di Gilda Y. Diotallevi e Giada Zaccardi
Riproponiamo uno stralcio della tavola rotonda su Italia e Giappone avvenuta in occasione della presentazione, da parte della rivista Fiori Vivi, del progetto culturale Nodo.

Una premessa
Non è stato facile confrontare lingue e culture così distanti tra di loro come l’italiano e il giapponese, né tanto meno discutere su due piani diversi, filosofico da un lato e linguistico dall’altro, ma l’intento era quello di creare connessioni e spunti di riflessione.
Abbiamo affidato questo compito a due studiose: Gilda Y. Diotallevi, per la base teorico-filosofica del problema e a Giada Zaccardi, per i riflessi pratici che una linguista incontra nel proprio cammino.
Ne esce un quadro complesso che, al di là degli approcci metodologici e le necessarie generalizzazioni, pone in risalto l’aspetto antropologico, esistenziale dell’uomo, a riprova che nonostante le molteplici differenze, ognuno di noi partecipa alla stessa dimensione vitale.
Ciò che unisce e ciò che differisce
G.Y.D «L’intento che mi propongo è quello di creare una base teorica/filosofica su cui poi intrecciare un discorso linguistico.
Quando abbiamo fissato il tema della nostra discussione ho cominciato a riflettere su cosa significasse tecnicamente mettere a confronto, ovvero verificare, tra due elementi, ciò che essi hanno in comune (a) e ciò che li divide (b).
(a) La ricerca di qualcosa che unisca lingue diverse, soprattutto due così distanti come l’italiano e il giapponese, richiama alla memoria il concetto di lingua comune.
Molti filosofi si sono interrogati sulla esistenza o meno di una lingua, di una radice comune che potesse racchiudere o da cui potessero poi discendere tutte quante le innumerevoli lingue. Questo tipo di pensiero è alla base di molti miti fondativi, addirittura le Sacre Scritture prevedono nella genesi la nascita di un unico linguaggio che poi, come forma di punizione, verrà dissipato. (Genesi 11: Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole…Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una stessa lingua… Confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro…)
Per avvicinarci alla nostra filosofia citerei Shelling, Kant, Descartes o Rousseau, che discusse ampliamente sull’origine della lingua, benché poi, per sua stessa ammissione si dichiarò incapace di farlo in modo soddisfacente. Il filosofo non aveva gli strumenti adatti per poter continuare questa indagine, che invece sviluppò ampliamente, anche alla luce delle successive scoperte in campo scientifico, psicologico, genetico e biologico Noam Chomsky.
Verso la metà del secolo scorso Noam Chomsky teorizza la grammatica universale generativa, in base alla quale le nostre competenze linguistiche sono determinate da una grammatica innata, da uno schematismo generale che governa il comportamento di ogni lingua.
Ci si chiede come sia possibile accomunare, grammaticalmente parlando, due aree tanto distanti come quella della lingua giapponese e italiana. Chomsky, per rispondere a tale quesito, sposta il problema sul lato mentale della lingua.
La lingua è, secondo Chomsky, prima di tutto un atto mentale. La conoscenza che soggiace alla capacità dell’individuo di poter parlare, ascoltare, porre in essere il linguaggio, è qualcosa che non si apprende ma è innata.
Se è qualcosa di innato, è presente biologicamente in ciascuno di noi e quindi del tutto indifferente risulta l’essere nati in oriente o in occidente.


Per comprendere meglio la posizione di Chomsky, ripartiamo dalla definizione di lingua come un insieme di frasi, ciascuna costituita a partire da un insieme finito di elementi. (N. Chomsky, Syntactic Structures 1957) Si parte da un certo insieme di elementi-base e se ne considerano le combinazioni, perché non tutte le possibili sequenze di tali elementi costituiranno la lingua, ma solo quelle corrette.
Si tratta perciò di costruire un sistema, nel nostro caso la grammatica, che generi nel senso logico-matematico del termine tutte e solo le frasi grammaticalmente corrette. E sarà proprio la mente a costituirsi come sistema e a presiedere tali meccanismi in grado di dire quali combinazioni saranno appartenenti all’ambito della lingua e quali no. Più in generale potremmo dire che la mente si costituisce in sistemi organizzati non solo per quanto riguarda la lingua ma in tutto (pensiamo alla capacità dell’uomo di respirare o di camminare, non la apprendiamo ex-post ma è qualcosa che abbiamo come forma innata).
