R: LE STORIE D’AUTORE

La libreria indipendente Le Storie inaugura la sua rubrica letteraria in collaborazione con fiorivivi.com 7 giorni al mese dedicati a un autore o a un tema. Aprile lo dedichiamo a DAVID FOSTER WALLACE.

A cura di Gilda Diotallevi

David Foster Wallace (1962-2008) è stato uno scrittore, un saggista, un accademico ma soprattutto un pensatore. Finalista del premio Pulitzer per la narrativa, ci ha regalato pagine ironiche, sarcastiche, dissacranti e dolorose, influenzando la letteratura americana a lui successiva. In Italia, il suo Infinite Jest fu lanciato da Fandango e tradotto da Edoardo Nesi, resta un manifesto, difficile, ma ancora capace di stupire.

Gli scrittori tendono a essere una razza di guardoni. Tendono ad appostarsi e a spiare. Sono osservatori nati. Sono spettatori. Sono quelli sulla metropolitana il cui sguardo indifferente ha qualcosa dentro che in un certo senso mette i brividi. Qualcosa di rapace. Questo è perché gli scrittori si nutrono delle situazioni della vita. Gli scrittori guardano gli altri esseri umani un po’ come gli automobilisti che rallentano e restano a bocca aperta se vedono un incidente stradale: ci tengono molto a una concezione di se stessi come testimoni.
Ma allo stesso tempo gli scrittori tendono ad avere un’ossessiva consapevolezza di sé. Dal momento che dedicano molto del loro tempo produttivo a studiare attentamente le impressioni che ricavano dalle persone, gli scrittori passano anche un sacco di tempo, meno produttivo, a chiedersi nervosamente che impressione fanno loro agli altri.

D. Foster Wallace, Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più).

Quando Steinbeck parla dell’uomo come di un animale incline alle abitudini, non si allontana da ciò che Wallace rivela nella società americana. Avvezza al consumismo, alla autoreferenzialità, all’automatismo, non ha più le forze per guardare con lucidità la follia in cui vive, la mancanza di libertà in cui si ritrova a respirare. In ogni testo l’autore cerca di mostrarci, anche se per vie differenti, come il capitalismo abbia distrutto internamente l’essere umano. Ciò che Pasolini aveva profetizzato, DFW lo incarna pienamente. Non meraviglia che si voglia trovare un parallelo tra le sue strutture narrative e le categorie heideggeriane (Cfr. C. Scarlato, David Foster Wallace e Martin Heidegger. A Heideggerian perspective of Infinity Jest). In fondo l’uomo potrà tornare a essere libero, o almeno consapevole, solo nel momento in cui osserverà l’im-posizione, das-Gestell direbbe Heidegger, la modalità finale dell’auto-occultamente converrebbe Nietzsche, con occhi nuovi. Ma il disvelamento della realtà, per quanto necessario, non rende più facile sopravvivere e fa pagare all’uomo a caro prezzo la propria liberazione, lasciandolo disorientato, in bilico tra fatalismo e sfiducia. Non resterà che trovare la propria via, il proprio personalissimo modo di reagire che, per DFW, è sicuramente l’ironia, la messa a nudo della follia dell’esistenza.

Ormai è quasi un anno che non sto sulla Terra, perché sulla Terra non me la cavavo troppo bene. Diciamo che me la cavo un po’ meglio dove mi trovo adesso, sul pianeta Trillafon, con grande piacere, credo, di tutti gli interessati. A prescrivermi gli antidepressivi è stato un dottore molto simpatico che si chiama dottor Kablumbus in un ospedale dove mi hanno portato per pochissimo tempo dopo un incidente davvero ridicolo con certe apparecchiature elettriche dentro la vasca da bagno del quale non ho davvero voglia di dire granché. Sono dovuto andare in ospedale per le cure mediche in seguito a quello stupidissimo incidente, e due giorni dopo mi hanno trasferito a un altro piano dell’ospedale, un piano più alto, più bianco, dove c’erano il dottor Kablumbus e i suoi colleghi. Hanno discusso un bel po’ dell’eventualità di sottopormi alla TEC, che poi sarebbe l’abbreviazione di «Terapia Elettroconvulsivante», solo che la TEC a volte cancella pezzi di memoria – piccoli particolari trascurabili tipo come ti chiami, dove abiti, ecc. – ed è terrificante anche sotto certi altri aspetti, perciò noi – io e i miei genitori – abbiamo deciso di non farla. Una legge del New Hampshire, che poi sarebbe lo Stato dove vivo, stabilisce che la TEC non può essere praticata senza il consenso dei genitori. A me sembra una gran bella legge. Così il dottor Kablumbus, che ha davvero a cuore unicamente il mio interesse, mi ha prescritto invece gli antidepressivi. 

