R: FLORILEGIUM II

di Gilda Diotallevi

In questa sede abbiamo a lungo discusso circa l’idea del bello e dell’arte in generale, tralasciandone però un aspetto che sembra essersi perso nell’attuale concezione di estetica moderna. Se è vero infatti che alcuni elementi su cui oggi ci troviamo a riflettere derivano, in maniera più o meno diretta, dalla tradizione antica del pensiero filosofico, (pensiamo ai caratteri della luminosità della bellezza in Omero, allo splendore del sensibile o alla simmetria e proporzione che caratterizzano la bellezza dei Pitagorici), altri aspetti invece sembrano essersi eclissati.

Esistono sfumature inattese che legano indissolubilmente il bello al rischio dell’inganno e alla necessaria chiamata in causa di una prospettiva etico-morale. Se in Esiodo Afrodite, dea della bellezza, esercita un vero e proprio potere sull’uomo, in Platone la bellezza assume una forza diversa, quella della persuasione, in grado di attrarre e ingannare.

Proprio tale elemento della forza persuasiva, della capacità ingannatrice, che il pensiero arcaico aveva accentuato, viene pian piano scomparendo. L’arte perciò perde il suo legame con il bello, che recupera attraverso una normatività che non trattiene alla sua base il bello ma altri valori.

Ed ecco che a noi giunge quella condanna platonica alla poesia, che la tradizione considera diretta alle arti tutte, in grado solo di imitare la natura. Non è cioè una forma di conoscenza ma, al contrario, una forma di inganno, un allontanamento dal vero e dal disvelamento, un velo sulla realtà. Essa non educa e non migliora l’uomo perché si rivolge alle sue facoltà arazionali, alla parte meno nobile dell’anima.

Nella Repubblica, in particolare nel libro X, Platone definisce l’arte, in ogni sua espressione, mimesi da un punto divista ontologico, imitazione del sensibile. E se il sensibile è solo immagine dell’Idea, l’arte si trova a essere imitazione di un’imitazione, producendo un allontanamento ulteriore dell’anima dalla visione delle Idee.

Eppure proprio l’arte, se sottomessa alle leggi del bene e del vero, può continuare a esistere. Si sviluppa in tal modo una relazione intensa tra il bello e il bene, veicolata dalla presenza della sovrapposizione tra bene e vero. La bellezza può essere persuasione, corruzione come la retorica, ma può essere anche virtù se corrispondente al giusto.

Di questi aspetti parla il Gorgia, Γοργίας, l’opera platonica di cui riportiamo alcuni passi scelti.

IL GORGIA, Platone

Personaggi:

Socrate = filosofo

Gorgia di Leontini = famoso retore e sofista

Polo = retore siciliano allievo di Gorgia, molto giovane

Callicle = giovane aristocratico

La persuasione (arte e retorica)