L’uso effettivo del linguaggio, la capacità di emettere dei suoni, di parlare e comprendere l’altro è possibile solo perché si presuppone un sistema sottostante che regola questa capacità, che conferisce, attraverso la sua realizzazione, la capacità di parlare e di ascoltare.
La conseguenza perciò di tale posizione, ovvero del considerare la lingua come competenza innata, frutto di una internalizzazione del sistema nel cervello del parlante, rende tale competenza astratta e le differenti forme grammaticali come neutrali rispetto al parlante e all’ascoltatore: in altre parole esiste qualcosa che unisce le lingue indipendentemente dall’uso dei singoli parlanti.
(b) Sul versante opposto troviamo invece quelle teorie, per la verità moltissime, che considerano le nostre due lingue a confronto assolutamente non accomunabili. Ne citerei due, utili anche ai fini del proseguo del nostro discorso.
1) – si contrappone, non posso dire che critichi perché temporalmente è precedente, lo Strutturalismo. Ferdinand Saussure crede che il significato non dipenda da concetti che sono dati – idealisticamente e biologicamente – all’interno della mente, ma che esso sia in funzione dell’uso che ne fa una certa comunità. Non ci si deve attenere al sistema, al metodo, alla sintassi (sun taxis, ovvero qualcosa che connetta i vari elementi), ma quello che dobbiamo considerare quando parliamo della lingua sono la significazione e la semantica, ovvero i segni e i significati.
La lingua è composta da alcune parole che hanno valore e senso per quella comunità di riferimento che le usa, non in modo assoluto. Quindi per Saussure il linguaggio è convenzionale, storicamente determinato, perché dipende da quella singola società in cui viene posto in essere, e l’insieme delle regole, dei significati, la semantica e i simboli che valgono per una comunità e sono in essa radicati antropologicamente, non valgono anche per un’altra.


2) – la Sociolinguistica, ovvero quella branca della linguistica che si occupa principalmente della connessione tra individuo società e linguaggio. Descrivendo l’uomo non come identità singola ma come identità sociale, muovono la maggiore critica a Chomsky, in quanto la sua teoria sembra sottovalutare proprio il contesto sociale. Non esiste solo la grammatica, ma esiste tutta una serie di elementi anche extralinguistici che influiscono e differenziano le lingue dentro la categoria lingua. Gli usi e i comportamenti linguistici sono creditori della struttura sociale e dei rapporti sociali, perciò la lingua non riflette soltanto ma crea fatti e rapporti sociali all’interno di una certa e specifica comunità di riferimento. Ciò che varrà per la lingua italiana, non potrà valere per quella giapponese.»
Ciò che vorrei sapere ora dalla Dott.ssa Giada Zaccardi è se, in base alla sua esperienza di linguista è possibile considerare la lingua come dotata di qualcosa di universale o se invece, lavorando sulla messa in pratica del linguaggio, dobbiamo discostarci dalla prima teoria e ripartire dalla loro giusta separazione.
G.Z «Sono dell’idea che il contesto e la lingua si influenzano vicendevolmente.
Tutta la sociolinguistica, dagli anni Settanta in avanti ha deciso che fosse questo l’approccio più realistico.
Le politiche linguistiche ed educative in Italia prima, erano tutte incentrate sulle lingue morte, sostanzialmente latino e greco e succedeva che la lingua si studiava nello stesso modo della storia. Quando la società è cambiata e si è aperta al viaggio e all’incontro, si è dato il via allo studio delle lingua cosiddette vive e ci si è resi conto che non sarebbe bastato studiare le regole sul libro ma bisognava vedere dove vivevano queste lingue, cosa dicevano e parlavano queste persone. Quali erano i loro usi e costumi, tanto che dagli anni settanta si sono diffusi in Italia anche i nastri per ascoltare i roleplaying, una situazione tipo che veniva simulata per chi non poteva muoversi e apprendere sul posto. Tutto ciò succedeva Dagli anni ‘70 con le lingue europee, le prime che per vicinanza si sono incontrate e poi con le lingue orientali.
All’inizio più difficile anche per i viaggi, ma poi anche grazie all’arte (pensiamo allo Japonisme) ci si è avvicinati sempre di più.

Non so se sia nata prima l’influenza della lingua sulla mente o viceversa, sarebbe come risalire all’origine, ma sono sicura che attualmente chi nasce madrelingua in un luogo si forma anche un pensiero che si esprime in quel modo proprio perché esistono quelle categorie tipiche della sua lingua di riferimento.
