La retorica dell’emergenza. In dialogo con Eligio Resta

di Favorita Barra

L’uomo che si isola rinuncia al suo destino, si disinteressa del progresso morale. Parlando in termini morali, pensare solo a sé è la stessa cosa che non pensarci affatto, perché il fiore assoluto dell’individuo non è dentro di lui; è nell’umanità intera. […] Non si adempie il dovere, come spesso si è portati a credere e come ci si vanta di fare, confidandosi tra le vette dell’astrazione e della speculazione pura, vivendo una vita da anacoreta; non vi si adempie con i sogni ma con gli atti, atti compiuti nella società e per essa.

G. W. F. HEGEL, Scienza della logica, 1812

Un quadro introduttivo

Negli ultimi anni, la parola emergenza ha occupato drasticamente il linguaggio della politica. La sua eco, in assenza di un vero e proprio dibattito pubblico, si è propagata attraverso i flussi comunicativi che intercorrono tra governanti, media e cittadini.

L’emergenza sanitaria derivante dal propagarsi del virus COVID 19 ha messo alla prova le istituzioni, testando più specificamente la capacità degli ordinamenti di regolare la contingenza.

Ricordiamo il giorno in cui l’Italia fu dichiarata zona rossa e le regioni, le provincie e i comuni sono state divise da confini invisibili; l’adozione di atti emergenziali di contenimento e di gestione dell’epidemia; le proroghe dello stato di emergenza.

E ancora, il 24 febbraio di un anno fa, l’annuncio dell’invasione militare russa a danno dell’Ucraina ha materializzato nuovamente lo spettro della guerra, che continua a scandire la storia dell’umanità.

La comunità internazionale è sprofondata in uno stato emergenziale, segnato da una grave crisi energetica.

L’epidemia e la guerra sono accadimenti straordinari ed eccezionali che ridisegnano l’ordinario assetto dei diritti, delle garanzie costituzionali e del complesso sistema di pesi e contrappesi proprio degli ordinamenti democratici.

La Costituzione italiana non contempla lo stato di eccezione a differenza – a titolo esemplificativo –   della Costituzione spagnola, della Costituzione ungherese o della Costituzione di Weimar che all’art. 48 prevedeva la sospensione parziale o totale dei diritti costituzionalmente garantiti al fine di ristabilire l’ordine e la sicurezza pubblica.  

Tuttavia i decreti del Presidente del Consiglio italiano che durante la recente emergenza sanitaria hanno cadenzato le varie fasi del lockdown richiamano il Codice della Protezione civile, emanato il 2 gennaio del 2018. Più specificamente l’art. 7 del decreto legislativo n. 1 del 2 gennaio del 2018 sancisce che, di fronte a «emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo», si può ricorrere a «mezzi e poteri straordinari».

Recentemente il dibattito dottrinario si è accesso attorno a due posizioni dominanti. Secondo alcuni studiosi, giuristi e teorici del diritto, è necessario effettuare una distinzione tra emergenza ed eccezione, la prima implica la conservazione di un ordine precostituito, la seconda invece il suo disfacimento. (G. Zagrebelsky, ‘Non è l’emergenza che mina la democrazia. Il pericolo è l’eccezione’, la Repubblica, 28 luglio 2020)

È evidente che il punto di partenza di tale ricostruzione è la differenziazione schmittiana fra dittatura commissaria, che ha lo scopo di conservare o restaurare la costituzione vigente e dittatura sovrana, che tende invece a instaurare un nuovo ordine. La visione sopra esposta è fortemente criticata da chi sostiene che l’eccezione e l’emergenza implicano entrambi la sospensione della legge. Da ciò segue che, non è dirimente riflettere sulle intenzioni o sulle motivazioni sottese alla dichiarazione dello stato d’eccezione e dello stato emergenza, quanto sull’esito: l’interruzione delle garanzie costituzionali. (G. Agamben, Stato di eccezione e stato di emergenza, 2020).

Per giunta Carl Schmitt in Teologia Politica parla semplicemente di Ausnahmezustand, «stato di eccezione», termine tecnico che si è imposto per definire la condizione di eccedenza del politico sul giuridico; in altre parole la terra di mezzo tra l’ordine giuridico e il fatto politico, tra la legge e la sua sospensione.

Banksy, ballerina sulle rovine di un grattacielo di Borodyanka – Ucraina

Le parole di Eligio Resta

Proprio quando l’ordine precostituito sembra svanire e la forza immanente dei principi fondativi dell’ordinamento giuridico cede il passo alla sospensione e all’incertezza, è facile chiedersi quale sia il ruolo dei diritti.

Questa domanda e tanti altri interrogativi saranno il filo conduttore dell’intervista o per dirla come abbiamo sempre chiamato le nostre conversazioni – della chiacchierata, con il Professore e Filosofo Eligio Resta, la cui ricca produzione scientifica è da sempre caratterizzata dalla rarissima capacità di portare alla luce i paradossi del diritto.

E. R «L’emergenza è ormai definitiva e proprio in questo periodo storico possiamo notare il calpestare continuo dei diritti di individui e di intere popolazioni. È necessario chiederci in che modo i diritti possano essere Katéchon, ossia limite all’esercizio del potere.

La questione della guerra ancora una volta è fondamentale.  Aveva ragione Hans Kelsen a dire che non ci sarà mai pace fin quando non si metterà in crisi il meccanismo della sovranità degli Stati, che è un vero e proprio elemento di prepotenza.

Il vecchio proposito di sostituire il diritto alla sovranità o i diritti alla sovranità, che sicuramente rivive nella richiesta alla Corte penale Internazionale dell’Aja di aprire un’indagine sui crimini di guerra, non condurrà ad esiti significativi, in quanto la terzietà del diritto non sarà mai così forte da mettere in crisi la prepotenza dello Stato.

É necessario fare uno sforzo doppio, in modo da continuare, da un lato, a sperare nell’ordinamento giuridico internazionale e dall’altro a lavorare sulla dimensione ‘micro’ dei diritti, che consiste nell’attivazione costante della garanzia ai diritti individuali.

Molto suggestivo ciò che raccontava Carl Schmitt: quando i tempi si fanno inquieti la questione della tutela degli ameni parchi a tutela della natura lascia lo spazio ad una volontà di decisione, più propriamente di schieramento che ruota attorno alla dicotomia amico/nemico.

Purtroppo mai come in questa momento l’inquietudine dei tempi è emergente.»

Professore, in un’opera pubblicata nel 1984, intitolata L’ambiguo diritto, lei ricostruisce e decostruisce il diritto dell’emergenza. Questa espressione ‘l’ambiguo diritto’ mi ha fatto sempre pensare a un diritto personificato, un diritto che si fa umano e che, come un uomo, vive di complessità, di contraddizioni, di ambivalenza.

E. R «La questione dell’ambiguità del diritto mette in crisi la teologia giuridica – teologia orientata a colmare l’assenza di un dio – e lo fa fondamentalmente attraverso la scoperta del rapporto tra diritto e violenza.

Avevo preso questa formula da Walter Benjamin che, come è noto, ha fatto riferimento al carattere demonicamente ambiguo del diritto, in relazione non solo al fondamento, ma anche al suo funzionamento.

Più specificamente, il diritto che crea gli ordinamenti è lo stesso che li conserva ed esso è legato a doppio filo alla violenza. Del resto sappiamo benissimo come il gioco dell’ambiguità massima risiede proprio nel rapporto tra violenza legittima e violenza illegittima. Pensiamo che la violenza sia legittima, quindi positiva e che la violenza illegittima sia negativa, tuttavia la violenza legittima è sempre violenza.

In controluce il carattere demonicamente ambiguo del diritto è utile per comprendere i meccanismi della teologia della colpa. Benjamin ci ricorda, a tal proposito, che il giudice non vede colpa in un comportamento antigiuridico, ma infligge destino.  Forte è il rapporto tra destino, diritto e la vita; da questa consapevolezza è nata la mia modesta riflessione sul diritto vivente. (n.d.a. Cfr. Diritto vivente 2014)»

Nell’ambito de L’ambiguo diritto lei richiama la valenza simbolica dell’emergenza.

Più specificamente scrive: «Emergenza, destabilizzazione, eccezionalità sono piuttosto il frutto del ricatto e della propaganda della paura.»

E. R. «La retorica dell’emergenza si fonda sull’equivoco che l’emergenza è un intralcio alle magnifiche sorti e progressive dell’umanità. In altre parole essa viene intesa cioè come un’interruzione del progresso. Ma è ancora una volta Benjamin a guidarci; nell’ottava tesi di Filosofia della Storia il filosofo afferma che non bisogna stupirsi della violenza. Chi si stupisce della violenza la considera come un’eccezione nel cammino delle magnifiche sorti e progressive e così facendo, fa gli interessi del fascismo, come anche del nazismo, che considera la violenza come un’eccezione e lavora oltretutto per la sua giustificazione in nome dell’ordine.

É in gioco l’ontologia della paura che da Hobbes in poi continua a legare la politica e il diritto al filo della modernità.»

