Per me, fotografia è un altro modo per dire viaggio.
Christopher Anderson
La fotografia di viaggio rappresenta un genere fotografico incentrato sulla documentazione di un territorio, di una cultura, di un paese e dei costumi dei popoli che a esso si riferiscono.
La Photographic Society of America la definisce formalmente come una immagine che: esprime il sentimento di un tempo e di un luogo, ritrae una terra, la sua gente o una cultura nel suo stato naturale, e che non ha limitazioni geografiche.
In realtà la storia di questo genere fotografico risale agli albori stessi della nascita della fotografia legandosi indissolubilmente con l’evolversi della ricerca scientifica e con i cambiamenti dei costumi nel tempo. Tecnica e moda incidono così sull’aspetto principale della fotografia di viaggio, creando intorno ad essa una allure del tutto particolare.
L’inizio
Nel 1826 Joseph Nicephore Niepce ci regala la prima fotografia ancora conservata, mentre nel 1839 viene sviluppata la Dagherrotipia, ovvero il procedimento per lo sviluppo dell’immagine su una lastra di rame su cui veniva applicato argento elettroliticamente, per poi esporla ai vapori di iodio per circa 10-15 minuti, infine ai vapori di mercurio per svilupparla. Pur essendo un procedimento lungo, complesso, e poco salutare, permise a Daguerre, il suo inventore, di pensare di uscire dagli studi fotografici per avventurarsi prima nelle strade della sua città. (A questi primi esperimenti risalgono le origini della fotografia di viaggio, quando tali uomini si inoltrarono sulla Senna e a Pont Neuf per fotografare. La più antica fotografia di viaggio sopravvissuta è del 1826, ritrae la scena di una strada a Saint Loup de Varenne, in Francia, ad opera di Joseph Nicephore Niepce). Possiamo perciò utilizzare proprio il 1839 come data di inizio della fotografia di viaggio, ovvero di quel suo desiderio di conoscenza e avventura, di sfondamento di limiti, geografici e non, conosciuti.
Daguerre, Boulevard du Temple di Parigi.
Il problema pratico, posto in evidenza dallo stesso Daguerre, era però riuscire fattivamente a portarsi in viaggio una attrezzatura tanto pesante e difficile da gestire. Per non parlare poi della camera oscura e del materiale necessario allo sviluppo delle immagini (se pensiamo alla stampa dell’immagine tramite collodio umido era possibile solo se fatta immediatamente). I primi fotografi che uscivano dai loro studi dovevano allestire dei piccoli laboratori chimici, eppure tutto ciò non arrestò questi uomini straordinari, conoscitori di procedimenti alchemici e scientifici, artisti con conoscenze di tecniche pittoriche e prospettiche, ma al contempo viaggiatori e avventurieri.
La prima fotografia aerea fu scattata a Boston. A bordo di una mongolfiera, a circa 600mt di altezza, nel 1860 il fotografo James Wallace Black riuscì ad immortalare Boston “come la vedono l’Aquila e l’Oca Selvaggia”. Fu così che venne realizzata la prima fotografia aerea della storia.
Grand Tour
Al fermento scientifico del tempo si lega però un altro fenomeno culturale che segnerà lo sviluppo della fotografia. Come non pensare ad esempio ai primi dagherrotipi di fotografi stranieri che, già verso la metà del XIX secolo, immortalarono Roma antica e i ruderi di molte città italiane. La ragione è da rintracciare nei famosi Grand Tour, ovvero i viaggi nell’Europa continentale intrapresi da ricchi aristocratici europei a patire dal XVII sec. per il perfezionamento della loro cultura. Di solito si trattava di giovani alto-borghesi inglesi, francesi e tedeschi che, attraverso queste esperienze cominciavano a creare la loro rete di conoscenze per il commercio, imparavano nuove lingue e usanze e soprattutto scoprivano con mano, non più solo sui testi, le meraviglie dell’antichità.
I diari di viaggio del tempo non contenevano solo cartine ma anche disegni e acquerelli. Tali bozzetti, testimonianza del viaggio, vengono pian piano sostituiti da foto, illustrazioni fotografiche di luoghi e monumenti. Tale fenomeno non fece altro che amplificare la fascinazione per luoghi poco battuti, spingendo il desiderio dei viaggiatori verso luoghi sempre più esotici. Dalla fine dell’Ottocento infatti, le destinazioni predilette erano luoghi più lontani e costosi come l’Egitto, il Medio Oriente, l’antica Costantinopoli. Comparvero le prime foto delle piramidi egizie, del Nilo, della grande Muraglia.
Il compito di testimonianza e documentazione di ricerche scientifiche e luoghi sconosciuti, che fino a quel momento era spettato alla pittura, ora passa alla fotografia attraverso le tecniche di calotipia e della dagherrotipia, in grado di offrire una realtà oggettiva, non modificabile o suscettibile di variazione da parte dell’artista. La diatriba sulla superiorità o meno della pittura alla fotografia verrà ripresa, da un punto di vista filosofico, da Roland Barthes che rivendica nella fotografia, rispetto alla pittura, un infra-sapere, la possibilità cioè di accedere a qualcosa. «… niente differenzia, eideticamente, una fotografia, per quanto realistica sia, da un dipinto. Il ‘pitturalismo’ è solo una esagerazione di ciò che la Foto pensa di se stessa. Tuttavia non è attraverso la Pittura che la Fotografia perviene all’arte, bensì attraverso il Teatro.» (R. Barthes, La camera chiara, Einaudi, Milano 2003 p. 32)
Veduta della Gran Madre di Dio, Enrico Jest, primo dagherrotipo italiano certificato; Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna.Costantinopoli 1876
Adolphe Goupil, editore e mercante d’arte, che all’inizio trattava incisioni e litografie d’arte antica nonché riproduzioni dei grandi maestri pittori del Salon, comprese subito il potenziale economico del commercio di foto e dal 1853 cominciò a vendere immagini di luoghi lontani. In Italia, a Firenze, i fratelli Alinari aprirono il loro laboratorio fotografico dove raccolsero e documentarono monumenti e città, divenendo, ad oggi, il più grande e antico archivio fotografico dal 1852.
Se tali viaggi erano prerogativa di una ristretta élite di viaggiatori, proprio per loro nacquero i primi servizi di viaggio. Nelle più antiche guide Michelin, risalenti addirittura al 1898, erano segnalati quegli hotel in grado di soddisfare le esigenze di questi avventurieri, come ad esempio la presenza di camere oscure messe a disposizione dall’hotel. In Italia il Grand Hotel et de Milan, (edificio del 1863, in via Manzoni a Milano) offriva, oltre il sevizio postele e telegrafico, proprio la possibilità di farsi allestire una camera oscura. Famosa rimase la stanza 418 in cui Medardo Rosso, lo scultore appassionato di fotografia al punto di definire il suo lavoro scrittura di luce, usò tale stanza e proprio cadendogli dalle mani una lastra per lo sviluppo si ammalò.
In parallelo al cambio di mentalità dell’epoca, cambia però il senso stesso della fotografia. La sua funzione documentaristica di luoghi e tradizioni esotiche viene minata dall’interno, cominciando a crearsi la moda del ricordo di viaggio.
1869
A questo punto la foto di viaggio si intreccia con un’altra storia fantastica, ovvero quella delle cartoline. Nel 1869 infatti le poste austriache danno il via al servizio di posta celere, alleggerito anche nella forma e le prime cartoline corredate di disegni vengono pian piano soppiantate da foto. Ai piedi della Tour Effeil c’era un piccolo ufficio postale in cui si potevano mandare foto con la riproduzione fotografica della famosa Tour Effeil direttamente sul posto.
Basti pensare che qualche anno dopo, nel 1910, le poste francesi spedirono 123 milioni di cartoline in tutto il mondo.
1888
Avevamo già premesso che tutta la storia della fotografia di viaggio poggia sull’evoluzione dei costumi e della ricerca scientifica. Il momento di svolta di tutta la fotografia ci fa nel 1888, quando George Eastman, fondatore della Kodak, inventò la fotocamera con la pellicola. Egli intuì il potenziale di un apparecchio più agevole e a basso costo.
La Kodak modello1 a box: una fotocamera priva di regolazione e dotata di pulsante a scatto, del mirino per l’inquadratura e di un sistema di avanzamento della pellicola. Anche le dimensioni erano ultra compatte per il tempo.
Da questo momento in poi le foto di viaggio smisero di essere prerogativa esclusiva degli avventurieri e divennero il sogno di ogni tipo di turista.
Ma il 1888 è un anno importante per un altro motivo. Segna infatti la nascita della National Geographic. Seppur lo scopo fosse quello di diffondere conoscenze geografiche, si presentava infatti come una rivista di carattere scientifico, le illustrazioni che all’inizio erano realizzate con disegni a colori vengono, a loro volta, sostituite dalla fotografia. Nasce da questo momento un sodalizio artistico così potente da potersi quasi definire un genere a parte.
Nel 1910 vengono pubblicate ben 24 pagine di fotografie che ritraevano il Giappone e la Corea.
…aver visto molto e non avere niente, è avere gli occhi ricchi e le mani povere.
William Shakespeare
La domanda che ci facciamo è se la foto di viaggio sia ancora capace di trattenere in se stessa quella allure iniziale, quel gusto per l’esotico che pare, anche in correlazione con la nascita del digitale e delle riproduzione immediata di scatti, essersi esautorata. Lo snaturarsi iniziale della fotografia di viaggio ha però creato un mondo alternativo, una capacità di condivisione prima inimmaginabile. L’accessibilità al sapere e alla conoscenza lascia nelle mani dell’individuo la possibilità altissima di conoscere mondi o quella, più banale, di fotografarli solamente.
La storia delle bambole inizia in tempi antichissimi e, in stretto connubio con l’evoluzione dell’uomo e dei suoi costumi, fornisce un trattato antropologico e sociologico di notevole rilevanza. È possibile rintracciare, attraverso le epoche, significati differenti attribuiti alle bambole. Esse, oltre ad essere giocattoli, sono state figure magiche, hanno assunto funzioni di feticcio fino a diventare manichini. Le bambole perciò, specchio delle civiltà in evoluzione, riflettono gli usi, i costumi e la moda nei secoli.
Nello specifico le bambole sono state legate a funzioni commemorative, pensiamo alle donne delle tribù pellerossa che portavano sulle spalle le bambole e i giochi dei figli deceduti. Hanno assunto un ruolo centrale in varie pratiche rituali, le giovani Wasaramo portavano con loro una bambola fino a quando non avevano procreato il primo figlio e lasciavano un posto su uno sgabello a casa per loro. Segnano momenti di passaggio, come nel caso delle fanciulle romane che dovevano offrire le loro bambole e i giochi prima di convolare a nozze alle dee Afrodite e Artemide (Anth-Pal., VI, 280) in segno di abbandono dell’età infantile e entrata nell’età adulta. Si trasformano in poupées mannequin, bambole manichino dell’ottocento, utilizzate dalle case di moda francesi per far conoscere i propri modelli; interamente abbigliate, dalla biancheria intima ai posticci, alle sottovesti, agli abiti, esse venivano spedite, in bauli ricolmi dei più eleganti abiti confezionati a la mode da sarte e modiste specializzate, o addirittura fungevano da modelle per quadri, come nel caso di Albercht Dürer (1471-1528). Senza tralasciare l’aspetto ludico, pedagogico ed educativo che ha accompagnato i giochi dei bambini di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Una eccezione è forse riscontrabile nei paesi mussulmani che, per via del divieto di rappresentare la figura umana, le bambole assumono al contrario una valenza negativa.