Posso fare qualche esempio:
– in giapponese non esiste il genere. Non c’è il maschile e il femminile. In italiano per noi tutto ha genere. Il libro è maschio, la penna è femmina ad esempio. Nella nostra mente perciò si struttura un pensiero che deve organizzarsi coordinando tutto dall’articolo al sostantivo, all’aggettivo, tutto in funzione di quel genere. Oggi si parla anche della e rovesciata che si sta studiando per essere inclusivi nel linguaggio. Al di là della questione politica, riuscire a leggere un testo in italiano con la schwa è difficilissimo, perché siamo abituati in maniera diversa.
In Giappone questa questione non avrebbe senso di esistere perché nessuno in realtà si pone questo problema. È tutto neutro a parte le persone e gli animali.
– non ci sono singolare e plurale, mostrando come la lingua italiana si presenti più dettagliata e precisa al contrario di quella in giapponese che risulta invece piuttosto fumosa.
La struttura della comunicazione è diversa. Se in Giappone dico che ho visto che un amico o più amici, un amico maschio e due amiche femmine, non riesco a capirlo. Non si può dedurlo almeno che non si facciamo ulteriori domande specifiche. Per noi è proprio diverso.
– In Giappone c’è un interesse quasi morbosa per la sicurezza in cui le persone parlano. Tutti vogliono sapere quale sia il grado di certezza con cui si afferma qualcosa. Al contrario dell’italiano in cui sappiamo già tutto. È bello, piove, nevica. Non ci preoccupiamo di come lo esprimiamo. In giapponese ci sono circa una decina di sfumature per indicare il grado di congettura: se una cosa la sai perché l’hanno riferita, l’hai vista, te lo hanno raccontato, l’hai vissuta, c’eri, te l’hanno riferita. Tutta una serie di micro sfumature per rendere all’altro come hai preso quell’informazione quanto ne sei sicuro. Per noi è tutto un presente indicativo!
– in Giappone non esiste il verbo avere. Per noi è centrale. Noi possediamo tutto. Ho un fratello, ho un fidanzato, ho una famiglia. La forma mentis entra in gioco. Come si fa a dire che si ha un fratello senza usare il verbo avere. Senza il senso della possessione. In giapponese si esprime con i verbi di esistenza.
In Asia le cose esistono, non sono mie. Esiste un fratello, una famiglia….
C’è solo un verbo che si avvicina al nostro avere che è traducibile con ho in mano, sto portando ma che manca di quell’animus possidendi tipico del nostra mentalità. (Pensiamo ai diritti reali). È talmente diverso il linguaggio e quindi anche il pensiero si articola diversamente in tal senso. Per noi è difficile trovare come esprimersi senza tradurre letteralmente.
-è una lingua composta da ideogrammi (kanji), i caratteri cinesi per intenderci. Questi caratteri sono disegni, simboli e invece di una parola ci si trova di fronte un simbolo. A noi succede ad esempio con i segnali stradali, il divieto d’accesso è reso, non come una frase ma con un disegno. È molto più d’impatto. Basta vederlo e ci è chiaro.
Loro perciò ragionano per concetti visivi. Il giapponese ha una forma. Se anche non ho capito la frase ho già capito dove è il verbo, quale è il concetto che esprime… in italiano no. Se non leggo tutto il testo non posso orientarmi. Soprattutto nello scritto è molto più forte, accorciano tutto e lasciano solo gli ideogrammi.
Diverso approccio, diverso è il modo di disegnare il pensiero.»
Parlare, ascoltare, comprendere
G.Y.D «Da quanto affermato possiamo dedurre che i problemi nascano proprio nel momento dell’interazione verbale, lì dove cioè la competenza teorico-linguistica si scontrerà con la sua messa in pratica in un contesto specifico.
Tutte le teorie linguistiche contemplano, anche se con nomenclature differenti, una contrapposizione tra l’uso pratico (processo effettivo del linguaggio) e la parte teorico-grammaticale, (competenza linguistica).



