di Camilla Gazzaniga
À la recherche de Madeleine vuole essere uno studio letterario e filosofico dell’autrice Madeleine Bourdouxhe (1906-1996) che, con un chiaro rimando proustiano, intitola il suo romanzo più conosciuto proprio À la recherche de Marie. Per farlo, ci si concentrerà sui romanzi La femme de Gilles (1937) e À la recherche de Marie (1943), e sul fil rouge che unisce le due protagoniste femminili, rispettivamente, Elisa e Marie. Leggendo di loro sembra quasi che siano una il proseguo naturale dell’altra, in un senso sempre più libero e consapevole di sé.
Quello di Bourdouxhe è un linguaggio «degli oggetti immobili», citando un’espressione dell’autrice stessa, perché capace di suggerire la materialità, la ruvidezza, e il peso del vivere domestico per una moglie, una madre, una donna. Ma, al contempo, il suo è anche il linguaggio muto dei corpi, capace di intrecciare storie familiari e speculazioni filosofiche tipiche di Luce Irigaray e Simone de Beauvoir.
Madeleine Bourdouxhe e Simone de Beauvoir non si conoscevano quando nel 1949 la de Beauvoir menziona nella sua opera, Il secondo sesso, proprio la Bourdouxhe che, con la sua scrittura sobria e curata, era riuscita a esprimere nel linguaggio delle cose del mondo quello che la filosofia stava ancora accennando. A quel tempo, la Bourdouxhe aveva conosciuto solo Jean-Paul Sartre in occasione della pubblicazione di un proprio racconto su Les Temps modernes, la rivista fondata con Maurice Merleau-Ponty. Incontrerà invece la Beauvoir, dopo averla cercata e aspettata, a Les Deux Magots, il café dove la de Beauvoir legge, scrive, discute e dove si ritroveranno ogni volta che Madeleine dalla sua Liegi visiterà Parigi.

Élisa e Marie
Due personaggi femminili, Élisa e Marie, due storie, e dietro di loro Madeleine Bourdouxhe, che nelle sue protagoniste ha messo tutte le donne che vedeva intorno a lei. A guardarle rimaneva sempre impresso uno sguardo, un’espressione, il sorriso di un istante; qualcosa che dal di fuori moriva con il gesto, ma continuava a vivere dentro di loro e faceva di esse ciò che erano (M. Bourdouxhe, Nouvelle Revue Française, ottobre 1937). Le due donne non dicono molto, non dicono pressoché nulla, le loro lotte da fuori sono quasi impercettibili. Eppure, nella loro interiorità la lotta è cosa viva: soppesata e mutevole per Marie, sorda e disturbata per Élisa, al punto di arrivare al limite della sopportazione.

Élisa è istintiva, intuitiva, non è una donna intellettuale; la sua vita interiore è di quelle che si destano al primo sospetto, che si fermano su un dettaglio. Spesso non riesce a spiegarsi e ne è imbarazzata, ma lei stessa è consapevole del fatto che non servono grandi parole se manca quell’intesa immediata con il mondo. Élisa può dirsi felice, perché non conosce altra felicità se non quella di essere la moglie di Gilles e la madre delle sue bambine.
Ma il desiderio è fulmineo, può nascere dal niente, da una piccola bocca rossa; Élisa ha davanti agli occhi la stessa scena di sempre, il marito Gilles parla del più e del meno con Victorine, sua sorella, ed è miracoloso quanto il corpo talvolta sia più accorto, più riflessivo, del raziocinio stesso. Sola nella stanza accanto, prima un brivido, poi una morsa d’ansia ben definita fanno tremare Élisa; ancora prima di notare due ombre distinte, sulle assi del pavimento, mescolarsi in una sola, unica figura tremolante, ancora prima Élisa lo sente ed è certa di non sbagliare: non è più la donna di Gilles.
