IL MONDO NON BASTA PIÚ. LA CRISI AMBIENTALE

di Ludovico Paternostro

Febbraio 2020

L’inverno astronomico si avvia alla sua conclusione e da poco più di un mese è ricominciato il conto alla rovescia dell’Earth Overshoot Day (il giorno in cui la domanda di risorse dell’umanità nel suo complesso ha superato la biocapacità della Terra, ossia la quantità di risorse che il pianeta è in grado di generare in un anno; il primo Earth Overshoot Day è stato a dicembre del 1971 e negli anni successivi è stato raggiunto sempre prima; nel 2019 è caduto nel mese di luglio, per la prima volta nella storia e ciò significa che entro la fine del 2019 l’umanità ha consumato un ammontare di risorse pari ad 1,72 volte la biocapacità della Terra).

Un mondo in fiamme.

La scorsa estate ci ha regalato un gran caldo e un mondo in fiamme – dalla tundra e dalla taiga siberiana alla grande foresta amazzonica, dalla savana in Africa meridionale e dalle foreste pluviali in Congo e in Asia sud-orientale alla foresta boreale in Alaska – oltre che una superficie ghiacciata dell’Artide sempre più ridotta.  Non è insolito il verificarsi di incendi in queste aree della Terra quando la temperatura è più elevata e l’aria è più secca, ma nell’ultimo anno l’intensità, l’estensione e la durata degli incendi sono state davvero preoccupanti. Questi diminuiscono la superficie forestale del mondo e purtroppo vengono sottovalutati; a volte sono spontanei ma più spesso dolosi, causati da piromani o da contadini che vogliono ricavarne nuovi terreni coltivabili. Ai danni provocati dagli incendi si aggiunge il disboscamento operato dalle grandi aziende agricole e del legname. La questione della deforestazione è molto grave, ma è controversa dal punto di vista, per così dire, legale: la FAO ha definito il concetto di foresta come a collection of trees, un insieme di alberi. Questa definizione è da vocabolario, ma dal momento che si concentra soltanto sugli alberi e non sulle altre forme di vita, permette di far passare per “foreste” anche le immense piantagioni industriali intensive, che foreste non sono e che hanno un impatto ecologico – e sociale – devastante.

In Italia anche lo scorso autunno non ha scherzato. Si è fatto attendere, ma alla fine è entrato a gamba tesa nella storia del 2019: le piogge sopra la media e le nevicate premature hanno creato danni ingenti; e così, nella ridente area mediterranea, ci ritroviamo a chiederci se gli allagamenti, i crolli e gli smottamenti che negli ultimi tempi hanno afflitto il nostro bel Paese in modo via via più intenso, siano soltanto il frutto della nostra sempre minore capacità di prevenzione e di ripresa o se in parte siano una monsonica conseguenza di un disequilibrio climatico mondiale. Alla fine di ottobre la situazione degli incendi che hanno devastato la California è diventata così critica che è scattato lo stato di emergenza e sono state evacuate più di duecentomila persone dalle loro abitazioni. Negli ultimi tre mesi il nuovo teatro letteralmente caldo è stato l’Australia orientale, dove gli incendi che erano cominciati a giugno dell’anno scorso si sono amplificati nei mesi autunnali, tanto che già alla fine di novembre in alcune zone sono state dichiarate «condizioni di fuoco catastrofiche» (Ansa, 20 novembre 2019; Il Sole 24 ore, 2 dicembre 2019; Sky tg24, 3 dicembre 2019). Soltanto la settimana scorsa l’opera di contenimento è stata ultimata, riducendo sotto controllo tutti gli incendi che, in un bilancio complessivo, hanno distrutto centinaia di abitazioni e hanno causato la morte di una trentina di persone oltre che un’ecatombe di circa un miliardo di animali fra cui moltissimi koala, endemici della regione – non ancora estinti.

La Terra in una bolla.

Compiendo un salto di svariate migliaia di chilometri verso nord, possiamo assistere ad una prova eclatante degli effetti del cambiamento climatico sul mondo, in questo caso sulla immensa regione della Siberia. Prima però, occorre chiarire che cosa si intende qui per climate change.

Il cambiamento climatico è sempre esistito… tutto scorre, tutto si trasforma: è empiricamente ovvio che le giornate di sole cedano il posto a quelle piovose, che un anno o un decennio o un secolo possano essere più tiepidi di altri oppure che un inverno particolarmente rigido possa portare la neve fin sulle dune del Sahara. Ma questo “avvicendarsi” climatico va inteso in senso stretto, da un giorno all’altro o nel susseguirsi delle stagioni. A noi interessa invece l’accezione più ampia del termine, che riguarda all’incirca l’ultimo secolo e mezzo di storia, dalla seconda rivoluzione industriale in poi, e che si riferisce al costante ed esponenziale aumento della temperatura media globale e dell’inquinamento atmosferico. Questo cambiamento climatico, sebbene inteso in senso lato, tuttavia è peculiare dell’età contemporanea dal momento che non ha precedenti nella storia umana e coincide con un’epoca in cui l’impatto degli esseri umani sul mondo è più forte di quanto sia mai stato prima. La temperatura media basta misurarla. L’inquinamento dell’atmosfera, pure! Basti pensare alla quantità di anidride carbonica (CO2) presente nell’aria; al fatto che negli ultimi 800 mila anni non avesse mai superato le 300 parti per milione (ppm), cosa che invece è successa durante l’era industriale, per aumentare esponenzialmente nella seconda metà del Novecento fino a raggiungere le 410 ppm di oggi (World Meteological Organization, maggio 2016, ottobre 2016; Scripps CO2 Program; National Geographic, marzo 2019). La misurazione è avvenuta negli ultimi decenni in Artide attraverso l’estrazione di lunghissime carote di ghiaccio contenenti bolle d’aria che risalivano a centinaia di migliaia di anni fa, di cui è stata successivamente analizzata la composizione.

