Si potrebbe fissare un prezzo per i pensieri. E con che cosa si pagano i pensieri? Credo con il coraggio.
Ludwig Wittgenstein
Una premessa
Il filosofo e ricercatore Michele Ragno, che già in passato si è dedicato allo studio di Wittgenstein (suo infatti il saggio L’arte che schiude il senso. La filosofia dell’arte di Wittgenstein e Heidegger sul valore filosofico dell’arte a partire per l’appunto dai due grandi filosofi del Novecento: Wittgenstein ed Heidegger), nel 2022 cura l’edizione italiana delle lettere di Ludwig Wittgenstein a Ludwig von Ficker. Tale rapporto epistolare, inedito in Italia da decenni, insieme alle altre lettere di Wittgenstein, ci permette di accedere al pensiero più intimo di un autore in cui filosofia ed esistenza risultavano tra loro strettamente congiunti.
Mentre la figura di Wittgenstein risulta maggiormente conosciuta, e non solo nell’ambito filosofico, lo stesso non potrebbe forse dirsi per Ludwig von Ficker. Editore e letterato dei primi del Novecento, lega il suo nome alla rivista di arte e cultura Der Brenner, da lui fondata nel 1910,e subito divenuta un punto di riferimento per la letteratura d’avanguardia. Wittgenstein, dopo aver contribuito economicamente alla attività editoriale dell’amico Ludwig, nel 1919 gli sottopone il suo lavoro più importante, il Tractatus logico-philosophicus, (n.d.a. anche se all’inizio non era questo il titolo originale dell’opera) perché lo pubblicasse proprio sul Der Brenner. Alla richiesta però von Ficher oppose un rifiuto, non credendo nella commerciabilità di un testo così complesso e frammentario. (Cfr. R. Monk, Ludwig Wittgenstein: Il dovere del genio, pp. 178-185)


In dialogo con Michele Ragno
Michele, come è nata l’idea di ridare nuova visibilità editoriale a queste lettere? Sappiamo che la traduzione in italiano mancava da parecchi anni.
M. R «Credo che queste lettere siano state e siano tutt’ora essenziali per comprendere la filosofia di Wittgenstein, perché fanno breccia nella sua vita e nel legame essenziale e indissolubile che per Wittgenstein stesso c’è tra filosofia e vita. La filosofia, e qui c’è sicuramente un atteggiamento in contrasto con la modernità e fondamentalmente più vicino ai filosofi antichi greci, non si limita a teoresi, ma è quella luce che ci guida nell’esistenza. Direi quasi che l’opera essenziale di Wittgenstein non sia tanto il Tractatus logico-philosophicus, né alcun altro testo scritto, quanto piuttosto la sua stessa esistenza, le sue scelte, i suoi errori, le sue risalite.
Non è un caso che, sul letto di morte, egli senta il bisogno di dire queste ultime parole: «Dite loro che ho avuto una vita meravigliosa». Questa affermazione racchiude una carica emotiva intrinseca tale da essere stata per me oggetto di studio e di riflessione.
La prima volta che presi visione di queste lettere le trovai necessarie per capire il Tractatus, per svelare l’anima che si nascondeva dietro quelle fredde e ordinate proposizioni numerate. Pubblicarle dopo così tanti anni di oblio non fa parte di un mero progetto biografico – Heidegger infatti introdusse un corso universitario affermando che della personalità di un filosofo ci interessa soltanto questo: nacque quel tal giorno, lavorò e morì –, un feticcio ossessivo che spesso ci porta a voler ‘spulciare’ ogni singolo aspetto personale – talvolta anche irrilevante – di un personaggio che ammiriamo, ma significa fornire quel tassello mancante del puzzle.
Probabilmente mai nella storia della filosofia vi è stato qualcuno come Wittgenstein tanto capace di racchiudere in se stesso struggente dolore, perfetta coerenza personale e ricerca di autenticità. E leggendo quelle lettere ci si rende conto di come la filosofia di Wittgenstein si possa perfettamente specchiare negli eventi della sua vita: la scelta di spogliarsi dei propri averi per donarli ad artisti austriaci privi di mezzi economici, di partecipare alla Prima Guerra, di abbandonare – ormai da punta di spicco della filosofia anglosassone – un ruolo prestigioso nell’Accademia inglese per fare l’insegnante di scuola elementare in Austria, etc.»