L’emergenza è terreno fertile per l’instaurarsi di una società del controllo imperniata sul disciplinamento sociale

E. R. «In genere il disciplinamento fa parte delle tecniche di potere orientate all’ordine sociale.

La parola ordinamento è dotata di senso; ordine è la trama, l’ordito, che è costituto da un legame molto forte tra tutti gli elementi della società. L’ordine implica l’affermazione del controllo sociale, basato anche sulla perfetta consapevolezza della divisione delle funzioni sociali. Imprescindibile è il un ruolo del dissenso.

Nello Stato di diritto c’è un’ampia apertura al dissenso e al conflitto, tuttavia il dissenso e il conflitto non devono confondersi con il dissidio che è invece rottura: impossibilità della comunicazione.

Credo fortemente che dobbiamo ancora una volta tornare alle radici dello Stato di diritto e dunque a scommettere sull’autonomia del diritto, ripensando ad una divisione forte delle funzioni che sono equivalenti dei poteri. Del resto se c’è un potere che controlla l’altro, non ci può essere un monopolio di un potere sull’altro; tale equilibrio è affermato anche in nome della pluralità sociale.»

Vorrei, a questo punto della nostra conversazione, far riferimento alle rigide restrizioni che durante l’emergenza sanitaria hanno interessato i cittadini non vaccinati, di fatto esclusi dalla vita sociale.

Eppure, è stato il Codice di Norimberga, nato dagli orrori della seconda guerra mondiale, a sancire che il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente necessario.

Con questo documento si inaugura la rivoluzione del consenso informato; qualsiasi intervento medico sul corpo del paziente è pertanto ad esso subordinato. L’individuo non è più oggetto del potere medico e politico. Si afferma così il potere della persona, che in quanto soggetto morale, è capace di decidere per sé sulla sua vita e non è più sottoposta al volere altrui.

La legislazione adottata durante l’epidemia COVID 19 sembra, da un certo punto di vista, ‘barattare’ l’accesso ai servizi essenziali e la partecipazione alla vita sociale ad un trattamento sanitario sul corpo, il vaccino.  Tale scambio renderebbe, a mio avviso, il consenso al trattamento sanitario tutt’altro che libero e scevro da condizionamenti.

E. R «Ripartirei dal concetto di soggetto che, nella tradizione giuridica, viene investito del carattere della titolarità dei diritti e in quanto soggetto di diritto può decidere della propria vita. In realtà, da un punto di vista semantico, la parola soggetto porta con sé una dimensione di sottomissione. Soggetto è subiectum; sottoposto. L’idea del diritto come privilegio individuale è condizionata alla dimensione politica della comunità.

Vorrei mettere in luce questo termine: communitas, ossia dono e dovere comune. Alla comunità non si prende parte ma si dona. La storia del soggetto nella comunità è una storia più che di privilegi, di donazioni; ha a che fare con l’altruismo e non con l’egoismo.  La fraternità e comunità sono elementi fortemente collegati.

Io penso che sia necessario il sacrificio individuale in nome della salvezza della comunità. Ben venga il sacrificio se serva volontariamente a salvare il tutto!»

G. Klimt, L’albero della vita 1909

Professore, ricordo che ogni anno accademico, durante la prima lezione del corso di filosofia del diritto, era solito leggere agli studenti il famoso frammento di Georg Friedrich Hegel di seguito riportato: «La contraddizione sempre crescente tra l’ignoto che gli uomini inconsapevolmente cercano e la vita che ad essi è offerta e permessa e che essi hanno fatto propria, la nostalgia verso la vita di coloro che hanno elaborato in sé la natura in idea, contengono l’anelito a un reciproco avvicinamento. Il bisogno di quelli, di ricevere una consapevolezza sopra ciò che li tiene prigionieri e l’ignoto di cui sentono l’esigenza, s’incontra col bisogno di questi, di trapassare dalla propria idea nella vita.»

La vita, del resto, è uno dei nodi centrali di tutta la sua ricerca.

E. R «Ritengo questo passo fondativo, in quanto mette in relazione due dimensioni: la determinatezza e l’anelito verso una vita migliore, pertanto ciò che è determinato e la ricerca dell’indeterminatezza della libertà. 

È un frammento di grande apertura verso la modernità: la contraddizione sempre crescente, mai come in questo momento, ci condiziona fortemente. D’altro canto l’esistenza è fatta di aneliti verso una vita migliore, che ognuno nel proprio piccolo cerca. L’anelito, tuttavia, viene in contraddizione con la necessità – Anánkē – del resto, sono nato in una certa epoca, sono inserito in un determinato contesto sociale, devo sottostare ad alcune condizioni economiche, insomma sono determinato dalla vita.

Certamente un elemento forte di consapevolezza è quello di considerare se stessi come determinati dalla vita, ma l’anelito verso la vita migliore è ciò che spinge al di là dei confini.

Hegel aggiunge un elemento ulteriore: la contraddizione sempre crescente non può essere ridotta con un atto di violenza, che è qualcosa che produrrà un nuovo dolore. Noi pensiamo che attraverso le regole si possa incidere sulla vita, mentre la vita sfugge alle regole. Le passioni fredde del diritto si scontreranno sempre con le passioni calde della vita. Piuttosto, alla luce di una lettura hegeliana, la contraddizione viene risolta nella dimensione dello Spirito Assoluto, cioè di quelle forme della vita che si incarnano nello Stato e nella politica. Lo Stato diventa il risultato degli opposti antagonismi.

Questo bellissimo frammento sulle determinatezze della vita termina con un Oder, con un ‘oppure’, seguito da puntini di sospensione.

Un’altra soluzione è sempre possibile ma, guai a dare un significato a questo Oder, a questa possibilità esclusa ma non eliminata.»

Una via d’uscita dalle determinatezze della nostra epoca è quindi possibile, probabilmente il punto di partenza è proprio la capacità di vedere oltre il presente. «Eppure la paura umana del nuovo è spesso grande quanto la paura del vuoto, anche quando il nuovo rappresenta il superamento del vuoto.»

Ho sempre trovato profondamente suggestivo questo passaggio dell’opera Terra e Mare.

Mi piace pensare, citando ancora una volta Carl Schmitt che «nella lotta più accanita fra le vecchie e le nuove forze nascono giuste misure e si formano proporzioni sensate.»

E. R «Non so se sensate, ma sicuramente nuove misure. Il passato dobbiamo considerarlo hegelianamente come la determinatezza della vita, di questo si tratta, d’altra parte esso corrisponde ad una complessità già ridotta. Il nuovo si pone in un rapporto di continuità e nello stesso tempo di rottura con il vecchio. Ogni epoca pensa se stessa come il superamento della precedente, vale per le epoche quello che vale per gli individui. Il rapporto giovane/vecchio è costruito sulla base della conservazione delle aspettative e della delusione che ne nasce. Ogni futuro sarà il passato di un futuro prossimo e a sua volta il passato è stato futuro di un passato; siamo di fronte ad un rapporto di inseguimento circolare.

Piuttosto mi colpisce un’altra dimensione della storia narrata da Nietzsche, quella secondo cui i primordi sono sempre possibili e mai come oggi ci troviamo di fronte a questa evenienza.»

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:

G. AGAMBEN, Stato di eccezione e stato di emergenza, Quodlibet, Macerata 2020.

W. BENJAMIN, Angelus Novus, Einaudi, Torino 2014.

W. BENJAMIN, Tesi di filosofia della storia, Mimesis, Sesto San Giovanni 2012.

H. KELSEN, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale. Contributo per una dottrina pura del diritto, Giuffrè, Milano 1989.

E. RESTA, L’ambiguo diritto, FrancoAngeli, Milano 1984.

C. SCHMITT, Le categorie del politico, Mulino, Bologna 2013.

C. SCHMITT, Ex captivitate salus, Adelphi, Milano 1987.

C. SCHMITT, Terra e mare, Adelphi, Milano 2002.

Fiori Vivi ringrazia:

Eligio Resta Giurista e Filosofo. Professore Emerito di Filosofia del diritto e Sociologia del diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi Roma Tre, già membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura, è autore di innumerevoli testi di grande pregio e articoli scientifici. Tra i suoi lavori ricordiamo Poteri e Diritti (Giappichelli 1996), L’infanzia ferita (Laterza 1997), Diritto fraterno (Laterza 2004), Il diritto vivente (Laterza 2008), Le regole della fiducia (Laterza 2011).

Favorita Barra Docente a contratto di Informatica giuridica presso la Link Campus University, e collaboratrice alla didattica del corso Diritto dell’amministrazione digitale presso la Luiss Guido Carli è attualmente consulente presso il FormezPA. Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Funzione pubblica.

Se il passato non passa

di Maria Grazia Carnevale

Ciò che riempie la nostra coscienza storica è sempre una molteplicità di voci, nelle quali risuona il passato. Solo nella molteplicità di tali voci

il passato c’è…

H.G. Gadamer, Verità e metodo

La guerra della memoria

Lo scorso 10 febbraio si è celebrato il Giorno del Ricordo, istituito nel 2004 in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale (Legge n.92/2004 consultabile su http://www.gazzettaufficiale.it): il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha definito ‘un impegno di civiltà’ conservare e rinnovare la memoria di tale tragedia, riconoscendo, al contempo, che i sopravvissuti e gli esuli, insieme alle loro famiglie, hanno tardato a veder riconosciuta la verità delle loro sofferenze. Una ferita che si è aggiunta alle altre (Dichiarazione del Presidente Mattarella in occasione del Giorno del Ricordo 2022, http://www.quirinale.it). Memorie negate per anni e, quindi, da ricordare con ancora più forza.