Scongelati.

Tornando alla Siberia, una foto può rendere l’idea della portata di ciò che per ora si sta verificando:

Il cratere di Batagaika, nella Siberia orientale, all’interno del Circolo Polare Artico. Fotografia di Katie Orlinsky, per National Geographic, Artide. La fine dei ghiacci (The hot zone) , settembre 2019.

Nelle aree periglaciali della Siberia, all’interno del circolo polare artico, l’aumento della temperatura media globale ha causato il decongelamento del permafrost ghiacciato – contenente resti di animali e piante morti migliaia di anni fa – che si trova sepolto sotto gli strati di terra più recenti, facendo cedere il terreno e causando quindi la formazione di numerosi crateri, fra cui quello enorme del Batagaika (nella foto). Guardando le pareti dei crateri da vicino sarebbe chiaramente visibile lo spesso strato di permafrost. L’ulteriore problema è che dal momento che è esposto all’aria aperta, risulta più vulnerabile all’aumento delle temperature e al decongelamento, con il rischio di innescare un circolo vizioso: nel permafrost infatti sono intrappolate ingenti quantità di metano (che una volta liberato nell’aria ha una capacità molto più alta di trattenere il calore rispetto alla CO2 e riscalda l’atmosfera molto più velocemente) che verrebbero progressivamente liberate nell’atmosfera, alimentando l’effetto serra e la sua azione decongelante (l’effetto serra è caratteristico dell’atmosfera terrestre – i cui gas principali sono il vapore acqueo, l’anidride carbonica, il protossido di azoto, il metano e l’esafluoruro di zolfo – ed è essenziale per la sopravvivenza delle forme di vita sulla terra, ma nel momento in cui aumenta più del necessario – alimentato dall’azione dell’uomo – diventa la principale causa diretta del riscaldamento globale). Quantità immense di metano sono presenti anche sotto la calotta artica e sotto i ghiacci della Groenlandia. Si prevede che il circolo vizioso innescato dallo scioglimento dei ghiacci e dalla conseguente liberazione del gas nell’aria possa ingigantire il buco dell’ozono e avere esiti sull’effetto serra che condurranno alla catastrofe totale. Ulteriore informazione: le calotte polari – bianche – costituiscono una sorta di schermo planetario che riflette la luce – e i suoi raggi più pericolosi, sempre meno filtrati dall’ozono – e respinge parte del calore del sole. Possiamo ben immaginare che questo effetto catarifrangente diminuisca proporzionalmente allo scioglimento dei ghiacci andando ad alimentare ancora una volta il riscaldamento globale.

E così lo scenario biblico di foreste incendiate, immensi crateri che sprofondano, gas nocivi e pareti di ghiaccio che si sgretolano e si sciolgono ci avvisa che il tempo di fare i conti con la nostra negligenza è arrivato. Errare humanum est, perseverare diabolicum secondo la saggezza antica, e madre natura, mentre siamo ancora indecisi sul da farsi, gentilmente sta facendo i conti per noi. Il bilancio è negativo. Per non parlare della questione oceanica: il plancton che ricopre la superficie degli oceani ed è una delle maggiori fonti al mondo, se non la prima, di assorbimento della CO2, rischia di diminuire a causa del global warming. La questione è strettamente legata a quella delle sostanze chimiche riversate nei fiumi e nei mari e a quella dei “continenti” di plastica  negli oceani (fra i quali il più grande è la Great Pacific Garbage Patch – la grande chiazza di immondizia del Pacifico) che ininterrottamente perdono particelle, le famigerate microplastiche, che stanno diventando il nuovo plancton dei mari e che tornano da noi sotto forma di frittura di pesce o di sofficini o di semplice sale marino.

Legami invisibili.

