La guerra delle coscienze, il ritorno della paura.

di Luca Tenneriello     

Come tristemente ci rendiamo conto giorno dopo giorno, i venti della guerra hanno ripreso a soffiare vigorosamente sull’Europa, oltre che sul mondo intero. Dopo quasi ottant’anni credevamo di aver arginato per sempre la minaccia della guerra nei nostri confini democratici e liberali. Invece, il quadro globale ci costringe a fare nuovamente i conti con una situazione di crisi estremamente complessa, di cui la recente pandemia da Covid-19 e poi il riacutizzarsi dirompente dei conflitti in Ucraina e in Medio Oriente sono solo gli eventi più recenti (benché più drammatici). Da oltre vent’anni – segnatamente dall’11 settembre 2001 – l’idea di pace che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento occidentale, un’idea su cui tutti noi ci siamo adagiati a livello antropologico, sociale e politico, e che è sembrata una del tutto nuova conquista del progresso razionale degli esseri umani (come in effetti è stato, per certi versi), ha iniziato pian piano a disgregarsi. La paura è dunque tornata con una forza dirompente a svegliare le nostre anime belle, e la riflessione che in più ambiti viene portata avanti mette a tema i concetti di rischio e sicurezza, percepiti come coordinate antropologiche, sociali e politiche su cui è necessario elaborare riposte per il nostro tempo.

Da più fronti ha preso piede una disinvolta invocazione alla nozione di stato di eccezione (tema filosoficamente gravido di implicazioni) per descrivere le ‘anomalie’ proprie del tempo che ci è toccato in sorte di vivere. Lo stato di eccezione (à la Carl Schmitt, per intenderci) indica un preciso istituto giuridico che sospende, sebbene temporaneamente, le garanzie costituzionali ordinariamente previste, disponendo, in modi variegati, una maggiore concentrazione di potere nelle mani dell’autorità governativa. E all’interno della classica letteratura sul rischio a sostenere questo tipo di visione è un filone di impronta giuridica e politica secondo cui l’immagine diffusa che cattura la nostra quotidianità sembra proprio essere quella di uno «stato d’eccezione permanente» giustificato dal «principio di precauzione» che viene sempre più spesso invocato nel dibattito politico su rischio, sicurezza e relazioni internazionali; a fronte di un rischio, globale o interno, percepito come prossimo, le società occidentali sono disposte, insomma, ad accettare misure autoritarie non più solo come strumenti emergenziali, ma come dispositivi strutturali (Lanzillo). Un’altra linea, più ‘esistenzialista’ se vogliamo, presenta lo stato di emergenza come minaccia per l’identità degli individui e come condizione permanente di crisi costitutiva della società contemporanea (Beck, Giddens); una versione più radicale offre invece una prospettiva esistenziale che per l’umanità risulta ormai drammaticamente ineludibile (Bostrom). Un approccio diverso, tipicamente etico e antropologico, infine, propone una lettura che inquadra il rischio quale dimensione costitutiva del consorzio umano come «forma di vita», rifiutando l’idea della minaccia esterna e valorizzando la riflessione sulla vulnerabilità, sull’ordinario e sulla cooperazione (Das, Laugier, Rechtman). Questa lettura offre delle considerazioni che situano il rischio e la crisi (e dunque la loro gestione e risoluzione) all’interno del quadro ordinario – non dunque come eccezione, in senso tecnico – della conversazione democratica. Il rischio rappresenta così una dimensione interna, costitutiva, possibile e dunque sempre latente, di un sistema politico e sociale ordinariamente stabile; insomma, come la malattia (temporanea) è fisiologicamente presente all’interno della vita generale di un corpo ordinariamente sano. Non si può essere sani sempre e per sempre, così come non lo può essere lo stato o il sistema politico e sociale che esso sottende.

Una prospettiva hobbesiana

In effetti la metafora organologica tra corpo umano e stato civile è un tópos classico nella storia del pensiero, ed è tipicamente associata, in particolare, a Thomas Hobbes e al suo grande Leviatano, personaggio leggendario che dà il titolo al suo capolavoro (1651). Nel frontespizio dell’opera infatti vediamo un grande uomo incoronato, con spada e pastorale a significare l’autorità politica ed ecclesiastica, il cui corpo è formato da tanti piccoli individui che a lui guardano. Il capo e le membra.

L’immagine rende l’idea generale del progetto hobbesiano: uno stato, regolato da norme, che vive in pace. Pace da realizzare in un quadro sociale stabile, dove tutti i cittadini possono godere di quelle che Hobbes stesso chiama «soddisfazioni della vita» (Leviatano, XXX): non solo la garanzia di avere una vita biologicamente sicura, al riparo da mani assassine (reali o metaforiche), ma soprattutto la possibilità di pianificare e conferire senso alla propria esistenza in senso ampio. Tutto ciò nonostante un’emozione cruciale, tanto a livello personale quanto a livello sociale, che in Hobbes non può essere annientata del tutto (ma può essere tenuta a bada): la paura. Lungi dall’essere un sentimento di malessere interiore per l’inesorabile fine della propria vita, la paura è propriamente la passione che accompagna l’aspettativa di essere uccisi da qualcun altro, appunto, in maniera violenta; da qui il famoso motto plautino da sempre associato al grande filosofo inglese: homo homini lupus, l’uomo è un lupo per l’altro uomo. Per Hobbes, la natura umana non è socievole, ma solitaria e ostile; per natura l’essere umano è portato alla conflittualità con i suoi simili, spinto da un insradicabile senso di costante diffidenza reciproca. Il conflitto è così una dimensione intrinseca e latente, che riguarda tutti gli individui; «a causa delle protervie dei malvagi, anche i buoni devono ricorrere, se vogliono difendersi, alla forza e all’inganno, le virtù della guerra; cioè alla ferocia delle belve» (De Cive). Eppure, la paura dell’altro e il senso di diffidenza reciproca non sono completamente neutralizzati neanche nello stato civile; l’ordine politico che il Leviatano fonda e garantisce non azzera negli esseri umani la paura di perire per mano d’altri, la natura umana insocievole resta inalterata anche nello stato civile (Hobbes sostiene, a mo’ di esempio, che nonostante ci siano leggi e funzionari pubblici capaci di punire i trasgressori, continuiamo a sbarrare le porte di casa quando andiamo a dormire, sigilliamo i nostri forzieri o ci armiamo preventivamente durante un viaggio). L’insicurezza diventa allora un problema quiescente, tenuto a bada ma sempre latente, «una sfida sempre presente all’interno dell’ordine, una crepa che ne percorre, quasi invisibile, il cristallo, una contraddizione nascosta nella sua tautologia» (Galli).