D. Foster Wallace, Il pianeta Trillafon in relazione alla Cosa Brutta in questa è l’acqua.

È possibile avvicinarsi al lavoro di Wallace in molti modi, ma può essere interessante procedere attraverso due particolari codici a cui, lo stesso autore teneva molto. La matematica e la filosofia nello specifico fanno parte del suo mondo e si intrecciano al suo inconfondibile stile di scrittura.

  • Infinite Jest  possiede, a detta dello stesso autore, un’impronta narrativa simile a un frattale, a un oggetto matematico che presenta la stessa struttura su scale diverse (in particolare si riferisce al triangolo di Sierpinski). Inoltre sempre in tale romanzo viene citata La Heideggerian Perspective da anonimi interlocutori durante un party, i quali suggeriscono che soltanto attraverso questa lente è possibile oggi racchiudere e inquadrare il mondo.
  • Fate, Time and Language, pubblicato dalla Columbia University Press nel 2010, riprende la sua tesi di filosofia su Richard Taylor (autore di Fatalism) e il rapporto tra logica modale e matematica, dal titolo Richard Taylor’s Fatalism and the Semantics of Physical ModalityVerso Occidente l’impero dirige il suo corso, ripropone l’idea del movimento simile a quello immaginato da Zenone.
  • E Unibus pluram, saggio in cui si mostra come il concetto di verità e di etica della parola pubblica sia stato trasfigurato dal linguaggio pubblicitario.
  • La scopa del sistema, in cui l’autore, espressamente, ammette di essere stato influenzato dalla filosofia di Wittgenstein e Derrida.

Se quindi si volesse approfondire Wallace attraverso queste sottotracce consigliamo:

  1. per la relazione tra la matematica e Wallace il saggio di Roberto Natalini DFW and the Matematics of Infinity.
  2. per la relazione con la filosofia invece proponiamo Chiara Scarlato Attraverso il corpo. Filosofia e letteratura in David Foster Wallace, Mimesis, 2020 in cui l’autrice definisce la nozione di ‘corpo’ in Wallace attraverso un’analisi sistematica dell’intera opera (fiction, non fiction, interviste, materiali didattici, scritti inediti e appunti consultati presso l’Harry Ransom Center di Austin) in prospettiva filosofico-letteraria.
  3. non da ultimo il brillante testo di Michele Ragno David Foster Wallace come esperienza filosofica,  Am, 2020, in cui l’opera di Wallace viene indagata da un inedito punto di vista filosofico. A detta dell’autore infatti senza comprendere il confronto giovanile con le posizioni deterministe di certa filosofia analitica non si capirebbero le critiche alla spersonalizzazione e disumanizzazione delle società contemporanee, onnipresenti nei reportage, nei racconti e nei romanzi di Wallace.

Inoltre, come guida per affrontare l’intera opera:

  • il saggio di Emiliano Ventura, David Foster Wallace. La cometa che passa rasoterra, Elemento 115, Roma 2019. Una guida, una proposta di lettura, un omaggio a Wallace e alla sua straordinaria capacità di comprendere l’essere umano. Tutta la sua opera, secondo Ventura, «deve essere vista come il tentativo di uscire dagli aspetti più distruttivi, nichilistici appunto, della postmodernità».
  • la biografia dell’autore, Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi. Vita di David Foster Wallace, di D.T. Max che, attingendo ai materiali conservati presso l’università di Austin e a testimonianze dirette di amici, parenti e colleghi scrittori, ricostruisce il percorso intellettuale e umano di Wallace, i rapporti con i padri letterari, la vicenda clinica e la dimensione pubblica.
  • il libro intervista di David Lipsky, edito dalla Minimum fax, Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta del 2017, scritto a tre anni di distanza dalla tragica morte.
  • Zadie Smith, Brief Interviews with Hideous Men: The Difficult Gifts of David Foster Wallace, in Changing My Mind: Occasional Essays  (London: Penguin, 2009).