Passi 453a-455b

SOCR. Ora sì, Gorgia, ora mi sembra che tu abbia [453a] chiarito molto meglio cosa tu intenda con arte retorica, e, se ti ho ben capito, sostieni che la retorica è fattrice di persuasione e che tutta la sua opera e la sua stessa essenza hanno questo fine; o puoi affermare che le possibilità della retorica vanno oltre tale scopo, oltre la capacità di produrre persuasione nell’animo degli ascoltatori? GORG. Oh no, Socrate! Mi sembra, anzi, che tu l’abbia definita perfettamente. Tale è l’essenza della retorica. SOCR. E ora ascoltami, Gorgia! Devi sapere che se altri esiste, il [b]quale si metta a discutere con la ferma volontà di rendersi chiaramente conto di quello che sia l’argomento del discorso, ebbene, sono convinto che uno di questi sono proprio io, e anche tu, voglio credere. GORG. E con questo, Socrate?  SOCR. Ti dirò sùbito. In cosa consista codesta persuasione, di cui tu parli, frutto della retorica, e a cosa essa persuada, sappi che davvero non lo so con chiarezza, anche se credo di supporre quale ne sia, secondo te, la natura e quale l’oggetto. Nonostante ciò ti pregherò di volermi dire tu stesso in che consiste, secondo te, questa [c] persuasione frutto della retorica e in quali campi essa operi. Ma perché, pur supponendo il tuo pensiero, lo chiederò a te e non lo dico io stesso? Non lo faccio per te, ma in funzione del discorso, perché così esso proceda in modo da farci risultare quanto più è possibile chiaro il nocciolo dell’argomento. Guarda un po’, dunque, se non ti sembra giusto che io ti ponga delle domande. Se, per esempio, ti avessi chiesto che tipo di pittore è Zeusi e tu mi avessi risposto: “Un pittore di figure animate”, avrei, o no, il diritto di chiederti quali figure dipinge? GORG. Senza dubbio. SOCR. Per questo, forse, ché vi sono altri pit-[d]tori che dipingono molte altre specie di figure viventi? GORG. Sì. SOCR. E se, invece, nessun altro, all’infuori di Zeusi dipingesse, avresti risposto correttamente? CORG. Come no? SOCR. E allora, anche rispetto alla retorica, dimmi: secondo te, solo la retorica ha la funzione di persuadere, o anche altre arti? Voglio dire: chiunque, qualsiasi cosa insegni, di ciò che insegna persuade, oppure no? GORG. Senza dubbio, Socrate, persuade e sopra tutti. SOCR. [e] E allora veniamo di nuovo a quelle arti, di cui parlavamo sopra: l’aritmetica e chi si occupa di aritmetica non c’insegnano le proprietà dei numeri?  GORG. Esatto. SOCR. L’aritmetica ha, dunque, una funzione persuasiva?  GORG. Sì. SOCR. Ma allora, anche l’aritmetica è artefice di persuasione? GORG. Evidente. SOCR. Se qualcuno ci domandasse, dunque, di quali specie di persuasione si tratta e quale ne sia l’oggetto, risponderemo che si tratta della persuasione relativa all’insegnamento delle quantità [454a] pari e dispari. E così potremmo dimostrare che tutte le altre arti, precedentemente enumerate, sono artefici di persuasione, e dire di che specie di persuasione si tratta e quale ne sia l’oggetto. O no? GORG. . SOCR. Non la sola retorica, dunque, è artefice di persuasione. GORG. Vero! SOCR. E allora, poiché non la sola retorica, ma anche altre arti producono tale effetto, abbiamo il diritto, come nel caso del pittore, di porre al nostro interlocutore un’ulteriore domanda, e chiedergli: quale specie di persuasione si realizza mediante la tecnica retorica e di cosa per-[b]suade? Non ti pare giusto aggiungere una tale domanda?  GORG. Sì.  SOCR. E allora rispondi, Gorgia, dal momento che anche tu lo ritieni giusto. GORG. Sostengo, Socrate, che la persuasione retorica è quella che ha luogo nei tribunali e in altri luoghi ove si riunisce la folla, come già prima dicevo, e che oggetto di tale persuasione è il giusto e l’ingiusto. SOCR. Supponevo anch’io, Gorgia, che tu pensassi a questo tipo di persuasione e a questo genere di argomenti: ma perché non ti sembri curioso se, tra un momento, ti farò ancora qualche domanda sullo stesso [c] punto che pur sembra tanto chiaro, ebbene, ripeto, non lo faccio per te, ma perché il discorso proceda con ordine in tutti i suoi passaggi, e perché non si prenda l’abitudine di procedere per supposizioni e di strapparci l’un l’altro la parola di bocca, ma tu possa svolgere il tuo pensiero come vuoi entro i termini della tua ipotesi. GORG. Mi sembra, Socrate, che il tuo procedimento sia esatto. SOCR. Avanti, allora, ed esaminiamo quest’altro punto. C’è qualcosa che tu chiami ‘sapere scientifico’? GORG. Sì. SOCR. E ancora, c’è qualcosa che chiami ‘credere’? GORG. Io sì! SOCR. E secondo te, sapere scientifico e credere, [d] scienza e credenza, sono una stessa cosa o cose diverse? GORG. Personalmente, Socrate, credo che siano diverse. SOCR. Giusto, e potrai convincertene con questa osservazione. Se uno ti chiedesse: “Gorgia, può esserci credenza falsa e credenza vera?”, tu, secondo me, dovresti rispondere di sì. GORG. Sì. SOCR. Ancora: può esserci una scienza falsa e una scienza vera? GORG. Assolutamente no! SOCR. É chiaro, dunque, che credenza e scienza non sono la stessa cosa. GORG. Vero! SOCR. [e] Eppure tanto coloro che sanno, quanto coloro che credono, sono persuasi. GORG. Proprio così! SOCR. Vuoi allora che poniamo due specie di persuasione, l’una dovuta alla credenza non accompagnata da sapere, l’altra frutto di scienza? GORG. Senz’altro! SOCR. Ma quale delle due specie di persuasione è quella dovuta alla retorica nei tribunali e nelle altre pubbliche riunioni in relazione al giusto e all’ingiusto? La persuasione da cui proviene il credere non accompagnato dal sapere, o l’altra specie di persuasione, quella dovuta al sapere? GORG. Evidentemente, Socrate, quella da cui si genera la credenza. SOCR. La retorica, dunque, a quanto pare, è sul giusto e [455a] l’ingiusto, fattrice di persuasione fondata sul credere e non di persuasione fondata sull’insegnamento. GORG. . SOCR. Neppure il rètore, dunque, è maestro nei tribunali e nelle altre pubbliche riunioni per ciò che riguarda il giusto e l’ingiusto, ma suggerisce solo una certa credenza. D’altra parte, in sì breve tempo, non potrebbe certo veramente istruire tanto grande massa di gente su tanto alte questioni. GORG. Evidentemente no!

Il pensiero estetico di Gorgia (Lentini, Siracusa, 490- 391/88 circa a. C) è dato dalla teoria apatetica (apate, inganno, illusione), secondo cui l’arte consiste nella suggestione che genera e nelle conseguenti false convinzioni di che ne è coinvolto. Essa è perciò capace di produrre nell’anima un incantesimo (γοητεία). Gorgia precisa che γοητεία e μαγεία sono due tecniche messe a punto (δισσαὶ τέχναι εὕρηνται) per procurare ‘errori’ ἁµαρτήµατα della psiche e deliberati ‘inganni’ ἀπατήµατα della doxa.

In fondo Peito (Pειθώ) era la divinità o daimona della mitologia greca personificante la persuasione (auspicabile nelle relazioni amorose) e denominata Suada o Suadela (in latino), della seduzione e della persuasione retorica. (Da ricordare che ad Atene la statua di Peito e Afrodite Pandemos erano collocate molto vicine, come anche a Megara, ove la statua di Peitò era situata nel tempio di Afrodite, per cui le due divinità andrebbero non solo ritenute connesse, ma una attributo dell’altra).

Nel pensiero platonico invece il bello è legato al suo aspetto sensibile ma è principalmente connesso al comportamento morale, al buono (καλόν τε καὶ ἀγαθὸν). Così come il male al brutto (κακὸν καὶ αἰσχρόν). Si tratta di una bellezza morale-ontologica, motivo per cui prima di arrivare a definire cosa sia il bello, il Gorgia parte dalla distinzione tra bene e male, giusto e ingiusto.

Le posizioni dialettiche di Socrate da una parte e Gorgia e i suoi allievi dall’altra attestano due stili di vita completamente differenti.

