Edith Stein ed Edmund Husserl: un percorso intellettuale e umano


di Eleonora Candeli

Edith Stein nasce a Breslavia (Wroclaw, città prima controllata dalla Germania nazista, oggi appartenente alla Polonia), il 12 ottobre 1891, da una famiglia ebrea dedita al commercio di legname. Ultimogenita di sette tra fratelli e sorelle, Edith cresce in un ambiente famigliare che la lascia libera di esprimere le sue opinioni e di manifestare la sua volontà. Nel 1911 si iscrive alla facoltà di Germanistica presso l’università della sua città, seguendo i corsi di filosofia e di psicologia sperimentale e dando inizio ai suoi studi sulla persona umana. Tale indagine sarà per lei centrale, costituendo il filo conduttore di tutta la sua vita.

Durante le vacanze di Natale del 1912, Stein legge le Ricerche logiche di Edmund Husserl e viene a conoscenza del «metodo fenomenologico». All’epoca Husserl aveva una cinquantina d’anni, insegnava all’università di Gottinga da più di un decennio ed era il fondatore della fenomenologia, una nuova corrente filosofica che voleva costituirsi non tanto come scuola di pensiero, ma come vero e proprio metodo di indagine fondativo delle scienze. Edith rimane molto colpita dalle riflessioni husserliane e ha la chiara impressione di trovarsi di fronte a qualcosa destinato a cambiare il corso della storia della filosofia: «[…] di una cosa ero fermamente convinta: Husserl era il filosofo del nostro tempo» (E. Stein, Storia di una famiglia ebrea, p.  200). Le sue amiche più care non perdevano occasione per canzonare bonariamente la ‘passione’ della giovane per Husserl: Edith racconta che, proprio quel Natale, durante la sera di San Silvestro, inscenarono un teatrino, dedicando alla compagna una breve poesia che faceva così:

           «Alcune ragazze sognano bacetti (Busserl in tedesco)

            invece Edith sogna solo Husserl»

(ibid., p. 200). É bene ricordare che fra Edith Stein e Edmund Husserl non ci fu nessun tipo di relazione amorosa, nemmeno nelle intenzioni. L’interesse della giovane filosofa era rivolto al nuovo metodo che il professore andava elaborando, in quanto in esso vedeva uno strumento in grado di indirizzare le due domande fondamentali che spingevano la sua ricerca e che davano forma alla sua vita: “chi è l’uomo?” e “in che rapporto si trovano ‘realtà’ e ‘verità’, ossia in che modo possiamo cogliere in maniera certa il mondo che ci circonda?”.

Pensiero e vita in Stein sono strettamente intrecciati: è con la ragione filosofica infatti che ella cerca di far luce su tutti quegli aspetti capaci di segnarla a livello esistenziale.

All’amico Roman Ingarden, nel 1921, scrive: «I miei lavori sono sempre e soltanto il risultato di ciò che mi dà da pensare nella vita, perché sono fatta così, debbo riflettere» (E. Stein, Lettere a Roman Ingarden. 1917-1938, p. 188). Edith decide, quindi, di cambiare università per seguire le lezioni di Husserl, certa della necessità di un loro studio più approfondito.

L’incontro

L’incontro con il nuovo professore sarà determinante per la giovane Edith che ne verrà influenzata non solo a livello accademico, per quanto riguarda la sua formazione filosofica e intellettuale, ma anche da un punto di vista umano.

Nell’aprile del 1913 Stein giunge a Gottinga, città in cui «[…] si discute sempre di filosofia, giorno e notte, a pranzo, per la strada, ovunque. Si parla solo di ‘fenomeni’» (E. Stein, Storia di una famiglia ebrea, p.198), aggiungendosi alla già cospicua schiera dei discepoli di Husserl. Difatti, intorno a lui, si era raccolto un gruppo di giovani seguaci, attirati dall’intuizione e dal percorso d’indagine proposti dal ‘maestro’ (come Husserl veniva chiamato: era a conoscenza di questo appellativo e lo detestava), i quali avevano costituito una vera e propria comunità di ricerca che si incontrava regolarmente per discutere di filosofia e di fenomenologia.