Non si conosce la data esatta della loro comparsa ma, anche se in versione primitive, le prime bambole sono state ritrovate già nelle antichissime tombe peruviane. Addirittura Babilonia ne ha conservata una di alabastro con le braccia mobili, così come l’antico Egitto dove le membra delle bambole erano mobili con asticelle di legno dipinte a simulare le vesti. Ma ancora i greci e i romani costruivano bambole in argilla, legno, osso, a volte con il corpo di cuoio o stoffa e dotate, come riportato da Pausania circa il tesoro di Era a Olimpia, di una ricca e minuscola suppellettile. Non meravigli infatti scoprire non solo nelle bambole, ma negli abiti, nelle vesti e soprattutto nei mobili l’evoluzione del gusto e della moda nei diversi secoli. La pomposità del seicento, la grazia del settecento e il neoclassicismo tipico dell’ottocento. Talmente lunga e complessa è la storia della manifattura delle bambole, e dei suoi corredi, da offrirci una significativa testimonianza sulla tradizione artigianale che si è susseguita e sull’evolversi delle tecniche e dei materiali impiegati per la loro fabbricazione. Le bambole costituiscono un vero e proprio trattato su usi e costumi di diverse epoche, mostrando tutta l’abilità e l’ingegno dei loro costruttori, capaci infatti di affascinare ancora oggi moltissimi ammiratori e collezionisti.
A celebrare la storia della bambola troviamo in Italia un posto incredibile, il Museo della bambola e del giocattolo nella Rocca Borromea di Angera.
Il Museo
Fondato nel 1988 dalla principessa Bona Borromeo Arese e diretto dal prof. Marco Tosa, docente presso l’accademia di belle arti di Venezia, rappresenta il più grande museo europeo di bambole, ma anche di giochi e automi. Basato su collezioni private, la più ampia ovviamente della principessa Borromeo, il museo incanta, oltre che per il livello altissimo dei pezzi presenti, fulgidi esempi del periodo d’oro del giocattolo industriale europeo (seconda metà dell’Ottocento e primi del Novecento), per la sede. La Rocca di Angera, fortezza della famiglia Borromeo affacciata sul l’estremità meridionale del Lago Maggiore mantiene un fascino fuori dal tempo.
L’apertura del primo museo italiano dedicato alla bambola e al giocattolo antico nel 1988 è stato un importante evento culturale nel panorama nazionale, fino ad allora estraneo a questo argomento. Importante ricordare che esistono profonde connessioni tra le bambole antiche e moderne e i comportamenti sociali, educativi, nonché l’indissolubile legame con il costume, la moda di ieri e di oggi. Il museo si pone quindi al di là dell’aspetto emotivo, e romantico. Intento del museo percorrere le strade legate attentamente alla storia e alle tecnologie specifiche del prodotto considerato, questo per permettere una lettura essenzialmente didattica e circoscritta, lasciando al visitatore ogni altra possibilità di interpretazione.
Il museo intende fornire una ricchissima e seria documentazione indirizzata a far conoscere le mutazioni attraverso il tempo di questo affascinante oggetto che da sempre si è affiancato allo sviluppo e alla crescita dell’uomo. Per questa ragione le bambole sono state esposte seguendo un percorso scandito dall’avvicendarsi dei diversi materiali utilizzati nelle varie epoche e fasi, dall’artigianato fino all’affermazione della grande industria del giocattolo. Ad esse sono state affiancate diversi giochi e materiale iconografico per meglio comprendere l’organicità del percorso. Inoltre il museo non è limitato alla sola esposizione della collezione Borromeo, che ne costituisce comunque il nucleo principale, ma le affianca continue acquisizioni e donazioni che contribuiscono a far crescere il Museo della bambola rendendolo sempre vivo e attuale. (Marco Tosa, curatore del museo della bambola)
La collezione Borromeo
Tre i nuclei che compongono il museo: la collezione Borromeo di bambole e giocattoli, una sezione dedicata agli automi e, in una sala separata, una vetrina sulla storia antica delle bambole, con pezzi provenienti da diverse parti del mondo.
La collezione delle bambole raccolta dalla principessa Bona Borromeo Arese costituisce una raccolta unica per varietà, quantità e qualità dei pezzi che la compongono. Composta da materiale proveniente dai mercati antiquari europei, offre una visuale ben precisa dei più grandi maestri delle bambole, appartenuti alla Francia, all’Inghilterra, alla Germania e, non da ultimo, all’Italia.
Molte bambole esposte inoltre sono protagoniste di aneddoti, vicende e ricordi. Particolarità che non sorprende affatto, essendo la filosofia, la storia e la letteratura piena di loro riferimenti. Pensiamo ad esempio a quanto raccontato sulla madre di Goethe che restò scioccata dalla richiesta del figlio di trovare la minuscola ghigliottina destinata a decapitare le bambole aristocratiche per una piccola rivoluzionaria francese. O ancora quanto riporta la studiosa Antonia Fraser citando la raccolta di fiabe indiane di Somdeva, undicesimo secolo, che parla di bambole mosse da strani meccanismi capaci addirittura di farle parlare.
Considerata una delle più importanti collezioni d’Europa, permette di seguire l’evoluzione e lo sviluppo dell’oggetto bambola negli anni che vanno dalla metà del XVIII sec. fino ai giorni nostri. Siamo così testimoni di cambiamenti sociali; nel 1845 infatti il fabbricante François Greffier presenta all’Esposizione Universale la sua creazione del bébé, una bambola con il corpo non più di adulto ma di bambino. Fino a quel momento la bambola era una donna in miniatura, dovendo ‘educare’ le piccole a diventare donne emulandone le pose e i costumi. Ma possiamo anche seguire lo sviluppo di opere sempre più sofisticate. Se prima la fattura delle bambole era approssimativa, pian piano esse, anche grazie alla maestria dei produttori e all’ applicazione in questo campo di tecniche e materiali nuovi divengono delle piccole opere d’arte in cui la verosimiglianza con il reale si fa sempre più forte.
La collezione del museo offre esempi del passaggio dall’utilizzo del legno, figure di legno scolpite e articolate del XVIII sec. di produzione italiana ancora legate alla tradizionale iconografia religiosa, accanto a cui spiccano invece i primi esempi, datati intorno alla seconda metà del XVIII sec, di bambole composte da testa e arti di legno ma montati su corpi di stoffa o pelle imbottiti.
La rivoluzione nell’artigianato dei balocchi avvenne a Norimberga solo intorno al 1860, anche se alcuni esemplari sono anche antecedenti, in cui al legno e alla cera, o comunque ad altri materiali più fragili, fu sostituita la cartapesta.
Altra data centrale è quella del 1862 in cui il francese Jumeau crea la prima bambola con la testa di biscuit o di porcellana.
La porcellana: questo duttile materiale già largamente impegnato dalle storiche fabbriche europee, Limbach, Meissen, Limoges, per oggetti d’uso domestico, trovò dal secondo quarto del 1800 in poi un nuovo utilizzo nella produzione di teste e parti di bambole.La grande reperibilità di caolino, sostanza base per l’impasto ceramico, estratto prevalentemente nell’Europa centrale, l’ottimo effetto finale, unitariamente alla relativa resistenza, alla caratteristica lavabilità, alla speditezza della lavorazione in processi industriali, determinarono il successo incontrastato della porcellana anche nel settore balocchi. La testa continuava a essere la parte determinante nella costruzione della bambola, quella che concentrava tutti gli aspetti di fascino e attrattiva.
Venivano realizzate teste in porcellana vetrinata, dette anche lucide, oppure satinate, dall’apparenza opaca, dette ‘biscuit’. In quelle più antiche, la lavorazione procedeva attraverso la pressione in stampi della foglia di porcellana, stampi sempre suddivisi in due parti. Anteriore e posteriore.
Analogamente alle pupe di legno, cera e cartapesta, anche queste avevano testa e spalle realizzate in un solo pezzo; l’articolazione al collo per bambole con testa in biscuit, venne brevettata nel 1858 da Leontine Rohmer, a Parigi. Queste teste continuavano la tipologia preesistente definita da lineamenti dipinti e acconciature modellate.
Grazie alla lavorabilità della porcellana era possibile raggiungere effetti di grande raffinatezza nella descrizione dei particolari delle acconciature nonché nella decorazione del volto.
La finitura con uno strato di vernici lucida steso precedentemente alla cottura dava quella particolare lucentezza che ancora oggi caratterizza quelle teste, differenziandole nettamente da quelle dei biscuit (che eliminando la freddezza del lucido, nella sua tenue porosità, conferiva al volto un aspetto più morbido e di più realistico calore). L’impressione di grande verosimiglianza che l’impiego del biscuit permetteva, fece sì che sempre più teste di bambole venissero fabbricate con tale materiale che […] ben imitava l’incarnato umano, specialmente se dipinto con la maestria insuperata dagli artigiani di allora. A questo venivano aggiunti splendidi occhi a smalto e vetro, parrucche di mohair o capelli veri per completare l’immagine di grande realismo ricercata. (M.Tosa)
Solo in un momento posteriore infatti le bambole furono dotate di occhi mobili, di capelli naturali (la lana moire inglese veniva bollita per creare ricci naturali) e addirittura soffietti che permettevano alle bambole di emettere suoni simili alla voce umana.
Alle parti assemblate separatamente si univa il corpo non più solo di pezza o porcellana ma fatto di cuoio, di stoffa e riempito di segatura e crusca. Il tentativo era quello di rendere le bambole più resistenti da un lato, si arrivò a utilizzare metallo, gomma, celluloide, e più snodabili dall’altro, servendosi di tecniche particolari per la realizzazione delle articolazioni e di materiali che ne garantissero una certa malleabilità come la cera. Si fa rifermento a bambole di produzione Inglese e Tedesca, in cera pura e cera su cartapesta, fino ad arrivare all’utilizzo nel tempo di celluloide, plastica rigida, polistirolo, vinile nonché di materiali di ultima generazione come resine o termoindurenti tipo Cernit.
I mobili
Nel 1600 dai Paesi del Nord-Europa si diffusero in tutto il continente le cosiddette ‘case di bambole’. Fedelissime riproduzioni delle abitazioni dell’epoca, proporzionate alla statura delle bambole e arredate di suppellettili e stoviglie (acquistabili anche separatamente) conformi ai modelli allora usati nella vita quotidiana. Ciò che sorprende è non solo che gli elementi di arredo, così come tutti i costumi e la biancheria, corrispondessero esattamente agli stili dell’epoca, ma che fossero creati con una maestria e una attenzione ai particolari fuori dal comune. Come non notare ad esempio i portaprofumi in porcellana o in vetro inciso decorato a smalto.
Per i mobili in miniatura il museo si avvale principalmente della collezione Roberta della Seta Sommi Picenardi che ci permette di ammirare veri e propri capolavori di ebanisteria eseguiti con la stessa perizia impiegata per mobili veri: bureau-trumeau, letti, piccoli armadi, fornelli con batteria da cucina, servizi da toletta e da tè, comò che contenevano abiti finemente confezionati con stoffe pregiate e biancheria spesso ricamata che riproducevano la moda del tempo.
Tavola ovale del periodo impero che, aperta, contiene un raffinato completo da cucito in madreperla e argento dorato.Servizio da tavola per bambola, realizzato in ceramica, decorato in cromolitografia con soggetti caricaturali e infantili del repertorio novellistico tipicamente francese. Manifattura di Lunèville, Francia, 1890 circa.