D. Hymes negli anni Settanta, in opposizione alla competenza linguistica astratta di un parlante nativo ideale postulata da Chomsky, elabora la competenza comunicativa, “una competenza riguardo a quando parlare, a quando tacere, e riguardo a che cosa dire, a chi, quando, dove e in qual modo.” (D.H. Hymes, On Communicative competence, pp. 269-263, 1972)
È come se al di là e a partire dalla competenza grammaticale, l’interazione verbale richiamasse in gioco fatti linguistici, sociali, antropologici, semiotici, etnografici, psicologici e pragmatici, tutti ugualmente funzionali alla comunicazione vera e propria.
Prendono perciò vita una serie di sotto competenze che dividerei, per praticità, in tre macro aree:
– la conoscenza delle regole della società in cui si vive, la conoscenza delle norme di una comunità
– la conoscenza dei valori simbolici e sociali dei comportamenti linguistici (da cui derivano peraltro problemi di ambiguità e fraintendimenti grandissimi, incidenti diplomatici sulla diversa significazione che si dà a un gesto o a un comportamento)
– la pragmatica, ovvero tutta quella serie di comportamenti e modi (prosodia, movimenti, gesti, atteggiamenti, posture…)»


Il giapponese nello specifico, codifica tutta questa serie di competenze comunicative. Mi piacerebbe che Lei facesse degli esempi di sotto-competenze, che si riferisse cioè a tutta quell’area extra-linguistica che, in realtà, rende possibile il linguaggio e la comunicazione dello stesso.
G.Z «Questo è un argomento centrale. Sicuramente in giapponese non parlare è importante quanto parlare, il non dire quanto il dire. C’è un proverbio famoso 空気を読む (kūki wo yomu, traducibile come leggere l’aria), perché vige una regola non scritta che è quella di non mettere mai nessuno in condizione di essere brusco. Bisogna sempre mantenere un’armonia tra le persone.
Prima di chiamarsi Giappone 日本 (nihon) con i caratteri che usiamo oggi, si utilizzavano altri caratteri大和 (yamato) che sono i caratteri di grande e armonia. Da qui si evince l’importanza di questa dimensione. Non si deve mettere nessuno in difficoltà, non dobbiamo spingere l’interlocutore a rifiutare, ad essere duro nei nostri confronti. Al contrario di come avviene spesso in occidente, per cui si indica qualcuno come sgarbato, in Giappone si comincia da se stessi e quindi sono io che non devo mettere in difficoltà gli altri. Questo significa che devo leggere tra le righe, l’atmosfera, quello che ho intorno e prevedere la situazione e girarci un po’ intorno. Spesso nelle frasi alcune cose non si dicono ma si devono far intendere. Ecco la difficoltà per noi, per chi non è madrelingua, riuscire a entrare in questa dimensione, nel non detto del linguaggio e dei comportamenti. Ci sono tantissimi silenzi, che per altro sono molto accettati e non rappresentano nulla di strano mentre per noi hanno un peso diverso, e in particolare anche quando si comunica non si interrompe mai. Tutti sono in silenzio fino alla fine della tua frase. Ci si chiede se siano quindi tutti molto più educati di noi? In realtà no, e si può qui notare come la sintassi influenzi il comportamento, è che in giapponese il verbo è alla fine della frase. Interrompere significherebbe non capire perfettamente l’interlocutore.
Un altro aspetto che vorrei sottolineare è che in Giappone non si rifiuta mai. Non si dice mai no. Esiste una parola magica ちょっと (chotto) che una volta imparata la si vorrebbe usare anche in italiano. Letteralmente è traducibile con un po’, ma è una parola che si usa quando vogliamo tirarci fuori da una situazione scomoda. Facciamo un esempio pratico, quando qualcuno ti chiede se vuoi andare al cinema e non sai cosa rispondere, puoi pronunciare la parola chotto e la conversazione si chiude. In italiano questo sarebbe impossibile!! È un segnale più comportamentale che verbale, non volendo dire nulla di certo la parola in se stessa, ma indica che non si vuole più parlarne.
Leggere l’aria è un mantra, bisogna entrarci dentro ed essere in grado di capire questa parte della conversazione che rimane maggiormente nebulosa. Il nostro contrario.»
G.Y.D «A me interessava in particolare una categoria della competenza comunicativa, ovvero la cortesia (politeness linguistica). In tal caso credo sia evidente la differenza tra oriente e occidente. Per noi quando parliamo di cortesia siamo nell’ambito dell’opportunità, dello stile. (R. Lakoff, nel suo contributo La logica della cortesia 1978, affianca al monito di Grice del Sii chiaro, la logica della cortesia del Sii cortese, considerati imperativi anche nella scrittura pubblica efficace.) Il massimo di approccio cortese che possiamo avere verso l’altro è di natura lessicale, l’uso della terza della terza persona o del voi al posto del tu (della seconda persona) o l’uso di allocuzioni particolari, forme di saluto o referenti titoli onorifici. So invece, per certo nella lingua indiana ma credo anche per il giapponese, che questo elemento della cortesia diventi una vera e propria categoria grammaticale.»