Scriverà infatti Edith nei suoi diari a proposito di quel periodo e del suo primo lavoro

[…] la dissertazione aveva assunto dimensioni enormi. In una prima parte, ancora sulla scorta di alcuni accenni di Husserl nelle sue lezioni, avevo esaminato l’atto dell’ “intuizione” come un particolare atto della conoscenza. Di lì, tuttavia, ero arrivata a una cosa che mi stava particolarmente a cuore e di cui mi sono occupata in tutti i miei scritti successivi: la costruzione della persona umana. Nell’ambito di quel primo lavoro, questo esame era necessario per far capire come la comprensione dei nessi intellettuali si distinguesse dalla semplice percezione di condizioni psichiche.

Il metodo fenomenologico

Nella delineazione del suo «metodo fenomenologico», Husserl prende le mosse dalla critica a quello che egli definisce «l’atteggiamento naturale», proprio dello «scientismo» e del comune modo di pensare degli uomini, secondo cui il mondo esterno esiste indipendentemente dal soggetto che conosce e tale soggetto può coglierlo nella sua ‘oggettività’: questo ha condotto ad un tipo di scienza che ha configurato la natura e l’uomo come oggetti quantificabili, sezionabili e, di conseguenza, passibili di dominio da parte della tecnica. Di contro all’atteggiamento naturale, Husserl sostiene che le cose non sono ‘come sono’, ossia indipendenti dal soggetto che conosce, ma sono come ‘appaiono’ al soggetto stesso: esiste, quindi, una necessaria interrelazione tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, tra Io e mondo, di cui si deve tenere conto nei processi gnoseologici. Tuttavia, ciò significa non che il soggetto ‘produce’ l’oggetto di conoscenza (rischio idealistico), ma che egli è in grado di cogliere la cosa nella sua datità, cioè come essa si dà al soggetto. Per questo, l’oggetto di conoscenza viene definito da Husserl «fenomeno» (dal greco phainómenon, che significa “ciò che appare”), in quanto è ciò che si manifesta in tutta la sua evidenza. Di conseguenza, per far sì che le cose stesse si manifestino in modo evidente alla coscienza, è necessario attuare una sospensione del giudizio (epochè), ossia mettere tra parentesi la pretesa di oggettivazione del mondo ai fini della conoscenza.

Naturalmente, la spiegazione della fenomenologia husserliana richiederebbe un discorso molto più lungo e complesso, ma basti qui porre l’attenzione su alcuni elementi essenziali. Husserl cerca di superare la distinzione classica fra soggetto che conosce e oggetto di conoscenza, tenendo conto di entrambi non in quanto già costituiti, già ‘dati’, ma nel loro processo di formazione. Il mondo esiste e si manifesta, e noi siamo i destinatari e i recettori di tale manifestazione: questa correlazione inscindibile non può e non deve essere misconosciuta. Per Edith Stein, attraverso il metodo fenomenologico, ‘verità’ e ‘realtà’ possono trovare una conciliazione in quanto il fulcro della ricerca è costituito non tanto dall’astrazione, quanto dall’indagine del reale, così come esso si manifesta e si lascia vedere a noi osservatori; a tale metodo ella rimarrà fedele per tutta la vita.

L’intersoggettività e il problema dell’empatia

Già al termine del primo semestre universitario, Edith chiese la tesi di laurea a Husserl, il quale ne rimase molto stupito: solitamente, i suoi studenti frequentavano per anni le lezioni del filosofo prima di tentare un lavoro indipendente. Egli mise al corrente la giovane studentessa di tutte le difficoltà che avrebbe incontrato: un lavoro di tesi con lui richiedeva un impegno di almeno tre anni e la mole di testi che bisognava studiare era di notevoli dimensioni; ma di fronte alla risolutezza di Stein, fu molto contento di accettare.

Husserl, comunque, non facilitò il lavoro della sua allieva, la quale attraversò periodi di profondo scoramento: sembra quasi che il maestro, nonostante avesse la fama di essere benevolo nei confronti dei suoi studenti, voglia mettere alla prova la capacità di ricerca e di analisi della giovane, molto probabilmente perché aveva visto in lei le qualità e l’attitudine proprie del filosofo. Difatti, il rovello della ricerca animava l’indole di Edith, che voleva ardentemente mettere alla prova la sua capacità di «fare qualcosa di personale in filosofia» (E. Stein, Storia di una famiglia ebrea, p. 289) e che pensava giorno e notte ai problemi filosofici che la attanagliavano.