Vogliamo inoltre segnalarvi un luogo particolare, un archivio, l’unico in Italia, dedicato allo scrittore in cui scovare informazioni, lettura di estratti e altro: https://archivio-dfw.tumblr.com/incipit_estratti

La lezione di David Foster Wallace

di Emiliano Ventura

E questa è anche la ragione per cui chi vuole fare narrativa nella nostra cultura televisiva sta proprio nella merda. Che devi fare quando la rivolta postmoderna diventa un’istituzione della cultura pop?.

(D.F.Wallace, E Unibus Pluram: gli scrittori americani e la televisione in Tennis, tv, trigonometria, tornado e altre cose divertenti che non farò mai più, Minimum fax, Roma, 2001, p. 107)

Sono parole dello scrittore di culto David Foster Wallace, quando apparvero in Italia fecero un enorme effetto sulla generazione di laureandi in Lettere (lui avrebbe detto “damerini dell’estetica”), tra la fine dei ’90 e i primi del 2000. Nel 1999 la casa editrice Minimum fax pubblica Tennis, tv, trigonometria, tornado e altre cose divertenti che non farò mai più, e per noi fu come mettere gli occhiali da vista dopo una prolungata miopia. Quindi si poteva parlare di Tennis (o genericamente di sport) e di Televisione anche in un saggio letterario; per noi, filologicamente educati, era una novità assoluta. Per pubblicare e tradurre il suo romanzo capolavoro Infinite Jest, Sandro Veronesi, Edoardo Nesi e Domenico Procacci fondarono una nuova casa editrice, la Fandango, solo per pubblicare il capolavoro di Wallace.

È con queste credenziali che Wallace si presentò ai lettori italiani alla fine del millennio; solo più avanti avrei scoperto una sua dichiarazione in cui affermava che Infinite Jest era un lungo tentativo per rispondere alla domanda: «perché sto guardando tanta di questa merda? [la tv]».

Impossibile riassumere in pochi righe l’opera o la complessità del suo pensiero. Sostanzialmente però sentiva il problema di come uno scrittore dovesse affrontare l’intrattenimento di massa (serie tv, cinema). Nel lavoro di ricerca e di studio per la mia monografia su Wallace mi resi conto, e compresi, la sua strategia.

David Foster Wallace usa proprio una strategia, fin da quando giocava a tennis, questa viene espressa nel saggio che ricorda proprio il tennis e i tornado in Illinois. Afferma di essere stato un tennista bravino, non molto forte atleticamente, i suoi punti di forza erano l’uso della geometria unitamente a saper sfruttare i venti (tornado) nei tornei giocati in casa. In questo modo, con la geometria e il vento riusciva a supplire alle carenze atletiche che lo avrebbero sempre portato alla sconfitta.

Ecco la strategia diversa con cui lo scrittore Wallace affronta l’intrattenimento (tv).

Il suo romanzo più noto è Infinite Jest (1996), qui è esposta l’idea di base sull’intrattenimento “perché continuo a guardare tutta questa merda?”, si riferisce alla televisione e ai più svariati programmi. Come può un giovane scrittore, che voglia fare letteratura, competere con il mondo dell’intrattenimento? Tra gli anni ’80 e i ’90 aveva due possibilità: uniformarsi  all’intrattenimento e quindi fare un genere di narrativa specifico e collaudato, oppure tendere verso l’avanguardia e proporre una sperimentazione autoreferenziale.

