Francesca Consoli

#2 Luce: alleata o nemica

La fotografia è un’arte; anzi è più che un’arte, è il fenomeno solare in cui l’artista collabora con il sole.

(A. de Lamartine)

L’ispirazione

Come spesso accade, soprattutto nelle serate estive, si esce a fare delle passeggiate e così è capitato a me girovagando per il quartiere Garbatella a Roma dove l’architettura cosi variegata e le luci dei lampioni che illuminavano in maniera fioca e soffusa gli androni dei palazzi rendevano l’atmosfera ancora più suggestiva.

La mia attenzione è stata catturata dal gioco di luce e ombra su un cortile e un portone di ingresso e mi sembrava di essere stata catapultata indietro nel tempo di 60 anni.

In quel  momento non vi era nessun elemento intorno a me che poteva indicarmi se mi trovassi nel 2020 oppure in una Roma che io ho solo potuto vivere attraverso altre fotografie d’epoca, libri e film.

La luce

E qui mi ritrovo a riflettere sulla luce, un elemento fondamentale per un fotografo, direi uno dei suoi più grandi alleati, anche se a volte si può trasformare in un vero e proprio elemento invalidante tale da rovinare in modo irreparabile una foto. In fondo, come ci ricorda John Berger, «Ciò che rende la fotografia una strana invenzione è che le sue materie prime principali sono la luce e il tempo».

Nello scatto qui pubblicato la luce era calda e circoscritta, non diffusa, regalandomi già essa stessa una inquadratura che io dovevo solo procedere a ritagliare mentalmente, per accompagnare l’occhio dell’osservatore dove volevo che più si soffermasse.

La scelta del bianco e nero poi è stata, oserei dire, obbligata in quanto i colori in questa cornice avrebbero potuto distogliere lo sguardo.

La foto che ho scattato è stata difficile da realizzare poiché il contrasto tra la luce e il buio era davvero forte e nessuno dei due elementi doveva prevalere sull’altro, ma il mio intento era quello di farli cooperare per riprodurre la stessa suggestione che quella immagine mi aveva creato dal vivo.

Spesso nelle mie fotografie mi sono trovata a fare i conti con luci sbagliate o per lo meno che non rendevano l’effetto desiderato, tanto è vero, si può dire, che dai grandi fotografi ho cercato di carpire il segreto del loro saper piegare questo elemento, tanto basilare eppur in grado di rendere una semplice foto un vero capolavoro.

Bianco e nero

Sicuramente in molti scatti usare l’effetto del bianco e nero è un valido aiuto per affinare quei giochi di chiaroscuro che rendono una fotografia dinamica, preservandola dalla staticità perché, a mio avviso, spesso si rischia, per paura di esagerare, di appiattire e uniformare ciò che invece dovrebbe essere lasciato nella sua dimensione di puro movimento.

Mi è capitato di discutere anche animatamente con alcuni miei colleghi fotografi che criticavano l’uso smodato che spesso viene fatto nelle mostre fotografiche di scatti in bianco e nero, nel tentativo di catturare maggiormente l’attenzione dello spettatore per via di contrasti visibilmente più marcati.

Questo discorso non mi ha mai trovata molto d’accordo in quanto, nonostante sia innegabile il fascino di una foto in bianco e nero, io penso che la creazione di una emozione, suscitata da una fotografia, risieda non solo nell’occhio del destinatario, ma anche in quello del fotografo e nella sua capacità di barcamenarsi e districarsi tra apertura e chiusura del diaframma e tempi più o meno lunghi di esposizione* per riprodurre in modo fedele ed enfatizzato la realtà. «Una differenza molto importante tra il colore e la fotografia monocromatica è questa: in bianco e nero suggerisci; a colori affermi». (Paul Outerbrige)

[n.d.a.*esposizione= intensità luminosa per tempo, dipende dalla combinazione tra le impostazioni del diaframma , che regola l’intensità luminosa e il tempo di esposizione]

Canal Grande Lockdown

di Eva Maria Ohtonen

Durante il lockdown moltissime città si sono svuotate, Venezia non ha fatto eccezione. Ha ritrovato il silenzio ed è tornata ad essere dei “Venexiani”, di coloro che la amano e vorrebbero proteggerla dal turismo di massa, di tutti quelli che ancora si stupiscono quando la guardano. Una bellezza senza tempo. Una sfida costante alla natura. Ogni volta Venezia offre una nuova immagine di sé. Finora dovevo aspettare l’inverno per vagabondare per le calli e cogliere l’attimo con la mia calma scandinava. Il lockdown mi ha facilitato il lavoro e “ispirato” per così dire. Lo scatto giusto è arrivato come un’apparizione: Canal Grande abbandonato a mezzogiorno. Un miraggio? Un sogno? Perché Venezia è da sempre tutto questo.