Qualche altro dato: il problema del rilascio di metano è legato non soltanto alla “questione artica”, ma anche ad altri aspetti del nostro impatto ambientale; ad esempio al consumo sfrenato di carne, con una tendenza in costante crescita specialmente in paesi come la Cina, l’India e il Brasile. L’industria della carne è responsabile di ben oltre la metà delle emissioni globali di protossido di azoto e di quasi metà di quelle di metano, derivato in questo caso dalla fermentazione nei processi digestivi di alcune specie animali – come le mucche – e dalla trasformazione delle loro deiezioni. Bisognerebbe inoltre considerare le emissioni di CO2 provocate dalle combustioni della filiera della carne, ma le implicazioni non finiscono qui. Gli allevamenti intensivi di bovini e bufalini, di ovini e caprini, di suini e di avicoli, date le dimensioni di massa che contano miliardi e miliardi di esemplari, hanno molteplici effetti negativi sull’ambiente. Innanzitutto, il consumo di acqua: per produrre un solo chilogrammo di carne di manzo vengono utilizzati 15 mila litri d’acqua (per produrre la stessa quantità di vegetali sono necessari dai 500 ai 2000 litri di acqua, con un consumo dell’86-96% minore rispetto a quello per un kg di manzo). I miliardi di tonnellate annuali di deiezioni degli animali, oltre a rilasciare metano nell’aria, contengono ammoniaca che inquina le falde acquifere. Le condizioni degradate in cui vengono relegati gli animali, oltre ad essere moralmente discutibili, impongono la somministrazione ininterrotta di antibiotici che poi vengono dispersi nell’ambiente (con tutte le conseguenze negative sulla loro capacità di contrastare i batteri). Nondimeno, la deforestazione per far spazio ai pascoli e alle coltivazioni necessarie al ciclo vitale degli animali, che coprono ben oltre la metà della produzione mondiale di cereali che in parte potrebbero sfamare le popolazioni più povere e la cui produzione implica l’utilizzo di fertilizzanti e pesticidi che inquinano l’aria, l’acqua e la terra. Bisogna considerare infine il trasporto, che comprende tutti i generi alimentari che non siano reperibili a chilometro zero, soprattutto quelli che fanno il giro del mondo prima di giungere nei nostri piatti come la carne argentina o australiana oppure l’avocado sudamericano o ancora il surgelato cinese. Come superare tutto questo? Esistono almeno due vie che vanno intraprese e mantenute parallelamente: rendere l’industria della carne più efficiente riducendo al massimo gli innumerevoli, inutili sprechi; adottare una dieta che preveda un minor consumo di carne. Sia chiaro che la precedente digressione mira a criticare non gli onnivori, ma il consumo sfrenato di carne e soprattutto il metodo intensivo di produzione. Quello dell’industria della carne è inoltre un utile esempio che ci mostra come, in un modo o nell’altro, tutte le questioni e le problematiche relative all’ambiente e alla sostenibilità siano legate fra loro. Ciò vale per ogni tipo di discorso che riguardi lo sviluppo sostenibile e il rispetto dell’ambiente. Bisogna rendersi conto che l’equilibrio nell’agire è la misura della soluzione e che la riduzione degli sprechi ne è la base. Che è necessario porre grande attenzione alla limitatezza delle risorse anche utilizzando quelle più facilmente rinnovabili.

Come vediamo, ogni azione ha delle conseguenze sul mondo. Ogni causa diretta o indiretta del cambiamento climatico ha un effetto, che spesso è di duplice natura: un esito immediato, relativo ai danni provocati al livello locale e un effetto più vasto e di “medio-lunga durata” – un parametro temporale che si accorcia sempre di più – relativo al circolo vizioso del global warming e più in generale al sistema di funzionamento atmosferico e alla biocapacità del pianeta. Come vediamo, è tutto collegato. Galileo Galilei diceva: «Le cose sono unite da legami invisibili, non puoi cogliere un fiore senza turbare una stella». La chiave sta nel cogliere ossia, fuor di metafora, nell’agire quotidiano, in senso bidirezionale: dal basso, nelle piccole azioni individuali e dall’alto, nelle scelte di grande impatto delle aziende e degli stati.

Bibliografia e webgrafia di riferimento.

IPCC report, 2019.
Kellogg, William W. and Schware, Robert, William W., Climate Change and Society. Consequences of Increasing Atmospheric Carbon Dioxide, ed. Routledge, 2018.
Nordhaus, William, Climate Change: The Ultimate Challenge for Economics, ed. American Economic Review, 2019.
Ansa, 20 novembre 2019, http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2019/11/20/australia-continua-lallarme-incendi_11b8e395-ae14-40ac-9dd3-083716cf1ed0.html
Global Footprint Network, https://www.footprintnetwork.org/our-work/earth-overshoot-day/, https://www.overshootday.org/
Il Sole 24 ore, 2 dicembre 2019, https://www.infodata.ilsole24ore.com/2019/12/02/koala-estinti-gli-incendi-australia-lanciano-lallarme/
National Geographic, marzo 2019, https://www.nationalgeographic.org/article/climate-milestone-earths-co2-level-passes-400-ppm/
Scripps CO2 Program, https://scrippsco2.ucsd.edu/
Sky tg24, 3 dicembre 2019, https://tg24.sky.it/mondo/2019/12/03/incendi-australia-fumo-sydney.html
World Meteological Organization, maggio 2016, https://public.wmo.int/en/media/press-release/globally-averaged-co2-levels-reach-400-parts-million-2015
Ibidem, ottobre 2016, https://public.wmo.int/en/media/news/southern-hemisphere-breaches-co2-milestone

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