Per Gorgia il sommo bene va raggiunto anche a discapito degli altri, anzi si ottiene opponendosi agli altri e vincendoli, perché il più grande male è subire un’ingiustizia. Con quale arma combattere? Con la persuasione, poco importa la verità. La critica feroce che Platone vuole sollevare verso la retorica è proprio legata al disinteresse per la verità che la squalifica da arte τέχνη, a ἐμπειρία, a una sorte di destrezza nell’adulare il pubblico e producendo piacere.

Per Socrate invece la ricerca della verità è mossa da un autentico desiderio di conoscenza e non dalla volontà di persuadere l’altro. Per lui la cosa peggiore, più brutta, è perpetrare il male, non subirlo.

Subire ingiustizia è meglio che commetterla

Passi 469b-474b

SOCR. Sta attento a come parli, Polo! POLO. Perché? SOCR. Perché non bisogna invidiare chi non è affatto da invidiare, né invidiare bisogna i miserabili, ma compiangerli. POLO. Ma come, ti sembra che debbano essere compianti gli uomini di cui parlo? SOCR. Come no? POLO. Qualsivoglia uomo, dunque, manda a morte chi gli pare, e giustamente, ti sembra un miserabile, degno di compianto? SOCR. No! Ma neppure da invidiare. POLO. Ma non sostenevi proprio ora che è un miserabile? SOCR. Chi ingiustamente uccide, sì, mio caro [b] compagno, e anche oggetto di compianto! mentre chi manda a morte giustamente non è certo da invidiare. POLO. Davvero degno di compianto, miserabile davvero, è chi viene ucciso ingiustamente! SOCR. Meno di chi uccide, Polo, e meno di chi è giustamente ucciso. POLO. Ma che vuoi dire, Socrate? SOCR. Che il supremo male, il male peggiore che possa capitare, è commettere ingiustizia. POLO. Ma come, questo il male supremo? Ma non è un male ancora più grande patire ingiustizia? SOCR. Niente affatto! POLO. Ma tu, tu vorresti piuttosto patire che commettere ingiustizia? SOCR. Non vorrei né patirla né [c] commetterla, ma, tra le due, se fossi costretto a scegliere, preferirei piuttosto patire che commettere ingiustizia. POLO. Tu, dunque, non vorresti essere tiranno? SOCR. No! se dai a tiranno il significato che a tiranno do io. POLO. Ma io do a tiranno il significato che già ora dicevo: esser tiranno significa, per me, avere il potere di fare nella città quello che a uno sembra, mandare a morte, in esilio, fare, insomma, tutto secondo il proprio arbitrio. SOCR. Beato uomo! controbatti pure quello che [d] dico io! Se, ad esempio, nell’ora in cui più affollata è l’agorà, tenendo un pugnale nascosto sotto l’ascella, ti dicessi: “Polo mi sono procurato un potere, un dominio meraviglioso! perché se mi parrà che una di queste persone che tu vedi sia sui due piedi soppressa, ebbene, quella che mi sembrerà cadrà sùbito morta! e se mi sembrerà che debba avere la testa rotta, avrà sùbito rotta la testa, e se lacerata la veste, avrà la veste lacerata: tanto grande è il [e] potere che ho in questa città”, e se tu fossi incredulo, ed io, per prova, ti mostrassi il pugnale, probabilmente tu mi risponderesti: “Socrate, tutti, così, sarebbero capaci di avere un gran potere, e, in tal modo, si potrebbe mettere a fuoco qualsiasi casa ti sembri, l’arsenale di Atene, le triremi, tutte le imbarcazioni pubbliche e private”. Solo che il gran potere non consiste nel fare tutto ciò che ci paia. Ti sembra? POLO. In questo modo, evidentemente [470a] no! SOCR. Ma sai spiegarmi perché non approvi un simile potere? POLO. Certo! SOCR. Perché, dunque? Parla! POLO. Perché chi così agisce deve necessariamente pagarne la pena. SOCR. Ma non è un male la pena? POLO. Senza dubbio. SOCR. Stupefacente uomo, ma, allora, se si fa ciò che si vuole e se ne trae vantaggio, ciò ti pare un bene, e questo, sembra, è il “gran potere”; [b] altrimenti è un male e uno scarso potere. Ma esaminiamo anche questo altro aspetto del problema: è o no vero che compiere quanto dicevamo, mandare a morte, esiliare, confiscare beni, talvolta può essere meglio talaltra no? POLO. Certo! SOCR. Su questo, sembra, siamo tutti e due d’accordo. POLO. Sì. SOCR. E quando, secondo te, è meglio? Entro quali termini? POLO. Rispondi tu stesso, [c] Socrate! SOCR. Personalmente, Polo, se preferisci ascoltare la mia risposta, sostengo che è meglio quando si fanno certe azioni per giustizia; quando le si fanno, invece, per ingiustizia, è peggio.