Gli automi
All things are artificial, because nature is the art of God (T. Brown, Of Dreams, Religio Medici, 1642)
Una sezione diversa del museo è dedicata agli automi. Dal greco autòmatos, che si muove da sé, descrive proprio quegli oggetti meccanici, già conosciuti dai greci, in grado di riprodurre i movimenti e la forma di animali prima e degli umani poi. La letteratura è piena di riferimenti, pensiamo ad Aulo Gellio che nel suo Le notti attiche (X,12,9), racconta che Archita costruì un oggetto di legno in forma di colomba, e che (forse per una serie di contrappesi) questa colomba volò. O a Petronio che, testimoniando così l’apprezzamento anche dei romani per tali meccanismi, nel Satyricon (34) scrive circa le tante meraviglie della cena di Trimalcione: «Entrò nella sala del banchetto un servo. Portava tra le mani una figurina d’argento, fatta in maniera tale che tirando o allentando un filo, gli arti e le vertebre, si muovevano da tutte le parti. Trimalcione la posò sul tavolo e azionando il meccanismo le fece assumere diverse posizioni». Si narra anche che Leonardo Da Vinci costruì un leone meccanico da regalare al re Francesco I.
Eppure è solo intorno al XVIII sec., che si possano trovare testimonianze concrete di queste creature o automi, quando l’incontro tra arte e tecnica, scienza e magia convogliano e gli artisti fanno a gara per inventare automi, meraviglie meccaniche da poter regalare a principi e imperatori. È il secolo in cui Jacques de Vaucanson passò alla storia per aver realizzato tra il 1737 3 il 1741 una serie di automi che si muovevano grazie a un sistema di pesi, canne e leve. La sua creazione più celebre raffigurava un suonatore di flauto in grado di eseguire con il suo strumento undici melodie differenti.
Nel museo sono presenti reperti incredibili che testimoniano lo sviluppo di tecniche che dalla semplice osservazione delle forze fisiche esistenti in natura, come il moto delle acque, del vento o la forza del fuoco e il potere del calore da applicare agli automi, si rendono sempre più complesse e sofisticate. Così se all’inizio il movimento era generato da macchine mosse da una forza idraulica o pneumatica, durante il XVI secolo i maestri orologiai di Augusta e Norimberga realizzando piccoli orologi da tavola applicarono lo stesso procedimento agli automi.
L’impiego della molla infatti gettò le basi dell’innovazione tecnica in questo settore, garantendo agli automi un movimento più regolare e duraturo. Fritz Saxl nel suo saggio Costumi e feste della nobiltà milanese degli anni della dominazione spagnola, descrive la bambola meccanica del XVI sec. (Kunsthistorische Museum di Vienna) capace di riprodurre una gestualità profondamente simile a quella umana. «Si ha notizia certa che il marchese del Vasto fece conoscere a Carlo V un ingegnere lombardo, Giovanni Torriano da Cremona il quale costruiva bambole di questo tipo.Tra queste figure, per esempio, una dama che danza al ritmo di un cembalo […]: i movimenti sono caratterizzati da una combinazione di grazia e solennità: i piedi si spostano lentamente, la figura sembra librarsi. La forma del corpo viene completamente occultata dalla sottana. Al contrario, mani e testa si muovono con agio e eleganza. Al suono della musica, modulata con le mani sensibili e aggraziate, la testa descrive nel suo moto un arco grazioso. In questo modo un congegno meccanico riproduce lo stile di una donna di società del tempo, per i suoi stessi limiti enfatizzandone, alla misura di una caricatura, le caratteristiche».
[la molla è utilizzata anche per la prima immagine di questo articolo, una bambola nuda con ventre apribile all’interno del quale è visibile il complesso meccanismo azionato da caricamento e molla e che le permette di camminare, ruotare la testa e mandare baci.]
Il primo a dare la voce alla bambola fu, verso il 1820, J. N. Mälzel, l’inventore del metronomo; ma i più significativi risultati in tale campo si otterranno dopo il 1887 quando, semplificando al massimo i meccanismi del grammofono inventato da Edison, si riuscì a far fare alla bambola brevi discorsi, a recitare brevi poesie e cantare canzoncine.
Soprattutto all’inizio tali meccanismi, in virtù della loro assoluta novità, suscitarono uno stupore tale nel pubblico da convincerlo ad assistere a qualche prodigio della magia.
Wolfgang von Kempelen, nel 1778 realizza il celebre automa giocatore di scacchi. Si racconta che nel 1809 Napoleone perdesse una partita giocando con quell’androide, forse l’imperatore non era un buon giocatore, ma certamente non era al corrente che all’interno della scatola atta a contenere il meccanismo, vi era un uomo, attento ad osservare le varie mosse del gioco tramite un sistema di specchi, e quindi a indirizzare la risposta corretta dell’automa.
Il perturbante
La verosimiglianza tra bambole e bambine e il loro apparire in procinto di un qualche movimento, la realizzazione di oggetti così vicini al reale da superarlo, in altre parole la capacità dell’uomo di mettere in scena la vita ma non infonderle lo spirito, crea una dimensione di sottesa ambiguità, difficilmente eliminabile. Non è un caso che esista la pediofobia, ovvero la paura delle bambole, sottospecie della automatonofobia, ovvero del terrore che alcuni nutrono per automi, robot e statue di cera.
Il primo a identificare quel sentimento suscitato da un oggetto, una persona o una situazione che possono essere recepiti da un lato come familiari, ma allo stesso tempo come estranei, fu Freud che lo definì Unheimliche, ovvero perturbante. Lo psicologo Ernst Jensch applicò tale teoria all’incertezza generata da un essere dalle sembianze umane, sviluppata poi da Masahiro Mori, esperto di robotica, secondo cui un robot troppo simile a noi sia in grado di generare un sentimento di paura.
La paura delle bambole è stata studiata anche dallo psicologo Frank McAndrew che lega tale sentimento all’ancestrale istinto di allerta verso ciò che si presenta a noi come ambiguo e perciò pericoloso. Un’altra teoria rintraccerebbe invece l’origine di tale paura dalla naturale classificazione operata dal cervello che si allarma di fronte a qualcosa di innaturale, di malato. Le bambole infatti posseggono tutta l’ambiguità di oggetti vividi e realistici eppure non viventi, come se fossero dei simulacri vuoti al loro interno, in cui forze sconosciute possano abitare. Da ricordare a tal proposito che nel 1523 il Vives (De istiutione christianae feminae) dichiarò le bambole imago quedam idolatrae et quae comptus ac ornatus cupitatem docent. Un altro esempio in tal senso ci viene dal filosofo Cartesio che, spinto dalla sua passione per la meccanica e triste per la scomparsa prematura della figlia Francine, costruì una bambina meccanica chiamata con lo stesso nome. Durante il viaggio verso la Svezia i marinai ne furono a tal punto terrorizzati da crederla opera diabolica e da decidere così di gettarla in mare.
Dolls of the world
n una sala separata rispetto al museo troviamo una raccolta di bambole provenienti da tutto il mondo, principalmente da culture africane e sudamericane (collezione Lo Curto), che le riportano ai loro significati più ancestrali e apparendo lontane sia per fattura che, soprattutto per concezione, dai tipici giochi europei. Come ad esempio le bamboline giapponesi del periodo Edo (1603/1868), Meiji (1868-1926) che, per abbigliamento e pose, rispecchiano la rigida e formale gerarchia della corte imperiale giapponese.
Magia, ritualità, potere scaramantico si mescolano nel gioco-rito, spesso perfettamente fuso con il significato più profondo dell’esistenza tribale. In questo senso vanno osservate le bambole Africane della tribù ashanti, dette Akua-Ba, legate al ciclo della procreazione, così come quelle amazzoniche in terracotta dipinta con motivi uguali a quelli dei disegni magici che, in varie occasioni, gli indigeni eseguono sul loro corpo.
Nonostante la collezione offra reperti ‘antichi’ di bambole provenienti da differenti paesi, in Francia intorno al 1870 se ne produsse una serie, le cosiddette Belle Straniere, caratterizzate da fattezze esotiche: bambole cinesine, giapponesi, creole abbigliate con i costumi dei rispettivi paesi, testimoniando l’interesse e l’apertura del gusto verso luoghi e tradizioni sconosciute.
Bambola nuda con ventre apribile all’interno del quale è visibile il complesso meccanismo azionato da caricamento e molla e che le permette di camminare, ruotare la testa e mandare baci.
A far rifermento al nome sembrerebbe qualcosa di fiabesco. Invece la città del diario esiste davvero, si trova a confine tra Toscana, Umbria, Marche ed Emilia Romagna, a un angolo estremo della provincia di Arezzo, precisamente nella località di Pieve Santo Stefano. E l’idea che qualcosa di magico sia accaduto da queste parti non si cancella. Una piazza divide l’archivio diaristico dal piccolo museo del diario. Sembra proprio, come disse per la prima volta l’ideatore di questo luogo Saverio Tutino, che accanto agli abitanti comuni ci siano altrettanti cittadini di carta.
L’archivio
Fondato nel 1984, l’archivio raccoglie storie di vita sotto forma di diari, epistolari, carteggi e autobiografie. Succede così che venga raccontata la storia d’Italia, la nostra storia, ma da un punto di vista sempre nuovo, perché quei fatti realmente accaduti, osservati, annotati, vengono filtrati attraverso la lente dell’individualità, attraverso le esperienze spirituali dei singoli. Come una unica narrazione che da privata diviene comune, diviene il nostro passato.
A parlarci di questo luogo è Luigi Burroni che ci spiazza subito con una affermazione che sa di manifesto, Non archiviamo romanzi, Archiviamo vite.
«L’Archivio nasce nel 1984 su impulso di Saverio Tutino, giornalista e scrittore, che aveva sempre sognato di creare uno spazio che raccogliesse le memorie della gente comune. Attraverso la storia delle singole persone poteva ricostruirsi la storia degli italiani. Ad oggi più di 9000 persone hanno deciso di portare qui un pezzo della loro vita, consegnandoci un materiale impegnativo basato sulla storia degli ultimi duecento anni; per la quasi totalità, dal primo ottocento fino a oggi. Duecento anni di storia italiana raccontata da chi era realmente presente. Gente completamente diversa che viene accolta a prescindere dal grado di istruzione, dalla provenienza geografica o dal pensiero politico. Conserviamo testi molto differenti tra di loro, si va dal diario di un soldato che ha combattuto le guerre del Risorgimento di fine Ottocento, al ragazzo hippy degli anni settanta, dal partigiano al fascista. La storia è fatta da ognuno di noi, motivo per cui accogliamo tutti; la storia non può essere ridotta a nostro piacimento».
L’archivio si mostra così qualcosa di più di un semplice luogo di conservazione, perché viene voglia di immergersi in esso per studiarlo, per afferrare la verità che si nasconde tra quelle pagine. Chiediamo perciò se sia possibile consultare queste memorie.
Luigi Burroni: «Il senso è proprio questo, poter consultare il materiale o per lo meno quasi tutto (rimanendo la proprietà in capo all’autore alcuni di essi dettano condizioni particolari. Una signora ad esempio ha prescritto che i suoi tre scatoloni siano apribili solo nel 2072). Ovviamente gli originali vengono protetti e si lavora sulle fotocopie. Il lavoro da parte nostra è grande. I testi che arrivano infatti vengono schedati sia in forma fisica che informatica per facilitare la ricerca attraverso l’inserimento di parole chiave, date, personaggi famosi, eventi, citazioni… ad oggi inoltre, segue un passaggio ulteriore, perché oltre a essere trascritti (l’originale scritto a mano risulta difficile da leggere) e catalogati vengono anche digitalizzati. Di ogni foglio viene prodotto un file digitale.