Per Élisa il ricordo è un espediente per sottrarsi al dolore del reale, guarda all’infanzia o all’adolescenza come per cercare una soluzione a quello che sta vivendo. Si ricorda che sistemava i capelli a Victorine da piccole, i momenti frivoli per boschi con Gilles prima di sposarlo, e allontana così l’ipotesi che possano davvero tradirla; quando anche il ricordare si fa troppo doloroso è costretta a bloccarlo, riportandosi prepotentemente alla realtà (F. Evans, Madeleine Bourdouxhe, o l’intransigenza del desiderio, 1997). Se il tempo della storia viene scandito dal lavoro alla fabbrica e dal ritmo delle stagioni, Élisa segue un suo tempo interiore, dove non accade nulla se non lo stesso, identico dolore. Trascorre un intero anno, ma per lei è come se si fosse trattato di un unico giorno senza fine in cui è restata ad aspettare Gilles.

La storia di Marie, invece, è quella di una donna colma d’amore, che viene riversato sulle cose vive fino all’oggetto più semplice: una barca abbandonata al lago, uno sgabello in cucina e i libri che vi legge appoggiata, il vizio di un caffè e di una sigaretta. Marie non è solo la moglie di Jean, ma impartisce lezioni private con scrupolo e disinvoltura, ancora deve scegliere se avere dei figli oppure no, se assecondare l’occasione di una propria rubrica su una rivista. La componente intellettuale è molto sviluppata in Marie, e lo stesso si può dire per la sua vita emotiva, che in un primo momento, tuttavia, trova sfogo solo nelle fantasie, costretta a correggere con l’immaginazione ciò che Jean le nega sentimentalmente. L’intimità di gesti e parole è per Marie un fine irrinunciabile, e per questo si perde a immaginarsi altrove, con Jean presente fino in fondo; ma di questo lui è cosciente solo a metà. Come osserva Faith Evans (1997) Marie è data anche nel suo lato più schietto, insolente: verso la fine del romanzo, in seguito a tante piccole libertà guadagnate, Marie schernisce un donnaiolo che le fa la corte; aspetta compiaciuta una sua replica, ma egli ammutolisce. Come niente fosse subito dopo, Marie, in abito elegante, celebra la ‘punizione’ inflitta all’uomo su una giostra del lunapark.
Già il titolo, À la recherche de Marie, promette un viaggio proustiano nella memoria, lasciando capire quanto sia elaborata l’impostazione temporale che Bourdouxhe dà ai suoi romanzi. Talvolta i ricordi riemergono da un piccolo segno che colpisce Marie, altre volte è la situazione che predispone la memoria: nella scena in cui Marie insegna il latino a un ragazzo, rileggendo versi che recitano l’amore tenero, le tornano in mente gli anni da studentessa alla Sorbonne, lo studio appassionato, gli antichi sentimenti; ma poi subentra una memoria più recente, il suo matrimonio precoce, la gioventù perduta. Faith Evans riporta il momento in cui Marie beve una cioccolata calda nella casa dei suoi genitori, un ambiente che già di per sé custodisce i sogni del passato. Come la madeleine imbevuta nel tè nella Recherche, «Marie assapora con piacere quel liquido un po’ ispido che ha il gusto penetrante del ricordo» (M. Bourdouxhe, Marie aspetta Marie, p. 68). Osserva ogni gesto, ogni oggetto lì fin dall’infanzia, indugia su alcuni aneddoti da ragazza e altri li accenna alla madre, perché sia lei a raccontarli: quella memoria ritrovata la rende felice.
Lo sguardo
Marie scopre gli altri guardandoli e venendo guardata; è chiaro il contrasto con Jean, di cui invece si dice che la guarda, senza vederla (Marie aspetta Marie, p. 12). Gli occhi di un altro Lui, però, la guardano, e la vedono per davvero. Marie seduta sulle rocce, lui appena riemerso dal mare, lo guarda e da lui viene guardata, si scoprono a vicenda.