POLO. Difficile davvero è confutarti, Socrate! Ma non vedi che anche un bambino dimostrerebbe che non sei nel vero? SOCR. Molto grato sarò a questo bambino, e a te sarò grato, se, confutandomi, mi liberi dai miei abbagli. Non stancarti, dunque, dal fare del bene a un amico, e, perciò, confutami! POLO. Non c’è bisogno, Socrate, di ricorrere a vecchie testimonianze per confutarti: [d] bastano fatti di ieri e di oggi per convincerti d’errore, e dimostrarti che molti pur commettendo ingiustizia sono felici. SOCR. Quali sono queste testimonianze? POLO. Non vedi Archelao, figlio di Perdicca, governare in Macedonia? SOCR. Anche se non lo vedo, ne sento parlare. POLO. E felice ti sembra, o infelice? SOCR. Non lo so, Polo; non mi sono mai incontrato con lui. POLO. Ma [e] come, lo sapresti solo se t’incontrassi con lui, e in un altro modo non potresti sapere se è felice? SOCR. Per Zeus, non ho altro modo! POLO. Ma, Socrate, evidentemente neppure del Gran Re potrai dire, così, di conoscere se è felice. SOCR. E direi il vero, perché non so nulla della sua paidèia e della sua giustizia. POLO. Ma come, tutta la felicità consiste in questo? SOCR. Secondo me sì, Polo. L’uomo e la donna veramente belli e buoni, dico, sono felici; l’uomo ingiusto e malvagio è infelice. POLO. Secondo il tuo ragionamento Archelao è, dunque, infe-[471a] lice? SOCR. Se è ingiusto, sì, amico mio. POLO. Ma come non può essere ingiusto? egli non aveva alcun diritto alla signoria che ora possiede, essendo figlio di una donna schiava di Alceta, fratello di Perdicca: secondo il diritto, e se avesse voluto agire secondo giustizia, egli avrebbe dovuto essere schiavo di Alceta, e seguendo il tuo ragionamento, sarebbe stato felice. Egli, invece, è ora divenuto straordinariamente infelice, poi che ha commesso i più gravi delitti. Invitò dapprima presso di sé Alceta, suo [b] padrone e zio, con il pretesto di restituirgli il governo che Perdicca gli aveva tolto, e, dopo avere ospitato lui e suo figlio Alessandro, che gli era cugino e quasi coetaneo, li ubriacò e spintili su di un carro, di notte, li portò via, e dopo averli sgozzati, li fece entrambi sparire. Compiuto tale delitto, non si accorse, certo, d’esser divenuto estremamente infelice, e non si pentì; anzi, poco tempo dopo, an-[c] cora una volta mostrò di non voler essere felice: invece di allevare onestamente suo fratello, figlio legittimo di Perdicca, un fanciullo di sette anni, a cui secondo giustizia spettava il governo, e di restituirgli il potere, lo gettò in un pozzo, lo annegò, e andò a dire a sua madre, Cleopatra, che il ragazzo, inseguendo un’oca, era precipitato in un pozzo, dove era morto. Proprio per questo, dunque, avendo commesso i più gravi delitti, che in Macedonia siano stati commessi, di tutti i Macedoni egli è il più disgraziato, non [d] il più felice, e, forse, esiste un qualche Ateniese, cominciando da te, che preferirebbe essere un qualsivoglia altro Macedone piuttosto che Archelao.

SOCR. Fin dal principio di questa nostra discussione, ti ho lodato, Polo, perché mi sembri eccellentemente preparato in retorica, mentre mi pare che tu non abbia curato affatto la dialettica. Questo sarebbe, ora, il discorso mediante cui perfino un ragazzo mi convincerebbe d’errore e col quale adesso, secondo te, avresti confutato la mia affermazione, che felice non è l’ingiusto? Ma come, mio ingenuo amico? Assolutamente nulla ti concedo di quello che sostieni! POLO. Perché non vuoi, ma in [e] realtà la tua opinione non è diversa dalla mia! SOCR. Beato uomo, tu cerchi di convincermi d’errore retoricamente, come coloro che ritengono di convincere d’errore nei tribunali, ove, appunto, gli uni credono di avere confutato gli altri, quando presentano molti e reputati testimoni di quello che sostengono e gli avversari ne presentano uno o nessuno. Evidentemente la prova non ha così nessun valore [472a] rispetto alla verità, ché, talvolta, contro uno possono premere le false testimonianze di molte e reputate persone. Così ora, se voi presentate testimoni contro di me a prova che dico il falso, deporranno a tuo favore quasi tutti gli Ateniesi e i forestieri. Se vuoi, testimonieranno a tuo favore Nicia di Nicerato e i suoi fratelli, dei quali nel tempio di Dioniso stanno in fila esposti i tripodi; e, se vuoi, [b]Aristocrate di Scellia, del quale c’è in Pito una bellissima offerta; e tutta la casa di Pericle, se vuoi, o qualsiasi altra famiglia ateniese tu desideri scegliere. Eppure io solo non sono d’accordo, poiché tu non mi costringi con vere prove, ma, presentando contro di me testimoni falsi, cerchi di togliermi quella che è la mia ricchezza, la verità. Se io non presenterò proprio te quale unico testimonio a conferma di quello che dico, non mi sembrerà di aver [c]raggiunto nulla di degno sul nostro argomento. E, così, neppure tu, credo, sarai convinto se non ti sarò testimonio io solo, lasciando da parte tutti gli altri. C’è una forma di confutazione che tu e molti altri accettano e ve n’è un’altra accettata da me. Poniamo ora le due forme di confutazione, una di fronte all’altra, ed esaminiamo se sono diverse tra di loro: non cose da poco sono gli argomenti di cui stiamo discutendo; si tratta, anzi, di una questione bellissima a sapersi, bruttissima a ignorarsi, ché tale, appunto, è il nocciolo del problema: sapere o ignorare chi è felice [d] o no. In primo luogo, dunque, per tornare alla nostra discussione, tu ritieni possibile che un uomo che commetta ingiustizie, un uomo essenzialmente ingiusto, sia beato, tanto è vero che ingiusto ritieni Archelao, ma felice. Questo, dobbiamo credere, il tuo punto di vista? POLO. Esattamente.