Il materiale che arriva è impegnativo, perché ogni persona può avere un taccuino di 50 pagine o, come è capitato lo sorso anno, 500 taccuini scritti a mano, raccolti in 8 scatole. Si comprende quindi perché il nostro problema principale sia lo spazio».
Scopriamo che a Pieve Santo Stefano esiste una festa della memoria.
Luigi Burroni: «Chi vuole partecipare al premio (non è obbligatorio) può partecipare, purché il testo sia inedito. 100 testi vengono esaminati da una commissione locale, persone normali che si prestano volontariamente a leggere tutti quei testi in un arco temporale che va da metà ottobre a metà giugno.
E se li scambiano, litigano, discutono, si incontrano il martedì in archivio, ognuno ha il suo preferito. Sono motivazioni personali, non è un premio letterario. Anche se in realtà di letteratura ce n’è moltissima, magari involontaria, perché esistono persone che nascono e sanno scrivere senza neanche essere state a scuola.
Natalia Ginsburg, che è stata tanti anni con noi, insisteva sulla vivezza del racconto. Secondo lei bisognava che venisse fuori l’urgenza del raccontarsi».
E non è difficile immaginarsi il desiderio di tanti soldati di sentirsi vicini a casa, o di alcune donne di trovare quella libertà che il tempo in cui vivevano le sottraeva.
Continuando a indagare comprendiamo che di quei cento diari ne vengono selezionati otto, da sottoporre a una commissione specializzata di editori, giornalisti, scrittori che, durante la festa che si svolge nel mese di settembre proprio a Pieve Santo Stefano, proclamano un vincitore. Il premio consiste nel venir pubblicati senza alcuna forma di editing. Le pagine arrivano a noi nella loro interezza e il libro di un perfetto sconosciuto finisce nelle librerie.
Alcuni di questi testi sono diventati dei veri e propri casi letterali. Uno tra tutti Terra Matta di Vincenzo Rabito (a cui il museo dedica una intera stanza), pubblicato nel 2008 da Einaudi, a cui però alla fine è seguita una riduzione e una sistemazione del materiale. Il motivo è che Rabito era un bracciante siciliano semi-analfabeta che con una vecchia Olivetti scrisse la sua biografia su 1027 pagine a interlinea zero, senza margini e piene di punti e virgole. Il suo è un talento narrativo fuori dal comune, capace di impressionare lo stesso Camilleri per la creazione di un linguaggio inedito, misto di italiano e siciliano.
Se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente darraccontare. (V. Rabito)
Il piccolo museo del diario
Poco distante dall’Archivio, in un piccolo spazio ricavato nel palazzo comunale, Palazzo Pretorio, troviamo il museo del diario. L’esigenza era quella di poter consegnare ai visitatori qualcosa di più emozionale di un semplice archivio che, per quanto custode di un tesoro, risultava un luogo piuttosto freddo fatto di armadi, contenitori e schede. Nasce così, nel 2013, il piccolo museo diaristico nazionale.
Luigi Burroni: «Lo spazio era poco, perché il comune ci ha dato solo queste tre stanze minuscole. Lo chiamiamo infatti piccolo museo del diario. Ma in realtà il nome ci è piaciuto perché richiama intimità. A fronte di un luogo limitato avevamo tantissimo materiale, allora abbiamo pensato a qualcosa di tecnologico ma che non disturbasse le emozioni. Non volevamo quelle solite teche di vetro ma qualcosa di diverso e di più ricco tanto meritavano le storie qui presenti. In altre parole volevamo qualcosa fuori dal comune.
Abbiamo fatto delle ricerche e siamo entrati in contatto con degli interaction design di Milano: il gruppo dotdotdot. Sono stati due giorni qui da noi e, come ulteriore fonte di ispirazione, gli abbiamo fatto leggere Il Paese dei diari, il libro di Mario Perrotta del 2009 edito da Terre di mezzo».
Non vogliamo svelare la particolarità del luogo, ma possiamo affermare che il lavoro dei dotdotdot sia assolutamente in linea con la magia e la meraviglia del luogo. La tecnologia accompagna lo spettatore in un mondo di voci lungo una parete che, non a caso viene chiamata il fruscio degli altri. Si aprono dei cassetti e in una sorta di viaggio intertemporale ci si immerge nella vita e nelle parole di uomini e donne profondamente diversi tra di loro. Storie commoventi, per lo più, e così autentiche da aver quasi paura di far rumore.
La lettura dei diari scelti per il pubblico, che cambia nel tempo, è affidata ad artisti, attori del teatro e doppiatori in grado di rendere la narrazione fedele e al tempo stesso spontanea. (Incredibile il lavoro fatto da Mario Perrotta nella lettura di alcuni brani di Terra matta).
Esistono anche due stanze dedicate a singoli diaristi, due persone straordinarie che hanno compiuto opere fuori dal tempo. C’è tutta l’ironia, la disperazione, l’amore e il dolore che la vita ci dona. Nell’atto singolo della scrittura privata c’è molta più poesia di quanto ci si aspetti.
Se la prima stanza è dedicata a Rabito, la seconda è dedicata a Clelia, una contadina che consegna un diario scritto su un lenzuolo. Solo per comprendere la poesia del suo operato citiamo una frase che impera su tutta la sua storia
E le lacrime si trasformarono in inchiostro.
Ho scritto il tuo nome sulla neve e il vento l’ha cancellato.
Ho scritto il tuo nome sul mio cuore e lì si è fermato.
C. Marchi, 1985
Il paese dei diari, il libro.
Mario Perrotta, registra, attore teatrale e drammaturgo di talento, nel 2009 scrive Il paese dei diari. Come è nata l’idea di collaborare con voi?
Luigi Burroni: «Conoscevamo già Mario Perrotta, era venuto a fare delle ricerche qui da noi e nel tempo è diventato un amico. Così quando volevamo celebrare i venticinque anni dalla nascita dell’archivio, e Saverio Tutino non se la sentiva perché già non stava bene, abbiamo chiesto a Mario di scrivere qualcosa per noi. Lui accetta volentieri, avvertendoci però da subito che ci avrebbe consegnato qualcosa di teatrale. Essendo lui un regista di teatro lo avrebbe scritto a modo suo. E a noi andava benissimo, non avremmo voluto fare qualcosa di troppo accademico.
Il paese dei diari è un romanzo verità, il cui protagonista, Mario, si trova proprio nell’archivio intento a fare delle ricerche sulle migrazioni per uno dei suoi spettacoli. Si avvicina l’orario di chiusura, noi non ci accorgiamo che lui è ancora lì, facciamo i 16 gradini, e lo chiudiamo dentro. All’improvviso sente una voce che gli sussurra nel buio e si impaurisce. È Saverio Tutino, quello che ha inventato l’archivio e che tutte le notti le passa lì a parlare con i suoi diaristi.
Inizia così un viaggio notturno pensato e realizzato idealmente tra le mura di Palazzo Pretorio, alla scoperta dei segreti del nostro archivio. Mario scoprirà qualche strano personaggio e scoprirà anche un segreto che ha ispirato molto chi poi ha fatto il museo. Durante il giorno questi testi, come accade in tutti gli archivi, vivono in ordine alfabetico dentro degli armadi, ma raccontando vite vere, non sono infatti romanzi, l’ordine alfabetico crea brutti scherzi. Per cui capita di trovare Ambrogini partigiano, Ambrogetti fascista. Sono dentro lo stesso armadio, fianco a fianco la Contessa dell’Ottocento e la ragazzina hippie, Rossi carabiniere e Rossini ladro, suora e prostituta. Durante il giorno tutti si danno un contegno, ma durante la notte, quando non c’è più nessuno, gli armadi si aprono, i diari prendono vita e passano la notte a parlare, a discutere, a ricercarsi. La Contessa va a cercare il Conte che sa che è arrivato, i soldati si riuniranno tra loro, il partigiano e il fascista si ignoreranno…ma il mattino seguente ognuno tornerà al proprio posto».
La dimensione onirica presente nel testo ha ispirato gli ideatori del museo che non avevano a disposizione persone in carne e ossa ma presenze altrettanto forti, capaci di sussurrarci parole, vita. Quel fruscio degli altri di cui parlava Saverio Tutino.
Il ricordo che portiamo con noi alla fine di questa visita è senz’altro quello di aver assistito a qualcosa di paradossale. Tanto private erano infatti le confessioni sui diari, tanto universali apparivano. Come un unico epistolario collettivo, una traccia nascosta capace di collegare l’umanità intera.
I libri che abbiamo pubblicato formano come un sentiero che si apre nel bosco ancora tutto da scoprire della scrittura dell’io. S. Tutino.
“C’era una volta un Paese adagiato nella valle del Tevere…” potrebbe iniziare così la storia che sto per raccontare e che assomiglia senza dubbio ad una fiaba a lieto fine. Nel 2016, infatti, a Sant’Angelo di Roccalvecce, minuscola frazione del Comune di Viterbo, quasi del tutto spopolata sebbene immersa nell’incanto della Teverina, veniva fondata, su iniziativa di Gianluca Chiovelli, l’Associazione Culturale Arte e Spettacolo (ACAS) con l’obiettivo dichiarato di riqualificare il piccolo borgo dal punto di vista ambientale, sociale e culturale. La domanda cui rispondere era una sola: su cosa puntare per restituire la vita ad un luogo ricco di storia e bellezza, ma ormai dimenticato?
“[… ] Tempi nuovi esigono scelte nuove. Inusuali e mai tentate. Si è deciso di trasformare S. Angelo in un museo a cielo aperto dell’arte popolare […] S. Angelo diverrà il centro di un itinerario artistico composto da murales, installazioni e sculture, bassorilievi, edicole, mosaici. E il tema artistico unificante di tale percorso sarà il fantastico, ovvero la favola, il mito e la leggenda.” (Gianluca Chiovelli)
Nasce così un progetto dal successo immediato: S. Angelo si trasforma lentamente in un vero e proprio “museo a cielo aperto”, dove un team di street artist, tutto al femminile e lasciato completamente libero di esprimersi, realizza murales a tema fiabesco e riempie vie, piazze, vicoli di colori e magia. Così capita di imbattersi nel Bianconiglio, col suo immancabile orologio, per poi riflettersi nello specchio delle Brame insieme a Biancaneve o ritrovarsi di fronte alla Casa di Marzapane con Hansel e Gretel. Un viaggio nella fantasia che conquista subito adulti e bambini e scommette coraggiosamente su di un turismo rispettoso dell’ambiente e della natura. Visitatori che non hanno per niente fretta e che si riappropriano del loro tempo attraverso un percorso immaginifico ed immaginario cominciano ad affollare il Paese. Il piacere della scoperta, proprio di ogni infanzia, si rinnova ad ogni passo; ci si ritrova immersi in quel “C’era una volta…”, in cui tutto è possibile e talmente straordinario da essere vero.
Del resto, Italo Calvino, alle prese con la raccolta delle fiabe italiane, lo aveva già intuito:
“Io credo questo: le fiabe sono vere.
Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e una donna, soprattutto per la parte della vita che appunto è il farsi di un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano. E in questo sommario disegno, tutto: la drastica divisione dei viventi in re e poveri, ma la loro parità sostanziale; la persecuzione dell’innocente e il suo riscatto come termini d’una dialettica interna ad ogni vita; l’amore incontrato prima di conoscerlo e subito sofferto come bene perduto; la comune sorte di soggiacere a incantesimi, cioè d’essere determinato da forze complesse e sconosciute, e lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non potersi liberare da soli, il liberarsi liberando; la fedeltà a un impegno e la purezza di cuore come virtù basilari che portano alla salvezza ed al trionfo; la bellezza come segno di grazia, ma che può essere nascosta sotto spoglie d’umile bruttezza come un corpo di rana; e soprattutto la sostanza unitaria del tutto, uomini bestie piante cose, l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste…”
(Italo Calvino, Introduzione a “Fiabe Italiane”).
La chiave del successo dei murales fiabeschi di S. Angelo di Roccalvecce risiede nell’universalità del suo messaggio.
A partire proprio dal mezzo usato per veicolarlo, quell’arte che parla a tutti ed è di tutti. La pittura murale è stata usata in passato, proprio per le grandi dimensioni e per l’ampia visibilità, come celebrazione di momenti salienti, si pensi al Medioevo e soprattutto al Rinascimento, o come spinta al rinnovamento politico o sociale, se torniamo con la mente al Messico degli Anni Venti, o addirittura come “strumento di governo spirituale” (Mario Sironi, Manifesto della pittura murale pubblicato su La Colonna nel dicembre del 1933 e firmato anche da Campigli, Carrà e Funi). Nel “Paese delle Fiabe” i murales abbandonano la pretesa di immortalare episodi storici o di risvegliare le coscienze e si concentrano sull’esperienza immersiva e totalizzante dell’osservatore. La semplicità, spontanea o voluta, del tratto, insieme con la vivacità dei colori, spesso forti e stridenti, crea un effetto di grande immediatezza visiva e un notevole coinvolgimento emotivo: una forte tensione espressionista o visionaria pervade ogni opera, in continuo dialogo con le pitture circostanti e con il mutare delle stagioni. Già Sironi aveva compreso che la pittura murale opera sull’immaginazione popolare più direttamente di qualunque altra forma di pittura (cfr. sempre Mario Sironi, Manifesto della pittura murale). L’interazione con le scene ritratte non richiede mediazione ed indipendentemente dall’età, dal livello culturale o dalla provenienza, trasporta il visitatore in un mondo “altro”, dove regnano lo stupore e la meraviglia, accresciuti dall’immutato scorrere della vita quotidiana del Borgo tra vernici e pennelli. L’accesso è e resterà libero e gratuito per volere della comunità locale e dell’Associazione ACAS, che sopportano le spese per la realizzazione dei dipinti, sempre più numerosi, nella profonda convinzione del valore universale del loro “dono”.
Così come universale è l’oggetto ritratto, ossia la fiaba che affonda le radici nella tradizione folcloristica popolare e si basa su archetipi comuni all’intera umanità, tanto da essere ritenuta l’espressione più autentica e pura dei processi dell’inconscio collettivo (C.G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo; M.L. von Franz, L’individuazione nella fiaba). Del resto, Propp sostiene che “la fiaba è il simbolo dell’unità fra i popoli; i popoli si capiscono a vicenda attraverso le fiabe”, allo stesso tempo però questa sorta di patrimonio poetico comune “viene raccontato da ogni popolo in modo particolare”, da ogni gruppo sociale e perfino da ogni individuo in modo diverso. Così come “il significato più profondo della fiaba è diverso per ciascuna persona, e diverso per la stessa persona in momenti differenti della sua vita” (B. Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicanalitici delle fiabe). Sempre uguale e sempre diversa. La fiaba come la vita.
“Io credo che le fiabe, quelle vecchie e quelle nuove,
possano contribuire a educare la mente. La fiaba è
il luogo di tutte le ipotesi: essa ci può dare delle chiavi
per entrare nella realtà per strade nuove, […]”.
(G. Rodari, La Freccia azzurra)
Bibliografia :
B. BETTELHEIM, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicanalitici delle fiabe, Feltrinelli, Milano 1976; I. CALVINO, Fiabe italiane, Mondadori, Milano 2017; C.G.JUNG, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Bollati Boringhieri, Torino 1977. V.PROPP, La fiaba russa. Lezioni inedite, Einaudi, Torino 1990 V.PROPP, Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino 2000; G. RODARI, La Freccia azzurra, Einaudi, Torino 2010; M. SIRONI, Manifesto della pittura murale, in La Colonna, dicembre 1933; M.L. VON FRANZ,L’individuazione nella fiaba, Bollati Boringhieri, Torino 1969;
Nel 1874 l’Olanda Settentrionale inaugura una linea ferroviaria in grado di collegare Amsterdam alle piccole regioni di Naarden e Bussum. Proprio quest’ultima, in virtù del nuovo collegamento con la capitale, cambia fisonomia e, da tipico paesino rustico della brughiera, diviene in breve tempo luogo di villeggiatura e riposo della media e alta borghesia olandese. Sorgono così nuove residenze e ville, soprattutto nel quartiere ricco di ‘t Spieghel, che danno il via a un certo fermento culturale dovuto anche alla frequentazione del luogo, in quel periodo, da parte di artisti e intellettuali.
Proprio all’interno di questo movimento si inserisce la storia di Villa Helma.
Situata in via Koningslaan 4, Villa Helma venne acquistata, ristrutturata e trasformata da dimora privata in locanda da Johanna Gesina Bonger, moglie di Theodorus Van Gogh e cognata di Vincent Van Gogh. Tale residenza passerà alla storia come la sede della più grande svolta artistica di Van Gogh, ma sarà al tempo stesso il luogo della rivincita morale di una donna in anticipo sui tempi, incapace di adattarsi al ruolo marginale che la società era pronta ad imporle.
Johanna Gesina Bonger
Jo, ai più nota per essere stata la vedova Van Gogh, è una donna intelligente, caparbia e colta che, dopo la morte del marito Theodorius, a cui era molto legata, si ritrova sola e con un bambino piccolo da accudire.
Le regole del tempo avrebbero voluto che tornasse a casa dei suoi ricchi genitori, ma lei voleva la sua indipendenza, la sua libertà. Così, senza venir meno ai doveri di madre, dopo aver pianto a lungo la scomparsa del marito, capì che era giunto il momento di reagire e di darsi una seconda possibilità. Non ha neanche trent’ anni e su uno dei suoi diari, che scriverà tutta la vita tranne il periodo del suo matrimonio, leggiamo
È ora di lasciare la casa dei miei…di qui a tre mesi, vorrei essermi stabilita in un luogo più o meno definitivo. Voglio sfuggire da questa distanza opaca, sempre presente, che ci separa dalle persone a cui siamo più legati. Non sarà mai il momento se non comincio ora.
Il padre è contrario a che lei lasci la casa d’origine, ma Jo non sente ragioni. L’eredità che il passato le concede sono gli innumerevoli quadri del fratello di suo marito, al secolo Vincent Van Gogh, di cui il nostro appartamento era pieno, in soggiorno, ovunque sotto il letto, sotto il divano, sotto gli armadi, nella stanza degli ospiti, insieme a una quantità inimmaginabile di lettere e corrispondenze private tra i fratelli Van Gogh. Ed è grazie a questo tesoro nascosto che a lei sembra di poter ancora ascoltare Theo tra le righe di quei carteggi e di conoscere, forse per la prima volta, tutta la sensibilità e la poetica con cui Vincent si approccia all’arte.
D’un tratto il suo compito le appare chiaro: portare a compimento ciò che il marito aveva iniziato. Ma vuole farlo modo suo.
La rivelazione
Come spesso accade quando si fanno progetti per il futuro, la sua mente torna al passato. In lei riemerge il ricordo delle estati trascorse con la sua famiglia d’origine a Bussum, un piccolo paesino a poco più di venti chilometri da Amsterdam ed è convinta che quella vivida immagine non sia un caso, bensì un segno del destino.
La pace di questo paesino mi consentirà di concentrarmi sulle priorità della mia vita: occuparmi di Vincent, conquistare l’indipendenza economica, leggere le lettere di Van Gogh, recuperare i quadri lasciati a Parigi,
ma sarà solo quando tornerà a visitare Bussum che ciò che si era profilato nella sua mente comincerà ad assumere una forma precisa. Lei lì vivrà e, al tempo stesso, aprirà una locanda.
Visita a Bussum rivelatrice.
A volte, è il disegno di un patio, il controluce insolito sopra una finestra, il luccichio di un acciottolato sotto la pioggia, a decidere più di qualunque altra cosa il tuo posto nel mondo.
A dieci minuti dalla stazione che collega il piccolo paese rurale ad Amsterdam scova il luogo perfetto, villa Helma. La casa, disabitata da più di sei mesi, non è in ottime condizioni, il giardino è in rovina, ma lei sa vedere oltre ciò che si presenta ai suoi occhi. Immagina già la casa ristrutturata e si prefigura i lunghi corridoi […] dipinti di un blu oltremare per dotarli di profondità (La vedova Van Gogh, p. 109), con appesi i quadri di Van Gogh. Di ritorno dalla visita della casa scrive sul suo diario Ho un presentimento: se torno una seconda volta in quel posto, sarà per acquistarlo.
Ed è proprio ciò che avviene. Suo padre, Hendrik Bonger, compra la villa e paga anche per la ristrutturazione, con il preciso accordo che da quel momento la Villa sarà solo una responsabilità di Jo.
Sono contenta per la prima volta da mesi.
Con questo slancio sono andata a cercare mobili con mia madre. Abbiamo comprato una camera da letto in palissandro con lune cesellate, una credenza in noce e rovere con vetrinetta di cristallo per l’ingresso principale di villa Helma.
Abbiamo trovato, a un ottimo prezzo, camere da letto singole tutte in noce, lampadari di cristallo e bronzo, tendaggi in panno ricamati a mano, una toilette, un cassettone, stoviglie in abbondanza e una libreria in ebano.
Per portare avanti il suo progetto deve recuperare, però, i quadri di Vincent. Al contrario di come immaginava, non incontra nessuna difficoltà: non solo Theo nel suo testamento lascia a lei il compito di occuparsi dell’eredità artistica del fratello pittore, ma la famiglia Van Gogh dimostra fin da subito di non volerne sapere nulla. Non si erano interessati alla sua arte quando era vivo, ancor meno avevano voglia di preoccuparsene ora che non c’era più. La vera battaglia sarebbe stata un’altra, quella contro il mercato dell’arte. Jo infatti si scontrerà a lungo con un sistema duro e fortemente maschilista. Non vogliono i quadri di Vincent e tanto meno vogliono che a proporli sia una donna.
Ma lei non si arrende e così fa fare da Emile Bernard, insieme al di lei fratello Andrè, una selezione di alcuni quadri rimasti a Pigalle, la sua vecchia abitazione, con l’intensione di portarli a villa Helma ed esporli nella pensione.
Il primo maggio apro una piccola pensione a Bussum…ci staremo comodi il bimbo, i quadri e io.
Non deve temere che i quadri finiscano nel granaio o in qualche bugigattolo nel retro. Adorneranno tutta la casa.
Ce ne sono anche di Paul Gauguin, Pissarro, Toulouse-Lautrec, Lheon Lermitte e Jean-Francois Millet. Adesso valgono solo 200 franchi ciascuno. Ma poi chissà. (15 aprile 1891, lettera a Emile Bernard)
Il mercato del tempo non le dà tregua, i critici continuano a stroncare il lavoro di Vincent e nessuno vuole esporre i quadri nelle gallerie. Ma Jo non si abbatte e inventa un modo alternativo per dar visibilità a quelle opere.
