di Gilda Y. Diotallevi
In occasione della mostra fotografica dell’artista Francesca Consoli abbiamo discusso sul valore della fotografia di viaggio. Lo spunto ci è stato fornito da questo lavoro della Consoli che, in tredici scatti, esplora la questione della memoria e del viaggio stesso.
Reflex en voyage, titolo dell’intero progetto, rappresenta un manifesto esemplificativo su passione e metodo. Le differenti tecniche fotografiche sperimentate negli scatti sono funzionali al ricordo, al risveglio di una memoria che da privata diventa essenzialmente una testimonianza condivisa.


La fotografia di viaggio, dalla sua nascita fino a oggi, ha subito profondi cambiamenti non solo riguardo l’aspetto tecnico-scientifico ma anche per ciò che concerne il suo scopo. Nata per assolvere a una funzione documentale, capace di riproporre la natura così com’era senza cioè l’apporto dell’artista che la ritraeva, finisce oggi per essere tramite di un ricordo privato. La sua vocazione iniziale si diluisce attraverso la facilità di scattare e riprodurre immagini. Sembra così che la sua natura venga minata dall’interno e che a prendere il sopravvento sia la moda del viaggio, del presenzialismo, piuttosto che l’unicità e la straordinarietà.
La domanda che vorrei perciò porle Francesca è se oggi sia ancora possibile che una foto trattenga in se stessa sia l’elemento documentaristico che quello dell’impressione personale oppure se questo tragitto della fotografia l’abbia completamente snaturata. Se cioè la foto di viaggio sia ancora capace di trattenere in se stessa quella allure iniziale, quel gusto per l’esotico che pare, anche in correlazione con la nascita del digitale e della riproduzione immediata di scatti, essersi esautorata.
FC: «Se penso alla storia della fotografia di viaggio dai suoi albori certamente sembra essersi snaturata. L’avvento del digitale ha infatti ancor più facilitato un proliferare infinito di fotografie e fotografi che non necessariamente però deve essere visto con negatività. Tutto è diventato più facile, si è persa quella dimensione elitaria iniziale ma allo stesso tempo tutto è diventato ancor più fruibile e con maggiore facilità veicola passione e curiosità. Anche il fatto che sia aumentata, nel tempo, la possibilità di viaggiare ha influito sul cambiamento, anzi sono certa che vada di pari passo. Man mano poi che la tecnologia si è evoluta, si è alleggerita, la fotografia in generale, quindi anche quella di viaggio, è diventata qualcosa di molto più fruibile.
Oggi si viaggia per piacere, per lavoro, come esperienza culturale, gastronomica con una facilità e accessibilità economica che prima non era pensabile. Ciò permette alle persone di riconoscersi con maggiore facilità nel proprio, di portare a casa ricordi di una precisa esperienza.
Le mie fotografie sono in realtà anche il frutto di questo. In ogni scatto che ho esposto, è come se avessi una madeleine proustiana, perché attraverso la vista di una foto ricordo tutte quelle emozioni, tutti quei profumi, quei momenti che ho vissuto in quel viaggio. Non solo in quella singola fotografia ma in quel viaggio.
Forse anche perché ho tutto il pensiero come racchiuso in un piccolo quadro. Ho una visione del mondo a riquadri e non soltanto quando sono in viaggio ma anche quando cammino, vivo, anche questa sera vedo voi già in foto, pronti al taglio giusto dell’immagine. Mi viene spontaneo, ancor più quando sono in giro con la macchina fotografica che mi permette fattualmente di riproporlo.»
Quindi potremmo sostenere che se da un lato è innegabile che un certo cambio di natura vi sia stato, dall’altro esso stesso è stato l’artefice della creazione di un mondo alternativo.
FC: «È esattamente così. Se l’originale essenza della fotografia di viaggio si è snaturata, questa stessa stortura ha permesso a noi di arricchirci. Ci ha donato qualcosa, ha reso le persone capaci di una condivisione prima inimmaginabile, ci ha avvicinati nel privato, tramite la passione stessa.»