Wallace risponde con una strategia diversa,  esprime, pensa e scrive la miglior Letteratura possibile, cura ogni singola pagina con attenzione, sente il senso di responsabilità di tentare di capire cosa sia un «fottuto essere umano». Sa che se si mette sul piano dell’intrattenimento non ha possibilità, esattamente come la strategia che usava da ragazzo con il tennis. Usa al meglio le sue doti, lì la geometria e il fattore campo, qui la migliore Letteratura possibile. E crea un capolavoro.

Un proverbio statunitense recita «The nice guy fineshed last», il bravo ragazzo finisce sempre ultimo,  Kenneth Blanchard, lo interpreta affermando che «i bravi ragazzi giocano un’altra partita», sono altro dal comune sentire, dalla dinamica fallimento riuscita. David Foster Wallace, con Infinite Jest e non solo, gioca un’altra partita, usa una strategia massimalista.

E la letteratura italiana?

Affronta l’intrattenimento seriale della tv sul suo terreno, uniformandosi alla narrativa di genere già pronta per essere trasposta in sceneggiatura televisiva. La letteratura italiana recita il proverbio di Gatto Silvestro «Se non puoi batterli unisciti a loro». Solo che questa è una strategia perdente.

Mentre alzare l’asta della propria professionalità, nello sport, in filosofia o in letteratura, è l’unica strategia per non soccombere all’Infinite Jest, il film che non puoi smettere di vedere e rivedere, tanto dolce e seducente è il suo intrattenimento. Questa è stata la grande lezione di David Foster Wallace.

La filosofia in Wallace

di Michele Ragno

L’interesse a Wallace è essenzialmente dovuto alla sua capacità di fare i conti, nella scrittura sia saggistica che narrativa, con i grandi problemi del nostro tempo. Da un punto di vista prettamente stilistico, la scrittura di Wallace è inquadrabile nel postmodernismo americano (con autori come De Lillo, Pynchon), ma le tecniche di scrittura avanguardistiche che egli usa non “decostruiscono”, non distruggono, ma anzi sostengono quelli che egli definisce i “vecchi e tradizionali valori umani che hanno a che fare con la spiritualità, le emozioni, la comunità”.

Il postmoderno nichilista ha svolto infatti una funzione parricida importante, liberandoci dalla zavorra conformistica dei decenni precedenti, ma non è stato poi capace – questa la critica di Wallace – di sviluppare nuove forme etiche e valoriali che ci guidassero nel rapporto con l’alterità, lasciando spazio ad un caos anarchico nel quale ognuno, per dirla con il lessico di Nietzsche, da libero sfogo alla “volontà di potenza”. 

La risposta filosofica di Wallace è probabilmente riassunta in Questa è l’acqua, un testo che va inteso come il manifesto etico-esistenziale con il quale interpretare gli altri scritti. Wallace infatti insiste, in questo discorso durante una cerimonia di laurea, su concetti come ‘libertà’ e ‘scelta’: perché la scelta, che è tale solo quando scopriamo la nostra libertà, può essere una strategia di fuga dal postmoderno, una via per eliminare l’ossessionante solipsismo (dove la realtà è sempre percepita in relazione al nostro io, e così per ogni relazione) incoraggiato dalla nostra società, per responsabilizzare eticamente l’individuo nel rapporto con l’alterità e salvaguardare questo stesso rapporto.

Chiamatemi Dave

di Flavia Sorato

David Foster Wallace era e rimane uno scrittore, ma soprattutto un uomo, di rara ed originale intelligenza, preziosamente curioso e schietto.

Tra i racconti di valore sulla persona di D.F Wallace c’è sicuramente quello scritto dal narratore e giornalista David Lipsky, che ha avuto l’occasione di trascorrere del tempo impagabile insieme all’autore. Come inviato della rivista “Rolling Stone”, infatti, ha potuto accompagnarlo per cinque giorni nel tour di presentazioni del libro Infinite Jest. L’esperienza ha preso la forma di un viaggio particolare, fatto di momenti e conversazioni intense, che è ora testimonianza di alcuni aspetti e sfaccettature dello scrittore e di quale potesse essere «l’effetto che faceva sentir parlare Wallace».