Quasi nello stesso momento veniva pubblicata una Circolare del Ministero dell’Istruzione in cui i massacri sul confine orientale venivano equiparati alla Shoah. Vi si legge, infatti: «Il Giorno del Ricordo e la conoscenza di quanto accaduto possono aiutare a comprendere che, in quel caso, la ‘categoria’ umana che si voleva piegare e culturalmente nullificare era quella italiana. Poco tempo prima era accaduto, su scala europea, alla ‘categoria’ degli ebrei» (Nota del Miur alle Scuole: 10 febbraio 2022 Giorno del Ricordo – Opportunità di apprendimento consultabile su http://www.miur.gov.it). Praticamente immediata la smentita del Ministro Bianchi, dopo le numerose proteste: è un «errore paragonare tragedie, genera altro dolore».  Ed ancora «ogni dramma ha la sua unicità, va ricordato nella sua specificità e non va confrontato con altri, con il rischio di generare altro dolore» (Dichiarazione del Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi: 10 febbraio 2022 consultabile su http://www.miur.gov.it). Memorie negate per anni, di nuovo a rischio di rimozione.

Di cosa ci parlano il discorso di Mattarella e il comunicato di Bianchi? Di un fenomeno sempre più evidente, la trasformazione della memoria pubblica in ‘un campo di battaglia’ per usare la formula di Luisa Passerini, studiosa che ha sottolineato più volte come il XX secolo sia stato un intreccio contraddittorio di memoria e oblio (p.29, Memoria e utopia. Il primato dell’intersoggettività). Del resto, ci aveva avvisato già Paolo Jedlowski: «la memoria pubblica è la memoria della sfera pubblica, ossia l’immagine del passato pubblicamente discussa» (Introduzione). Per sfera pubblica deve intendersi naturalmente l’ambito della vita delle moderne società democratiche – sorto grosso modo nel corso del Settecento e in relazione all’ascesa della classe borghese – al cui interno i convincimenti dei cittadini a proposito di questioni di rilevanza collettiva si confrontano e si influenzano reciprocamente, modificandosi man mano contribuendo al formarsi dell’opinione pubblica attraverso argomentazioni di carattere prevalentemente razionale, suscettibili di critica, in modo tale che tutti i cittadini, in linea di principio possono partecipare al discorso (cfr. J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica). La possibilità di partecipare, però, alla formazione dell’opinione pubblica, non ci mette automaticamente al riparo dalle dinamiche di potere e dai loro pericoli, soprattutto in relazione alla scelta dei criteri di rilevanza e plausibilità degli eventi del passato.

Se la ‘memoria collettiva’ altro non è che l’insieme delle rappresentazioni sociali riguardanti il passato che ogni gruppo produce, istituzionalizza, custodisce e trasmette attraverso l’interazione dei suoi membri fra loro (p. 34, Lineamenti di una sociologia della memoria), è la struttura di potere che caratterizza un gruppo o una società a creare e stabilizzare la memoria (ivi). Ogni processo di selezione del passato implica, infatti, un’attribuzione di valore.

Del resto, già Halbwachs aveva distinto, in una prospettiva marxiana,
‘memorie dei gruppi dominanti’ e ‘memorie dei gruppi subordinati’ (La memoria collettiva), mettendoci in guardia sui tentativi di chi detiene il potere di legittimare la propria posizione o di definire identità attraverso le immagini del passato. 

S. Dalì, La persistenza della memoria 1931.

Come salvare la nostra memoria collettiva?

É sempre più evidente che «il passato non è in grado di difendersi da solo come fanno il presente e il futuro (p. 48, L’imprescrittibile) perché è stato, ma non è più». Da un lato, è temporalmente concluso (quod factum infectum non fieri amavano ripetere i Latini), dall’altro è ormai assente (e tuttavia ancora presente). Paul Ricoeur ci rammenta che «l’idea di perdita è, da questo punto di vista, criterio decisivo della passeità»: infatti, «l’oggetto del passato in quanto trascorso è un oggetto (d’amore, d’odio) perduto» (p.11, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato).  

Non è solo la Storia, in quanto disciplina a statuto scientifico, a venirci in aiuto, è altrettanto importante recuperare una dimensione etica della memoria collettiva. In fondo, riappropriarsi del passato è un’operazione salvifica, soprattutto se accettiamo la tesi di Walter Benjamin secondo cui «solo all’umanità redenta tocca interamente il suo passato» (p. 23, Sul concetto di storia). Non si tratta solo di réparer l’histoire, limitandosi a scuse pubbliche o a tardive richieste di perdono, o ancora di tribunalizzare la storia, per citare la nota espressione coniata da Odo Marquard, nell’intento di autoassolversi, bensì di riappropriarsi di essa al punto di assumersene la responsabilità. Il solo vero antidoto al ripetersi degli errori del passato.

E ciò dipende da «quanto sia grande la forza plastica di un uomo, di un popolo o di una civiltà, voglio dire quella forza di crescere a modo proprio su se stessi, di trasformare e incorporare cose passate ed estranee, di sanare ferite, di sostituire parti perdute, di riplasmare in sé forme spezzate» (pp. 8-9, Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Seconda considerazione inattuale). Anzi trova spazio e conferma nella commemorazione, in quel fare memoria insieme, allo stesso tempo pratica comunicativa e narrativa opposta all’oblio e alla rimozione.

La storia non si snoda

come una catena

di anelli ininterrotta.

In ogni caso

molti anelli non tengono.

La storia non contiene

il prima e il dopo,

nulla che in lei borbotti

a lento fuoco.

La storia non è prodotta

da chi la pensa e neppure

da chi l’ignora. La storia

non si fa strada, si ostina,

detesta il poco a poco, non procede

né recede, si sposta di binario

e la sua direzione

non è nell’orario.

La storia non giustifica

e non deplora,

la storia non è intrinseca

perché è fuori.

La storia non somministra carezze o colpi di frusta.

La storia non è magistra

di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve

a farla più vera e più giusta.

La storia non è poi

la devastante ruspa che si dice.

Lascia sottopassaggi, cripte, buche

e nascondigli. C’è chi sopravvive.

La storia è anche benevola: distrugge

quanto più può: se esagerasse, certo

sarebbe meglio, ma la storia è a corto

di notizie, non compie tutte le sue vendette.

La storia gratta il fondo

come una rete a strascico

con qualche strappo e più di un pesce sfugge.

Qualche volta s’incontra l’ectoplasma

d’uno scampato e non sembra particolarmente felice.

Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato.

Gli altri, nel sacco, si credono

più liberi di lui.

E. Montale, La Storia, 1971

R. Magritte, Memoria 1948.

Bibliografia di riferimento:

A. CAVALLI, Lineamenti di una sociologia della memoria, in P. JEDLOWSKI e M. RAMPAZI (a cura di), Il senso del passato. Per una sociologia della memoria, Franco Angeli, Milano 1991.

M. HALBWACHS, La memoria collettiva, Unicopli, Milano 1987.

J. HABERMAS, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Roma-Bari 2006.

P. JEDLOWSKI Introduzione, in M. RAMPAZI, A. L. TOTA (a cura di), La memoria pubblica. Trauma culturale, nuovi confini e identità nazionali, Utet, Torino 2013.

O. MARQUARD, A. MELLONI, La storia che giudica, la storia che assolve, Laterza, Roma-Bari 2008.

F.W. NIETZSCHE, Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Seconda considerazione inattuale, Adelphi, Milano 1994.

L. PASSERINI, Memoria e utopia. Il primato dell’intersoggettività, Bollati Boringhieri, Milano 2003.

P. RICOEUR, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, il Mulino, Bologna 2004.


 

L’ESISTENZA DELL’EUROPA*

di Favorita Barra

Non vi è dubbio che il vecchio nomos stia venendo meno, e con esso un intero sistema di misure, di norme e di rapporti tramandati. Non per questo tuttavia, ciò che è venturo è solo assenza di misura, ovvero un nulla ostile al nomos. Anche nella lotta più accanita fra le vecchie e nuove forze nascono giuste misure e si formano proporzioni sensate.
Carl Schmitt, Terra e mare, 1942

Il veloce diffondersi a livello globale del Coronavirus ha dissodato i già precari equilibri della vita; risulta dirompente l’urto con la fragilità della condizione umana.

La contaminazione di gran parte della popolazione mondiale non conosce barriere. Mentre il virus si propaga, gli Stati si chiudono nei loro confini. Il contagio, come è noto, comporta che gli uomini si isolino l’uno dall’altro. La prospettiva di vita e la vita stessa si condensano nella distanza dall’altro (E. Canetti, Massa e potere, 1981).

Il microcosmo delle relazioni tra gli individui trova un duplicato nei rapporti interstatuali.

Più specificamente, in ambito europeo, la gestione della crisi sanitaria ed economica prodotta dallo scatenarsi dell’epidemia non si è articolata su di un fronte comune e la trattativa relativa alle misure necessarie da adottare per affrontare l’emergenza appare un’impresa gravosa.

