I contadini nell’arte di Vincent van Gogh

di Francesco Palumbo

«Van Gogh […] si interroga, pieno di angoscia, sul significato dell’esistenza, del proprio essere nel mondo. E, naturalmente, si pone dalla parte dei diseredati, delle vittime: i lavoratori sfruttati, i contadini, a cui l’industria con la terra e il pane, toglie il sentimento dell’eticità e della religiosità del lavoro» (C. Argan, L’arte moderna).

Spesso descritto come asociale, dal carattere burbero e l’aspetto poco, anzi pochissimo, conciliante l’approccio, Vincent van Gogh tuttavia amava visceralmente le persone. Specialmente quelle avvilite dalla fatica del lavoro quotidiano. I poveri, i dimenticati dalla cosiddetta società civile. Gli operai e i minatori del Borinage, così come i tessitori, ostaggi di macchine infernali per più di dieci, dodici ore al giorno.

Tessitore al telaio, Nuenen, maggio 1884. Kroller-Muller Museum, Otterlo, Netherlands.

E poi loro, i suoi amati contadini. I volti solcati dagli sforzi di una vita dedicata inevitabilmente al lavoro, i corpi costantemente protesi verso la terra, come fossero parte di essa.

La terra non mente mai. La terra dice sempre la verità. Profuma di verità e concime.

Contadino che vanga, Nuenen, luglio-agosto 1885. Van Gogh Museum, Amsterdam, Netherland.

E con quella verità, con quel concime, Van Gogh scolpiva le sue tele, ritraendo loro, i lavoratori instancabili della terra, cogliendone gli aspetti più tormentati dalla vita, dando loro dignità. La stessa dignità che spesso, troppo spesso, la società non era in grado di riconoscergli. Così l’artista, come fosse un cronista della verità, un testimone dal polso eclettico e vibrante, sentiva sulla pelle e nel cuore l’urgenza di raffigurare il mondo dei contadini senza abbellimenti, senza retorica.

Testa di giovane contadino con berretto, Nuenen, marzo 1885. Koninklijke Museum, voor Schone Kunsten, Bruxelles, Belgio.

Il pittore sapeva entrare dentro quel mondo di stanchi, affamati e veri, sapeva mettere a  nudo  tutta la loro rozzezza, la graffiante e drammatica condizione sociale nella quale erano relegati. Così, attraverso colori tetri e tonalità sporcate di grigio, retaggio della scuola dell’Aja e dei paesaggi monocromi della sua amata Olanda, a Nuenen ogni occasione era buona per fermarsi a dipingere. Dopo l’esperienza mortificante scaturita dalla convivenza con Sien, la donna che proprio all’Aja nel 1882 Vincent van Gogh decise di adottare per spirito caritatevole più che per amore, decide di rincasare dopo una brevissima parentesi a Drenthe. E lì, nella sua terra, vive il più possibile all’aperto, noncurante delle spesso avverse condizioni atmosferiche, spinto da un impellente e inderogabile bisogno di vivere la natura e dipingere la vita dei contadini ogni qual volta il piccolo villaggio del Brabante olandese gliene offre la possibilità.

Camminare e dipingere, al freddo, sotto la neve o la pioggia, diventano la sua missione giornaliera.

Contadini con fascine sulla neve, Nuenen, settembre 1884, Yoshino Gypsum Foundation, Tokyo, Giappone.

Fermarsi nel bel mezzo di un campo a respirare il silenzio portato dal vento gelido del suo nord. Null’altro chiedeva Vincent. Si spingeva oltre i propri limiti d’essere umano, prima che d’artista, con l’unico scopo di placare quella tremenda sete di umanità. L’artista come un contadino, alla stessa stregua di un reietto della società. Lontano anni luce dai salotti stracolmi di ipocrisia e strette di mano che aveva avuto modo di frequentare e, allo stesso tempo, detestare durante il soggiorno parigino. A Nuenen fra campi di patate e odore di speck che fumava con ferocia dai piatti dei contadini, non c’era modo di fermarsi a pensare, tantomeno a giudicare il prossimo.