Sempre con lo sguardo, Élisa coglie attraverso una finestra, fessura della vita altrui, una donna china sul tavolo spezzata dalla fatica, i lavori casalinghi interrotti; poi guarda se stessa, e si rivede in lei (La donna di Gilles, p. 23). Possono esservi letti rimandi alla fenomenologia e all’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre, che Bourdouxhe certamente conosceva, ma non se ne può dire la reale influenza dal momento che Sarte, così come Merleau-Ponty se si pensa al ruolo del corpo nella dimensione intersoggettiva, stavano scrivendo negli stessi anni. Leggendo i romanzi a posteriori, si pensa al concetto di alterità, all’Altro, soggetto diverso dalla mia identità, che si presenta con uno sguardo su di me, ed è una relazione quotidiana e concreta, sperimentata ogni volta che vengo guardato (J-P. Sartre, L’essere e il nulla, p. 310). Lo sguardo d’altri diventa l’espediente per riconoscermi nella mia identità, e Marie, dall’evento di quello sguardo reciproco con il giovane, non può tornare più indietro. Il desiderio che ne nasce la porterà a sondare la sua psiche, a chiedere per sé una nuova indipendenza; sarà la presa di coscienza della caducità del suo quotidiano, la nostalgia di ciò che è stata e potrebbe ritornare a essere. Si sente «sgomenta, fra due mondi a pezzi» (Marie aspetta Marie, p. 25), l’uno sempre più stretto, l’altro che ha l’eccitazione del possibile, di ciò che potrebbe accadere di nuovo e vivo per lei.
Il secondo sesso

Di Marie risalta l’attaccamento ai ‘materiali più semplici’ che adopera in cucina e nei lavori casalinghi. Senza esitazione, le sue mani si immergono nell’acqua insaponata, lucidano il ferro arrugginito, sparecchiano la tavola con un unico, sapiente gesto. Ne apprezza anche la ruvidezza, l’odore ispido, e si crea un’intesa ancestrale tra le sue mani e gli oggetti che toccano, come se essi fossero una continuazione del sé. Ne Il secondo sesso Simone de Beauvoir riporta il piacere di Marie nello strofinare i fornelli fino a farli brillare: in una sorta di movimento dialettico, il negativo, ciò che è sporco, viene trasformato nel suo positivo, il pulito. Per giungervi è necessaria l’azione negativa, la pulizia, che è uno sforzo soprattutto fisico. Quando il lavoro è finito, la donna conosce la gioia della contemplazione (p. 436), e Marie, che vede il suo riflesso nell’acciaio smacchiato, assapora questo piacere, lei e l’oggetto diventano una speculare dell’altro.
L’uomo non si interessa più di tanto alla casa perché il lavoro lo proietta al di fuori; per la donna invece il lavoro è domestico, ciò che rende «la sua prigione un regno […] Rinunciando a un mondo vuol conquistare un mondo» (p. 434). Lo si vede ne La donna di Gilles: Gilles ha un lavoro estenuante agli altiforni, e anche il tempo che trascorre in casa non sembra che una continua preparazione al lavoro che verrà – riposarsi, riempire lo stomaco prima del turno. Élisa passa l’intera giornata a lustrare, lavare, cucinare, tanto che la sera le braccia le ricadono intorpidite lungo il corpo; «ogni giorno è così», scrive Bourdouxhe all’esordio del romanzo. Significativa è la scena in cui Élisa, in seguito alla nascita del bambino, può ritornare a occuparsi da sola delle faccende casalinghe, «ne aveva abbastanza di quelle mani estranee che accudivano la sua casa» (p. 63). Prova una viva soddisfazione nel contemplare la stanza meno vissuta della casa, che tiene ugualmente curata, dà la cera al legno, lustra i vetri e i pavimenti: è un grande vanto per lei questo locale più lussuoso degli altri, sempre pulito, dove condurre gli ospiti.