Questa sera lei presenta 13 scatti, ma sarebbero potuti essere altri e di numero molto superiore. Perché proprio questi? Credo la domanda sottesa sia in realtà un’altra, ovvero perché una foto crei un certo interesse e un’altra no. Vorrei riportare un passo di Roland Barthes che, nel testo ‘La camera chiara’, si occupa proprio di questo problema.
«Perché una certa foto crea un interesse? […] è piuttosto un’agitazione interiore, una festa, un lavorio se vogliamo, la pressione dell’indicibile che vuole esprimersi. E allora? Chiamarla interesse è poco. […] allora vorrei sapere che cosa, in quella foto, fa fare tilt dentro di me. Mi pareva che la parola più giusta per designare l’attrattiva che certe foto esercitano su di me fosse la parola avventura. La tale foto mi avviene, la talaltra no. (pp. 20-21)»
E ancora.
«[…] i due elementi, la cui copresenza sembrava fondare quella specie di particolare interesse che io avevo per quelle fotografie» consistevano, secondo Barthes, l’uno nello studium, ovvero il campo d’interesse, l’altro nel punctum, ovvero in quell’elemento che viene a infrangere (o a scandire) lo studium. «[…] in questo caso non sono io che vado in cerca di lui ma è lui che, partendo dalla scena, come una freccia, mi trafigge. […] infatti il punctum è anche: puntura, piccolo buco, macchilona, piccolo taglio. Il punctum di una fotografia è quella fatalità che, in essa, mi punge, ma anche mi ferisce, mi ghermisce. (pp. 27-28)»
Quindi, una volta stabilito la fotografia di viaggio come suo studium, come cioè ristretto campo di un sapere, che cosa l’ha ferita al punto far cadere la sua scelta su alcuni scatti?
FC «Quando mi sono trovata a dover scegliere ho individuato un filo conduttore. Il colore. Mi sono sorpresa da sola, perché nel momento della scelta, che mi sembrava complessa, posavo di più lo sguardo su alcuni scatti che avevano o esplosioni di colori o un bianco e nero più freddo, con maggiore contrasto. Stavo scegliendo irrazionalmente forse, ma avevo trovato un criterio.
L’essere colpita da qualcosa è raro, ma quando accade è come se ciò che avrei voluto fare si condensasse in un punto. E quel punto rappresenta esattamente come io vedo città e luoghi. Faccio un esempio. Il quadro intitolato Pietralata, che ritrae appunto il medesimo luogo, ovvero un posto che pare diventato una città a se stante e che mi ha trasmesso il senso della duplicità. Da un lato infatti era ancora viva la decadenza, ma dall’altra c’era il contrasto con alcune baracche circondate da tantissimi locali moderni, da luci e suoni. Cercavo qualcosa che mi colpisse in tal senso e credo di averla trovata. Mentre perciò la foto che ritrae Trastevere potrebbe riferirsi alla Roma di tanti angoli differenti, questa foto indica solo Pietralata, solo quel luogo capace di coniugare insieme modernità e degrado.»
Visto che ha citato proprio questo scatto, vuole parlarcene di più?
FC «Lo scatto intitolato appunto Pietralata, è quello che forse assomiglia di più a un quadro. Una insegna caduta per il maltempo e comunque mai riparata. I suoi frammenti, così tanto luminosi, mi hanno fatto vedere qualcosa. Quella era per me Pietralata, i frammenti di luce nel nero della strada, nella povere della pioggia. I pezzi si trovano da soli così, così ha fermato quella casualità che sembrava racchiude il tutto.»