È necessario rilevare che da sempre i corpi politici hanno messo in atto una pratica costante di immunizzazione delle minacce provenienti dall’evento non sussumibile in una previsione.  

Il percorso verso la ricostituzione di un equilibrio perennemente in bilico si è manifestato storicamente attraverso differenti dinamiche, le quali hanno cercato di garantire l’esistenza e la conservazione identitaria, dapprima dei sistemi embrionali e, successivamente, delle società sempre più complesse. Come Roberto Esposito ha osservato, risiede in questo procedimento il “perno di rotazione simbolico e materiale” di ogni sistema sociale (R. Esposito, Immunitas, 2002, p. 4).

In tale ottica, la situazione attuale ci invita a riflettere, partendo proprio dalla gestione della crisi a livello europeo, sull’esistenza di un’anima politica dell’Europa, retta da uno spirito di solidarietà e fratellanza tra gli Stati.

Il recente dibattito sugli Eurobond darebbe, viceversa, una fotografia dell’Unione Europea, come un insieme di “piccole patrie” portatrici di egoismi nazionalistici.

Di forte attualità sono le parole che, alla fine delle prima guerra mondiale, Hans Kelsen ha scritto in un saggio dedicato al “pacifismo giuridico”: «compito infinito del giurista che voglia realizzare la civitas maxima è quello di smantellare la categoria della sovranità degli Stati» (H. Kelsen, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale, 1989, p. 468).

Del resto solo il superamento del concetto di Stato-Nazione può condurre a ripensare l’Europa in chiave di inedito. E l’inedito consiste nel porre limiti alle politiche di austerità a beneficio del pareggio di bilancio e alla continua opposizione tra paesi creditori e paesi debitori.

Eppure non si fa altro che collocare lo spazio politico europeo in un orizzonte concettuale già noto, vincolato alle categorie della tradizione costituzionale degli Stati-Nazione.

Tuttavia nel momento in cui l’emergenza non fa altro che marcare nuovamente le distanze e le divisioni tra gli Stati, si fa acceso il dibattito sulla necessità di promuovere una “Costituzione della Terra”, un patto a garanzia del rispetto dei diritti fondamentali, dei beni comuni e della vita di ogni individuo. D’altronde se i diritti fondamentali costituiscono, da un lato “limiti” del potere, dall’altro, vincolano ad azioni condivise, ispirate ai principi di solidarietà e fratellanza.

Emblematiche sono le parole di Jürgen Habermas nell’affermare che solo la solidarietà può liberarci dall’odio che scorre tra paesi creditori e debitori dell’Unione e che neanche la recente catastrofe sanitaria ed economica sembra riuscire a scalfire (J. Habermas, Nella spirale tecnocratica. Unarringa per la solidarietà europea,2013).

La solidarietà è un principio, che appartiene alla dimensione costituzionale, ma è anche un processo. Essa esige, per un verso, un ambiente abilitante, inteso come condizioni e strumenti istituzionali diretti all’attuazione di pratiche solidali, per l’altro, che gli Stati, nonché le persone che li rappresentano, abbandonino egoismo e individualismo.

È palese la contraddizione in cui l’Unione Europea si incaglia nel momento in cui esclude dal suo quadro istituzionale la Carta dei diritti fondamentali, che ai sensi dell’art. 6 del Trattato di Lisbona “ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. Si rileva una scissione tra ciò che è affermato nei Trattati

e quel che appare un rifiuto istituzionale di assumere decisioni, che promanano da prospettive solidali.

Sul punto è rilevante menzionare l’articolo 168 del Trattato sul funzionamento dell’Unione che, al fine di garantire un livello elevato di protezione della salute umana», sancisce: «gli Stati membri coordinano tra loro, in collegamento con la Commissione, le rispettive politiche» e altresì che: «il Parlamento europeo e il Consiglio possono anche adottare misure per proteggere la salute umana, in particolare per lottare contro i grandi flagelli che si propagano oltre frontiera».

In aggiunta a ciò, l’art. 222, intitolato “clausole di solidarietà”, stabilisce che «l’Unione e gli Stati membri agiscono congiuntamente in uno spirito di solidarietà qualora uno Stato membro sia vittima di una calamità naturale».

Pertanto, affinché tale principio alimenti effettivamente le scelte di politica europea, si auspica che l’Unione Europea lo prenda sul serio, e lo liberi dal sequestro della logica dell’austerità.

Come Stefano Rodotà ha evidenziato nello scritto “Solidarietà. Un’utopia necessaria”: «Nessuno può essere condannato alla solitudine e all’abbandono senza che questo determini una perdita radicale di legittimità delle istituzioni pubbliche, con effetti evidenti sulla possibilità stessa di continuare a classificare un sistema tra quelli democratici» (S. Rodotà, Solidarietà. Un’utopia necessaria, 2014, p.114).

La situazione attuale può essere il punto di partenza per un cambiamento di vedute.

Una realtà, svuotata dalla capacità di spingere lo sguardo oltre i tragici avvenimenti del presente e l’impotenza di assumere decisioni orientate al bene dell’intera comunità europea, è ingannevole.

In tale ottica, l’utopia è un invito a far sì che un futuro politico diverso possa invadere il presente.

Lutopia è capacità di visione.

Bibliografia di riferimento

E. CANETTI, Massa e potere, Adelphi, Milano 1981.
R. ESPOSITO, Immunitas, Einaudi, Torino 2002.
J. HABERMAS, Nella spirale tecnocratica. Unarringa per la solidarietà europea,Laterza, Roma-Bari 2013.
H. KELSEN, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale, Giuffrè, Milano 1989.
E. RESTA, Il diritto fraterno, Laterza, Roma-Bari, 2002.
S. RODOTÀ, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Laterza, Roma-Bari 2014.

*Per adesione all’appello “L’esistenza dell’Europa” promosso dall’Università degli studi Link Campus University

QUESTA PANDEMIA CI CAMBIERÀ – BISOGNA VEDERE COME

di Carlo Vittorio Giabardo

Di certo Baudrillard, quando teorizzava “lo sciopero degli eventi” non si sarebbe mai immaginato il 2020. Quando, all’inizio degli anni Novanta, egli scrisse L’Illusion de la fin ou la grève des événements aveva davanti agli occhi uno scenario globale ben diverso: niente sembrava più possedere una forza tanto dirompente, scardinante, da mettere in discussione il “sistema-mondo” come si stava delineando (J. Baudrillard,  L’illusione della fine o lo sciopero degli eventi). Un ordine era venuto a crearsi, l’ordine capitalistico, democratico e liberale, un ordine tanto egemonico, congelato, da apparire, da lì in avanti, come inattaccabile. Niente sarebbe potuto più succedere, nessun Evento tanto significativo da comportare una rottura. Le cose non andarono proprio come Baudrillard aveva predetto. È cosa nota che egli stesso cambiò bruscamente idea all’indomani del crollo delle Torri Gemelle; qualcosa di davvero sconvolgente era successo e la partita era riaperta. Con quell’evento (“la madre di tutti gli eventi che non avevano mai avuto luogo”, egli dirà) la Storia si rimetteva in moto, si scongelava; le ideologie, le “idee forti” si rimettevano in marcia (J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo, pp.7-8). Vi sarebbe stato un prima e un dopo l’11 settembre 2001.

Il mondo non sembra più quello immobile di Baudrillard. Negli ultimi anni – e nel 2020 in particolare, già annus horribilis – abbiamo assistito a profondi sconvolgimenti economici (la crisi che caratterizza ormai il nostro tempo), politici (Brexit), ecologici (la catastrofe climatica che è già una realtà, e presto sarà irreversibile; l’Australia che a gennaio bruciava in un incendio di dimensione continentale senza pari, e che già è solo un ricordo): non stupiamoci, quindi, del ritorno prepotente sulla scena del genere distopico. Non si contano più gli eventi, le conferenze accademiche che propongono di pensare qualcosa (la letteratura, il diritto, etc…) declinandolo con espressioni del tipo: “alla fine dei tempi”, “in tempo di crisi”, “al tempo della catastrofe” … Segno delle mode accademiche certo (e della nostra incapacità di immaginare un futuro buono), ma forse qualche valida ragione c’è.

Ora siamo testimoni della comparsa della pandemia da Covid-19, la quale, in un’angosciosa escalation, ha provocato tragicamente la fine di innumerevoli vite umane, la dolorosissima scomparsa di una generazione, falcidiato intere aree del mondo e messo in crisi categorie politiche, sociali, economiche, giuridiche e persino antropologiche. Tutto nel giro di tre mesi scarsi. Questo Evento è diverso da tutti gli altri. Non esagero se dico che mette in discussione – e lo fa rapidamente, con effetti tangibilissimi, immediati – la nostra stessa idea di civiltà. Non è come il cambiamento climatico, i cui effetti, per quanto già reali, sono sempre, nell’immaginario globale, differiti. No. Il Covid-19 ha già traumatizzato la coscienza collettiva e ci ha ricordato così duramente il nostro essere, in fin dei conti, una “muffa cosmica” (per usare la potente espressione di Gabriel Marcel), fragile, precaria e delicata, pascalianamente grandiosa nelle sue capacità, ma, al tempo stesso, infinitamente debole [rileggiamo il profondissimo pensiero 186: l’uomo […] «non serve che l’universo si armi per schiacciarlo, un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo./Ma se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe comunque più nobile/di ciò che lo uccide perché sa di morire e conosce il potere che l’universo ha su di lui, mentre l’universo non ne sa nulla» (B. Pascal, Pensieri)].