De Beauvoir riporta anche come Bourdouxhe abbia saputo cogliere l’afflizione che colpisce la donna nel momento della separazione dall’uomo, dopo l’amore. La donna non ripone la finalità dell’atto nell’appagamento fisico, e si lascia andare a un totale abbandono nel desiderio, rimane soggetto soltanto nell’unione con l’altro (Il secondo sesso, p. 381). Per entrambi dovrebbe essere questione di dare e di ricevere, tuttavia in ciascun romanzo emerge un uomo che prende senza dare, e in tal caso il momento del distacco sarà privativo per la donna. Bourdouxhe lo descrive con la tristezza che invade Marie nel momento della separazione: Jean le chiede di dormire e si volta, e «Marie vorrebbe morire. Tutti gli uomini si voltano e si addormentano allo stesso modo, dopo l’amore?» si chiede (p. 21), colma di un piacere mentale più che fisico, ma con un desiderio rimasto intatto. Ne La donna di Gilles, Gilles, dopo aver «soddisfatto il suo innato orgoglio di maschio» (p. 13), chiede a Élisa se ha provato piacere e lei è quasi incredula, perché non concepisce altro piacere se non quello di averne procurato a lui. Citando questo frammento, de Beauvoir scrive che il fatto stesso di porre la domanda indica che per l’uomo l’atto, più che un momento di reciprocità, è un’operazione meccanica di cui ha assunto il controllo. Egli si afferma come unico soggetto – avviene la separazione, ritorna ‘integro’ – e intende saperne l’esito (Il secondo sesso, p. 382). Laddove ci sarà amore e generosità anche in lui, allora saprà rinunciare a questo dominio.
Il corpo d’altri
Le due storie sono abitate da attese, non detti, attimi in cui le parole non affiorano o sono superflue; lì sono i corpi a parlare. Tra Marie e il suo giovane amante i dialoghi sono sbrigativi, essenziali, spesso rimangono incompleti. Per strada i due si danno del lei, ma da soli sono i corpi a riconoscersi, a colmare gli spazi vuoti di quel rapporto senza domande e poche risposte. Marie, senza conoscerlo, si innamora delle sue spalle affilate, delle mani, degli occhi teneri che lasciano presumere i suoi gesti. All’opposto, Jean ha un viso irritato, né stanco né vecchio, l’ombra ‘sporca’ della barba che ne scurisce i tratti, e tutto questo traccia un netto contrasto tra ciò che Marie ha e quello che potrebbe avere. Saliente il frammento in cui Marie, nel viaggio in treno che la porta via da Parigi, si volta verso il viso di Jean e lo sente estraneo, tanto che ha bisogno di ricordare che si tratta di suo marito. La sorella Claude, invece, viene descritta da un volto appuntito e troppo magro, la pelle non abbellita ma invecchiata dall’abbronzatura, il corpo immondo, i suoi sguardi senza via d’uscita che sembrano – e saranno – un presagio.
Con la stessa formula, la prima descrizione di Élisa è resa dal corpopieno e semplice, il viso allungato ma senza spigoli, capelli scuri e lucenti. Le mani e i gomiti segnati dall’acqua calda, dal fuoco dei fornelli e tutti i lavori casalinghi. La confessione del tradimento di Gilles tarderà ad arrivare, ma quella di Élisa è una consapevolezza intuitiva che viene da dentro e le consuma le membra; il suo corpo man mano si fa esausto, il male si concentra tra le arcate sopraccigliari e sulla bocca viene descritto il sapore del pianto. In più, sopraggiunge quel peso nel ventre che viene dal corpo dell’uomo, la nuova gravidanza, che deve portare sola – non solo fisicamente parlando, perché si occupa da sola dei bambini. Distrutta dal non poter confidare a nessuno il male inflitto dal tradimento, riconosce la sua tragedia nel corpo martoriato della statua di San Sebastiano, che contempla in chiesa, trafitto da tredici frecce, eppure così composto a vederlo da fuori; l’identificazione con lui è totale.