Lipsky così lo descrive: «David era alto quasi un metro e novanta, e quando era in forma pesava novanta chili. Aveva gli occhi scuri, la voce dolce, un mento da cavernicolo, una bocca adorabile, con le labbra a punta, che era il suo tratto migliore. Camminava con l’andatura molleggiata dell’ex atleta: un movimento ondulatorio che partiva dai talloni, come se ogni cosa fisica fosse un piacere. Scriveva con degli occhi e con una voce che parevano una forma condensata della vita di chiunque: erano i pensieri che pensavi a metà, le scene di sfondo che vedevi con la coda dell’occhio al supermercato e facendo avanti e indietro dal lavoro. […] Promosso per tutte le superiori con il massimo dei voti, ha giocato a football, ha giocato a tennis, ha scritto una tesi in filosofia e un romanzo ancora prima di laurearsi a Amherst, ha seguito un corso di specializzazione di scrittura creativa, ha pubblicato il romanzo, ha fatto sì che un’intera città di editor e scrittori bercianti, sgomitanti e pronti a gambizzare chiunque si innamorasse di lui perdutamente. Ha pubblicato un romanzo di mille pagine, ha ricevuto l’unico premio del paese che si assegna a chi viene riconosciuto un genio, ha scritto articoli che restituiscono meglio di qualunque altra cosa la sensazione di ciò che significa essere vivi al giorno d’oggi, ha accettato una cattedra speciale di scrittura creativa presso un’università californiana, si è sposato, ha pubblicato un altro libro e si è impiccato all’età di quarantasei anni».

D.F. Wallace si è tolto la vita a causa di uno stato depressivo, aggravatosi con la sospensione e poi la ripresa del Nardil, un medicinale assunto a lungo e in dosi massicce. Eppure, quello che riporta anche Lipsky è il pensiero diffuso e confuso delle persone, disorientate da quel gesto, «Una cosa di cui nessuno riusciva a farsi una ragione era quanto potesse sembrare vitale e simpatico David».

Di ricordi profondamente belli se ne rintracciano in quantità, tra le persone vicine allo scrittore.

Tra gli amici più stretti di Foster Wallace c’è stato Mark Costello, suo collega scrittore, insieme al quale ha lavorato alla monografia Il rap spiegato ai bianchi. Lipsky, nel ricordare una sua testimonianza, scrive ironicamente questo passo:

«Gli scrittori tendono ad avere due grandi argomenti in rotazione intera costante, una playlist molto breve. La loro carriera e i mali che li affliggono. C’è un famoso aneddoto sulla festa in cui James Joyce incontrò Marcel Proust. Uno si aspetterebbe chissà quali discussioni da pesi massimi della letteratura. Joyce disse: “Ho gli occhi ridotti malissimo”. E Proust: “Il mio povero stomaco, non so che fare! Anzi devo andarmene subito”. (Joyce lo superò: “Io seguirei il tuo esempio, se solo trovassi qualcuno che mi tiene sottobraccio”).

David non era così.

Tanto per cominciare, non ha mai detto a nessuno, se non a una cerchia molto ristretta, che soffriva di depressione. E poi non aveva molto il look che ci si aspetta da uno scrittore […] David aveva l’aria di uno che, dopo aver praticato un po’ di sport agonistico all’università, aveva lasciato la squadra sentendosi troppo fico. Un tipo grande e grosso, con la bandana e la zazzera, uno che stava per invitarti a giocare a palla e se dicevi di no era capace di darti un sacco di botte.

E la cosa era voluta. All’università David era rimasto disgustato dal look dei coetanei che si atteggiavano a scrittori: occhi vellutati, suscettibilità sulla politica: li chiamava “gli intellettuali con il baschetto. Guarda, me lo ricordo bene, un motivo per cui a tutt’oggi non mi piace definirmi uno scrittore è che non vorrei mai essere confuso con una persona del genere”, ammette Costello.

«Ma tutto questo non ti preparava alla sua compagnia: che era incredibilmente aperta, delicata, spiritosa, straripante».