Ma davvero l’uomo è consapevole del potere che l’universo ha su di lui? Questo universo, questa Terra, martoriata da un dissennato sfruttamento delle risorse? Non sembra. È noto, ad esempio, che l’erosione delle foreste primarie e, quindi, la distruzione dell’equilibrio tra spazi naturali e umani ha contribuito in maniera cruciale a quei “salti di specie” che virus prima confinati in altri mammiferi hanno fatto, aggredendo un tanto impreparato quanto ingenuo uomo. Non spingiamoci troppo in là: tuttavia, pare evidente lo stretto legame che esiste tra la prevalenza delle ragioni dell’economia (che si esprime non solo nello sfruttamento delle risorse, ma anche nei livelli di inquinamento che ci hanno resi più vulnerabili, nel depotenziamento dei sistemi sanitari avvenuto negli anni, e ora nella riluttanza a chiudere imprese anche non essenziali, o nella scommessa, giocata a livello globale, che per certi stati non fosse ancora necessario prendere misure tanto drastiche che ne avrebbero affossato la capacità produttiva, e via dicendo) e l’aggressività della pandemia in corso. Se l’Uomo ha avuto un ruolo in tutto questo – e lo ha avuto – allora è solo dalla chiara presa di coscienza delle proprie responsabilità che può nascere un diverso modo di stare al mondo: non soltanto di produrre, o di doing capitalism differently, come dice Mariana Mazzucato (il che mi pare piuttosto un invito a muoversi al di fuori dei confini del capitalismo), ma proprio di abitare questa Terra (M. Mazzucato, The Covid-19 crisis is a chance to do capitalism differently).

Non so se di tutto ciò terremo conto. In un esercizio di futurologia, non mi pare del tutto inutile interrogarsi sul lascito di questa pandemia. Le conseguenze di questo Evento rimarranno a lungo. Anche qui, vi sarà un prima e un dopo. Saremo diversi. Questo Evento è un’ulteriore messa in moto della Storia; sì, ma in quale direzione?

Saremo diversi politicamente. Vorrei (e di fatto lo sono) essere ottimista e augurarmi – come ha fatto Luigi Ferrajoli dalle colonne de “Il Manifesto” – che questa pandemia porti l’avvento di un costituzionalismo planetario, una Costituzione della Terra ispirata ai criteri della solidarietà e della fratellanza globale tra persone e popoli uniti da un comune destino (L. Ferrajoli, Il virus mette la globalizzazione con i piedi per terra, Il Manifesto, 17.03.2020). Ma la realtà è più dura; stiamo assistendo a un ritorno accelerato degli stati nazionali, allo sgretolamento impietoso di un agire comune [le esternazioni iniziali di Christine Lagarde, a capo della Banca Centrale Europea, che ha assicurato che non avrebbe fatto tutto il possibile per tenere contenuti gli spread italiani [(F. Fubini, BCE, Lagarde e la «gaffe» che fa esplodere lo spread, Corriere della Sera, 12.03.2020)], all’egoismo che oltraggia [la notizia – che nemmeno più ci indigna – che Trump avrebbe tentato di assicurarsi, comprandolo, l’uso esclusivo di un vaccino made in Germany (P. Valentino, Trump vuole comprare il brevetto di un vaccino tedesco in esclusiva per gli Usa, Corriere della Sera, 15.03.2020)]. Non saprei prevedere se si reagirà con una maggiore chiusura o con una maggiore concertazione politica. Dal grande al piccolo. Non saprei – per esempio – se riprenderemo a volare come facevamo prima, ad attraversare continenti come se fossero corridoi di una gigantesca casa, o se le restrizioni entreranno a far parte del nostro futuro DNA politico. Non saprei se nel prossimo avvenire (parlo da accademico) le conferenze via Skype rimpiazzeranno i convegni dalla parte opposta del mondo. E non ho nemmeno chiare le idee se questo sia, in fin dei conti, un male. Intanto, proprio pochi giorni fa, la filosofa americana Judith Butler denunciava il carattere correlato e paradossale di tutto questo: mentre stiamo combattendo un virus che non conosce confini e barriere (il virus più cosmopolita di tutti) noi ci stiamo recintando sempre di più dentro i nostri stati, le nostre regioni, città, case, stanze (J. Butler, Capitalism Has its Limits).

Saremo diversi personalmente. Ci siamo scoperti più solidali, ma anche più isolati. Più empatici con chi soffre, ma anche più diffidenti e più distanti, in questa quarantena, come dentro un quadro di Edward Hopper (il pittore della solitudine, come definito da Gail Levin in una sua biografia). Più uniti, ma anche più guardinghi. Ci siamo scoperti più “comunità”, trovando nuove modalità di relazione e spazi dello stare insieme (i flash mob sui balconi, la musica dai palazzi, gli applausi a chi è indispensabile), ma, allo stesso tempo, più aggressivi, pronti, anzi prontissimi a stigmatizzare violentemente l’amico, il vicino, il collega alla più innocua trasgressione dei decreti. Ci siamo scoperti più “collettività” ma anche, ahimè, parte noi stessi di una potentissima macchina di controllo sociale diffuso. La direzione che prenderemo non è affatto scontata.

E, forse, allora Giorgio Agamben non ha tutti i torti quando – in una serie di discussi (e per certi versi discutibilissimi) interventi – ci mette in guardia dai pericoli futuri di questo perdurare dello stato emergenziale (G. Agamben, Interventi). Questa pandemia non è una invenzione, né un dispositivo biopolitico, o uno strumento concepito dal Potere (qualunque cosa esso sia) per riaffermare sé stesso. Certo, vi è una dimensione importante che chiama in causa questioni di potere (la gestione del bisogno di sicurezza). Ma l’emergenza che stiamo vivendo – se mai ci fosse bisogno di ricordarlo – è sconcertante, e un sistema giuridico che non rispondesse all’emergenza con strumenti di emergenza agirebbe esso stesso illegittimamente, si porrebbe fuori dal diritto (le limitazioni ai nostri diritti di libertà di circolazione, di riunione devono e quindi possono essere ristrette per tutelare il superiore diritto alla vita). Quello che però vale la pena sottolineare sono i rischi sociali e personali (antropologici verrebbe da dire) che derivano dal consolidarsi di certe dinamiche pensate per essere rigorosamente temporanee. Se tutto questo durasse molto, che tipo di ferite lascerà dentro di noi? D’altronde, dentro certi abissi – Nietzsche insegna – non bisogna guardare troppo a lungo, altrimenti saranno gli abissi stessi a entrare in noi e a conformare ciò che siamo (F. Nietzsche, Al di là del bene e del male). Quello che non vorrei, quindi, è che si conservasse in noi quel malcelato desiderio di essere l’uno il poliziotto dell’altro, che sta purtroppo caratterizzando questo momento. Non resta che sperare che la fine dell’emergenza si porti via anche quella diffidenza nello stringerci la mano, nel parlarci a meno di un metro e cinquanta di distanza, quel disagio nel percepire qualcuno tossire un po’ più frequentemente del solito su un autobus.

Bibliografia di riferimento

G. AGAMBEN, Interventi, in https://www.quodlibet.it/una-voce-giorgio-agamben
J. BAUDRILLARD, L’illusione della fine o lo sciopero degli eventi, Anabasi, Milano 1993.
J. BAUDRILLARD, Lo spirito del terrorismo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002.
J. BUTLER, Capitalism Has its Limits, in https://www.versobooks.com/blogs/4603-capitalism-has-its-limits?fbclid=IwAR1Ij4gOFP_idBtowt6i9FFUHDEhHOgAnmgFxaq7iG1btea1Sti0rwAdHl0
L. FERRAJOLI, Il virus mette la globalizzazione con i piedi per terra,in https://ilmanifesto.it/il-virus-mette-la-globalizzazione-con-i-piedi-per-terra/
G. LEVIN, Edward Hopper. Biografia intima, Johan & Levi, Monza 2009.
M. MAZZUCATO, The Covid-19 crisis is a chance to do capitalism differently, in https://www.theguardian.com/commentisfree/2020/mar/18/the-covid-19-crisis-is-a-chance-to-do-capitalism-differently
F.W. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano  1977.
B. PASCAL, Pensieri, Utet, Torino 2014.

IL MONDO NON BASTA PIÚ. LA CRISI AMBIENTALE

di Ludovico Paternostro

Febbraio 2020

L’inverno astronomico si avvia alla sua conclusione e da poco più di un mese è ricominciato il conto alla rovescia dell’Earth Overshoot Day (il giorno in cui la domanda di risorse dell’umanità nel suo complesso ha superato la biocapacità della Terra, ossia la quantità di risorse che il pianeta è in grado di generare in un anno; il primo Earth Overshoot Day è stato a dicembre del 1971 e negli anni successivi è stato raggiunto sempre prima; nel 2019 è caduto nel mese di luglio, per la prima volta nella storia e ciò significa che entro la fine del 2019 l’umanità ha consumato un ammontare di risorse pari ad 1,72 volte la biocapacità della Terra).