Oggi ho appeso molte tele a Villa Helma. Questo è stato il primo gesto, svelare i quadri al mondo.
Ogni avventore della sua locanda rimane strabiliato da quell’atmosfera, da quei quadri che illuminano i corridoi, la sala da pranzo e le camere da letto. Pian piano diviene l’attrazione principale della sua attività e con i primi proventi incornicia qualche disegno di Van Gogh da inviare alle gallerie, seguendo però il suggerimento di suo marito «esporre molto e vendere solo il necessario». Ci vuole tempo, pazienza e una tenacia tutta femminile, ma qualcosa comincia a muoversi e i primi articoli a favore di Vincent arrivano. Il suo lavoro encomiabile è descritto anche dal figlio che ricorda la madre intenta a scartare e incartare quadri da mandare alle mostre.
Ricordo bene le spedizioni con mia madre al capannone merci della stazione ferroviaria per spedire o ricevere casse.La gente veniva di tanto in tanto per vedere le foto. Le mostre, sempre più numerose, davano a mia madre molto lavoro. L’imballaggio, spesso inclusa la realizzazione di custodie, è stato per molti anni fatto in casa, il che ha causato molta polvere, rumore.
La locanda
La nostra casa a Bussum, Villa Helma, era spesso piena di gente. Molte delle amicizie più profonde di mia madre risalgono a quell’epoca. Molti esponenti della vita artistica e intellettuale di quel tempo furono ospiti a casa nostra. (VW van Gogh, 1953)
I clienti cominciano ad accorrere, tutti sorpresi e affascinati dai quadri disposti lungo le mura della locanda come fossero all’interno di un museo. Jo si stanca parecchio nel far tutto, ma è felice di non avere padroni, di essere economicamente indipendente. Dopo quattro mesi scrive, infatti, ai genitori che da lì a poco non avrà più bisogno del loro aiuto. Non gli racconta nulla di ciò che ha in mente per rilanciare il lavoro di Vincent e intanto risparmia per ampliare la villa e, ovviamente, per autofinanziare il suo progetto.
Scrive di lei il famoso poeta dei Tachtigers, Willem Kloos «La vedova del defunto editore d’arte con quel nome. Ha un figlio di dieci anni e ha un’accogliente pensione vicino alla stazione, Villa Helma. Conosco personalmente la signora Van Gogh e talvolta vado a trovarla per il tè la sera» (lettera tra il 23 e il 26 aprile 1899 alla futura moglie Jeanne Reyneke van Stuwe).
L’attività diviene un crocevia di artisti, eccentrici viaggiatori e amanti dell’arte e questo, in un certo senso, meraviglia la stessa Jo, sempre presa da tanti affari diversi. Scriverà sui suoi diari che a guidarla fu proprio la poesia con cui Vincent si esprimeva nelle sue lettere. Così, quando vuole migliorare il servizio nella locanda e comprare nuovi piatti e ceramiche pensa alle lunghe disquisizioni di Vincent sul rapporto tra quadro e cornici. Per lui tonalità simili, ma differenti, erano in grado di cambiare l’insieme.
Un riso giallo zafferano merita un servizio viola o blu; un petto di pollo dorato risalta meglio su un piatto di portata liscio dal fondo verde brillante. Un semplice purè di patate, bello bianco, su una ceramica color granata, per esempio, guadagna in eleganza.
Con questi dettagli, Villa Helma cresce.
Nel 1953, il figlio di Jo Vincent William van Gogh pubblica una nuova edizione del Collected Letters, lasciandoci una incredibile descrizione di Villa Helma:
«Il nostro soggiorno non era grande ma molto accogliente (in una casa olandese il soggiorno e la sala da pranzo sono una cosa sola). Sopra la mensola del camino imperiosi troviamo i Mangiatori di patate, sul lato opposto, sopra la credenza, La mietitura, (in realtà il primo quadro che appende nella sala da pranzo appena trasferisce i suoi mobili) mentre Strada di Clichy era appeso sopra la porta. Sopra il pianoforte invece c’erano quattro quadri di Monticelli; ai lati della credenza gli autoritratti di Guillaumin e di Bernard, e accanto al camino il Vaso di fiori di Vincent (il vaso viola). Dal bordo del paralume di porcellana bianca della lampada a petrolio posta sopra il tavolo, pendevano alcune stampe giapponesi. In un’altra stanza c’era il grande quadro di Gauguin (della Martinica) che appariva sopra il divano di Theo, che era coperto da un tappeto orientale; a quel tempo questo era consuetudine, ora sarebbe chiamato un sacrilegio.
E ancora nel corridoio del piano inferiore si trovavano disegni di Vincent del cortile dell’ospedale di Arles e della fontana a Sant-Rémy. Nella camera da letto i tre Giardini in fiore, Fioritura di mandorli e poi Pietà (dopo Delacroix) e Sera (dopo Millet). C’era un giardino intorno alla casa con molti alberi».
Qualcosa di personale
Un luogo a volte può rappresentare il punto di svolta, il cambiamento di rotta. Ed è ciò che successe a Jo che, attraverso la sua locanda, trovò il modo di riaccendere la speranza di una vita oltre il dolore. Si rese indipendente dal punto di vita economico e, nel tempo, ebbe la meglio su una società che rifiutava a priori un impresario d’arte donna. Il tutto, senza rinunciare a essere madre a modo suo, secondo il suo temperamento.
Mia madre ha formulato le sue opinioni in modo indipendente, e quindi le sue idee di tanto in tanto deviavano da quelle della sua famiglia. Entrò a far parte dell’allora giovane partito socialista, che la mise in contatto con altre persone. Tuttavia, non ha preso parte alla vita pubblica, ma si è dedicata a suo figlio, al suo secondo marito e ad altre cose.
A introdurla alla politica fu Willelmina Van Gogh, sorella di suo marito, con cui Jo instaurò una sincera amicizia, che permise a entrambe di sostenersi a vicenda. «A mezzogiorno Joanna e Will pranzano sotto i mandorli, nel patio» (La vedova Van Gogh, p.135). Ad accomunarle c’è un profondo scontento per la società maschilista del tempo ma soprattutto il coraggio di pensare in modo differente.
Un’innocente riunione di sole donne indetta da Will van Gogh a Villa Helma, tè delle cinque, quartetto d’archi, diventa la copertura ideale per un incontro clandestino tra donne che discutono delle loro sorti e del loro posto nel mondo.
Si ritrova a leggere la Femme libre, il primo giornale femminista del 1832, fondato e diretto da sole donne, che Will le ha portato in copia carbone, partecipa alla Conferenza internazionale socialista del 1915 per la pace delle donne, ma non solo. Perché Jo la sua rivoluzione la porta avanti giorno dopo giorno, tentando di vivere da donna libera, senza condizionamenti.
Nel 1932 la scrittrice di romanzi sociali Jeanne Reyneke van Stuwe pubblicò i suoi ricordi di Jo van Gogh-Bonger nella rivista olandese (simbolo del movimento degli Ottanta) De Nieuwe Gids. «Io stessa ho imparato ad ammirare e ad apprezzare il suo carattere bello e forte, durante un soggiorno a casa sua a Villa Helma nel Koningslaan a Bussum. Ho conservato i ricordi più piacevoli di questi giorni. La signora van Gogh era a capo di una pensione e sapeva davvero come offrire una casa ai suoi ospiti. E allo stesso tempo era la madre più dolce e premurosa per suo figlio […] Villa Helma era piena delle opere del famoso pittore scomparso, e ha passato anni a sistemare e sistemare le lettere di Vincent. Correggeva tutti i test, compresi quelli dell’edizione tedesca, e la sua illusione era di produrre anche un’edizione inglese. Quando è morta aveva tradotto in inglese 265 lettere».
Conclusione
Nelle ultime pagine del suo diario Jo scriverà
Vorrei farvi capire l’influenza che Vincent ha esercitato sulla mia vita. Furono Theo e Vincent ad aiutarmi a indirizzare la mia esistenza in modo che io possa essere in pace con me stessa.
Bibliografia di riferimento:
C. SÀNCHEZ, La vedova Van Gogh, Marcos y Marcos, Milano 2016. H. LUIJTEN, Diaries, borgerdiaries.org J. van GOGH-BORGER, Vincent Van Gogh, Abscondita, Milano 2007.
Pietralata è un quartiere periferico romano, sorto su un antico e vasto latifondo, da cui prende il nome latino (prata lata, grandi prati). Un luogo importante, simbolo della resistenza romana nel periodo della seconda guerra mondiale, che la nostra memoria storica lega inevitabilmente all’epica pasoliniana del sottoproletariato di Ragazzi di vita e di Una vita violenta. Nonostante infatti il quartiere sia stato raccontato in altri libri, pensiamo a La Storia di Elsa Morante o ai Racconti romani di Alberto Moravia, e abbia fatto da scenario a innumerevoli film, primo tra tutti l’Onorevole Angelina di Luigi Zampa, dobbiamo a Pasolini l’aver suggellato nel nostro immaginario la sua visione di tragicità e bellezza.
Una vita violenta
di Angela Colace
Una vita violenta è unanimamente riconosciuto dalla critica come uno dei romanzi più importanti del dopoguerra italiano. Il suo autore, Pier Paolo Pasolini, ha subito e subisce tutt’ora, ragionevolmente o meno, un giudizio che travalica i confini della letteratura e riflette la percezione morale del lettore e, soprattutto del non lettore. Non è raro che i più crudi giudizi morali, non quelli sorretti da un percorso logico e comparativo, ma quelli più prossimi alle ordalie divine, siano spesso propri dell’incolto. Certo è che, attraverso le sue opere, Pasolini ha aperto uno squarcio sulla vita, impietoso e attuale, che nonostante sembri radicato nella realtà italiana e romana in particolare, è privo di una reale collocazione spazio-temporale e, ancora oggi, riflette la condizione dei tanti individui che vivono ai margini delle città e della società, imprigionati non solo dalle condizioni di povertà economica, ma soprattutto umana e psicologica. Una vita violenta è proprio questo, un’opera amara e dura sulla condizione umana.
Dura è la città di Roma, che ne è una coprotagonista e che ci appare diversa da quella che tutti conosciamo. La ritroviamo soprattutto nella descrizione delle strade che Tommasino e gli altri percorrono in lungo e in largo, dalle malfamate, assolate o fangose periferie, al centro, brulicante di ragazzi di vita, ruffiani, individui preda dei propri istinti e desolazioni, prostitute disfatte, erano tracagnotte tutte e due, con la pancia che parevano incinte, le cianche corte e grosse, due facce nere e pelose con la fronte bassa da scimmie e la borsa in mano.
I luoghi descritti da Pasolini sono fin dall’inizio una presenza costante, quasi un personaggio che si aggiunge agli altri, a «Tommaso, Lello, il Zucabbo e gli altri ragazzini che abitavano nel villaggetto di baracche sulla Via dei Monti di Pietralata».
Non vi è traccia della magnificenza architettonica della città o degli altri suoi abitanti, se non per qualche fugace descrizione, capace di far apparire i protagonisti del libro ancora più soli ed emarginati. Eppure questi ultimi, come la loro stessa realtà, sono una presenza inevitabile e strisciante che travalica i confini delle periferie e delle baracche e alberga nella stessa miseria umana.
