R: FLORILEGIUM

di Gilda Diotallevi

Tornare a riflettere su alcuni brani filosofici non è un’operazione fine a se stessa. Riscoprire il valore e la ricchezza di alcuni testi ci permette di esplorare la complessità dell’animo umano e il bisogno, costante, di comprendere il mondo che abitiamo.

Alle Navi filosofi pubblica così in questa rubrica una serie di autori, diversi per stile, epoca e contenuti, uniti tra loro come un florilegio.

Il titolo scelto, dal latino florilegium (composto di flos, floris «fiore» e legěre «cogliere»), deriva dal greco ανθολογία e svela il suo misterioso rapporto con il mondo dei fiori.

Lo spostamento semantico dall’antologia come ‘raccolta di fiori’ (ἄνθος «fiore» e λέγειν, «scegliere») al significato di ‘raccolta di testi’ è da rintracciare nell’antica Grecia, quando il poeta Meleagro di Gadara (130 a.C- 60 a.C. circa) diede vita al primo insieme di epigrammi, composti da se stesso e da altri poeti paragonati ognuno a fiori, foglie e germogli che, intrecciati insieme, formavano una corona, «στέφανοϛ» appunto, da cui prese il nome la raccolta.

Nello specifico lo Στέφανοϛ indicava una corona di epigrammi di 48 poeti ellenici, ma è interessante notare come, secondo uno studio condotto dai linguisti Glow e Page, la raccolta di fiori di Meleagro formerebbe in realtà una corona inverosimile, non crescendo le specie di fiori e foglie citate nello stesso periodo dell’anno.

There is no reason to suppose that he (Melanger) was botanically minded, and unlike Polyphemus in Theocr. 11.58, he does not pause to consider that his flowers, fruits and foliage are not available at the same time of this years. Nor does it trouble him that, if they were so, the monstrous garland which he composes of them could be worm neither by Diocles for whom he constructs it nor by anybody else. (A.S.F. Glow e D.L. Page,The Greek Anthology. Hellenistic Epigrams, II, Cambridge 1965, 595).

La metafora della poesia con i fiori non è certo nuova, pensiamo a Saffo (fr.55.2s. V), Pindaro (O.9.26), Aristofane (Ra. 1299 s) o Platone (Ion. 534 A) solo per fare alcuni esempi, ma nel componimento d’introduzione al florilegio di Meleagro essa viene dilatata e conservata fino all’ultimo verso, dando vita a un gioco letterario-botanico, con il preciso intento di rendere più fluido il lungo elenco di poeti inserti nel testo.

La scelta del fiore da adattare a ciascun epigrammista non pare mai casuale, bensì determinata dal proposito di esprimere un giudizio su ogni poeta e caratterizzarne meglio la personalità attraverso l’allusione a sue peculiarità artistiche, a temi delle opere più note, a circostanze biografiche. Per esempio, tra i primi fiori della corona v.6 Meleagro cita Saffo e «rende omaggio all’eccellenza della sua poesia con la metafora della rosa, in cui risuona l’eco del fr.55 V» (V. Citti, La parola ornata, Bari 1986, 81, Da Saffo a Meleagro). Archiloco (vv.37 s) è paragonato allo spinoso fiore del cardo, ἄκανθα, in riferimento ai suoi pungenti versi giambici. Arato è una palma ουρανομήκηϛ, che eleva i rami fino al cielo (vv.49 s). Mentre Antipatro Sidonio è accostato invece a una pianta originaria della sua terra, il κύπροϛ (v.42).

Pur animati dalla stessa spinta poetica, in questa sede ci limiteremo a proporre brani, piccoli saggi ed estratti di opere poco conosciute o dimenticate, lasciando al lettore la facoltà di comporre il proprio florilegio.

IL PRIMO AUTORE

Benedetto Croce, breve saggio, tratto da «Quaderni della “Critica” diretti da B. Croce», agosto 1945, n. 2.