Un mondo in fiamme.

La scorsa estate ci ha regalato un gran caldo e un mondo in fiamme – dalla tundra e dalla taiga siberiana alla grande foresta amazzonica, dalla savana in Africa meridionale e dalle foreste pluviali in Congo e in Asia sud-orientale alla foresta boreale in Alaska – oltre che una superficie ghiacciata dell’Artide sempre più ridotta.  Non è insolito il verificarsi di incendi in queste aree della Terra quando la temperatura è più elevata e l’aria è più secca, ma nell’ultimo anno l’intensità, l’estensione e la durata degli incendi sono state davvero preoccupanti. Questi diminuiscono la superficie forestale del mondo e purtroppo vengono sottovalutati; a volte sono spontanei ma più spesso dolosi, causati da piromani o da contadini che vogliono ricavarne nuovi terreni coltivabili. Ai danni provocati dagli incendi si aggiunge il disboscamento operato dalle grandi aziende agricole e del legname. La questione della deforestazione è molto grave, ma è controversa dal punto di vista, per così dire, legale: la FAO ha definito il concetto di foresta come a collection of trees, un insieme di alberi. Questa definizione è da vocabolario, ma dal momento che si concentra soltanto sugli alberi e non sulle altre forme di vita, permette di far passare per “foreste” anche le immense piantagioni industriali intensive, che foreste non sono e che hanno un impatto ecologico – e sociale – devastante.

In Italia anche lo scorso autunno non ha scherzato. Si è fatto attendere, ma alla fine è entrato a gamba tesa nella storia del 2019: le piogge sopra la media e le nevicate premature hanno creato danni ingenti; e così, nella ridente area mediterranea, ci ritroviamo a chiederci se gli allagamenti, i crolli e gli smottamenti che negli ultimi tempi hanno afflitto il nostro bel Paese in modo via via più intenso, siano soltanto il frutto della nostra sempre minore capacità di prevenzione e di ripresa o se in parte siano una monsonica conseguenza di un disequilibrio climatico mondiale. Alla fine di ottobre la situazione degli incendi che hanno devastato la California è diventata così critica che è scattato lo stato di emergenza e sono state evacuate più di duecentomila persone dalle loro abitazioni. Negli ultimi tre mesi il nuovo teatro letteralmente caldo è stato l’Australia orientale, dove gli incendi che erano cominciati a giugno dell’anno scorso si sono amplificati nei mesi autunnali, tanto che già alla fine di novembre in alcune zone sono state dichiarate «condizioni di fuoco catastrofiche» (Ansa, 20 novembre 2019; Il Sole 24 ore, 2 dicembre 2019; Sky tg24, 3 dicembre 2019). Soltanto la settimana scorsa l’opera di contenimento è stata ultimata, riducendo sotto controllo tutti gli incendi che, in un bilancio complessivo, hanno distrutto centinaia di abitazioni e hanno causato la morte di una trentina di persone oltre che un’ecatombe di circa un miliardo di animali fra cui moltissimi koala, endemici della regione – non ancora estinti.

La Terra in una bolla.

Compiendo un salto di svariate migliaia di chilometri verso nord, possiamo assistere ad una prova eclatante degli effetti del cambiamento climatico sul mondo, in questo caso sulla immensa regione della Siberia. Prima però, occorre chiarire che cosa si intende qui per climate change.

Il cambiamento climatico è sempre esistito… tutto scorre, tutto si trasforma: è empiricamente ovvio che le giornate di sole cedano il posto a quelle piovose, che un anno o un decennio o un secolo possano essere più tiepidi di altri oppure che un inverno particolarmente rigido possa portare la neve fin sulle dune del Sahara. Ma questo “avvicendarsi” climatico va inteso in senso stretto, da un giorno all’altro o nel susseguirsi delle stagioni. A noi interessa invece l’accezione più ampia del termine, che riguarda all’incirca l’ultimo secolo e mezzo di storia, dalla seconda rivoluzione industriale in poi, e che si riferisce al costante ed esponenziale aumento della temperatura media globale e dell’inquinamento atmosferico. Questo cambiamento climatico, sebbene inteso in senso lato, tuttavia è peculiare dell’età contemporanea dal momento che non ha precedenti nella storia umana e coincide con un’epoca in cui l’impatto degli esseri umani sul mondo è più forte di quanto sia mai stato prima. La temperatura media basta misurarla. L’inquinamento dell’atmosfera, pure! Basti pensare alla quantità di anidride carbonica (CO2) presente nell’aria; al fatto che negli ultimi 800 mila anni non avesse mai superato le 300 parti per milione (ppm), cosa che invece è successa durante l’era industriale, per aumentare esponenzialmente nella seconda metà del Novecento fino a raggiungere le 410 ppm di oggi (World Meteological Organization, maggio 2016, ottobre 2016; Scripps CO2 Program; National Geographic, marzo 2019). La misurazione è avvenuta negli ultimi decenni in Artide attraverso l’estrazione di lunghissime carote di ghiaccio contenenti bolle d’aria che risalivano a centinaia di migliaia di anni fa, di cui è stata successivamente analizzata la composizione.

Scongelati.

Tornando alla Siberia, una foto può rendere l’idea della portata di ciò che per ora si sta verificando:

Il cratere di Batagaika, nella Siberia orientale, all’interno del Circolo Polare Artico. Fotografia di Katie Orlinsky, per National Geographic, Artide. La fine dei ghiacci (The hot zone) , settembre 2019.

Nelle aree periglaciali della Siberia, all’interno del circolo polare artico, l’aumento della temperatura media globale ha causato il decongelamento del permafrost ghiacciato – contenente resti di animali e piante morti migliaia di anni fa – che si trova sepolto sotto gli strati di terra più recenti, facendo cedere il terreno e causando quindi la formazione di numerosi crateri, fra cui quello enorme del Batagaika (nella foto). Guardando le pareti dei crateri da vicino sarebbe chiaramente visibile lo spesso strato di permafrost. L’ulteriore problema è che dal momento che è esposto all’aria aperta, risulta più vulnerabile all’aumento delle temperature e al decongelamento, con il rischio di innescare un circolo vizioso: nel permafrost infatti sono intrappolate ingenti quantità di metano (che una volta liberato nell’aria ha una capacità molto più alta di trattenere il calore rispetto alla CO2 e riscalda l’atmosfera molto più velocemente) che verrebbero progressivamente liberate nell’atmosfera, alimentando l’effetto serra e la sua azione decongelante (l’effetto serra è caratteristico dell’atmosfera terrestre – i cui gas principali sono il vapore acqueo, l’anidride carbonica, il protossido di azoto, il metano e l’esafluoruro di zolfo – ed è essenziale per la sopravvivenza delle forme di vita sulla terra, ma nel momento in cui aumenta più del necessario – alimentato dall’azione dell’uomo – diventa la principale causa diretta del riscaldamento globale). Quantità immense di metano sono presenti anche sotto la calotta artica e sotto i ghiacci della Groenlandia. Si prevede che il circolo vizioso innescato dallo scioglimento dei ghiacci e dalla conseguente liberazione del gas nell’aria possa ingigantire il buco dell’ozono e avere esiti sull’effetto serra che condurranno alla catastrofe totale. Ulteriore informazione: le calotte polari – bianche – costituiscono una sorta di schermo planetario che riflette la luce – e i suoi raggi più pericolosi, sempre meno filtrati dall’ozono – e respinge parte del calore del sole. Possiamo ben immaginare che questo effetto catarifrangente diminuisca proporzionalmente allo scioglimento dei ghiacci andando ad alimentare ancora una volta il riscaldamento globale.

E così lo scenario biblico di foreste incendiate, immensi crateri che sprofondano, gas nocivi e pareti di ghiaccio che si sgretolano e si sciolgono ci avvisa che il tempo di fare i conti con la nostra negligenza è arrivato. Errare humanum est, perseverare diabolicum secondo la saggezza antica, e madre natura, mentre siamo ancora indecisi sul da farsi, gentilmente sta facendo i conti per noi. Il bilancio è negativo. Per non parlare della questione oceanica: il plancton che ricopre la superficie degli oceani ed è una delle maggiori fonti al mondo, se non la prima, di assorbimento della CO2, rischia di diminuire a causa del global warming. La questione è strettamente legata a quella delle sostanze chimiche riversate nei fiumi e nei mari e a quella dei “continenti” di plastica  negli oceani (fra i quali il più grande è la Great Pacific Garbage Patch – la grande chiazza di immondizia del Pacifico) che ininterrottamente perdono particelle, le famigerate microplastiche, che stanno diventando il nuovo plancton dei mari e che tornano da noi sotto forma di frittura di pesce o di sofficini o di semplice sale marino.

Legami invisibili.