Duro è il cielo che, impietoso, rende rovente le lamiere dei tuguri di Pietralata o che le trascina nel fango con i materassi, le scarpe rotte e la disperazione di chi perde tutto senza che, in verità, possegga nulla. Un cielo di piombo, vischioso, di catrame che riflette la genesi dell’opera
«La trama di Una vita violenta mi si è fulmineamente delineata una sera del ’53 o ’54… C’era un’aria fradicia e dolente…Camminavo nel fango. È lì, alla fermata dell’autobus che svolta verso Pietralata, ho conosciuto Tommaso. Non si chiamava Tommaso: ma era identico, di faccia, a come poi l’ho dipinto…Come spesso usano fare i giovani romani, prese subito confidenza: e in pochi minuti mi raccontò tutta la sua storia». (P.P. Pasolini, Le belle bandiere, 1966).
Dura è la gelosia che consuma i giovani protagonisti che, già sui banchi di scuola, imparano “la vita” e si contendono le attenzioni del froscio!, del sor maè.
Dura è l’immagine di Tommasino con il sudicio colletto della camicia indossata per una settimana e stretto in una logora lingua di cravatta viola.
Ma duro è, soprattutto, l’epilogo.
Tommasino muore. Una morte riassunta in poche parole. Tanto si è raccontato della strada, della vita, delle vicende umane, al punto che talvolta ci si è persi nel dialetto romanesco, quanto poco è stato concesso all’ultimo respiro del protagonista tossì, tossì, senza più rifiatare, e addio Tommaso. Una fine così rapida, seppur figlia di un gesto eroico, che ammanta immediatamente di morte l’intero romanzo. Non conosciamo il perché di un epilogo così triste e brusco, ma, indubbiamente, Pasolini ha risolto in poche parole la triste vicenda umana, la resa, la disfatta del suo protagonista, vinto dalla vita, come un incipit al contrario, perfetto nella sua sintetica drammaticità. Perché per i perdenti delle desolate borgate, che si affannano senza scrupoli per una piotta in più, non c’è redenzione se non nella morte. Rimane solo Tommasino, rimane solo il cadavere di un ragazzo di vita.
Da Pasolini ai giorni nostri
di Francesca Consoli
Il testo di Pasolini rappresenta, al di là del suo valore letterario, una forma di memoria storica di un quartiere che nel tempo è cambiato considerevolmente. Nonostante infatti mantenga sempre una sua precisa identità, lo spazio ha subito trasformazioni sostanziali. La campagna romana che circondava Pietralata e che ricordava l’originario latifondo agricolo, così come quell’inizio di città fatto di fango e lamiere, è oggi in gran parte ricoperta di cemento, rendendo difficile rintracciare l’ambientazione descritta da Pasolini.
«Dove il camion s’era fermato, poco prima di entrare in borgata, c’erano da una parte e l’altra della strada distese di campi che dovevano esser di grano, ma ch’erano tutti pieni di fratte, buchi e canneti» (Una vita violenta, op.cit.)
Sicuramente le lente, ma invasive, modifiche che dagli anni ’50 si sono susseguite fino agli anni ’70 hanno contribuito al suo cambiamento, ma saranno gli anni ’90, con l’inaugurazione della linea B metropolitana e successivamente l’apertura della stazione ferroviaria Tiburtina, a stravolgere la fisionomia dell’intero spazio. Si è infatti posto fine a una specie di isolamento a cui Pietralata, così come molte borgate romane, era stata condannata.
Oggi convivono, in una sorta di paradosso, alcune baracche adiacenti a edifici industriali, antiche attività commerciali che la sera lasciano campo libero a locali notturni.
Esiste una emarginazione di tipo differente, una forma di abbandono da un lato, ma anche una spinta costante al ripristino dell’attività industriale, visibile attraverso la sua stessa architettura degli spazi.
E in certi tratti, soprattutto a ridosso dell’Aniene, è ancora possibile immaginarsi Tommasino camminare per la sua periferia.
Bibliografia di riferimento:
P.P PASOLINI, Le belle bandiere, 1966. P.P PASOLINI, Una vita violenta, Garzanti, Milano 2001. Per le foto, F.CONSOLI, Pietralata Concept, Settembre 2020.
Noi non facciamo arte, facciamo artigianato e l’arte è un incidente Giorgio Latini – Altrove Teatro Studio
Fiori Vivi, con la sezione In loco, si propone di segnalare quei – speriamo non troppo – rari incontri culturalmente significativi, da consigliare a chiunque ami ancora stupirsi.
Con questo spirito, quando ho pensato al mio primo contributo per questo progetto, con molta emozione, mi è venuto in mente il teatro studio Altrove, che si trova in via Giorgio Scalia 53 (Fermata metro Cipro) e che ha aperto, ormai, circa un anno fa.
Poco dopo l’apertura ho avuto il piacere di assistere allo spettacolo Blues in sedici, tratto dal libro di Stefano Benni, peraltro presente alla messa in scena ed entusiasta della ‘versione altrove’.
Mi ha colpito immediatamente, sin da quel primo incontro, lo spirito che si sente ‘nell’Altrove’, quello spirito di chi ha qualcosa non solo da dire, ma da dare.
Intanto, premetto che oltre il teatro, c’è un’accademia di recitazione e che gli spazi sono aperti alle sperimentazioni, come le menti dei Direttori.
Ho intervistato quindi Ottavia Bianchi, direttrice artistica, e Giorgio Latini, direttore amministrativo, che ringrazio per la loro disponibilità e per l’intenso momento di condivisione, prima parlando del progetto e, poi, commentando la loro versione di Blues in sedici.
Come nasce questo progetto?
Giorgio: “Io e Ottavia ci siamo conosciuti un po’ di anni fa e l’idea di far nascere un posto del genere è nata quasi subito, perché confrontandoci (siamo entrambi attori e abbiamo frequentato moltissimo il panorama del teatro off romano e anche del resto
di Italia in realtà; panorami abbastanza diversi) ci siamo resi conto di una serie di problematiche tecniche ed economiche che gli attori sono costretti ad affrontare al giorno d’oggi.
Decisi nel voler trovare una certa indipendenza da tutta una serie di dinamiche politiche del circuito (che non sono una novità per nessuno che frequenta l’ambiente del teatro) abbiamo pensato di trovare un nostro spazio.
L’idea originale era quella di servirci di un luogo molto più piccolo, poi un colpo di fortuna ci ha condotti qui…
Noi lo cercavamo da quando è nata l’Associazione I pensieri dell’altrove nel 2012, ma per concretizzarlo c’è voluto diverso tempo”.
Lo capisco, anche perché direi che non ci sia una grande apertura verso le espressioni artistiche indipendenti…
Giorgio: “No, infatti! Anche perché, per le ragioni di indipendenza di cui parlavo prima, questo spazio è totalmente privato, con tutte le difficoltà e i privilegi che questo comporta”.
Ottavia: “Ci sono, in effetti, pro e contro: i contro sono soprattutto relativi al fatto che i nostri mezzi sono limitati, pur essendo stati molto fortunati a trovare questo spazio a un ottimo prezzo, è stata una mole di lavoro enorme costruire ciò che vedi, perché qui non c’era niente.
A novembre avevamo già dato l’avvio all’accademia sia con corsi professionali che con corsi semi-professionali.
Si tratta di un’attività che portiamo avanti da anni e che ci ha condotti a cercare una ‘casa’, nel senso che Roma pullula di sale prova, ma quasi nessuna di esse rispetta lo standard minimo per fare teatro.
Ci vogliono i giusti requisiti per fare teatro! Serve una sala rettangolare, un parquet, degli orari consoni, insonorizzazione (per provare liberamente), un pianoforte e tanto altro.
Quindi abbiamo cercato un posto che ci consentisse una certa stabilità, ma soprattutto la possibilità di decidere sulla produzione artistica e la libertà, senza prezzo, di scegliere noi con chi collaborare”.
Giorgio: “Noi, ad esempio, abbiamo una sala con parquet adeguato allo standard europeo, come quello del Teatro dell’Opera, che però non essendo una normativa vincolante, non è presente da nessuna parte, nemmeno nei licei coreutici”.
Tornando all’Altrove.
Giorgio: “Alla fine però Altrove non nasce solo per noi, nasce per tutti.
Per sopperire a una serie di disagi che tanti colleghi hanno poiché molti direttori amministrativi (ma anche artistici) di teatri, mancando di un vero background teatrale, tendono a essere eccessivamente burocrati – anche coloro che erano attori si trasformano a loro volta un po’ in burocrati – e cercano di lucrare a discapito delle compagnie”.
Ottavia: “Ormai la figura dell’attore è cambiata, si è evoluta, c’è molta burocrazia da affrontare.
Inoltre, sono considerate ancora ‘giovani compagnie’ quelle con attori fino a 45 anni di età e, anche se in realtà molti di loro hanno alle spalle studi tecnici avanzati e possono vantare esperienze pluriennali, vengono comunque trattati come novellini, soprattutto con riferimento ai compensi.
L’attore, nella sua dimensione contemporanea, quindi, ha le capacità e i titoli, ma non ha gli spazi, perché la maggior parte dei teatri diventa, in questo modo, inaccessibile.
Ma anche chi accetta di lavorare negli spazi off si inserisce in situazioni nebulose nelle quali non sai mai nemmeno se guadagnerai qualcosa, senza contare la manchevole assistenza sindacale e l’insussistente possibilità di immaginare una pensione.
Totalmente in controtendenza con ciò che questo contesto vorrebbe suggerire, l’Altrove nasce con il concetto di base che di arte si può vivere, sempre con l’accortezza di non approfittarsi dell’esigenza dell’attore di andare in scena”.
Giorgio: “Credo ci sia una grande analogia oggi, tra la figura dell’attore e quella del filmmaker, autore che deve ricoprire contemporaneamente il ruolo di regista, montatore e operatore; sono state inglobate in una sola figura tante funzioni diverse, per ragioni effettivamente solo economiche.
Anche l’attore è in una condizione del genere: oggi viene trattato da scenografo, macchinista, regista, sarto, costumista, drammaturgo… Ovviamente, questa è un’arma a doppio taglio, poiché si vede tanto, ad esempio, quando un disegno luci lo faccio io o lo fa qualcuno che si occupa di quello nella sua vita professionale, come si vede quando queste otto quinte le costruisco io oppure un macchinista.
E poi c’è questo grande equivoco: cioè che l’attore sia un libero professionista, mentre in realtà nasce come lavoratore dipendente, sennò non ci saremmo battuti tanti anni fa per avere i riposi pagati. E invece ora non esiste più niente…
Se tu non ti fai pagare niente, il tuo lavoro non vale niente Ottavia Bianchi – Altrove Teatro Studio
Ottavia: “Anche le prove pagate oramai non esistono più, sono una chimera! Quindi la nostra idea è quella di organizzarsi, di creare una rete, finalizzata a ricordarsi che questo è un mestiere, deve avere un guadagno e non deve essere offensivo”.
In effetti, è una condizione che accomuna moltissime figure professionali attualmente, non basta più saper fare qualcosa, sembra si debba essere in grado di offrire un pacchetto completo che risolva le esigenze di chi ti offre lavoro.
Ottavia: “Sì, oggi siamo bombardati da questa ‘dimensione del multitasking’ delle 24 ore di lavoro consecutive, dalla quale è bene prendere le distanze.