Mark Costello prosegue nel ricordare come D.F. Wallace avesse la rara facoltà di immedesimarsi nelle altre persone: «Dave aveva proprio la capacità di entrare nei panni di un altro». Un’abilità che si presentava «con una rapidità e un umorismo incredibili».

All’inizio degli anni Novanta, Foster Wallace ha avuto una relazione con la scrittrice Mary Karr ed anche lei ne ricorda la perspicacia, l’intuito e la fine attenzione dello sguardo. Aveva «un interesse e una curiosità enorme sul proprio posto nel mondo. Vedeva più fotogrammi per secondo di tutti noialtri, non si fermava mai. Divorava costantemente l’universo».

A questo si può aggiungere un altro elemento umano distintivo: essere al/nel mondo con speciale sincerità.

Racconta Jonathan Franzen, migliore amico di Foster Wallace per la seconda metà della sua vita adulta, che nell’ultimo triste anno trascorso prima del suicidio, alla banale domanda “Come stai?” lo scrittore continuava a replicare con franchezza. Dice Franzen: «Lui era molto onesto. Rispondeva: Non sto bene. Ci sto provando a stare bene, ma non sto bene».

Tuttavia, quello che rimane impresso è lo stile dei suoi libri e certi capolavori di comicità.

“Una cosa divertente che non farò mai più” è un reportage narrativo pubblicato nel 1996 sulla rivista ‘Harper’s Magazine’ che aveva commissionato allo scrittore un articolo con un particolare tema, “una settimana in crociera”.

Dall’11 al 18 marzo 1995 io, volontariamente e dietro compenso, mi sono sottoposto alla crociera “7 Notti ai Caraibi” (7NC) a bordo della m. n. Zenith, una nave da 47.255 tonnellate, di proprietà della Celebrity Crociere, una delle oltre venti compagnie di crociera che attualmente operano fra la Florida e i Caraibi.

Foster Wallace trascorre così dei giorni a bordo della “Zenith” (soprannominata da lui “Nadir”), per documentare la vita a bordo della nave e tutti i suoi fasti, mischiandosi tra i passeggeri/turisti e vivendo le esperienze “da sogno” proposte dalla compagnia. Tra riflessioni e spunti umoristici, quella che ne esce è una lucida satira sul consumo di massa.

La “Crociera Extralusso 7NC” costituisce un genere uniforme. Tutte le megacompagnie offrono lo stesso prodotto di base. Questo prodotto non consiste in un servizio o in una serie di servizi. Non è neanche tanto il divertimento (anche se si capisce subito che uno dei grandi compiti del direttore di crociera e del suo staff è di continuare a rassicurare tutti che tutti si stanno divertendo): è più, come dire, una sensazione. Ma rimane un prodotto basato sulla buona fede – cioè cercavano davvero di produrla in te, questa sensazione: una miscela di relax ed eccitazione, di appagamento senza stress e turismo frenetico, quella fusione particolare di servilismo e condiscendenza che viene propagandata attraverso tutte le forme del verbo viziare.

E poi prosegue qualche pagina più avanti:

Una vacanza è una tregua dalle cose sgradevoli, e poiché la coscienza della morte e della decadenza è sgradevole, può sembrare strano che la più sfrenata fantasia americana in fatto di vacanze preveda che si venga schiaffati in mezzo a una gigantesca e primordiale macchina di morte e decadenza. Eppure, sulla crociera extralusso 7NC, veniamo coinvolti con abilità proprio nella costruzione di svariate fantasie di trionfo sulla morte e sulla decadenza. Un modo di mettere in atto questo “trionfo” è la disciplina del miglioramento di se stessi; e la manutenzione anfetaminica della Nadir da parte dell’equipaggio è sfacciatamente analoga alla cura ossessiva dell’organismo: dieta, ginnastica, integratori ipervitaminici, chirurgia cosmetica, seminari sul time-management e tutto il resto. C’è anche un’altra strada per il trionfo sulla morte. […] Dalla fatica del lavoro, alla fatica del divertimento.