Qualche altro dato: il problema del rilascio di metano è legato non soltanto alla “questione artica”, ma anche ad altri aspetti del nostro impatto ambientale; ad esempio al consumo sfrenato di carne, con una tendenza in costante crescita specialmente in paesi come la Cina, l’India e il Brasile. L’industria della carne è responsabile di ben oltre la metà delle emissioni globali di protossido di azoto e di quasi metà di quelle di metano, derivato in questo caso dalla fermentazione nei processi digestivi di alcune specie animali – come le mucche – e dalla trasformazione delle loro deiezioni. Bisognerebbe inoltre considerare le emissioni di CO2 provocate dalle combustioni della filiera della carne, ma le implicazioni non finiscono qui. Gli allevamenti intensivi di bovini e bufalini, di ovini e caprini, di suini e di avicoli, date le dimensioni di massa che contano miliardi e miliardi di esemplari, hanno molteplici effetti negativi sull’ambiente. Innanzitutto, il consumo di acqua: per produrre un solo chilogrammo di carne di manzo vengono utilizzati 15 mila litri d’acqua (per produrre la stessa quantità di vegetali sono necessari dai 500 ai 2000 litri di acqua, con un consumo dell’86-96% minore rispetto a quello per un kg di manzo). I miliardi di tonnellate annuali di deiezioni degli animali, oltre a rilasciare metano nell’aria, contengono ammoniaca che inquina le falde acquifere. Le condizioni degradate in cui vengono relegati gli animali, oltre ad essere moralmente discutibili, impongono la somministrazione ininterrotta di antibiotici che poi vengono dispersi nell’ambiente (con tutte le conseguenze negative sulla loro capacità di contrastare i batteri). Nondimeno, la deforestazione per far spazio ai pascoli e alle coltivazioni necessarie al ciclo vitale degli animali, che coprono ben oltre la metà della produzione mondiale di cereali che in parte potrebbero sfamare le popolazioni più povere e la cui produzione implica l’utilizzo di fertilizzanti e pesticidi che inquinano l’aria, l’acqua e la terra. Bisogna considerare infine il trasporto, che comprende tutti i generi alimentari che non siano reperibili a chilometro zero, soprattutto quelli che fanno il giro del mondo prima di giungere nei nostri piatti come la carne argentina o australiana oppure l’avocado sudamericano o ancora il surgelato cinese. Come superare tutto questo? Esistono almeno due vie che vanno intraprese e mantenute parallelamente: rendere l’industria della carne più efficiente riducendo al massimo gli innumerevoli, inutili sprechi; adottare una dieta che preveda un minor consumo di carne. Sia chiaro che la precedente digressione mira a criticare non gli onnivori, ma il consumo sfrenato di carne e soprattutto il metodo intensivo di produzione. Quello dell’industria della carne è inoltre un utile esempio che ci mostra come, in un modo o nell’altro, tutte le questioni e le problematiche relative all’ambiente e alla sostenibilità siano legate fra loro. Ciò vale per ogni tipo di discorso che riguardi lo sviluppo sostenibile e il rispetto dell’ambiente. Bisogna rendersi conto che l’equilibrio nell’agire è la misura della soluzione e che la riduzione degli sprechi ne è la base. Che è necessario porre grande attenzione alla limitatezza delle risorse anche utilizzando quelle più facilmente rinnovabili.

Come vediamo, ogni azione ha delle conseguenze sul mondo. Ogni causa diretta o indiretta del cambiamento climatico ha un effetto, che spesso è di duplice natura: un esito immediato, relativo ai danni provocati al livello locale e un effetto più vasto e di “medio-lunga durata” – un parametro temporale che si accorcia sempre di più – relativo al circolo vizioso del global warming e più in generale al sistema di funzionamento atmosferico e alla biocapacità del pianeta. Come vediamo, è tutto collegato. Galileo Galilei diceva: «Le cose sono unite da legami invisibili, non puoi cogliere un fiore senza turbare una stella». La chiave sta nel cogliere ossia, fuor di metafora, nell’agire quotidiano, in senso bidirezionale: dal basso, nelle piccole azioni individuali e dall’alto, nelle scelte di grande impatto delle aziende e degli stati.

Bibliografia e webgrafia di riferimento.

IPCC report, 2019.
Kellogg, William W. and Schware, Robert, William W., Climate Change and Society. Consequences of Increasing Atmospheric Carbon Dioxide, ed. Routledge, 2018.
Nordhaus, William, Climate Change: The Ultimate Challenge for Economics, ed. American Economic Review, 2019.
Ansa, 20 novembre 2019, http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2019/11/20/australia-continua-lallarme-incendi_11b8e395-ae14-40ac-9dd3-083716cf1ed0.html
Global Footprint Network, https://www.footprintnetwork.org/our-work/earth-overshoot-day/, https://www.overshootday.org/
Il Sole 24 ore, 2 dicembre 2019, https://www.infodata.ilsole24ore.com/2019/12/02/koala-estinti-gli-incendi-australia-lanciano-lallarme/
National Geographic, marzo 2019, https://www.nationalgeographic.org/article/climate-milestone-earths-co2-level-passes-400-ppm/
Scripps CO2 Program, https://scrippsco2.ucsd.edu/
Sky tg24, 3 dicembre 2019, https://tg24.sky.it/mondo/2019/12/03/incendi-australia-fumo-sydney.html
World Meteological Organization, maggio 2016, https://public.wmo.int/en/media/press-release/globally-averaged-co2-levels-reach-400-parts-million-2015
Ibidem, ottobre 2016, https://public.wmo.int/en/media/news/southern-hemisphere-breaches-co2-milestone

Diritto, tecnica, ambiente. Per una nuova “grammatica dei diritti”

di Carlo Vittorio Giabardo

Per riflettere “giuridicamente” (e filosoficamente) sulla crisi ambientale, che caratterizza così potentemente il nostro tempo, occorre partire da lontano.

Che la vera emergenza sia (stata) la mancanza dell’emergenza – come aveva già messo in luce Heidegger – o che il solo evento più filosoficamente significativo dell’ultimo scorcio del secolo scorso sia (stato) la stagnazione di eventi, «la grève des événements» (lo «sciopero degli eventi») – per dirla con Baudrillard – è cosa vera solo se declinata al passato (naturalmente intendo qui Emergenza ed Evento con la lettera maiuscola, nel senso più radicale possibile, solo cioè in quanto accadimenti capaci di squarciare il dominio della tecnica che caratterizza il presente, nonché di mettere in discussione il funzionamento meccanico e totale del sistema in quanto tale, le regole dell’ordine globale, la totale Verwaltung, nel senso usato da Adorno e dalla Scuola di Francoforte).

Uso il passato perché – ora – una Emergenza di tal portata, un Evento di tale potenza c’è, o meglio, accade. E qual è? Come noto, Baudrillard in un testo inizialmente apparso su Le Monde all’indomani dell’attentato al World Trade CenterL’esprit du terrorisme (2001) – aveva parlato di quell’attacco come del ri-apparire dell’Evento nella Storia, anzi, come dell’«événement absolu, la “mère” des événements, [à] l’événement pur qui concentre en lui tous les événements qui n’ont jamais eu lieu». Ma vi è un Evento, a mio parere, ancora più estremo e radicale, che scuote alle radici non solo la civiltà che conosciamo, ma la sua stessa possibilità: la catastrofe climatica, ambientale (e quindi umanitaria) che si sta, oramai, consolidando.

Non si tratta solo del moltiplicarsi di fatti ambientali avversi, dotati di una copertura più o meno intensa (e più o meno strumentale) da parte dei media – da ultimo, la foresta amazzonica che va in fumo. Si tratta, piuttosto, di un processo costante che non è localizzato in un luogo preciso o in un tempo preciso; avviene dappertutto (seppur con intensità differenti) e in ogni momento (seppur con episodi differenti). È una crisi pervasiva nei luoghi e costante nei tempi, che non conosce né confini né sospensioni, né frontiere né tregue. Avviene ovunque e sempre.

È proprio a partire da questa considerazione che la riflessione sulla tecnica oggi si fa urgentissima. Se “tecnica” è quel «complesso di strumenti totalmente integrati tra loro», tale da essere «un “mondo” che sfugge sempre di più alla nostra possibilità di controllo e di comprensione», (Vattimo, 2018) allora della tecnica non resta che accettare passivamente le risposte, in qualsiasi parte esse conducano. La tecnica – nel senso che qui utilizzo – rappresenta quindi un ostacolo quasi insormontabile per la pensabilità di nuove categorie (sociali, politiche, economiche, giuridiche, tecnologiche) che possano far fronte al mutato paradigma climatico e ambientale. Ma proprio la realtà dell’Evento – nel senso poco sopra definito – ci impone di fare i conti con esso.