La “mia” Filosofia

Mi sono sempre sottratto alla richiesta di spiegare in poche parole o popolarmente la mia filosofia, sia perché la filosofia, come ogni altra opera umana, non è veramente intesa se non da coloro che sono del mestiere, sia perché quel possessivo « mio » mi suona male: chi in un mestiere ripiglia tra mano il lavoro interrotto del compagno e predecessore e lo perfeziona, non usa chiamarlo così, ma tutt’al più lo dice «nostro». Ma, giunto ora a quell’età in cui, come cantava Giovanni Prati, vagano nell’anima «l’alte malinconie del dì che fugge» (ed egli, per sua ventura, provò la malinconia, ma non, come noi, l’atroce tristezza, del tramonto contornato da stragi e distruzioni di tutto quanto tenevamo caro e sacro al mondo), a quell’età in cui la vita trascorsa appare un passato che si abbraccia intero con lo sguardo e l’uomo si colloca nella «storia» – ossia, per dirla con più povera parola, guarda a se stesso come se già fosse morto, – voglio soffermarmi brevemente a rispondere a quanto pur vi ha di ragionevole e di discreto nella domanda anzidetta.

Conforme al richiamo che ho fatto all’esercizio del mestiere, che è collaborazione, bisogna sgombrare fa pretesa o l’illusione che l’opera, o il «sistema», di un filosofo sia Io svelamento una volta per sempre del cosiddetto «mistero della realtà», l’enunciazione della verità totale e definitiva, la conseguita messa a riposo del pensiero coi suoi dubbii, e con ciò dell’uomo stesso che non si vede che cos’altro farebbe se col pensiero non si travagliasse per vivere vita umana. L’uomo pensa e penserà sempre e sempre dubiterà, e pensare non potrebbe se non vivesse nella verità, nella luce di Dio. Ma in questo continuato processo l’uomo urta a volta a volta in certi ostacoli di ordine più generale, in nubi, oscurità e perplessità che conviene dissipare per andare innanzi nel giudizio e nell’azione che gli corrisponde. Filosofo in senso specifico o eminente è chiamato colui che rimuove uno di questi ostacoli più o meno gravi, dissipa una di queste nubi, fuga una tenebra, e della cui opera si godono perciò rapidi o lenti ma sicuri gli effetti nel crescere d’intensità della cultura e della vita morale.

Da questo si scorge la stoltezza della credenza che le filosofie siano simili a invenzioni ingegnose e cervellotiche, o a fantasticherie, che, svegliando talvolta entusiasmi e fanatismi e ottenendo credenza, cadono poi le une sulle altre, ciascun filosofo contradicendo e sostituendo l’altro. Ma la cosa non sta così, salvo che nella leggerezza e nell’ignoranza del volgo riguardante e indifferente. Le verità definite dai filosofi non si abbattono a vicenda, ma si sommano e s’ integrano le une con le altre, e dominano il pensiero e la vita, se anche il volgo di questo non si avveda e non si avveda di esserne anch’esso dominato. Dove è stata mai abbattuta la verità che Socrate fornì agli uomini col dare risalto, contro lo scetticismo e il dilettantismo oratorio e letterario dei sofisti, alla forza della logica, al concetto e alla definizione del concetto? E quando è stata abbattuta la verità di Cartesio, che rimise l’uomo a faccia a faccia col pensiero, unica istanza che certifichi la realtà dell’esser suo? E quando quella di Vico, che legò il pensare al fare e affermò che l’ uomo può conoscere la sua storia perché l’ha fatta lui? E quando l’altro di Emmanuele Kant, che vinse per sempre il sensismo e l’astratto intellettualismo con la scoperta della sintesi a priori, e con la nuova idea del giudizio, nel quale la categoria sarebbe vuota senza l’intuizione e l’intuizione cieca senza la categoria? E chi ha mai abbattuto e sradicato la verità di Hegel che il principio di contradizione, inteso superficialmente nell’enunciato intellettualistico che «A è A e non è non-A», deve essere profondamente riformato, perché la realtà, la quale non è immobile ma vivente, e non sta ma diviene, richiede il diverso principio che «A è insieme, non-A» e la logica intellettualistica deve cedere la supremazia alla logica dialettica?