La semina delle patate, Nuenen settembre 1884, Von der Heydt Museum, Wuppertal, Germania.

Van Gogh poteva solo lavorare, una benedizione e alle volte una condanna. Per lui lavorare significava dipingere, significava annusare la miseria di quella gente, scrutarne persino le ombre, immedesimarsi nella loro vita dei contadini. Sentirla nelle vene, prima che nel polso. Ammirare le rughe che segnavano quei volti stanchi ma fieri. Bellissimi nella loro genuina semplicità.

Ritrarne l’anima, prima che la pelle, era urgenza inderogabile.

Testa di contadina, Nuenen, marzo 1885, Van Gogh Museum, Amsterdam, Netherlands.

Così dopo decine e decine di studi rivolti a esaltare dettagli e sfumature dei volti dei contadini, avvicinandosi persino a caricaturizzarne incarnati e espressioni,

Testa di contadina, Nuenen, gennaio 1885, National Gallery, Londra, Gran Bretagna.

Vincent van Gogh si apprestava a dipingere uno dei quadri che sarebbe poi entrato di diritto nella storia dell’arte. Uno dei suoi quadri-icona. Uno dei più celebri in assoluto: I mangiatori di patate.

Nuenen

Con questo straordinario capolavoro, l’artista ci prende per mano e ci conduce all’interno di un tipico cottage nei pressi della campagna olandese. Una famiglia di contadini sta consumando il pasto serale, molto probabilmente l’unico della giornata.

Le mani e i volti diventano testimoni della fatica, testimoni della verità.  

Ho cercato di sottolineare come questa gente che mangia patate al lume di lampada, ha zappato la terra con le stesse mani che ora protende verso il piatto, e quindi parlo di lavoro manuale e di come essi si siano onestamente guadagnato il cibo.

Lettera a Theo, 30 aprile 1885

Realizzare un vero quadro contadino. Questo era l’intento dell’artista. E l’effetto senza dubbio riesce perfettamente. I colori così tetri, l’atmosfera appesantita da un silenzio eclatante, i lineamenti e i gesti dei protagonisti saziano ogni curiosità, anche quella più spudorata e impertinente che, una volta soddisfatta, lascia sulla pelle l’impressione di aver spiato quella scena di vita quotidiana e non di averla semplicemente ammirata.

Eccoli nudi e crudi, raffigurati nella loro più intima versione, i contadini che si sfamano. Si nutrono, nutrono il loro corpo senza abbandonarsi a chiacchiere o eccessi. Morigerati e distrutti dalla stanchezza, avvolti dalla solenne necessità di mangiare e poi riposarsi, prima che il giorno successivo incomba puntuale e li conduca nuovamente ai campi da coltivare.

Un quadro non deve necessariamente essere profumato.

Lettera a Theo, 30 aprile 1885

E questo quadro, pur non profumando forse, permette al contadino, all’uomo prima ancora del lavoratore della terra, di risorgere, riscoprendo dignità e considerazione grazie a tanta autenticità. Il linguaggio non verbale dei protagonisti squarcia ogni esitante silenzio, si fa presenza eloquente, esigente rispetto e ammirazione. Lo stesso rispetto che l’artista intendeva loro conferire attraverso una cornice dorata, che per esigenze cromatiche prima ancora che sociali, avrebbe garantito all’opera di splendere in tutta la sua unica bellezza.

Quanto ai mangiatori di patate, è un quadro che starà meglio in una cornice dorata, ne sono sicuro.

Lettera a Theo, 30 aprile 1885

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:

C. ARGAN, L’arte moderna, Sansoni, Firenze 1970.

V. VAN-GOGH, Lettere a Theo, Guanda, Parma 1889.

https://www.instagram.com/vangogh_daily/ (a cura di Francesco Palumbo).

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