Lei ha citato il rapporto con la pittura. In realtà la fotografia, come ha perfettamente premesso, non può essere trattata alla stregua della pittura, che vive di tecniche e di parametri già consolidati nel tempo. Nella fotografia il discorso è differente. Per tornare al testo di Barthes, che in un certo senso ci sta guidando in questa nostra discussione, il filosofo rivendica nella fotografia, rispetto alla pittura, un infra-sapere, la possibilità cioè di accedere a qualcosa. «Poiché la Fotografia è contingenza pura e poiché non può essere altro che quello […] essa consegna immediatamente quei particolari che costituiscono precisamente il materiale del sapere etnologico. […] La Fotografia può dirmelo, molto meglio dei ritratti dipinti. Essa mi permette di accedere a un infra-sapere». Lei Francesca si trova d’accordo con questa posizione?
FC «Non so dire esattamente cosa differenzi una foto da un quadro, ma ciò che posso asserire con certezza è che per me la macchina fotografica mi permette di esercitare una magia, di racchiudere un pensiero, una sensazione. E che, al contrario, quando osservo le foto dei grandi maestri, di chi è venuto prima di me o quando osservo le foto di mio padre (n.d.r. il grande fotografo Carlo Consoli) è come se qualcosa avvenisse in me. Vengo portata altrove.»
Pensi che la tecnica, tu hai usato in realtà tecniche diverse per questi scatti, possa attrarre l’attenzione, possa fungere da catalizzatore o sei contraria a una eccessiva manipolazione della pellicola.
FC «Per rispondere prendo ad esempio il fotoritocco che oggi ti permette di fare praticamente tutto su una foto e che però al tempo stesso può snaturare anche tutto. La pellicola riesce ancora a mostrare il suo valore. Io faccio sempre un paragone un po’ forte. Penso alla formula uno di venticinque anni fa in cui le macchine era già forti ma era il pilota a fare davvero la differenza. Così nella fotografia con la pellicola era più difficile ingannare, ciò che riuscivi a fare con lo sviluppo potevi aggiustarla con la saturazione, la luce, ma non potevi tornare indietro. La foto era lì, era quella. Non potevi migliorarla.
Adesso la formula uno è diventata tutta macchina, e la tecnologia supera le abilità del pilota. Non che il divertimento sia minore ma è diverso. Nello stesso modo il fotoritocco permette, da una singola foto, di creare l’impossibile. Aggiungere persone, cambiare ambientazione. È divertente ma non è la fotografia.
Certo, con il digitale è tutto più semplice, anche il lato della comunicazione della foto. La loro possibilità di girare è quadruplicata, ma nulla è paragonabile a toccare con mano una foto.»
Quale è, sempre che ci sia, una foto che vorrebbe fare ma che ancora non ha fatto?
FC «C’è una foto che vorrei scattare, i colori in India. Da tanto studio e colleziono libri di fotografia sull’Idia che regalano scorci e colori unici. È un viaggio che non ho fatto, nonostante abbia avuto la fortuna di viaggiare tanto nella mia vita. Sarà il mio prossimo tema di lavoro, perché c’è qualcosa di preciso che vorrei fare, è nella mia mente, ma ancora non so cosa sia. Con me è sempre così, rimango estasiata dal Taj Mahal ma magari poi fotografo il sasso sotto il tempio che per me è simbolo del tutto.»
Dopo aver visto i quadri, alcune persone hanno rivolto a Francesca alcune domande. Ne riportiamo alcune.
Quanto conta l’improvvisazione quando scatti una foto o quanto invece ti fermi a studiare il soggetto.
FC «L’immediatezza dei miei quadri mi assomiglia. Sono istintiva. Ci sono due scuole di pensiero nella fotografia. Chi crea un set; quella foto deve essere così e crea uno spettacolo. E poi c’è chi come me improvvisa. Coglie quel momento. Posso attendere, anche molto tempo, ma non costruisco. Spero che quella fotografia rispecchi quel momento che ho intravisto. Perché in un secondo può cambiare tutto, la luce, il colore, il soggetto stesso. Esemplare in tal caso è lo scatto intitolato Madrid, a cui sono molto affezionata. Ricordo come fosse oggi quel momento. Faceva freddissimo in quella piazza in cui si era ricreata come una luce soffusa e offuscata, mia attenzione è stata rapita da una insegna rossa. Mentre la osservo è passata una ragazza con la valigia rossa. In un istante, prima ancora che riuscissi a decidere, già avevo scattato. Quella ragazza stava passando in quel momento, solo in quel momento.»

Mentre ci siamo conosciuti prima, mi ha detto di essere poco incline alla pubblicità, al parlare e mostrare gli scatti in pubblico. Quanto la intimidisce mostrare questa parte intima.
FC «Ha ragione. Ma la mia è ritrosia, forse dovuta anche al fatto che sono una foglia d’arte e che mi sento in continuo confronto con chi è venuto prima di me. Il mio modo di guardare il mondo è tale, proprio perché sono cresciuta attraverso al fotografia, è un codice personalissimo. Non sono timida di mio, vale solo per la fotografia che ricrea perfettamente il mio mondo interiore e che quindi mi metto a nudo.»

Conclusione
Per tornare alla foto di viaggio e alla evoluzione e trasformazione che questa specifica categoria della fotografia ha subito nel tempo, potremmo concludere sostenendo che l’’accessibilità al sapere e la facilità nello scatto che la tecnologia ci ha donato lasciano nelle mani dell’individuo la possibilità altissima di conoscere mondi o quella, più banale, di fotografarli solamente.
In fondo le foto banali sono quelle che non riescono a esprimere il non detto, che sprecano la grande possibilità dell’arte, quella di far venir fuori l’indicibile.









Ischia
Fiori vivi ringrazia:
- Francesca Consoli per i suoi splendidi lavori.
https://www.instagram.com/fr.consoli
- La libreria Le Storie per il suggestivo allestimento.
- Tutti coloro che, sfidando un tardo pomeriggio di pioggia a Roma, ci hanno onorato della loro numerosa e partecipe presenza.
La mostra è ancora visitabile per tutto il mese di dicembre presso la libreria Le Storie, Via Giulio Rocco 27/39 00154 Roma https://www.lestorie.it/