A questa esigenza fortemente espressa e fatta valere dallo Hegel si attacca per una parte il mio lavoro di filosofo, non stando in me di fingere, in luogo della storia accaduta dalla quale son da prendere le mosse, una storia diversa e non accaduta, e non dovendo il lavoro che eseguivo, come quello di ogni altro pensatore, piccolo o grande che sia, attuarsi se non in correlazione e connessione col precedente. Or bene, lo Hegel era l’ultimo grande genio-speculativo apparso nella storia della filosofia, un genio pari a Platone e ad Aristotele, a Cartesio, a Vico e a Kant; e dopo di lui non c’erano stati se non ingegni minori, per non parlare dei semplici epigoni, che non contano. Ma, rispetto allo Hegel, io sentivo tormentosamente e vedevo chiaramente che, come dissi usando la parola che l’amoroso Catullo diceva a Lesbia, non si poteva vivere né con lui né senza di, lui. Senza di lui, no: sebbene mi fosse ben nota la furiosa rivolta contro la sua filosofia lungo tutto l’ottocento, le accuse che gli si facevano di arbitrio sistematico, di prepotenza verso i fatti, di giuochi sofistici e perfino di visionaria follia o, peggio, di ciarlataneria. Con tutto ciò la confutazione della sua critica alla logica tradizionale non era data da nessuno effettualmente,  e i tentativi (dei Trendelenburg e altrettali) riuscirono impersuasivi e miserabili, tanto che si finì col tacerne e proclamare in questa parte una riportata vittoria, che non c’era stata mai; e, quel che è più, la sostanziale verità della sua dialettica era passata di fatto nel succo e nel sangue di tutto il secolo, nel cui spirito primeggiava i il culto che egli aveva promosso del pensiero storico, a segno che le stesse scienze naturali si venivano a lor modo storicizzando con l’evoluzionismo, e il nuovo positivismo volle essere filosofia dell’evoluzione; e nella cui politica era stata smessa la fede, che fu del settecento, nel razionalismo intellettualistico, nell’ illuminismo e nel radicalismo giacobino, tantoché il nuovo moto rivoluzionario, che si veniva disegnando, il socialismo o comunismo, pretese di assurgere a scienza con l’adottare e adattare al suo oggetto lo storicismo hegeliano, e così dura ancor oggi, hegelianamente rivestito nelle manifestazioni teoriche, in Russia.

Ma d’altra parte gli hegeliani ortodossi (e parecchi ce n’erano in Italia, uomini degnissimi e onorandi) si attenevano ai libri dello Hegel come a una bibbia, della filosofia di lui facevano una religione con l’esegesi, i dommi e le annesse superstizioni, convertita la scuola in una chiesa di fedeli: sicché tornava vano aspettare da loro, nonché la critica e la correzione necessaria del verbo del maestro, lo stimolo a queste e, perché lo Hegel che essi presentavano, congelato e solidificato, aveva perso l’efficacia dello Hegel genuina, il quale aveva combattuto a lungo con se stesso e ancora, quando morì, fremeva di interiori battaglie. Contro quel loro Hegel mi ribellavo anch’io: mi ribellavo per il mio amore alla storia, che vedevo da essi negletta o trattata con una dialettica a priori e non con quella dialettica che doveva sorgere sul ricordo e sul vissuto documento; mi ribellavo per il mio amore alla poesia, che vedevo ricondotta baumgartianamente a una percezione confusa e a una risoluzione immaginosa di concetti e di contrasti concettuali, a un filosofare insufficiente; mi ribellavo per l’impossibilità di pensare i passaggi dialettici da lui asseriti dall’Idea alla Natura e dalla Natura allo ‘Spirito, col ritorno da questo all’idea riposseduta e di quasi tutte le triadi che a ogni passo egli suscitava e risolveva e nelle cui soluzioni pseudologiche il sistema si dava un’apparente compostezza e coerenza.