“Ma quando siamo usciti, stanchi e intontiti, dalla stazione di Venezia e abbiamo visto il Canal Grande e i palazzi marmorei che sfioravano l’acqua melmosa, quel gioiello di cultura che si dondolava sui canali fetidi e muffosi, abbiamo improvvisamente compreso quanto forte e tenace è l’uomo e quanto meraviglioso è il suo spirito, e si è destato in noi un tale amore per l’umanità, l’umanità con le sue pene e le sue epidemie; e siamo penetrati ad occhi aperti dentro un sogno, perché Venezia è il sogno di ogni città…” (Abraham Yehoshua)

Eva Maria Ohtonen, fotografa finlandese, ha studiato fotografia in Germania, dove si è diplomata nel 1992.

Innamorata di Venezia e della sua bellezza, ha deciso di vivere e lavorare nella città lagunare: ha fondato lì, nel 1995, il suo studio fotografico STUD-IO IMMAGINO VENEZIA, trasformando Venezia nel suo studio a cielo aperto. Lavora con tutti i formati; ama la fotografia classica, analogica; predilige il Bianco e Nero. Si è dedicata soprattutto alla fotografia matrimoniale e alla ritrattistica, al fashion e still-life; ha collaborato con numerose riviste e gallerie d’arte.

Sito web: http://www.studioimmaginovenezia.com
Facebook: http://www.facebook.com/studio.immagino.venezia
Instagram: stud.io_immagino_venezia

ESPLORAZIONI

di Flavia Sorato

#Introduzione

Scesi di nascosto, rotolai per la scala vietata. Caddi. Quando aprii gli occhi, vidi l’Aleph. “L’Aleph”, ripetei. Sì, il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli.
Jorge Luis Borges

Le storie che mi hanno cresciuta, quelle che davvero mi hanno formata in senso più profondo, sono quasi tutti racconti di viaggio.

Avvertendo da sempre quella tensione melvilliana per le cose lontane, ho prediletto itinerari immaginifici, riconoscendo una possibile via di ricerca in quella dimensione che separa, legandoli, il qui e l’altrove. Così i mari proibiti e le coste barbare di Melville sono stati per me i romanzi d’avventura, i miti e le fiabe, gli atlanti celesti, il telescopio, vero grande tesoro delle notti, e di certo anche gli studi storico-artistici e letterari che mi hanno strutturata, perché Matisse coglie una sostanza nel definire l’artista un esploratore – Emerson descrive così lo scrittore –.

Tutto questo è stato anche una guida.


«Ho ritrovato l’isola Raiatea
remando a tutto spiano!
Verso Ta’uraua hau papa,
la più brillante di tutte!
Ed ecco Matari’i,
le Pleiadi dai piccoli occhi,
il punto di riferimento di noi Maohi
che mi riporta a casa».

Come le stelle per chi naviga.

La rubrica “Esplorazioni” si fonda su queste necessità del ri-cercare, approdare e ripartire.

I Viaggi possibili sono tanti e le circostanze indicano, così, il bisogno di definire e segnare delle tappe. Spazi-tempi in cui sostare, per poi incamminarsi ancora. Anche lungo e oltre linee di confine, oltrepassando soglie e ponti, tracciando direzioni. È possibile così spostarsi di frontiera in frontiera, operando sconfinamenti, altresì disciplinari, come quelli tra Filosofia e Scienza, o tra queste e l’Arte.

Le riflessioni si accosteranno a dimensioni concettuali, nel tentativo di creare una mappatura attraverso parole-chiave come Viaggio, Avventura, Scoperta, Sorte, Distanza, Durata, Istante, Kairòs, Meraviglia, quello stupore, fondamento stesso della filosofia: «È proprio del filosofo questo che tu provi, di esser pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare che questo» (Platone, Teeteto); «Infatti gli uomini hanno iniziato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia» (Aristotele, Metafisica).