SOCR. Io dico, invece, che è impossibile. Ecco un punto preciso su cui non andiamo d’accordo. Ma ancora: sarà felice l’ingiusto, qualora sia colpito dalla giustizia e debba pagare il fio della sua colpa? POLO. Per nulla! infelicissimo sarebbe, anzi, in tale caso. SOCR. [e] Ma se si sottrae alla giustizia, secondo te sarà felice? POLO. Sì. SOCR. Secondo la mia opinione, invece, Polo, chi commette ingiustizia, l’uomo ingiusto, è in ogni caso infelice, ma più infelice ancora se non paga il suo debito alla giustizia e non sconta la pena dei suoi delitti, meno infelice se paga alla giustizia e viene colpito dalla giustizia degli dèi e degli uomini. POLO. Ma Socrate, cerchi [473a] proprio di dire assurdità! SOCR. Compagno mio, cercherò, invece, di farti dire le stesse cose che dico io, proprio perché ti considero amico. Questo, ad ogni modo, è il punto su cui ora abbiamo opinioni diverse: vedi un po’ anche tu! io, dunque, prima ho detto che commettere ingiustizia è peggio che patirla. POLO. Esatto! SOCR. Tu hai sostenuto, invece, che peggio è patirla. POLO. Sì. SOCR. Io, di contro, che coloro che commettono ingiustizia sono infelici, e tu mi hai confutato. POLO. Sì, per Zeus! [b]SOCR. Lo credi tu, Polo! POLO. Quello che credo è vero! SOCR. Forse! Tu, comunque, sostenevi che felici sono coloro che commettono ingiustizie, qualora riescano a non pagare il loro debito alla giustizia. POLO. Esattamente. SOCR. Mentre io sostengo che sono estremamente infelici, ma meno infelici, certo, quelli che pagano il debito alla giustizia. Vuoi confutare anche questo? POLO. Questo punto, Socrate, è senza dubbio più difficile ancora dell’altro da confutare! SOCR. No, Polo! non è più difficile, è impossibile, ché inconfutabile è la verità! POLO. Ma che dici! Poniamo il caso di uno che, sorpreso, mentre aspiri [c]illegalmente alla tirannide, venga arrestato, sottoposto a torture, mutilato, accecato col fuoco, e dopo aver sofferto molti e grandi strazi di ogni sorta, e veduto i figli e la moglie patire per gli stessi tormenti, sia alla fine legato alla croce o bruciato vivo in un sacco di pece, ebbene quest’uomo sarà più felice in tal modo, sarà più felice che se, sfuggendo alla giustizia, riesca a fondare una tirannide e viva dominando la città, facendo tutto quello che vuole, invidiato e felicitato da tutti, cittadini e stranieri? Questa la verità [d] che dici inconfutabile?

SOCR. Nobile Polo, tu impaurisci come un bau-bau: non confuti! ora presenti spauracchi, come dianzi testimonianze. Ad ogni modo, fammi ricordare un po’: “se uno aspira illegalmente alla tirannide”, hai detto? POLO. Sì. SOCR. In alcun caso, mai, nessuno dei due sarà più felice, né quello che delittuosamente si sia procurato la tirannide, né quello che abbia pagato il suo debito alla giustizia – di due infelici nessuno può esser più fe-[e]lice -, ma più infelice, certo, chi è sfuggito alla giustizia e si è fatto tiranno. E che, Polo? ridi? E questa, forse, un’altra forma di confutazione, quando uno abbia fatto una certa affermazione, mettersi a ridere, non portare prove ch’egli è in errore? POLO. Ma Socrate, non credi d’esser già confutato enunciando tesi che nessuno sosterrebbe? Prova a interrogare qualcuno dei presenti. SOCR. No, Polo, io non sono un politico; l’anno passato, anzi, sorteggiato membro del Consiglio dei Cinquecento, quando la pritania passò alla mia tribù e toccò a me presiedere la [474a] votazione, mi resi ridicolo, inesperto com’ero della procedura. E, dunque, non mi chiedere ora di far votare i presenti, e se non hai un miglior metodo per confutare, cedi a me la tua parte, come dianzi dicevo, e sperimenta come, secondo me, si deve confutare. Delle mie affermazioni io non so produrre che un solo testimonio e precisamente quello con il quale discuto, tutti gli altri li accantono: uno [b] solo io so fare votare! con molti, impossibile è il dialogo. Vedi un po’ ora se, a tua volta, vuoi passare a me la parte della prova, rispondendo alle mie domande. In realtà io sono convinto che non solo io, ma anche tu, tutti gli uomini, tutti pensiamo che commettere ingiustizia sia peggio che patirla, e che sottrarsi alla pena sia male maggiore che l’essere punito. POLO. Ed io, invece, dico che né io né altro uomo pensa in questo modo. Sei tu, solo tu, che preferiresti patire anziché fare ingiustizia, non è vero? SOCR. Non io solo, ma tu e tutti gli altri.

Subire un’ingiustizia è peggiore che compierla

Passo 474c

Quando Socrate domanda pensi che sia peggio commettere o patire ingiustizia?  κάκιον εἶναι, τὸ ἀδικεῖν ἢ τὸ ἀδικεῖσθαι, Polo, riprende la posizione del suo maestro Gorgia e risponde che subire una ingiustizia sia peggiore che compierla, pur riconoscendo che fare ingiustizia è più brutto (αἴσχιον), cioè moralmente più riprovevole che patirlo.

Per Polo καλόν τε καγαθν (bene e male), così come κακν καασχρόν (bello e brutto) non sono sinonimi (474d)

SOCR. Rispondimi, allora, affinché tu sappia, come se ricominciassimo da capo la nostra discussione. Polo, pensi che sia peggio commettere o patire ingiustizia? POLO. Secondo me, patirla. SOCR. E che ? è moralmente più brutto commetterla o patirla? Rispondi! POLO. Commetterla! SOCR. É, dunque, anche peggio, se è più brutto. POLO. Niente affatto! SOCR. Capisco: secondo il tuo pa-[d]-rere sembra che bello e buono, male e brutto, non siano la stessa cosa. POLO. No davvero!

Il nodo centrale: il bello e il brutto καλόν e αἰσχρόν che nella tradizione esprimono una valutazione morale.