A proposito di queste scelte, nella sua introduzione a Lettere a Ludwig von Ficker. Vienna la guerra, il Tractatus di Ludwig Wittgestein (di cui lei è il curatore) menziona l’abbandono dell’ambiente universitario di Wittgenstein dopo la pubblicazione del Tractatus. Qual era il rapporto di Wittgenstein con l’accademia?
M. R «Sì, tale abbandono si è effettivamente verificato e il rapporto avuto con l’Accademia in generale è abbastanza complesso. Wittgenstein è sempre stato abbastanza sospettoso e diffidente nei confronti della filosofia accademica, da lui criticata perché pensava fosse improprio professionalizzare il pensiero.
Il pensiero ha dei tempi: tempi in cui bisogna seminare e tempi in cui bisogna raccogliere. Il fatto che il pensare sia un lavoro, che dia il sostentamento di un individuo, potrebbe forzare dei processi che secondo Wittgenstein dovrebbero essere assolutamente spontanei. Wittgenstein ha infatti scoraggiato diversi suoi allievi dal perseguire una strada accademica. Per essere filosofi non bisogna essere necessariamente professori di filosofia o accademici ricercatori filosofici. Al contrario, il percorso accademico potrebbe essere un ostacolo per la vera filosofia. Paradossalmente potrebbe essere maggiormente filosofica la vita di un operario – ed egli stesso prese in considerazione l’idea di abbandonare Cambridge per fare l’operaio in Unione Sovietica – rispetto a quella di un insegnante di filosofia.
Sottolineo che lo stesso Tractatus non è nato a Cambridge, in un ambiente accademico: quelle proposizioni sono state piuttosto concepite nella trincea della Prima Guerra Mondiale.»
Wittgenstein viene spesso descritto come il pensatore più antiaccademico che sia esistito. «Ricchissimo, rinuncia all’eredità e vive di borse di studio senza avere nessuna cattedra prima dell’ultima parte della vita. Voleva solo pensare. Non scrivere libri o articoli su riviste. Pensare, perché la sua ambizione era di essere perfetto sotto tutti i punti di vista. Segno d’un egocentrismo che farà poi scuola.» (R. Monk, idem)
Quello che vorremmo chiederle Michele però è se, nel concreto, l’avversione nei confronti della filosofia accademica si traduca necessariamente in avversione verso la disciplina della storia della filosofia?


M. R «Questa è una domanda molto interessante e richiede una risposta piuttosto lunga. In realtà proprio mesi fa mi ero imbattuto in un testo, edito dal Mulino, che conteneva un insieme di saggi sull’importanza della storia della filosofia nel pensiero contemporaneo. Il libro esordiva citando la prefazione al Tractatus di Wittgenstein
– In che misura i miei sforzi coincidano con quelli di altri filosofi non voglio giudicare. Ciò che qui ho scritto non pretende già essere nuovo, nei particolari; né perciò cito fonti, poiché mi è indifferente se già altri, prima di me, abbia pensato ciò che io ho pensato –
e presentando Wittgenstein come il filosofo analitico par excellence, intenzionato a rompere del tutto i rapporti con la storia della filosofia. Il testo denuncia l’ignoranza wittgensteiniana in materia di storia della filosofia, e bisogna sottolineare come questa sia una critica abbastanza comune al filosofo austriaco. Vero è che Wittgenstein non ha mai avuto una formazione filosofica ‘classica’: ciò è dovuto al fatto che la scelta di dedicarsi alla filosofia sia stata improvvisa, nata nel bel mezzo di studi ingegneristici. Ciò però non annulla l’interesse che Wittgenstein sin dall’inizio aveva avuto nei confronti della filosofia: da giovane infatti aveva letto Schopenhauer, Nietzsche – di cui era grande estimatore –, Kierkegaard. Sappiamo delle sue letture di Agostino, Spinoza e persino Platone, i cui dialoghi sono da lui più volte citati. Su Platone egli stesso scriverà questo pensiero:
I filosofi non sono più prossimi al significato di Realtà di quanto lo fosse Platone… Che strana situazione. Sconcertante che Platone sia comunque riuscito a spingersi così lontano! O anche che noi non siamo riusciti a spingersi oltre! È stato forse perché Platone era così bravo?
Viene perciò da chiedersi il perché di quel passo nella prefazione al Tractatus. Credo che Wittgenstein volesse mettere in chiaro una serie di cose: innanzitutto che la filosofia, essendo appunto strettamente connessa all’esistenza, è un percorso personale e in quanto tale non conta l’originalità: non è importante che io sia il primo a giungere ad una idea vera. L’importante è arrivarci e ciò basta.
L’altro aspetto decisivo che emerge è che la filosofia non è fatta solo di contenuti, ma anche di forme. Ed è forse questa la vera novità del Tractatus. O, ancora meglio, la forma incide su un pensiero tanto quanto il contenuto che viene espresso.»
Le difficoltà del Tractatus