Può parlarci di questo particolare aspetto?
G.Z «Per dare l’idea di quanto sia importante la cortesia basta sapere che la prima forma verbale che si studia in giapponese si chiama 丁寧語 (teineigo, traducibile come linguaggio di cortesia). Non si chiama presente indicativo ma linguaggio cortese, quindi è evidente la sua portata. Quando ancora non sai cercare il verbo nel dizionario all’infinito, già studi il linguaggio cortese. In realtà è la forma che ti permette di parlare con tutti perché al di sotto di questa categoria c’è solo la forma colloquiale che però si può usare solo tra persone strettissime.
La cortesia permea tutto il linguaggio e tutta la cultura, che stiamo scoprendo essere così legate, in particolare tutti i rapporti si basano su due insiemi: 内 (uchi: dentro) e 外 (soto: fuori). Io sono dentro al gruppo di persone che mi sono accanto e tutto il resto del mondo è fuori.
Non ci sono quasi mai rapporti orizzontali, perché c’è sempre un sopra o sotto di me, allo stesso livello è raro, deve essere un gemello o un coetaneo molto stretto, perché già con sei mesi di differenza diventi un 先輩 (senpai, traducibile come compagno più grande) con cui si parla quindi in modo cortese.
Addirittura se parlo con qualcuno di vicino o lontano a me cambio il modo in cui ci parlo. Più che coniugare i verbi standard la difficoltà è sapere che relazione ho con la persona con cui sto parlando e con quella di cui sto parlando? A seconda della risposta dovrò cambiare registro verbale.
Ci sono tre livelli, tre registri linguistici: quello colloquiale, che abbiamo capito essere utilizzato con pochissimi, quello cortese e quello onorifico. In quest’ultimo, che non dobbiamo pensare essere un registro non utilizzato nella quotidianità perché anche al supermercato ti si possano rivolgere così, ci sono a loro volta due linguaggi, ovvero quello onorifico per gli altri e umile per me. Non solo io devo alzare l’altro ma devo umiliare me per essere in grado di rivolgermi all’altro nel giusto modo.
Senza conoscere questi schemi, a parte che si risulta maleducati e molto presuntuosi, non si può proprio parlare. Anche i verbi dare e avere che usiamo tutti spessissimo sono diversi a seconda che stia dando qualcosa a uchi o soto. Nel primo caso sarà un verbo che alza (anche graficamente si scrive con il carattere di sopra, perché sono in basso). Se invece qualcun altro dà a me, si usa un verbo che poi è ancora più umile e abbassa ciò che quella persona mi dà.


Direi perciò che
Non basta parlare giapponese, bisogna suonare in giapponese.
Conoscere una lingua comporta necessariamente la partecipazione alla dimensione sociale, e quindi la partecipare alla vita di una comunità. Lo studio di una lingua separato dalla dimensione culturale sarebbe poco incisivo.»
Conclusione
Per concludere vorremmo riportare un brano di Rousseau, tratto dal suo Saggio sull’origine delle lingue, 1984 p.180:
Se gli uomini hanno avuto bisogno della parola per imparare a pensare, ben maggiormente hanno avuto bisogno di saper pensare per trovare l’arte della parola […] di guisa che è appena dato fare congetture sostenibili sull’origine dell’arte di comunicare i propri pensieri e di stabilire rapporti frale menti, arte sublime che è già tanto lontana dal suo principio.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
N. CHOMSKY, Syntactic Structures 1957.
N. CHOMSKY, Aspect of the Theory of Syntax 1965.
F.de SAUSSURE, Corso di Linguistica generale 1967.
Fiori Vivi ringrazia:
Giada Zaccardi: dottoressa in Lingua Economia e Istituzioni del Giappone, ideatrice e curatrice del progetto linguistico/culturale Nodo, si occupa di e-learning e insegnamento di lingua giapponese.
Gilda Y. Diotallevi: dottore di ricerca in filosofia del diritto, studiosa, scrittrice, attualmente dirige la rivista fiori vivi.