Passi 474e- 477e

[e]SOCR. E allora? Tutte le cose belle – corpi, colori, figure, suoni, istituzioni umane – tali le dici – di volta in volta belle -, senza tener d’occhio nulla? Ad esempio, cominciando dagli oggetti corporei, non li chiami belli relativamente al loro uso, a seconda della loro funzione, o al piacere che dànno a chi li contempla, se contemplandoli allietano? Al di fuori [e] di tali criteri puoi dire belli gli oggetti corporei? POLO. No! SOCR. Ma, allora, anche tutte le altre cose, colori, figure, le potrai denominare belle o per il piacere che suscitano o per la loro utilità, o per l’una e l’altra causa insieme? POLO. Secondo me, sì. SOCR. E lo stesso dobbiamo ripetere per i suoni e per la musica in tutte le sue manifestazioni? POLO. Sì. SOCR. Anche le leggi, anche le istituzioni umane, per ciò che riguarda la loro bellezza, neppure esse sono belle al di fuori di queste ragioni, o per la loro utilità, o per il piacere che suscitano, o per l’una e l’altra causa insieme. POLO. Non per altro, mi sembra. [475a] SOCR. E lo stesso dobbiamo ripetere per la bellezza delle scienze [tòn mathemàton] ? POLO. Senza dubbio; anzi, Socrate, buona è la tua attuale definizione, il tuo porre il bello entro i termini del piacere e del bene. SOCR. Ma il brutto si dovrà, allora, definire entro i termini contrari, dolore e male? POLO. Necessariamente! SOCR. Ne segue, dunque, che quando di due cose belle una è più bella dell’altra, la più bella è tale per una delle due ragioni o per ambedue insieme, il piacere, l’utilità, o per il piacere e l’utilità, a un tempo. POLO. Certo! SOCR. E quando di due cose brutte una è più [b] brutta dell’altra, la più brutta è tale a causa di un eccesso di dolore e di male. Non deve essere così? POLO. Sì. SOCR. Suvvia, dunque, cosa dicevamo un momento fa sul commettere e sul patire ingiustizia? Non sostenevi, forse, che patire ingiustizia è peggio, ma commetterla è più brutto? POLO. Proprio questo sostenevo. SOCR. Ma allora, se commettere ingiustizia è più brutto che patirla, ciò, appunto, è più brutto o perché produce un maggior dolore o perché causa un maggior danno, o per l’una e l’altra cosa insieme. Non deve essere così anche questo? POLO. Senza dubbio!

SOCR. Ma cominciamo con l’esaminare se com– [c] mettere ingiustizia superi per dolore il patirla: chi commette ingiustizia, cioè, prova maggior dolore di chi la patisce? POLO. No, Socrate! questo poi no! SOCR. E va bene, commettere ingiustizia non supera per dolore il patirla. POLO. Certamente no! SOCR. Ma allora, se non supera per dolore, neppure lo supererà per l’una e l’altra insieme delle due cause. POLO. Sembrerebbe di no! SOCR. Non resta, dunque, che l’altra causa. POLO. Sì. SOCR. Il male. POLO. Sembra! SOCR. Commettere ingiustizia è, dunque, peggio che patirla, perché superiore è il male che ne deriva. POLO. È chiaro che lo è! SOCR.[d] Ma tu, non eri prima convinto – d’accordo con l’opinione della maggioranza – che commettere ingiustizia è più brutto che subirla? POLO. Sì. SOCR. Ora, invece, si è mostrato che non solo è cosa più brutta, ma peggiore. POLO. Sembra! SOCR. E tu preferiresti un male peggiore, più brutto, a uno minore? Rispondi, Polo, non aver paura! non ne avrai danno! Francamente affidati[e] alla ragione sì come a un medico, e rispondi o sì o no alle mie domande. POLO. No Socrate, non lo preferirei! SOCR. Nessun uomo lo potrebbe. POLO. Secondo il tuo ragionamento no, non mi sembra. SOCR. Dicevo dunque la verità, quando sostenevo che né io, né tu, nessun uomo preferisce commettere ingiustizia piuttosto che patirla: patirla sarebbe, appunto, il caso peggiore. POLO. Sembra! SOCR. Vedi, Polo, come, poste l’una di fronte all’altra, le due forme di confutazione non si somigliano affatto. Con te andavano d’accordo tutti gli altri, eccettuato me; a me, [476a] invece, basti tu solo, che tu solo sia d’accordo e ti presenti come testimonio, e facendo votare te solo accantono tutti gli altri. E su questo ci siamo capiti. Passiamo ora ad esaminare il secondo punto del nostro contrasto, se, cioè, pagare alla giustizia il debito delle proprie colpe sia per l’ingiusto il male più grande, come tu credevi, o se male maggiore sia sfuggire alla pena come ritenevo io. Consideriamo la questione sotto questo aspetto: pagare alla giustizia il debito delle proprie colpe ed essere giustamente punito avendo commesso atti ingiusti, significa la stessa cosa? POLO. Secondo me, sì! SOCR. Puoi so[b]stenere ora che tutte le cose giuste, in quanto giuste, non siano belle? Rifletti e rispondi. POLO. A me sembra di sì, Socrate!