Per quanto riguarda il tema della tesi, la Stein non aveva dubbi: Husserl, durante i suoi seminari, aveva introdotto il concetto di «intersoggettività», sostenendo che il mondo esterno può essere conosciuto soltanto da individui che si trovino tra loro in uno scambio conoscitivo reciproco. Affinché ciò avvenga, è necessario che ciascuno di noi possa fare esperienza dell’altro: tale esperienza viene definita da Husserl con il termine Einfühlung – tradotto in italiano con la parola ‘empatia’ – che si costituisce, dunque, come l’elemento fondativo della vita intersoggettiva. Tuttavia, Husserl non aveva definito in che cosa consistesse l’atto empatico ed esso rimaneva «un enigma […] oscuro e addirittura tormentoso» (Edmund Husserl, Logica formale e trascendentale, p.295).

Per il filosofo tedesco, la certezza che il mondo al di fuori di noi esista e che non sia soltanto un sogno, un’allucinazione o un punto di vista soggettivo deriva dallo scambio di esperienza con altri soggetti, i quali percepiscono la medesima realtà, seppure in forme differenti: questo scambio è reso possibile dall’atto empatico. Per Husserl, il soggetto fa esperienza dell’alterità anzitutto riconoscendone la corporeità: chi mi sta innanzi è «Leib», vale a dire un corpo vivo, un corpo che fa esperienza, che è immerso nel mondo-della-vita, tale e quale sono io. Questa somiglianza viene successivamente estesa al piano psichico: all’altro, all’altra vengono riconosciuti vissuti, emozioni, desideri. Husserl afferma che la percezione dell’alterità avviene «come se io fossi là» (E. Husserl, Le conferenze di Parigi. Meditazioni cartesiane, p. 325), ossia mettendosi ‘nei panni dell’altro’: non viviamo le stesse cose che vive chi ci sta di fronte, ma attraverso l’atto empatico è possibile oltrepassare la dimensione del sé per arrivare a quella dell’altrove.

Edith Stein parte da queste considerazioni per chiarire l’essenza dell’empatia, che diventa, da «enigma», «problema», ossia qualcosa che si può comprendere e spiegare. Per la giovane filosofa, l’empatia è, in primo luogo, il fondamento di tutte le azioni con cui si entra in contatto con l’altro. Stein definisce l’atto empatico «gewahren», che significa ‘rendersi conto’: questo rendersi conto è l’osservare, l’accorgersi di qualcosa, di qualcuno, che «affiorando d’un colpo davanti a me, mi si contrappone come oggetto (come le sofferenze che leggo sul viso dell’altro)» (E. Stein, Il problema dell’empatia, p.62). Dietro al primo apparire del volto e della corporeità, l’altro si disvela nella sua dimensione psichica e spirituale, per renderci partecipi dei suoi vissuti, sentimenti, desideri. L’empatia non è una forma di comprensione intellettuale, ma è piuttosto un «vissuto originario, una realtà presente» che permette di percepire il «moto vitale» di un altro essere umano (E. Stein, Introduzione alla filosofia, p. 200). L’altro è, per definizione, ciò che è assolutamente diverso da me e a me irriducibile e non sarà mai possibile ‘afferrarlo’ appieno; tuttavia, l’empatia è in grado di gettare un ponte attraverso tale irriducibilità, in quanto io posso rendermi conto del volto e del sentire dell’altro perché egli, in un certo qual modo, mi sposta verso di sé: « Mentre io cerco di chiarire a me stesso lo stato d’animo nel quale l’altro si trova, questo non è più oggetto in senso proprio, ma mi ha coinvolto in sé» (E. Stein, Il problema dell’empatia, p.62). Non vi è più il soggetto da un lato e l’alterità dall’altro lato, ma si crea lo spazio di una nuova esperienza che coinvolge entrambi.