Si procederà, inoltre, anche tra dualismi fondamentali quali finito/infinito, limitato/illimitato, estensione/divisione, vicino/lontano, noto/ignoto. Nella sua Filosofia del viaggio Onfray narra delle due figure, il contadino e il pastore, simboli di un diverso modo di stare al mondo: il vivere sedentario e vagabondo. 

A questi passaggi si aggiungeranno poi quelli segnati dalle immagini, come varchi d’accesso a un sapere che, metaforicamente viaggio, non concepisce solo un oggetto da raggiungere, una meta, ma è fatto delle vie intraprese per conseguirlo. «La via immaginale alla conoscenza non sfocia in un sapere che avremmo potuto conquistare per altre vie, aniconiche, ma costituisce una verità che viene all’essere solo e per la prima volta in quel percorso, in quanto immagine». (Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo)

Nell’ambito di un settore di ricerca detto visual culture, lo studioso americano James Elkins, in una riflessione tratta da una vasta ricognizione sul mondo delle immagini (The Domain of Images), decide di prendere in esame un certo campo di oggetti, che potremmo definire “non artistici”. Siamo abituati a parlare d’arte, a pensarla, sulla base di certe visioni (occidentali) estetiche, simboliche, tecniche – Gombrich ricorderebbe che non esiste un’Arte con la A maiuscola, una parola che assume significati molto diversi in base a tempo e luogo –. Esistono invero mondi di eterogenee rappresentazioni: tavole e fotografie astronomiche, carte geografiche, schemi grafici e diagrammi, immagini scientifiche di diversa natura. Non si tratta solo di materiale informativo o di supporto a discipline di vario tipo, ma di oggetti estetici che generano senso e conoscenza. Hanno una dimensione complessa, fatta di segni e simboli, densa di componenti difficilmente decifrabili, ma anche per questo misteriose. Una mappa, reale o fantasiosa che sia, esercita fascino in tal senso. Così asserisce Stevenson per descriverne la misura d’incanto: «Mi dicono che ci siano persone a cui non interessano le mappe, ma trovo difficile crederlo».

Il corpo fa quindi provvista d’immagini che compongono un’iconografia personale, e si muove al richiamo di luoghi che attraggono la nostra indole e rimandano a tutto ciò che ci ha influenzati e colpiti sensorialmente dalla nascita. (Onfray)

Così Kipling nei suoi viaggi fa esperienza di vite e luoghi, accumulando ricchezze d’immagini ed odori. Il mare che desta i sensi, la vista dei blu oceanici, i canti dei marinai, i profumi inattesi che d’improvviso ricordano e riportano a casa, quel sentore di ginestra o quel «buon odore nell’aria – un odore di fumo ed ortiche schiacciate – che fa venire un groppo in gola all’uomo che raramente torna al suo paese…».

In molti dei suoi racconti rievoca particolari e sfumature di regioni del mondo sognate e vissute: l’atmosfera leggera sulla prateria americana; i venti pieni di sale che portano flutti ed acque lontane ad un inglese sul London Bridge; o l’aria d’Oriente, intrisa di profumi edenici ed odori aggressivi, gelsomino, terra, polvere, cibi cotti, bestiame… tutto si mischia e diventa memoria.

Memoria che riporta a un tempo.

Il Tempo – la percezione di questa dimensione, il trascorrere degli eventi, e cosa questo significhi per la fisica moderna –, sarà un’ulteriore e fondamentale regione da esplorare.  

Dei piani della temporalità scrive Jankélévitch in L’avventura, la noia, la serietà.

Delle tre dimensioni che prende in esame, quella dell’Avventura è trattata come un’esperienza dal carattere improvviso, indeterminato in quanto enigmatico ambito dei possibili, e anche ambigua, poiché la sua trama, non potendo sapere l’uomo cosa accadrà, si compone d’incerto: «Ma quale sarà questo futuro? Qualis? Di che genere? Sarà giorno di festa o giorno di lutto?». L’avventura si pone così sul piano di una temporalità futura, ma non lontana, bensì prossima.  

L’affiorare dell’avvenire.

Esplorare è, così, un essere nel mondo, dell’uomo che indaga l’universo, anche varcando spazialmente il perimetro dell’ecumene per arrivare dove prima era stato affermato un termine.

Oggi questo sconfinare si compie a distanze un tempo inimmaginabili. Astronauti e satelliti lontani ci mostrano il nostro pianeta e il cosmo, riportando, qui e ora, presenze remote.