E  tuttavia bisognava fare i conti con lo Hegel, altrimenti non si poteva andare innanzi; e io non trovavo pronta in me l’audacia e la baldanza di un Tommaso Campanella, al quale il carme di Alessandro Poerio mette sulla bocca la superba sfida ad Aristotele:

Né, su troni di secoli sedendo,
mi poteo spaventar lo Stagirita,
ch’ io non dicessi lui : – Teco contendo!

La mia opposizione fu dunque circospetta, in certo qual modo timida, unendovisi la turbata coscienza e il presentimento che nello Hegel fosse una verità nascosta sotto gli arbitrii sistematici, della quale, e di questi arbitrii stessi, non ci si poteva spacciare buttandoli sdegnosamente via in fascio senza aver prima riconosciuto di quali virgulti il fascio si componesse, e come e perché fossero stati stretti insieme. Alfine, quando suonò per me l’ora, vidi da quel groviglio levarsi ai miei occhi, possente, irresistibile e luminosa, la logica propria del filosofare che lo Hegel aveva creata, la Dialettica, e nel tempo stesso cascare giù in terra tutto quanto opprimeva, comprimeva e distorceva quel gran pensiero e che a lui veniva dalle tradizioni teologiche, accademiche e politiche del suo paese e del suo tempo, e dal suo impeto di annunziatore di una nuova e terminale filosofia e di epilogatore della storia universale. Così avendo compreso quel che al suo genio, che teneva del divino, era troppo umanamente accaduto, rinfrancato da questa intelligenza, mi rivolsi a sciogliere pazientemente il nodo che si era stretto tra lo Hegel filosofo e lo Hegel passionale e pratico ossia non più o non ancora filosofo, tra il ritrovatore della dialettica e il costruttore di un sistema chiuso, tra il pensatore robusto e profondo e il troppo corrivo imbastitore di triadi in catena. La conclusione prese corpo nel mio libro famigerato: Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel (1906).

Non mette conto di ricordare le obiezioni che a questo vennero presto dai superstiti hegeliani e- dai loro ultimi, scolari e ripetitori, circa la deficienza in me di metodo speculativo, perché distinguevo in un sistema filosofico il vivo e il morto, il vero e il falso, laddove un sistema (dicevano essi con psittacismo, riecheggiando lo Hegel) é l’attuazione di un principio particolare, che si può e si deve criticare e superare ma nella sua compatta unità, mercè di un altro e superiore principio, e non già con la divisione e critica delle sue singole parti; quando io proprio questo consapevolmente negavo, la compatta unità dei sistemi filosofici, e spregiudicatamente vedevo, di la dalla loro apparenza unitaria, la realtà di una serie complessa di problemi particolari, alcuni ben risoluti e altri no, sistemati fino a ,in certo punto e sempre con provvisorie sistemazioni, da riaprire (e che sempre si riaprivano) per effetto delle ulteriori esperienze e degli ulteriori immancabili problemi, ossia del moto della storia, e non già l’attuazione di un nuovo e particolare principio, che in ciascuno di essi si esauriva, essendo, a mio avviso, unico principio del pensiero, e della filosofia il pensiero stesso nella sua eterna e universale natura. Similmente non volli obbedire alle loro ingiunzioni di dedurre o svolgere l’una dall’altra in ordine progressivo, mostrandone le interne contradizioni logiche, le forme dello spirito o categorie, perché l’ammissione di un siffatto svolgimento, di un siffatto faticoso susseguirsi e inseguirsi di contradizioni logiche con un finale riposo ritrovato in una categoria ultima e suprema, era appunto il panlogismo, che aveva tolto vigore e credito all’opera dello Hegel e al quale anch’io ripugnavo. Da mia parte, chiusi i conti con lo Hegel, presi con buona coscienza a valermi delle sue grandi verità per giovarmene, dove bisognava, nel trattare con nuovi modi e concetti quei problemi ai quali egli aveva sovrapposto soluzioni sforzate e fittizie.