È anche vero, però, che i tempi stanno cambiando e che un po’ ci si può evolvere. Ad esempio, nei nostri corsi non facciamo più soltanto lezioni di ‘parola, corpo e canto, ma Giorgio sta organizzando un corso di scrittura creativa insieme a un tecnico delle luci bravissimo”.
Giorgio: “Il panorama è cambiato molto. Ribellarsi, dal nostro punto di vista, è inutile; non intendo dire che quello che succede sia giusto, ma bisogna cercare di abbracciare questa situazione di cambiamento con intelligenza, per poi cercare di crescere sempre di più e di poter collaborare con tutte quelle figure altamente specializzate, fondamentali per l’ottima resa dello spettacolo”.
Ottavia: “Ci sono dei testi che non puoi materialmente mettere in scena se non hai un allestimento di un certo tipo e una scenografia degna di questo nome. È anche vero però che l’attore oggi non può pensare di vivere per sempre ‘a scrittura’, poiché si ritroverebbe a vivere anche lunghi periodi di fermo. Ma, a dispetto di tutto, è proprio in questi momenti che bisognerebbe iniziare a proporre progetti propri, in luoghi più piccoli come questo che, nello specifico, nasce con l’intento di fornire a tante compagnie che lo meritano uno spazio in cui esprimersi”.
E il nome? È per questo che si chiama Altrove? Perché propone un’alternativa?
Giorgio: “Sì e no, nel senso che Altrove ci piace moltissimo come nome, perché in effetti racconta già tutto, ma in realtà viene dal nome dell’Associazione – I pensieri dell’Altrove – di cui parlavo prima.
Per quanto riguarda il nome dell’Associazione, poi, penso possa raccontare molto meglio Ottavia, su tutto ciò che significa, sia a livello immaginifico sia a livello concreto”.
Ottavia: “Questo concetto ha veramente tanti livelli di interpretazione. La parola altrove già ti parla, sin da subito, di una dimensione diversa e distante, che è un po’ una metafora del teatro che è un luogo chiuso, un luogo di sogno, un luogo dove – dal mio punto di vista – i fantasmi di carta del testo (che è il re intorno al quale tutto questo si muove) attraverso la carne ‘viva’ degli attori, possono prendere vita.
In questo senso si vuole richiamare un legame con il concetto di buon testo e buoni autori (anche di chiara fama).
Questo da un punto di vista, dall’altro c’è anche l’interpretazione personale: il ‘luogo teatro’ è per me un luogo dove trovo la mia essenza, il mio ordine dal caos della vita e quindi riesco a essere creativa (ma ordinata), felice ed è dove il passato può rivivere… Non a caso, si tratta di un luogo in cui tu puoi resuscitare fantasmi di vario tipo. Anche attraverso l’utilizzo di oggetti che vengono dal passato. Infatti io credo che l’attore sia un po’ un medium, un tramite tra un momento o un pensiero passato e il presente.
Per finire, c’è il fatto (e questo è un aspetto molto personale) che l’attore trova se stesso in un’altra dimensione, cioè in una ‘dimensione-altra’, un po’ l’orrore di sé che nel teatro è una risorsa per andare a cercare il personaggio – che in teoria non ti assomiglia – attraverso interpretazioni varie.
Trovo la scelta molto interessante, anche perché ritengo che questo nome sia in grado di riassumere tutto questo, senza togliere nulla ai significati.
Ottavia: “Grazie! In effetti, si presta a molte interpretazioni, a esempio, questo murale lunghissimo che c’è dall’ingresso su strada e fino qui è un po’ una visione dell’artista Cristina Gardumi, che ci tengo sempre a ringraziare tanto. Lei mi ha chiesto che cosa volesse dire per me ‘Altrove’, io gliel’ho raccontato così e poi ‘i mostri della sua testa’ hanno preso quella forma lì sul muro”.
In effetti trovo il murales perfetto, ti porta via dalla strada e ti conduce verso un altro posto… Un’ultima domanda sul progetto: l’associazione e il teatro sono vostri, ma poi vi avvalete di altri professionisti?
Giorgio: “Sì, certo! Altrimenti ce la cantiamo e suoniamo da soli! A parte gli scherzi, noi cerchiamo di non intervenire più di una o due volte durante la stagione, perché questo deve essere uno spazio a disposizione di tutti e anche perché più persone passano di qui, più teste riusciamo a cambiare, perché c’è un senso di colpa diffuso in questa professione, sembra che si debba chiedere scusa perché si fa l’attore. Invece, non credo debba essere così.
Mi capita spesso di raccontare questa cosa, anche quando parlo con i ragazzi a cui facciamo formazione: negli anni ’60/’70 il Piccolo di Milano faceva circa il 45% degli incassi con la biglietteria, il che voleva dire che il 55% lo faceva con altro, che era il bar… Poi il bar è passato di moda perché il bar prima del teatro era volgare ed è stato sostituito con le sovvenzioni.
È così che nasce il ‘teatro a perdere’, perché solo il 45% delle entrate veniva dai biglietti e l’altro 55% doveva essere chiesto allo Stato, con gli attori che si trovavano a lavorare gratis e a staccare omaggi per dare l’impressione che il teatro fosse pieno, ma ovviamente alla produzione non entrava un soldo.
Dopo di che, l’attore di turno doveva riuscire a trovare un teatro e/o uno stabile più grande che potesse comprare lo spettacolo, riuscendo così a ottenere una paga, anche se i biglietti continuano a essere gratis”.
Ottavia: “Ci sono moltissimi spettacoli e altrettanti attori meravigliosi, che però per una questione numerica, non riescono a entrare nei circuiti, che comunque sono tre… Le produzioni di ogni stabile sono una o due l’anno… e quindi non lavorano”.
Giorgio: “Inoltre, l’ambiente del teatro sembra un po’ quello di una vecchia portineria, nel quale se qualcuno va a dire che un certo spettacolo ‘ha fatto schifo, influenza definitivamente il pensiero degli altri, Peraltro, c’è molto regionalismo e ognuno lavora e produce soltanto nel posto dove si trova, ci sono quindi molte chiusure.
Penso si tratti della poca educazione culturale. Quando si parla di materie scientifiche, in effetti, nessuno si permette di essere così tranchant. Al contrario, in campo umanistico non ci si pone alcun problema disprezzare, pur non essendosi mai occupati di un certo ambito. A mio parere, quando c’è in gioco del materiale umano (situazione nella quale si è chiaramente più soggetti a critiche, nel senso più ampio e quindi migliore del termine) si dovrebbe imparare a considerare che a livello tecnico c’è un lavoro, dal quale tenere ben distinto il gusto personale.
Ottavia: “In merito a questo, ci terrei che tu scrivessi la mia opinione.
Il più grande problema di questa epoca, secondo me, è la formazione.
In questa professione, chiunque si alza la mattina e decide di fare l’attore, in teoria lo è.
Questo è folle.
Noi che facciamo formazione (dopo averne ricevuta a nostra volta e con almeno dieci anni di gavetta alle spalle) spieghiamo ai nostri allievi che ciò che passa la televisione (ad esempio i talent show) ha rovinato disgraziatamente questa professione.
Questo incontrollabile fenomeno non lede tanto quelli della nostra generazione, che hanno frequentato le accademie, studiando e faticando, e che poi si imbattono ai provini in queste persone che arrivano dai reality e che non hanno una reale formazione, poiché credo che sia la professionalità che fa resistere un attore nel tempo e, quindi, a parte i brividi per doversi relazionare con tale ignoranza, non ci impedisce di trovare – nel tempo – un nostro spazio.
Più che altro, invece, rovina le nuove generazioni, convinte che basandosi solo su quelle esperienze poco formative si sia già pronti a lavorare e resistere nel tempo. Noi li vediamo, perché arrivano da noi spesso dopo aver speso migliaia di euro in scuole famose solo per il nome e non sono in grado di parlare italiano, magari hanno anche frequentato qualche anno, ma non hanno nemmeno mai fatto dizione.
Non perdono solo soldi, perdono anche tempo – che è il bene più prezioso che hanno – e vengono strumentalizzati con il loro stesso sogno”.
Ho trovato il vostro spettacolo attualissimo e forse non mie era mai capitato di veder esprimere le problematiche legate a questo tempo in un modo così peculiare e travolgente.
Giorgio: “Intanto, plauso a Stefano Benni perché lo ha scritto lui!”
Infatti! Però il fatto di cronaca su cui si basa il testo è degli anni ’80, il che ci preoccupa anche perché le problematiche sociali sono le stesse, solo che un po’ peggiorate. Quello che però mi ha davvero emozionata dello spettacolo è stata la regia. Ha consentito al messaggio di arrivare fortissimo, infatti a un certo punto ho chiuso gli occhi perché le voci e la musica mi comunicavano tutto, l’immagine quasi mi distraeva
Ottavia: “Ho pensato a questo lavoro teatrale da subito, non appena lessi in libro, tra il 2000 e il 2002. Ero ancora giovane e poco consapevole. Nonostante questo incontro fosse avvenuto in una fase embrionale della mia formazione, dopo tanti anni di studio e lavoro come attrice, il mio desiderio verso quel libro non è sparito.
Ho sempre letto Benni, anche se questo testo è molto particolare e cupo.
Quindi, in comunicazione come un medium con questi versi, mi ha sempre fatto pensare a più voci ed è anche uscita la me cantante.
Al contrario del testo originario, pensato per una sola voce e un contrabbasso, quello della mia regia è un vero e proprio concerto drammatico, un magma sonoro con moltissime onomatopee, pensato quasi come concerto musicale, anche se abitato da parole. Credo, infatti, che qualche volta si sia perso il singolo verso, ma che siamo riusciti a dare l’atmosfera del movimento.
Ci terrei a fare un plauso agli attori e al chitarrista perché, con la loro capacità e professionalità, sono stati in grado di entrare in ciò che volevo realizzare”.
Giorgio: “Ora racconto la parte divertente di quando Ottavia ci ha comunicato la sua idea, parlando della regia, ma da attore”.
[i due ridono ed io ascolto interessata Giorgio che recita il dialogo, facendo sia la sua parte, sia quella di Ottavia]
O: Allora c’è questo testo, si basa su un fatto di cronaca degli anni ’80 ed è stato scritto alla fine degli anni ’90 e lo voglio fare oggi. G: Ok, non c’è problema, perché le storie anche se hanno una certa distanza nel tempo, contengono spesso degli archetipi che sono eterni. Che cos’è? O: mah, una ballata… G: ah d’accordo! O: In versi… G: Ah… Emh… Ok, facciamo un reading in versi, non c’è problema… O: sono 16 movimenti, 8+8, però ho avuto un’idea: dato che il verso è μουσική (musikè) , non trattiamolo come prosa, trattiamolo come musica! G: … Panico.
Ottavia: “Tutto è stato montato in 20 ore, dividendo per tessitura vocale attori e ruoli, partendo dal suono, dai ritmi che avevo in mente. Abbiamo lavorato sul ritmo e quando lo abbiamo fatto nostro, ci abbiamo rimesso dentro il senso; un senso che poi è stato quello di concept album”.
Giorgio: “Non per niente, l’ambientazione che ha creato Ottavia (per questo mi colpiva che hai detto di averlo ‘visto a occhi chiusi’), è stata frutto di un’operazione amarcord – inspirata agli anni ’90 – volendo simulare di essere in una cantina a cantare per il pubblico questo concept album.
Intatti, l’ambientazione era semplice e noi non eravamo i personaggi della ballata originale, ma i membri del gruppo, che cantavano”.
Blues in Sedici all’Altrove Tratto dal testo Blues in Sedici di Stefano Benni