Ma che ci si muova da abissi a vette, tra cose nascoste e terrifiche, isole, città scomparse e invisibili, dentro labirinti, nel silenzio di deserti, tra più livelli di vita, Esplorazioni vorrà essere molte vie lungo cui camminare.

Come scrive John Muir: «Uscii per una passeggiata e decisi di rimanere fuori fino al tramonto, perché mi resi conto che uscire, in definitiva, era come entrare».

Bibliografia di riferimento

H. BELTING, Antropologia delle immagini, Carocci, Roma 2013.
H. BERGSON, a cura di F. Polidori, L’evoluzione creatrice, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002.
H. BERGSON, a cura di Adriano Pessina, Materia e memoria, Laterza, Bari 2009.
J.L. BORGES, L’Aleph, Adelphi, Milano 1998.
G. DELEUZE, Immagine-Movimento. Cinema 1, Einaudi, Torino 2016.
G. DELEUZE Immagine-Tempo. Cinema 2, Einaudi, Torino 2017.
J. ELKINS, The Domain of Images, Cornell University Press, Ithaca NY 2011.
P. FISHMANN, Racconti dei saggi che leggono le stelle, L’Ippocampo, Milano 2011.
V. JANKÉLÉVITCH, L’avventura, la noia, la serietà, Einaudi, Torino 2018.
H.L. JONES (a cura di), Le terre immaginate. Un atlante dei viaggi letterari, Salani, Milano 2019.
R. KIPLING, GRAZIELLA MARTINA (a cura di), I profumi dei viaggi, Ibis, Pavia 2000.
M. ONFRAY, Filosofa del viaggio, Ponte alle Grazie, Milano 2016.
A. PINOTTI, A. SOMAINI (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009.
E. VITTORINI, Americana, Bompiani, Milano 2008.

Diritto, tecnica, ambiente. Per una nuova “grammatica dei diritti”

di Carlo Vittorio Giabardo

Per riflettere “giuridicamente” (e filosoficamente) sulla crisi ambientale, che caratterizza così potentemente il nostro tempo, occorre partire da lontano.

Che la vera emergenza sia (stata) la mancanza dell’emergenza – come aveva già messo in luce Heidegger – o che il solo evento più filosoficamente significativo dell’ultimo scorcio del secolo scorso sia (stato) la stagnazione di eventi, «la grève des événements» (lo «sciopero degli eventi») – per dirla con Baudrillard – è cosa vera solo se declinata al passato (naturalmente intendo qui Emergenza ed Evento con la lettera maiuscola, nel senso più radicale possibile, solo cioè in quanto accadimenti capaci di squarciare il dominio della tecnica che caratterizza il presente, nonché di mettere in discussione il funzionamento meccanico e totale del sistema in quanto tale, le regole dell’ordine globale, la totale Verwaltung, nel senso usato da Adorno e dalla Scuola di Francoforte).

Uso il passato perché – ora – una Emergenza di tal portata, un Evento di tale potenza c’è, o meglio, accade. E qual è? Come noto, Baudrillard in un testo inizialmente apparso su Le Monde all’indomani dell’attentato al World Trade CenterL’esprit du terrorisme (2001) – aveva parlato di quell’attacco come del ri-apparire dell’Evento nella Storia, anzi, come dell’«événement absolu, la “mère” des événements, [à] l’événement pur qui concentre en lui tous les événements qui n’ont jamais eu lieu». Ma vi è un Evento, a mio parere, ancora più estremo e radicale, che scuote alle radici non solo la civiltà che conosciamo, ma la sua stessa possibilità: la catastrofe climatica, ambientale (e quindi umanitaria) che si sta, oramai, consolidando.

Non si tratta solo del moltiplicarsi di fatti ambientali avversi, dotati di una copertura più o meno intensa (e più o meno strumentale) da parte dei media – da ultimo, la foresta amazzonica che va in fumo. Si tratta, piuttosto, di un processo costante che non è localizzato in un luogo preciso o in un tempo preciso; avviene dappertutto (seppur con intensità differenti) e in ogni momento (seppur con episodi differenti). È una crisi pervasiva nei luoghi e costante nei tempi, che non conosce né confini né sospensioni, né frontiere né tregue. Avviene ovunque e sempre.