Poco dopo si sofferma ad analizzare la brochure di presentazione della crociera:

Certo non è Dante, ma la brochure “Crociere 7NC” della Celebrity è comunque un esempio estremamente efficace ed ingegnoso di comunicazione pubblicitaria. La brochure ha il formato di un settimanale, è pesante e patinata, con una bella grafica, con il testo corredato dai primi piani artistici di coppie benestanti abbronzate e bloccate in una paresi di piacere.

Il tono sagace si estende a tutto l’articolo. Comprese le note.

A circa metà dello scritto c’è un passo che riportiamo a chiusura di questa finestra su “una cosa divertente che non farò mai più”.

Non so come si troverebbe un claustrofobico, ma per un agorafobico una nave da crociera extralusso 7NC presenta un’intera gamma di attraenti opzioni di ambienti chiusi. L’agorafobico può scegliere di non scendere mai dalla nave (riporta la nota: in mare aperto è un agorabazzecola, ma sul molo, quando si aprono le porte e si abbassa la scala, diventa una scelta vera e propria ed è dunque agorafobicamente valida). […] Io – che pure non sono proprio uno di quegli agorafobici del tipo “non vado neanche al supermercato”, ma piuttosto un agorafobico “borderline” o un “semiagorafobico” – ho comunque imparato ad amare profondamente la cabina 1009, corridoio sinistro esterno.

L’augurio di Wallace

Wallace era prima di tutto un gran lettore e sorprende scoprire la classifica che l’autore stesso fece dei suoi dieci libri preferiti.

1. The Screwtape Letters, (trad.it: Le lettere di Berlicche), C.S. Lewis
2. The Stand, (trad.it: L’ombra dello scorpione), Stephen King
3. Red Dragon, Thomas Harris
4. The Thin Red Line, (trad.it: La sottile linea rossa), James Jones
5. Fear of Flying, (trad.it: Paura di volare), Erica Jong
6. The Silence of the Lambs, (trad.it: Il silenzio degli innocenti),Thomas Harris
7. Stranger in a Strange Land, (trad.it: Straniero in terra straniera),Robert A. Heinlein
8. Fuzz, (trad. it: Allarme: arriva la “Madama” ), Ed McBain
9. Alligator, Shelley Katz
10. The Sum of All Fears, (trad. it: Paura senza limite), Tom Clancy

Leggere, studiare, osservare e conoscere erano attività centrali nella formazione di Wallace e il suo augurio era quello che lo diventassero per ognuno di noi, con l’unico scopo di riconquistare quote di libertà perduta. Il suo pensiero traspare da ogni pagina, da ogni intervista, ma si fa manifesto nel famoso discorso di incoraggiamento che Wallacepronunciò alla cerimonia di laurea dell’anno 2005 al Kenyon College e di cui riproponiamo un breve estratto.

[…]La libertà del tipo più importante richiede attenzione e consapevolezza e disciplina, e di essere veramente capaci di interessarsi ad altre persone e a sacrificarsi per loro più e più volte ogni giorno in una miriade di modi insignificani e poco attraenti.

Questa è la vera libertà. Questo è essere istruiti e capire come si pensa. L’alternativa è l’incoscienza, la configurazione di base, la corsa al successo, il senso costante e lancinante di aver avuto, e perso, qualcosa di infinito.

[…]La Verità con la V maiuscola è sulla vita PRIMA della morte. È sul valore reale di una vera istruzione, che non ha quasi nulla a che spartire con la conoscenza e molto a che fare con la semplice consapevolezza, consapevolezza di cosa è reale ed essenziale, ben nascosto, ma in piena vista davanti a noi, in ogni momento, per cui non dobbiamo smettere di ricordarci più e più volte: “Questa è acqua, questa è acqua.”

È straordinariamente difficile da fare, rimanere coscienti e consapevoli nel mondo adulto, in ogni momento. Questo vuol dire che anche un altro dei grandi luoghi comuni finisce per rivelarsi vero: la vostra educazione è realmente un lavoro che dura tutta la vita. E comincia ora.

Auguro a tutti una grossa dose di fortuna.

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