[477a]SOCR. Ma, se cose belle, sono anche buone? Il bello non è forse tale o per il piacere o per l’utilità? (Οὐκοῦν εἴπερ καλά, ἀγαθά; ἢ γὰρ ἡδέα ἢ ὠφέλιμα).  POLO. Necessariamente. SOCR. Un bene è, dunque, il patire di chi paga il debito delle proprie colpe? POLO. Sembra. SOCR. Perché ne ricava un utile? POLO. Sì. SOCR. E quale mai altro utile se non quello che penso io? che migliore diviene la sua anima, se è giustamente punito? POLO. Naturale! SOCR. Perché chi paga il debito della propria colpa si libera dalla malvagità dell’anima? POLO. Sì. SOCR. Si libera cioè dal male più grave? Rifletti: se[b]consideriamo le ricchezze, quale altro male puoi pensare che capiti all’uomo se non la povertà? POLO. Non altro, se non la povertà! SOCR. E se consideriamo lo stato del corpo? non dirai che mali del corpo sono la debolezza, la malattia, la deformità e così via? POLO. . SOCR. E non credi che anche l’anima possa trovarsi in cattivo stato? POLO. Certo! SOCR. E tale cattivo stato non lo chiami ingiustizia, ignoranza, viltà e così via? POLO-[c]Senza dubbio! SOCR. Di queste tre cose, dunque, beni di fortuna, corpo, anima, hai citato tre specie di mali: povertà, malattia, ingiustizia? POLO. Sì. SOCR. Ma quale di questi mali è il più brutto? Non è forse l’ingiustizia, in una parola il vizio dell’anima? POLO. Senza, paragone! SOCR. Ma, essendo il più brutto, è anche il peggiore? POLO. Che vuoi dire, Socrate? SOCR. Questo: entro i termini di quanto sopra abbiamo ammesso dobbiamo concludere che la cosa più brutta, sempre, è tale in quanto provoca il più gran dolore o il più gran danno, o l’uno e l’altro insieme. POLO. Proprio così! SOCR. E non abbiamo convenuto ora che l’ingiustizia e ogni altro vizio[d] dell’anima è la cosa più brutta? POLO. Lo abbiamo convenuto. SOCR. Il male dell’anima è, dunque, il male più brutto di tutti, o perché estremamente tormentoso per l’eccesso del dolore, o perché più dannoso, o perché più tormentoso e più dannoso a un tempo? POLO. Necessariamente. SOCR. Ma è più doloroso essere ingiusto, dissoluto, vile, ignorante, ch’essere povero o ammalato? POLO. Non mi sembra, Socrate, che si possa trarre una simile, conclusione. SOCR. La malvagità dell’anima, per il danno mostruosamente grande e per lo straordinario male, superando ogni altro male, è di tutti il più turpe,[e] se, come tu dici, ciò non è dovuto al dolore. POLO. Sembra. SOCR. Ma quello che supera tutto per l’immensità del danno non può non essere che il male più grande. POLO. . SOCR. L’ingiustizia, la dissolutezza, tutti gli altri vizi dell’anima costituiscono, dunque, il male più grande che ci sia? POLO. Sembra!

Passi 506c-507c

SOCR. E tu ascolta: riprenderò, fin dal principio il filo del discorso. Piacere e bene sono la stessa cosa? – No, come io e Callicle abbiamo convenuto. – Ma è il piacere che deve essere usato in funzione del bene, o il bene in funzione del piacere? – Il piacere in funzione del bene – .Piacere è ciò la cui presenza suscita [d] in noi piacere, e bene è ciò la cui presenza ci rende buoni? – Esattamente. – Ma siamo buoni, noi e tutte le cose buone, per la presenza di qualche virtù? – Mi sembra necessario, Callicle! – Ma la virtù propria di qualsivoglia cosa, quella di un arnese, come quella di un corpo, di un’anima, di ogni essere vivente, non si forma a casaccio, ma grazie a un ordine, a una rettitudine, a un’arte, [e] propri di ciascuna cosa: vero? – Direi di sì. – La virtù di ciascuna cosa, dunque, consiste in un ordine e in un’armonia risultante da una giusta proporzione? – Mi parrebbe di sì. – Un ordine, che si venga formando in una cosa, e che, perciò, le sia proprio, non la rende forse buona? – Mi sembra. – Anche l’anima, dunque, che sia ordinata, secondo il proprio ordine, è migliore di un’anima disordinata? – Necessariamente. – Ma l’anima che si venga ordinando secondo il proprio ordine è ordinata? – Senza dubbio. – E assennata [507a]è un’anima ordinata? – Assolutamente. – E un’anima assennata è un’anima buona. Amico Callicle, a tutto questo non ho nulla da obbiettare, ma se tu hai da dire qualcosa in contrario, fammi sapere di che si tratta! CALL.Parla pure, mio caro. SOCR. Bene, e dico che se è vero che un’anima assennata è buona, è altrettanto vero che un’anima, che sia stata determinata in modo opposto alla saggezza, è cattiva: e tale è l’anima dissennata e non castigata. – Perfettamente. – Non solo, ma l’uomo di senno si comporterà come deve di fronte agli dèi e agli [b] uomini: non sarebbe saggio se si comportasse inaltro modo. – Necessaria conclusione. – Agire nei confronti degli dèi è agire piamente, e chi agisce secondo giustizia e secondo pietà è necessariamente uomo giusto e pio. – Proprio così!- E altrettanto necessariamente è coraggioso, ché non sarebbe da uomo di senno ricercare e fuggire ciò che non si deve cercare e fuggire: ma di qualunque cosa si tratti, cose e uomini, piaceri e dolori, fuggirà e cercherà ciò che è bene cercare e fuggire, e, quando sia necessario, resisterà, tenendosi fermo al suo posto. Neces-[c]saria conseguenza, Callicle, è, dunque, che l’uomo di senno, come abbiamo detto, sia giusto, coraggioso, pio, e, perciò, perfettamente buono, e che, appunto in quanto buono, tutto quello che fa lo fa bene, virtuosamente, e che necessariamente beato e felice è chi agisce bene, mentre infelice è il malvagio in quanto agisce male; tale è chi sia l’esatto opposto dell’uomo di senno, quel dissoluto che tu dianzi esaltavi.