Stein elabora le sue riflessioni sull’atto empatico nella tesi dal titolo Il problema dell’empatia, con la quale si laurea a pieni voti il 3 agosto 1916, presso la prestigiosa università di Friburgo, dove nel frattempo Husserl si era trasferito, avendo ricevuto la cattedra di professore ordinario di Filosofia. Edith rimane, poi, in questa città lavorando come assistente di Husserl: fu lei a proporsi al maestro, il quale aveva moltissimi manoscritti stenografati da sistemare per la pubblicazione e i suoi problemi alla vista non facilitavano il compito. Husserl accettò con gioia: «Non so chi di noi due fosse più felice. Eravamo come una giovane coppia al momento del fidanzamento», annota Stein nella sua autobiografia (Storia di una famiglia ebrea, p.371). Ma l’idillio fu di breve durata: il rapporto si rivelò più difficile del previsto e non si trasformò mai in quella forma di ricerca collaborativa che Edith sperava. Il pensiero di Husserl era una sorta di moto perpetuo, mai fermo per troppo tempo su di un’unica tematica; in più, egli scriveva tantissimo e in maniera molto disordinata. Edith sapeva che stava prendendo parte al divenire vitale delle riflessioni del maestro e che, in questo modo, riusciva ad assimilare più di chiunque altro il metodo fenomenologico; tuttavia, sentiva l’urgenza di dedicarsi alla ricerca personale, istanza che non sarebbe riuscita mai a realizzare se fosse rimasta al fianco di Husserl. Così, dopo un anno e mezzo, diede le dimissioni dall’incarico di assistente, con grande rammarico del filosofo tedesco, che però capiva le motivazioni della sua allieva.

Il legame

Nonostante l’interruzione della stretta collaborazione professionale, non venne mai meno la relazione di amicizia e soprattutto il legame profondo che Stein sentiva con la filosofia husserliana. La stima nei confronti del maestro era, forse, superiore alla considerazione che quest’ultimo aveva per lei, ma non poteva essere altrimenti, poiché Husserl aveva votato la sua intera esistenza alla ricerca fenomenologica.  

Nel 1933, con la promulgazione delle leggi razziali da parte del regime hitleriano, Husserl venne sollevato dal suo incarico all’università: per il nazismo, era uno dei tanti professori ebrei da mettere a tacere, ma egli, per il quale il filosofo doveva essere il «funzionario dell’umanità», cioè immune dal servilismo e dal narcisismo, si sentiva un uomo tradito e umiliato.

Nell’aprile del 1938, mentre Husserl muore nella solitudine di una stanza d’ospedale col l’unica compagnia di un’infermiera, Edith prende i voti ed entra nel convento delle Carmelitane scalze di Colonia: anche quando, in seguito alla conversione al cattolicesimo, il pensiero della Stein imbocca la strada della riflessione intorno alla fede, ella resta sempre legata al maestro e al metodo fenomenologico. Nonostante, per Husserl, la coscienza del soggetto non sia in grado di cogliere la trascendenza divina e quest’ultima debba «[…] rimanere fuori circuito rispetto al nostro campo di conoscenza» (E. Husserl, Idee, vol. I, p.144), Stein ha portato avanti, nelle opere successive al 1929, il tentativo di conciliare la filosofia husserliana con quella medievale e, in particolare, di San Tommaso d’Aquino.

In conclusione, non è possibile comprendere il pensiero di Edith Stein senza rifarsi ad Husserl: e questo, non per appiattire la riflessione della filosofa di Breslavia su quello del maestro, ma piuttosto per sondarne le radici profonde. Ad un certo punto, il cammino di Stein e quello di Husserl sembrano imboccare strade diverse, ma la separazione non sarà mai netta: attraverso il dialogo fra i due, saremo – per fortuna – sempre costretti ad affrontare i grandi temi della filosofia occidentale.

Bibliografia di riferimento:

E. STEIN, Storia di una famiglia ebrea, Città Nuova, Roma 1992.
Lettere a Roman Ingarden. 1917-1938, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001.
Il problema dell’empatia, Edizioni Studium, Roma, 1985.
Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1998.
E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino2002.
Logica formale e trascendentale, Laterza, Roma-Bari 1966.
Le conferenze di Parigi. Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano 2020.
(a cura di) A. ALES BELLO-F. ALFIERI, Edmund Husserl e Edith Stein. Due filosofi in dialogo, Morcelliana, Brescia 2015.
L. BOELLA, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Raffaello Cortina, Milano 2006.

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