Da Hobbes impariamo che la possibilità che la pace sia contaminata dal conflitto, che l’ordine vacilli, è una questione del tutto possibile all’interno della vita politica e sociale di un sistema. E questo senza ricorrere necessariamente al concetto di minaccia esterna (che peraltro Hobbes recluta in altri casi) o di eccezione (benché uno Schmitt, per esempio, abbia esasperato Hobbes in chiave decisionista per elaborare il suo concetto di stato di eccezione). Varie, secondo il filosofo inglese, le potenziali cause di crisi; tra tutte vorrei ricordarne una, che Hobbes avverte come particolarmente minacciosa. La diffusione di «dottrine sediziose» che hanno a fondamento pretesti di ordine religioso; in altre parole, Hobbes condanna la strumentalizzazione della religione per giustificare la sedizione e la guerra. Se da un lato Hobbes riconosce alla religione un’importante valenza antropologica, che dà forma e significato alla vita di molte persone, dall’altro ne individua gli aspetti potenzialmente rischiosi per la società. E l’appello alla coscienza individuale, in nome della quale un cittadino può ritenersi in diritto di contravvenire alla legge, è certamente uno dei suoi obiettivi polemici fondamentali. Anche oggi, con ogni evidenza, l’ingresso dell’elemento religioso nelle nostre società è uno dei temi più delicati, socialmente importanti, ma al tempo stesso forieri di controversie. In questo senso, rileggere Hobbes da questa prospettiva può suggerire un ridimensionamento della coscienza individuale di una persona di fronte all’interesse di un’altra che da quella persona si aspetta, poniamo, la possibilità di accesso a un diritto – per realizzare una «vita soddisfatta», direbbe Hobbes (pensiamo per esempio alla possibilità di accedere all’aborto non terapeutico, alla possibilità di costituire un’unione civile tra persone dello stesso sesso o ad altri casi in cui l’obiezione di coscienza di un medico o di un funzionario pubblico ostacola la fruizione di un diritto legalmente costituito). In generale, l’interferenza che alcuni gruppi religiosi attuano nello spazio pubblico, tale per cui questa possa ostacolare la fruizione di diritti di persone terze che non si riconoscono in quella particolare narrazione religiosa, è ormai un fatto difficilmente giustificabile in una società governata da principi laici, democratici e pluralistici (ne parlo approfonditamente nel mio ultimo libro Thomas Hobbes. La religione e la coscienza, ETS, Pisa 2023).

Questo volume propone una lettura originale del pensiero religioso hebbesiano, attraverso l’esame della categoria morale della coscienza. Essa diventa così il terreno fecondo per sviluppare una prospettiva ermeneutica capace di gettar luce, dal punto di vista della filosofia hobbesiana, sulle problematiche più attuali riguardanti le questioni di coscienza e, più in generale, sul modo di regolare l’ingresso dell’elemento religioso nello spazio pubblico.

«Hobbes inaugura la grande stagione del soggetto moderno, un individuo non più sottoposto all’ordine metafisico della tradizione cristiana, che rivendica spazi d’azione della propria vita.»

O uomo, puoi fuggire lontano da tutto ciò che vuoi, ma non dalla tua coscienza.
Agostino d’ Ippona, Commento al Salmo 30, 63, 11.

Naturalmente, la filosofia – e quella hobbesiana in particolare – ha l’umile compito di offrire soltanto delle considerazioni teoriche che possano in qualche modo aiutare a riflette su temi complessi, la cui soluzione non è chiaramente univoca, chiara e libera da polemiche. Argomentare, offrire punti di vista, incoraggiare la libera discussione senza proporre posizioni dogmatiche è il grande obiettivo che muove la storia delle idee dalla modernità a oggi; da quando cioè l’essere umano, essere pensante, ha riacquistato la titolarità sulla propria vita, non più assoggettata all’ordine metafisico della tradizione. Un essere umano che, grazie al progresso umanistico, scientifico e democratico, riscopre la possibilità di rivendicare spazi di libertà e di azione sul proprio corpo e sulla propria vita (personale e sociale), per provare a realizzare – e ancora oggi c’è molta strada da fare in questo senso – quel sogno illuminista di una società laica, libera e democratica.

Fiori Vivi ringrazia

Luca Tenneriello dottore di ricerca in Filosofia, esperto della relazione tra religione e spazio pubblico, i suoi lavori sono apparsi su «Giornale critico della filosofia italiana» e «Notizie di Politeia». Autore di vari testi tra cui segnaliamo Thomas Hobbes. La religione e la coscienza, ETS, Pisa 2023. Ha inoltre curato: T. Hobbes, Vita di Thomas Hobbes di Malmesbury. Le due autobiografie latine (Mimesis 2022); Re Giacomo VI e I, Basilikon Doron (Arbor Sapientiae 2023).

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