È proprio a partire da questa considerazione che la riflessione sulla tecnica oggi si fa urgentissima. Se “tecnica” è quel «complesso di strumenti totalmente integrati tra loro», tale da essere «un “mondo” che sfugge sempre di più alla nostra possibilità di controllo e di comprensione», (Vattimo, 2018) allora della tecnica non resta che accettare passivamente le risposte, in qualsiasi parte esse conducano. La tecnica – nel senso che qui utilizzo – rappresenta quindi un ostacolo quasi insormontabile per la pensabilità di nuove categorie (sociali, politiche, economiche, giuridiche, tecnologiche) che possano far fronte al mutato paradigma climatico e ambientale. Ma proprio la realtà dell’Evento – nel senso poco sopra definito – ci impone di fare i conti con esso.

Ora, non v’è dubbio che anche il diritto sia una tecnica. Jack Balkin ha detto che il diritto è in grado di produrre le sue proprie verità. Vi sono cioè verità che sono tali solo “agli occhi del diritto” («in the eye of the law»), perché è proprio e solo il diritto a stabilire i criteri e i confini per i quali ed entro i quali certe affermazioni sono vere o false (banalizzando: solo l’esistenza di una disposizione normativa che stabilisca cosa sia il furto rende possibile che qualcuno sia un ladro, in senso giuridico). Questo ruolo che potremmo chiamare “veri-poietico” del diritto è nient’affatto scontato (anzi, è densissimo di implicazioni), ma non deve sorprendere. In fin dei conti, il diritto, nel corso delle varie epoche, ha funzionato proprio così: i concetti, le definizioni, le distinzioni, le categorie (giuridiche) hanno creato un universo tecnico (giuridico) attraverso cui leggere e poi “confinare”, “forzare”, “imprigionare” il reale. Ora, l’inevitabilità, la violenta imminenza e – forse – l’irreversibilità della catastrofe climatica ci impone di fare l’inverso. Il mio intento, qui, è metodologico: è un invito a non farci governare dai concetti (in questo caso giuridici, ma potrebbero ben essere quelli economici, sociali, politici, geopolitici, ecc.), bensì a governarli. Dobbiamo far sì, cioè, che ciò che è stato creato (il diritto) smetta di farsi a sua volta creatore incontrollabile di un ordine tecnico immodificabile, ma che torni ad essere, per così dire, addomesticato. È un invito a decretare la fine dell’espressione «perché ti lamenti? è l’economia – è il capitalismo, è la tecnica ecc. – bellezza!» (ma qui direi, è il diritto, bellezza!), ossia un modo di dire – che è prima di tutto un modo di pensare – che ha «più o meno lo stesso significato del francese c’est la vie!, che usiamo per accettare rassegnati le leggi immodificabili della realtà, che non possiamo cambiare e che non sembrano neanche dipendere dalla decisione di qualcuno…» (Vattimo, 2018).

Qui sta quello che io definisco il ruolo sovversivo della catastrofe ambientale per il diritto. Questa sovversione influenza ogni settore del diritto, sia pubblico, sia privato. Si pensi alla nozione di sovranità, ai poteri e ruolo dello stato e delle sue istituzioni (parlamenti, corti, strutture governative), ma anche a concetti apparentemente più tecnici, come responsabilità giuridica individuale, danno, causa, legittimazione ad agire, e via dicendo. Persino l’idea stessa di «diritto soggettivo» – secondo alcuni – necessiterebbe di esser rimeditata.

In questo scenario, il filosofo è quanto mai necessario; anzi, direi che è la figura più necessaria di tutte. Necessaria è la capacità immaginifica, quasi visionaria, della filosofia del diritto, chiamata – nel contesto di cui qui si parla – a riscrivere in termini nuovi la relazione tra persone, stati e istituzioni e a costruire un nuovo vocabolario, che sia anche un nuovo “orizzonte di concetti”, che sia capace di fornire una nuova cornice (in questo caso, giuridica) entro la quale la nostra azione possa muoversi con efficacia.

Bibliografia di riferimento

J. BALKIN, The Proliferation of Legal Truth, in 26, Harvard Journal of Law & Public Policy, 2003, 5 e seg.
J. BAUDRILLARD, L’Esprit du terrorisme, Paris, 2002.
A. SARAT, L. DOUGLAS, M. MERRILL (eds.), Law and Catastrophe, Stanford University Press, 2007.
G. VATTIMO, The Question Concerning Technology, in C. Mendes (ed.), in Humanity and Difference in the Global Age, Rio de Janeiro, 2012, 93 – 104 (ora in G. Vattimo, Essere e dintorni, Milano, 2018, col titolo La questione della tecnica oggi, trad. in italiano a cura di A. Martinengo, 194).