Non fatta per parole o gesti avventati, Élisa se ne va allo stesso modo, senza far rumore, con un solo tonfo del suo corpo che si schianta a terra. È la prova più drammatica dell’annientamento nell’amore, amore di cui gli stessi figli sono solo un’estensione: Élisa ha perso l’amore di Gilles ma quando comprende di aver preso anche il suo amore per lui non pensa a niente, nemmeno ai suoi bambini; ha già smesso di vivere.
Essere madri
Marie deve ancora scegliere se avere un figlio oppure no, e se lo avesse lo amerebbe con tutto il cuore e non come uno scopo dato alla sua esistenza. La felicità per lei non ha una forma precisa, non coincide con la sua casa e neppure necessariamente con suo marito. In questo sembra il naturale proseguo di Élisa, in una forma più consapevole, che invece ama Gilles di un amore che vivrà più di lei. Nel suo tormento, il legame matrimoniale rimane l’unico appiglio, la conferma che lui tornerà sempre, quanto meno come padre dei suoi bambini. Il titolo francese non suona l’épouse, bensì La femme de Gilles, un termine che significa donna, ma anche moglie, e del resto Élisa è stata sia la moglie, che la donna di Gilles; dopo il tradimento è sua moglie solo di nome e lotta per rimanere la sua donna, ma non lo sarà più (F. Evans, 1992).
La Irigaray ha trattato questa dinamica guardando al pensiero di Hegel, all’amore che necessariamente viene posto all’interno della famiglia per risolverne l’immediatezza naturale. In questo quadro, però, il desiderio della donna è unicamente un «diritto famigliare», osserva Irigaray, e non si tratta più di questa donna, nella sua singolarità irriducibile, che ama questo uomo, che è irriducibile a sua volta. In una prospettiva così delineata, infatti, l’amore e il desiderio femminile sono legittimi soltanto se si attuano all’interno della famiglia, ed essere sposa, e poi madre, sono i compiti della donna nei confronti dell’universale; compiti ai quali può adempiere rinunciando al suo desiderio singolare, così come all’amore per lei stessa. «[La donna] deve amarli come coloro i quali sono in grado di realizzare l’infinito del genere umano, inconsciamente assimilato al maschile nello spregio del suo genere e del suo rapporto con l’infinito» (L. Irigaray, Amo a te, p. 29). Per l’uomo, invece, l’amore equivale al riposo dal suo lavoro di cittadino, e pertanto può ricondurre l’atto amoroso all’immediatezza naturale – il ruolo che Bourdouxhe fa assumere a Gilles, che si aspetta di trovare Élisa una volta a casa, dopo il turno, o la domenica – amando questa donna o un’altra, perché in ogni caso rimarrà fedele al suo rapporto con l’universale.
Irigaray scrive che la donna non è nemmeno madre di questo bambino o questi bambini, perché non può amare in senso materno, ma è un amore sottomesso alla procreazione. E Bourdouxhe lo mostra con Élisa, che ama i figli con tutta se stessa, ma non fino in fondo come madre. I figli sono per lei la prosecuzione vivente di un amore, la traccia visibile e tangibile di esso nel mondo: «dunque una donna che è unicamente moglie? Predestinata alla creazione e alla cura di una famiglia? Ma perché tu, ora ansiosa e intirizzita, perché saresti stata creata per realizzarti secondo un modello unico?» (La donna di Gilles, p. 37). Lasciandosi alle spalle questo tipo di cultura, la donna, scrive Irigaray, deve raccogliersi in sé, ascoltare il suo desiderio e assecondarlo, che non significa ridurlo alla sola impulsività, tornare a un’immediatezza naturale (Amo a te, p. 36); al contrario, questa nuova forma amorosa potrà tutelare l’interiorità femminile, per amare se stessa e l’altro, sia nella carne che nella parola – a un livello corporeo e spirituale.