 Così non solo nell’estetica, nella filosofia del linguaggio, nella filosofia della morale, e in quelle dell’economia e del diritto, e nelle altre parti, introdussi e sostenni soluzioni affatto diverse dalle hegeliane, ma nella stessa logica, nella quale le relazioni delle scienze naturali e della storiografia con la filosofia mi si dimostravano tali che conveniva rigettare radicalmente le due immaginarie scienze dallo Hegel concepite e coltivate, la «Filosofia della natura» e la «Filosofia della storia», e illuminare diversamente e da rettificare la sua «Fenomenologia dello spirito», riplasmandola in una «Fenomenologia dell’errore» e tutt’insieme della «ricerca della verità», e la storia della filosofia, per virtù sua accesa a nuova dignità, da negare in quanto storia del successivo apparire delle categorie nella storia, pur serbandone l’unità e anzi l’identità con la filosofia, e via discorrendo. Ma il punto essenziale fu che, nella logica, ripigliando a meditare la sua dialettica, della quale riconoscevo il sostanziale valore, mi avvidi che questa stessa era stata contaminata e viziata dal vecchiume teologico accademico della metafisica tradizionale e dalle abitudini della logica astratta, e che da ciò discendeva il metodo arbitrario col quale egli aveva trattato o si era sbrigato dei. particolari problemi, nonostante i lampi che vi folgoreggiavano dappertutto della sua mente altissima e della sua esperienza e penetrazione delle cose umane. Perché egli possedeva un sentimento severo, virile e insieme largo della vita morale, e tuttavia in omaggio alle sue triadi e al suo temperamento tedescamente poco politico e troppo ossequente all’autorità, la sottomise allo Stato e specificamente a quello prussiano, che a suo senso avrebbe raggiunto la perfezione dell’arte politica; possedeva, come di rado tra i filosofi, conoscenza e amore per la poesia, per la musica, per le arti figurative, e ne corruppe l’ingenua natura, ragionandole cori valori extraestetici, concettuali, culturali e sociali; aveva, come e, più rigorosamente di altri pensatori del suo tempo, segnato il distacco e l’opposizione tra il procedere dell’intelletto nelle scienze e quello della ragione nel filosofare, e poi li legò l’uno all’altra in un processo omogeneo di preparazione e compimento; era una tempra spiccatamente realistica e smentì sovente le chiare attestazioni della realtà; era fortemente immanentista e riapri le porte alla trascendenza. La macchina sistematica che aveva messo in moto così lo spingeva e lo trascinava, schiacciando i germi dei suoi migliori pensieri.