Ora, non v’è dubbio che anche il diritto sia una tecnica. Jack Balkin ha detto che il diritto è in grado di produrre le sue proprie verità. Vi sono cioè verità che sono tali solo “agli occhi del diritto” («in the eye of the law»), perché è proprio e solo il diritto a stabilire i criteri e i confini per i quali ed entro i quali certe affermazioni sono vere o false (banalizzando: solo l’esistenza di una disposizione normativa che stabilisca cosa sia il furto rende possibile che qualcuno sia un ladro, in senso giuridico). Questo ruolo che potremmo chiamare “veri-poietico” del diritto è nient’affatto scontato (anzi, è densissimo di implicazioni), ma non deve sorprendere. In fin dei conti, il diritto, nel corso delle varie epoche, ha funzionato proprio così: i concetti, le definizioni, le distinzioni, le categorie (giuridiche) hanno creato un universo tecnico (giuridico) attraverso cui leggere e poi “confinare”, “forzare”, “imprigionare” il reale. Ora, l’inevitabilità, la violenta imminenza e – forse – l’irreversibilità della catastrofe climatica ci impone di fare l’inverso. Il mio intento, qui, è metodologico: è un invito a non farci governare dai concetti (in questo caso giuridici, ma potrebbero ben essere quelli economici, sociali, politici, geopolitici, ecc.), bensì a governarli. Dobbiamo far sì, cioè, che ciò che è stato creato (il diritto) smetta di farsi a sua volta creatore incontrollabile di un ordine tecnico immodificabile, ma che torni ad essere, per così dire, addomesticato. È un invito a decretare la fine dell’espressione «perché ti lamenti? è l’economia – è il capitalismo, è la tecnica ecc. – bellezza!» (ma qui direi, è il diritto, bellezza!), ossia un modo di dire – che è prima di tutto un modo di pensare – che ha «più o meno lo stesso significato del francese c’est la vie!, che usiamo per accettare rassegnati le leggi immodificabili della realtà, che non possiamo cambiare e che non sembrano neanche dipendere dalla decisione di qualcuno…» (Vattimo, 2018).

Qui sta quello che io definisco il ruolo sovversivo della catastrofe ambientale per il diritto. Questa sovversione influenza ogni settore del diritto, sia pubblico, sia privato. Si pensi alla nozione di sovranità, ai poteri e ruolo dello stato e delle sue istituzioni (parlamenti, corti, strutture governative), ma anche a concetti apparentemente più tecnici, come responsabilità giuridica individuale, danno, causa, legittimazione ad agire, e via dicendo. Persino l’idea stessa di «diritto soggettivo» – secondo alcuni – necessiterebbe di esser rimeditata.

In questo scenario, il filosofo è quanto mai necessario; anzi, direi che è la figura più necessaria di tutte. Necessaria è la capacità immaginifica, quasi visionaria, della filosofia del diritto, chiamata – nel contesto di cui qui si parla – a riscrivere in termini nuovi la relazione tra persone, stati e istituzioni e a costruire un nuovo vocabolario, che sia anche un nuovo “orizzonte di concetti”, che sia capace di fornire una nuova cornice (in questo caso, giuridica) entro la quale la nostra azione possa muoversi con efficacia.

Bibliografia di riferimento

J. BALKIN, The Proliferation of Legal Truth, in 26, Harvard Journal of Law & Public Policy, 2003, 5 e seg.
J. BAUDRILLARD, L’Esprit du terrorisme, Paris, 2002.
A. SARAT, L. DOUGLAS, M. MERRILL (eds.), Law and Catastrophe, Stanford University Press, 2007.
G. VATTIMO, The Question Concerning Technology, in C. Mendes (ed.), in Humanity and Difference in the Global Age, Rio de Janeiro, 2012, 93 – 104 (ora in G. Vattimo, Essere e dintorni, Milano, 2018, col titolo La questione della tecnica oggi, trad. in italiano a cura di A. Martinengo, 194).

Brevi riflessioni sull’indeterminatezza dei diritti sociali

di Michele Zezza

In contrasto con alcune ricostruzioni dei diritti imperniate sull’idea di un “nucleo di certezza” integralmente sottratto alla disponibilità dell’intervento parlamentare e alla comparazione con altre esigenze sociali, i diritti del costituzionalismo contemporaneo si rivelano sempre più fragili e limitabili nel loro funzionamento. In questo senso, non dovrebbe sorprendere che, all’interno di vari settori del dibattito filosofico-giuridico e filosofico-politico contemporaneo, si sia progressivamente diffusa la tendenza a denunciare il carattere illusorio della protezione offerta dalle disposizioni normative che riconoscono diritti fondamentali.

In questo contesto, com’è noto, una categoria particolarmente problematica è costituita dai diritti sociali, concepiti in varie occasioni come norme programmatiche dotate di uno statuto giuridico indefinito, mere raccomandazioni rivolte a un legislatore ordinario il quale, d’altra parte, sembra autorizzato ad astenersi di intervenire al riguardo. A causa della necessaria limitazione delle risorse, i diritti sociali, così come i diritti positivi in generale (diritti o pretese a un intervento attivo degli altri soggetti), si configurano come interessi che pongono i suoi titolari in una condizione di competitività per l’accesso ai beni della collettività. L’attitudine a riformulare qualsiasi pretesa in termini di diritti appare inversamente proporzionale alla forza di cui dispongono in quanto esigenze morali.

Osserva Riccardo Guastini (1996: 154) che nella maggior parte dei casi, i diritti sociali – al pari dei diritti morali – sono diritti “di carta”, non giustiziabili […]. [L]e disposizioni che conferiscono diritti sociali – scrive – sono comunemente interpretate come norme programmatiche o teleologiche rivolte al legislatore: norme, cioè, che comandano – o piuttosto “raccomandano” – al legislatore di realizzare un certo programma di riforma economico-sociale o di perseguire un determinato fine.

Dal punto di vista dell’autore, devono considerarsi “di carta” tutti quei diritti che risultano privi di almeno una delle seguenti caratteristiche: a) avere un contenuto determinato; b) poter essere esercitati o rivendicati di fronte a un soggetto specifico; c) essere suscettibili di tutela. Diritti di carta per eccellenza, secondo Guastini, sono i diritti sociali (in particolare il diritto al lavoro) così come appaiono formulati nei testi costituzionali poiché, in assenza di un’opera di concretizzazione del loro contenuto, risultano sempre carenti rispetto ai tre profili indicati. Ci troviamo infatti di fronte a diritti “fittizi”, attribuiti da norme programmatiche o teleologiche (cfr. Guastini 1996: 152, 154) che non impongono alcun obbligo concreto al legislatore.

Un caso paradigmatico è rappresentato dal diritto al lavoro così come appare formulato nell’art. 4° della Costituzione italiana, nella cui formulazione appaiono completamente indeterminati i soggetti obbligati e i comportamenti necessari per la soddisfazione del diritto in questione: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Tale articolo invita il legislatore a predisporre le condizioni normative e fattuali necessarie al fine di consentire a tutti i cittadini in età lavorativa di trovare un impiego. Un obbligo estremamente generico, pertanto, i cui criteri di attuazione e violazione risultano effettivamente evanescenti.

Occorre tuttavia notare che in caso di inazione legislativa e/o giurisdizionale, le tre caratteristiche sopra menzionate possono (e di solito tendono a) mancare in qualsiasi tipo di diritto fondamentale, ossia non soltanto nel caso dei diritti sociali. L’assenza dei meccanismi di protezione a livello della legislazione infraconstituzionale, e più precisamente per quanto attiene al piano delle garanzie giurisdizionali (“secondarie”, nella terminologia di Ferrajoli), non annulla l’esistenza del diritto in questione, ma configura piuttosto una lacuna all’interno del sistema. Inferire l’inesistenza di un diritto a partire dalla constatazione dalla sua inefficacia equivarrebbe ad incorrere in una “fallacia realistica” (Ferrajoli, 2016, p. 57), ossia nella confusione concettuale tra i piani della validità e dell’efficacia delle norme attributive di diritti fondamentali. Per evitare di disconoscere la giuridicità delle fonti normative attributive di diritti fondamentali risulta più opportuno concepirne le procedure e garanzie istituzionali come parte integrante del “perimetro protettivo” dei diritti, ossia di quell’insieme di posizioni soggettive finalizzate a proteggere l’esercizio dell’interesse sottostante. Senza dimenticare, infine, che anche un diritto disarmato può sempre rappresentare il punto di partenza di una rivendicazione volta ad ottenere le necessarie garanzie istituzionali a livello legislativo e giudiziario.

Alla luce di queste considerazioni, è opportuno rilevare che se davvero l’indeterminatezza della formulazione linguistica potesse giustificare l’esclusione dei diritti sociali dal catalogo dei diritti costituzionali, allora il medesimo ragionamento potrebbe essere applicato a tutti i tipi di diritti. È pertanto opportuno stabilire una netta distinzione tra la dimensione semantica delle disposizioni costituzionali che riconoscono i diritti fondamentali (che denotano alcuni elementi comuni per quanto riguarda la maniera intenzionalmente ampia di formularli) e la pratica abituale della loro amministrazione (che denota una tendenza generale ad attribuire loro lo status di norme programmatiche o teleologiche) all’interno delle culture giuridiche degli odierni Stati costituzionali. In questo senso, può rivelarsi ancora utile una ricerca sui fondamenti teorici dei diritti sociali che ne evidenzi gli elementi distintivi rispetto ai diritti di prima generazione, dal momento che ancora non sembra esserci stato uno sviluppo dottrinale sufficiente per abbandonare definitivamente fine la “concezione canonica” dei diritti (Rabossi 1993) incentrata sulla difesa della superiorità assiologica dei diritti della tradizione liberale.

Bibliografia di riferimento

L. FERRAJOLI, La logica del diritto. Dieci aporie nell’opera di Hans Kelsen, Laterza, Roma-Bari 2016.
R. GUASTINI, Distinguendo: studi di teoria e metateoria del diritto, Giappichelli, Torino 1996.
E. RABOSSI, Los derechos humanos básicos y los errores de la concepción canónica, «Revista del Instituto Interamericano de Derechos Humanos», 18, 1, 1993, p. 45-73.