Essere sorelle
In entrambe le storie, la figura della sorella è lo specchio irriflesso, l’immagine incongrua e antitetica rispetto alla protagonista. Due antieroine che hanno vite irresponsabili, anzi la vita stessa le tocca appena, in un caso per troppa debolezza, nell’altro per troppa malizia. Quello che sconcerta Élisa, di Victorine, non è il suo fare del male, ma è il farlo mantenendo un’aria innocente, inconsapevole, che proprio per questo non risparmia nessuno. E poi Claude, l’affetto viscerale di Marie per quella sorella così affine, eppure completamente altra rispetto a lei. Claude e Marie, mosse dalle stesse rabbie, dagli stessi sentimenti, ma in Claude così passeggeri, destinati a morire l’indomani; in Marie radicati nel profondo.
La dimensione psicologica di Élisa non è sviluppata quanto quella di Marie, eppure in lei risalta la capacità immediata di capire a fondo le situazioni e le persone; sarà per questo che preferirà sempre scegliere le parole da non dire, piuttosto che svelare il punto fin dove sa. Soprattutto con Victorine, perché sarebbe inutile rivolgere emozioni forti a chi non può comprenderle – a dimostrarlo la risposta di Victorine, quando Élisa le dice di sapere tutto fin dall’inizio: «Allora, mia cara, se sapevi che cosa stava succedendo, avresti potuto tenertelo stretto tuo marito!» (La donna di Gilles, p. 118). In occasione di questo confronto è la stessa Bourdouxhe a prendere la parola: è la voce della narratrice, infatti,che condanna Victorine al posto di Élisa, passando alla seconda persona singolare per rivolgersi direttamente a lei: «non si può far niente per te – né contro di te» la compatisce Bourdouxhe (p. 99). La sua sessualità risulta disgustosa perché inconscia della gioia o della sofferenza che provoca a quest’uomo o a qualsiasi altro, come a mostrare entrambi i volti dell’immediatezza naturale di cui si parlava con Irigaray – ugualmente erronei.
Infine, entrambi i romanzi sono toccati da una riflessione sul suicidio, e se nel primo libro se ne prende atto, non si può che accettarlo, nel secondo è la stessa Marie, autoritaria e severa, che lo denuncia come un rifiuto della lotta pur nella paura di perdere la sorella: «possibile che non ci sia in loro niente che le trattenga! Qualcosa che non dipenda da tutto il resto, che le faccia essere se stesse. E che dovrebbe sempre impedire di uccidersi… Quella cosa preziosa che bisogna portare avanti come un ostensorio» (Marie aspetta Marie, p. 95). Marie comprende la resa della sorella ma non la giustifica, né è disposta ad accettarla: strattona il corpo di Claude, svestito, schiaffeggiato, violaceo, «impregnato di due veleni contrari» perché il secondo annulli l’azione del primo. Forte anche di questa lezione, l’ultima parola spetta a Marie, ancora una volta sola, ancora parla a se stessa, nell’angolo di una via di Parigi, ma con una nuova consapevolezza: si resta ad aspettare che qualcosa accada così, all’improvviso, e se nulla accade si conosce la disperazione, ci si arrende o si aspetta di nuovo. Ma occorre darsi, amare, esigere solo se si è fatto il buono, noi anzitutto.
Allora si potrà aspettare qualcosa in cambio.
Bibliografia di riferimento
M. BOURDOUXHE, La donna di Gilles (1937), Adelphi, Milano 2007.
M. BOURDOUXHE, Marie aspetta Marie (1943), Adelphi, Milano 2018.
S. DE BEAUVOIR, Il secondo sesso (1949), Il Saggiatore, Milano 2016.
F. EVANS, Madeleine Bourdouxhe, o l’intransigenza del desiderio (1997), in Marie aspetta Marie, Adelphi, Milano 2018.
L. IRIGARAY, Speculum. L’altra donna (1974), Feltrinelli, Milano 2010.
L. IRIGARAY, Amo a te. Verso una felicità nella Storia (1993), Bollati Boringhieri, Torino 2020.
M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione (1945), Bompiani, Milano 2018.
J-P. SARTRE, L’essere e il nulla (1943), Il Saggiatore, Milano 2014.