Come egli concepiva la forma ,di contrarietà che dà i momenti e il movimento alla dialettica? Donde si origina la contrarietà, che non è nello Hegel un invincibile dualismo, parsistico o manicheo, ma mette capo a una conciliazione? Ricercando la genesi dei contrarii, analizzandone il concetto, non si può (tale il convincimento a cui pervenni) resistere alla conclusione che la contrarietà non nasce senza il fondamento della distinzione, perché essa si accende per l’appunto nell’ascesa da una forma all’altra, da un atto all’altro dello spirito, da un distinto a, un altro distinto. Cosicchè fondamentale è la distinzione nell’unità dello spirito, e, anzi, tutt’uno con questa, unità stessa. la quale si dimostra nient’altro, che il processo delle distinzioni, giacché un’unita indistinta sarebbe astratta, immobile e morta, matematica e non organica e vitale. Lo Hegel, invece, si era appigliato ed era rimasto fermo alla mera contrarietà, e l’aveva tolta ‘ a fondamento, facendone la genitrice della realtà, e con ciò smarrì la coscienza della complessa dialettica dello spirito nelle sue forme, le quali egli abbassò e negò tutte, interpretandole come tanti conati imperfetti della verità filosofica da raggiungere in una sorta di misticismo dell’Idea. Era un’aberrazione iniziale e di gravissime conseguenze, uni viziatura, come si è detto, che percorre tutta la sua costruzione. E ciò nonostante quella da lui evocata e rievocata e agguerrita forza della Contrarietà, già meravigliosamente apparsa nella mente dell’antico Eraclito, di Eraclito l’oscuro, richiesta ora come strumento necessario dal progresso del pensiero moderno, forma, pur con l’imperfezione o l’immotivazione dell’enunciato che egli ne dette, la sua gloria immortale di rigeneratore della filosofia. E perciò, perché  il pensiero moderno non può far a meno di essa, l’azione di questa forza della contrarietà e del superamento è conservazione ed elevazione, si avverte dappertutto anche nella nuova casa che ho in me edificata e compartita e decorata, nuova nelle sue fondazioni, o nella disposizione e comunicazione e destinazione delle sue stanze assai dissimile da quella che lo Hegel ci aveva lasciata. Il rapporto che vi è posto tra spirito e natura non è più, quello dualistico, mediato da Dio o dall’Idea, ma l’unitario, onde lo spirito foggia esso, per i suoi propri fini, il concetto di natura o di mondo esterno; e così il varco alla trascendenza è fermamente precluso la triplice partizione, che risale agli stoici e si serbò per secoli nelle scuole e che io Hegel trovava ancora nel wolffianismo, di una filosofia «razionale», di una filosofia «reale» e di una «metafisica» che le unifica (filosofia dello spirito, filosofia della natura e Logica-metafisica), è annullata, e di conseguenza, unica rimane, e scioglie in sé le altre, la Filosofia dello spirito, affermando lo spiritualismo assoluto della realtà. Le sue forme dello spirito o categorie, tutte logiche e perciò di logica inadeguata, tranne l’ultima che tutte le compirebbe e che per ,altro non può giustificare se medesima nella sua irrelatività verso le altre da lei sorpassate e sciolte in se, hanno ceduto il posto al circolo eterno degli eterni valori o forme o categorie dello spirito; delle quali ciascuna presuppone nel suo operare le altre, tutte necessarie, nessuna fornita di primato, perché il primato è solo del circolo ossia dello spirito stesso, nel suo tutto. Quanto si è scritto, obiettando e censurando, e anche in modo poco sapido satireggiando, circa le mie «quattro» categorie (quasi il vero, il bello, il bene e l’utile o conveniente fossero personali mie escogitazioni, e non già le forze spirituali e gli ideali che l’uomo a ogni istante nomina e non invano); e con quanta insistenza mi si è chiesto che io le unificassi alla hegeliana, cioè le sacrificassi e distruggessi, il che mi sono guardato bene dal fare! In questa mia concezione, dunque, la poesia è poesia e non è filosofia, e la praxis e la moralità è praxis e moralità e non poesia né filosofia, e la filosofia è filosofia e non poesia né praxis né moralità, ma di tutte queste pur si nutre e tutte queste a sua volta nutre di sé. E la moralità stessa, che sotto un certo aspettò può dirsi la potenza unificante dello spirito, è tale solo in quanto s’inserisce tra le altre come pari, moderatrice e governatrice, e tra esse esercita imperium e non tyrannidem, ossia di esse rispetta l’autonomia. Né alla filosofia sta più di contro, distaccato e inferiore, come prima si stimava, il conoscere storico ossia la storia, perché la storia è la filosofia stessa nella sua concretezza, e, meglio interpretando e più a fondo elaborando la definizione kantiana del giudizio, è l’unico giudizio che sia giudizio di verità, il quale include in sé la filosofia, vivente non altrove che nella storia e come storia. Perciò, dovendosi dare alla cosa così costruita un nome, ho preferito quello, diventato vago ed equivoco, d’«idealismo», l’altro di «storicismo assoluto».