Socrate riprende il discorso

Passi 508e-509e

SOCR. Io sostengo, Callicle, che l’essere ingiustamente preso a schiaffi non è la cosa più [e]che ci sia, né l’aver tagliato il corpo e la borsa, ma che più brutto, più malvagio è battermi, ferirmi, derubarmi, ingiustamente, che cioè derubarmi, ridurmi in servitù, violare il mio domicilio, fare, insomma, violenza contro di me e contro le mie cose, è più brutto, è peggio per chi commette tali ingiustizie che per me che le subisco. Tali punti di arrivo, che già dai precedenti ragionamenti sono risultati non poter essere che giusti, stanno lì, come [509a] dico io, se troppo grossolana non è l’espressione, fissi e incatenati con ragioni di ferro e di adamanto – per quanto almeno sembra fino ad ora -, e se tu, o altro più ardito di te, non riuscirai a rompere tali ragioni, non si può, a voler pensare come si deve, se non giungere alle conclusioni cui sono giunto io. Ad ogni modo, ancora una volta lo ripeto, io non so affatto come in realtà stiano le cose, ma questo sì, lo so, che ogni qual volta mi sono incontrato con qualcuno, come ora con voi, nessuno, mai, ha parlato in maniera diversa, senza coprirsi di ridicolo. Io, dunque [b]pongo che così stiano le cose: se così sono, se l’ingiustizia è per chi la commette il più grande dei mali, se male ancor più grande – fosse possibile! – è non pagare alla giustizia i propri debiti, quale l’aiuto che l’uomo deve dare a se stesso, se non vuole ricoprirsi davvero di ridicolo? Non forse quell’aiuto che serva a salvarci dal danno più grave che ci sia? Questa, fatalmente, è la più vergognosa mancanza che possa capitare: non poter venire in aiuto a noi stessi, agli amici, ai propri familiari; mentre, in secondo luogo, si presenta l’impotenza di venirci in aiuto contro il [c]secondo male, in terza posizione l’incapacità di difenderci dal terzo malanno, e così via di séguito. Quanto grande, in una parola, è il male, tanto grande è la bellezza di poterci venire in aiuto e tanto grande la vergogna di non poterlo. È o no così, Callicle? CALL.Proprio così!

SOCR. Di questi due mali, dunque – commettere e subire ingiustizia – , io sostengo che maggiore è commetterla, minore subirla. (υοῖν οὖν ὄντοιν, τοῦ ἀδικεῖν τε καὶ ἀδικεῖσθαι, μεῖζον μέν φαμεν κακὸν τὸ ἀδικεῖν, ἔλαττον δὲ τὸ ἀδικεῖσθαι) Di cosa, allora, dovrà preoccu-[d]parsi l’uomo per procurarsi un aiuto nei confronti dell’uno e dell’altro male, sia contro il commettere ingiustizia sia contro il patirla? Potere o volere? Voglio dire cioè: basterà che non voglia, perché non gli venga fatta violenza; o, invece, non gli verrà fatta violenza solo se riuscirà a procurarsi il potere di evitarla? CALL. Chiaro, solo in questo modo, se riuscirà a procurarsi il potere! SOCR. E come farà per non commettere ingiustizia? Basterà che [e]non voglia essere ingiusto, per non commetterla, o, invece, anche per questo, dovrà procurarsi una qual certa capacità e un’arte, senza apprendere, senza esercitare le quali seguiterà a commettere atti ingiusti?

Non la morte ma l’ingiustizia deve spaventare

Passo 522b-522e

SOCR. Se mi si accusasse poi che corrompo i giovani, angosciandoli con le mie questioni, o che offendo i vecchi dicendo su di loro, sia in privato che in pubblico, cose troppo pungenti, non potrei rispondere la verità – cioè: parlo come è giusto che parli, e, giudici, io faccio [c]il vostro stesso interesse -, né altro potrei dire, onde, probabilmente, mi accadrà quello che mi deve accadere. CALL. Ma Socrate, ti sembra bello che un uomo, nella sua città, si trovi in simile condizione e non abbia la possibilità di difendere se stesso? SOCR. Sì, Callicle, purché gli rimanga quell’ultima difesa, sulla quale tu sei rimasto più volte d’accordo! ch’egli sia venuto in soccorso di se stesso, non avendo mai detto, non avendo mai fatto cosa ingiusta [d]né verso gli uomini né verso gli dèi. Che questo sia il più valido aiuto che si possa dare a se stessi, già lo abbiamo ammesso più volte. Se mi si dimostrasse, dunque, che non sono capace di dare questo aiuto a me e ad altri, allora sì che mi vergognerei di una simile dimostrazione, sia di fronte a una gran folla, sia a poca gente, sia solo di fronte a me solo, e se a causa di questo mio non sapermi difendere dovessi essere condannato a morte, oh se mi dispiacerebbe morire! Ma se fosse per mancanza di retorica adulatrice che dovessi morire, sono convinto che serena-[e] mente mi vedresti affrontare la morte. Nessuno, che sia totalmente irragionevole, che non sia uomo davvero, ha paura della morte; l’ingiustizia, piuttosto, deve spaventare: il supremo di tutti i mali è che l’anima nostra giunga all’Ade carica di ogni ingiustizia. (τμν γρ τἀποθνσκειν οδες φοβεται, στις μὴ παντάπασιν λόγιστός τε κανανδρός στιν, τδδικεν φοβεται· πολλν γρ δικημάτων γέμοντα τν ψυχν ες ιδου φικέσθαι πάντων σχατον κακν στιν).

Socrate, pur riconoscendo la difficoltà di afferrarne completamente il senso, ci mostra l’importanza dell’opporsi all’abbandono della verità. Solo inseguendola infatti, potremo trovare quella luce in grado di guidare l’agire umano.

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