Michele può parlarci della storia editoriale del Tractatus che, in parte, emerge proprio da una serie di lettere scritte dal nostro filosofo?
M. R «Il Tractatus ha incontrato non pochi ostacoli editoriali: essendo un testo breve e ostico nella comprensione, nessun editore era disposto a pubblicarlo. Wittgenstein chiese una referenza al suo mentore Gottlob Frege presso la rivista Beiträge zur Philosophie des Deutschen Idealismus, che aveva pubblicato il saggio di Frege Der Gedanke.
Frege in realtà non fece ciò: era disponibile a scrivere alla rivista per raccomandare la serietà dello scrittore, ma aveva diversi dubbi sul Tractatus – per la poca chiarezza di diverse proposizioni – e su esso sentiva di non poter esprimere alcun giudizio.
L’idea di Frege fu dunque di sezionare il testo, affrontando ogni singolo problema filosofico in una sezione che sarebbe stata poi pubblicata da un periodico, in modo da rendere più chiaro il pensiero nascosto dentro il difficile schema del Tractatus.
Wittgenstein ovviamente rifiutò immediatamente la proposta della suddivisione: come disse a Russell ciò era inaccettabile, perché significava mutilare l’opera dall’inizio alla fine e, in una parola, farne un’opera completamente diversa. La via era improponibile poiché suddividere il testo significava modificarne la forma e modificare la forma a sua volta comportava la snaturazione del testo stesso e dei suoi pensieri. L’importanza della forma, a cui sopra mi riferivo, è ribadita nella prefazione: Se questo lavoro ha un valore, questo consiste in due cose. In primo luogo, pensieri son qui espressi; e questo valore sarà tanto maggiore quanto meglio i pensieri sono espressi. Quanto più se colto nel segno.
Ed è strano che una simile proposta sia venuta proprio da Frege, che in una corrispondenza con Wittgenstein – a proposito del testo –, scrive:
Il piacere della lettura del suo libro non può pertanto raggiungersi sulla scorta di un contenuto già noto, bensì unicamente in base alla sua forma, nella quale s’imprime la peculiarità dell’autore. Per cui il libro è efficace più sul piano artistico che su quello scientifico; ciò che vi si dice è secondario rispetto al modo in cui lo si dice.
Wittgenstein dunque non era disponibile ad alcun compromesso per aumentare le probabilità di pubblicazione, perché l’importanza della sua opera consisteva proprio nella forma con cui quei pensieri erano espressi.»

Lettera a L. von Ficker, fine ottobre 1919
Per concludere riportiamo un estratto di una lettera che Wittgenstein scrisse a Ludwig von Ficker in allegato al manoscritto del Tractatus perché questi glielo pubblichi.
[…] Forse Le sarà di aiuto, se le scrivo un paio di parole sul mio libro: dalla lettura di questo, infatti, Lei, e questa è la mia esatta opinione, non ne tirerà fuori un granché. Difatti Lei non lo capirà; l’argomento Le apparirà del tutto estraneo. In realtà, però, esso non Le è estraneo, poiché il senso del libro è un senso etico. Una volta volevo includere nella prefazione una proposizione, che ora di fatto lì non c’è, ma che io adesso scriverò per Lei, poiché essa costituirà forse per Lei una chiave alla comprensione del lavoro. In effetti io volevo scrivere che il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto, ed inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante. Ad opera del mio libro, l’etico viene delimitato, per così dire, dall’interno; e sono convinto che l’etico è da delimitare rigorosamente solo in questo modo.
In breve credo che: tutto ciò su cui molti oggi parlano a vanvera, io nel mio libro l’ho messo saldamente al suo posto, semplicemente col tacerne. E per questo il libro, a meno che io non mi sbagli completamente, dirà molte cose che anche Lei vuol dire, ma non si accorge forse che son già state dette lì.
Le consiglierei di leggersi la prefazione e la conclusione, poiché sono queste che conducono il senso del libro alla sua più immediata espressione.

Bibliografia di riferimento
RAY MONK Ludwig Wittgenstein: Il dovere del genio, Bompiani, Milano 1991.
LUDWIG WITTGENSTEIN Lettere a Ludwig von Ficker. Vienna la guerra, il Tractatus, goWare 2022.
Fiori Vivi ringrazia
Michele Ragno Filosofo, studioso e scrittore di articoli a carattere scientifico. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo David Foster Wallace come esperienza filosofica (AM 2020); L’arte che schiude il senso. La filosofia dell’arte in Wittgenstein e Heidegger (goWare 2021).