Che questa concezione filosofica, di cui sono stati accennati alcuni tratti, sia una cosa medesima con la hegeliana o, come anche è stata denominata, un neohegelismo, «neohegelismo italiano», è un battesimo contro il quale è da protestare, non per altra ragione che non è da credere alle scuole, ai ritorni, alle restaurazioni, alle ripetizioni, ai rabberciamenti di qualsiasi sorta, ma da tenere per fermo che un pensiero, se è pensiero, e sempre di colui, o meglio, del momento storico in cui viene pensato, ed è sempre originale e non riducibile a un altro o derivabile da un altro, e solo a questo patto è universale, e che quando non si trattano in questo modo i pensieri, non li s’intende nella loro verità e nel loro carattere, ma li si materializza nelle guise, alla filosofia inibite, del causalismo e determinismo. Par superfluo dichiarare che chi fa questo discorso non si lascia certamente andare alla laudum immensa cupido, che a volte si tramuta nella sciocca personale vanità della riluttanza a riconoscere la propria discendenza da un maestro. E che cosa v’ha di più dolce, di più riposante, della fiducia e della fedeltà alla persona e all’autorità di un maestro? Chi non ha provato questa dolcezza di riposo in particolare nella sua gioventù, e non avrebbe voluto che durasse sempre, come si brama sempre il cuore fedele, l’unico sopra tutti cuore fedele, al quale appoggiarsi, sicuri della sua costanza? E questa dolcezza anch’ io l’ ho provata, e ricordo con quanto desiderio, con qual palpito aspettassi, con quanto balzo- di gioia accogliessi la persona e la parola di coloro che dissipare i miei dubbii e rischiararmi, e che consideravo maestri, a loro adeguandomi, con loro identificandomi, in loro dissolvendomi. Ma se nell’amore e nell’amicizia morale la durevolezza invariata e imperturbata del legame è un dono che la fortuna fa talvolta ai fortunati, non è dato aspettarlo nel rapporto nostro coi maestri nostri di vita intellettuale, perché per l’appunto essi aiutano il nostro pensiero ad acquistare libertà e lo stimolano al produrre indipendente nelle nuove

situazioni in cui è o sarà posto e con ciò, sebbene a volte non se rendano o non se ne vogliano rendersene conto, ci fanno diversi od opposti a loro o, loro avversarii. E questo a me e accaduto con la filosofia dello Hegel, che saluto e venero sempre maestro tra i maggiori che io abbia avuti in filosofia, ma del quale sarei poco degno discepolo, se non ne avessi, quando mi è apparso necessario, e nella estensione e profondità in cui mi è apparso necessario, sviluppato e corretto e integrato e sostituito le teorie e rifatto a nuovo la struttura del sistema e, anzi, criticato il concetto stesso, che fu il suo, del sistema definitivo mercé dell’altro, che sarebbe dovuto essere il suo, del sistema indefinitivo perché in movimento, delle provvisorie e dinamiche sistemazioni. Quanto alla sorte avvenire di questa (chiamiamola, in tale ultimo detto, così per intenderci) mia filosofia, essa sarà, come tutte le altre, un singolo momento della storia del pensiero, sorpassato (io stesso l’ho più volte sorpassata vivendo e la sorpasserò finché vivrò e penserò) dall’unda quae supervenit undam, dal crescere e dall’ampliarsi dello spirito umano, e nondimeno restano e resteranno le verità che le è stato concesso di ritrovare e stabilire. Piccoli o grandi che noi siamo, non possiamo cercare e desiderare più di questo.

Sorrento, 4 gennaio 1945.

BENEDETTO CROCE

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