Trenta nomi per amarti

Trenta nomi per amarti, l’ultimo lavoro dell’autrice Aurora Castro, dà il titolo a una plaquette di trenta brevi poesie, a carattere fortemente evocativo, unite da un misterioso fluire. In controluce, tra le parole e le immagini scritte per ogni giorno di un mese di Giugno, si compone e scompone una storia d’amore. Tutto prende avvio da una citazione di Oscar Hahn tratta dal suo Mal d’amore: “Quella dolce morte il tuo bellissimo amore mi ha condotto sulla riva”.

Proponiamo qui una selezione inedita del lavoro della poetessa, cinque componimenti, scanditi dal tempo, legati da un filo conduttore. Un racconto privato, un amore sofferto, desiderato e mancato, vissuto attraverso potenti metafore marine.

Aurora Castro

1 Giugno

Sei tornato con la pioggia delle cinque
ti ho dato un nome d’acqua, di nostra Vergine delle Acque disperse
il sole si è rotto in una luce di fiori, di costa, di prima fonte, di vele.

4 Giugno

Isole nere e gli eterniamati che ci chiamano
di là dalle porte del mare.

12 Giugno

Coste di fuoco, alberi di sale e vento, nostre dita eremite soffiate via dal mare.

19 Giugno

Ho camminato tutta la sera fra rovine di torri color oceano, seguendo le tracce di una luna anamnestica.
Il tuo primo bacio sa di libellule, il secondo di immensa pioggia, il terzo di coralli appena fa buio.

25 Giugno

I segni si richiudono, anche le ferite.
Il giorno scema in una metafora di mare. Presto la notte cancellerà i gabbiani del pomeriggio
e i miei occhi che ti cercavano nel vuoto.

Fiori vivi ringrazia

Aurora Castro, autrice e poetessa. Ha lavorato per l’editore Raffaelli di Rimini in qualità di redattrice editoriale e come copywriter per varie testate giornalistiche, fra cui Donna Moderna. Attualmente lavora come copywriter per un’agenzia pubblicitaria di Torino. Pubblica, per i tipi Raffaelli, il suo primo libro di poesie: La rosa del piacere (2012) e nel 2019 la raccolta di racconti Una lingua di mare, Tracce Edizioni. Suoi versi sono stati pubblicati online dalle riviste: Cartesensibili, Una Specie e Atelier. Nel 2022 pubblica per Ensemble Edizioni la sua terza raccolta di poesie, dal titolo Settanta giorni di coprifuoco.

QUESTA PANDEMIA CI CAMBIERÀ – BISOGNA VEDERE COME

di Carlo Vittorio Giabardo

Di certo Baudrillard, quando teorizzava “lo sciopero degli eventi” non si sarebbe mai immaginato il 2020. Quando, all’inizio degli anni Novanta, egli scrisse L’Illusion de la fin ou la grève des événements aveva davanti agli occhi uno scenario globale ben diverso: niente sembrava più possedere una forza tanto dirompente, scardinante, da mettere in discussione il “sistema-mondo” come si stava delineando (J. Baudrillard,  L’illusione della fine o lo sciopero degli eventi). Un ordine era venuto a crearsi, l’ordine capitalistico, democratico e liberale, un ordine tanto egemonico, congelato, da apparire, da lì in avanti, come inattaccabile. Niente sarebbe potuto più succedere, nessun Evento tanto significativo da comportare una rottura. Le cose non andarono proprio come Baudrillard aveva predetto. È cosa nota che egli stesso cambiò bruscamente idea all’indomani del crollo delle Torri Gemelle; qualcosa di davvero sconvolgente era successo e la partita era riaperta. Con quell’evento (“la madre di tutti gli eventi che non avevano mai avuto luogo”, egli dirà) la Storia si rimetteva in moto, si scongelava; le ideologie, le “idee forti” si rimettevano in marcia (J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo, pp.7-8). Vi sarebbe stato un prima e un dopo l’11 settembre 2001.

Il mondo non sembra più quello immobile di Baudrillard. Negli ultimi anni – e nel 2020 in particolare, già annus horribilis – abbiamo assistito a profondi sconvolgimenti economici (la crisi che caratterizza ormai il nostro tempo), politici (Brexit), ecologici (la catastrofe climatica che è già una realtà, e presto sarà irreversibile; l’Australia che a gennaio bruciava in un incendio di dimensione continentale senza pari, e che già è solo un ricordo): non stupiamoci, quindi, del ritorno prepotente sulla scena del genere distopico. Non si contano più gli eventi, le conferenze accademiche che propongono di pensare qualcosa (la letteratura, il diritto, etc…) declinandolo con espressioni del tipo: “alla fine dei tempi”, “in tempo di crisi”, “al tempo della catastrofe” … Segno delle mode accademiche certo (e della nostra incapacità di immaginare un futuro buono), ma forse qualche valida ragione c’è.

Ora siamo testimoni della comparsa della pandemia da Covid-19, la quale, in un’angosciosa escalation, ha provocato tragicamente la fine di innumerevoli vite umane, la dolorosissima scomparsa di una generazione, falcidiato intere aree del mondo e messo in crisi categorie politiche, sociali, economiche, giuridiche e persino antropologiche. Tutto nel giro di tre mesi scarsi. Questo Evento è diverso da tutti gli altri. Non esagero se dico che mette in discussione – e lo fa rapidamente, con effetti tangibilissimi, immediati – la nostra stessa idea di civiltà. Non è come il cambiamento climatico, i cui effetti, per quanto già reali, sono sempre, nell’immaginario globale, differiti. No. Il Covid-19 ha già traumatizzato la coscienza collettiva e ci ha ricordato così duramente il nostro essere, in fin dei conti, una “muffa cosmica” (per usare la potente espressione di Gabriel Marcel), fragile, precaria e delicata, pascalianamente grandiosa nelle sue capacità, ma, al tempo stesso, infinitamente debole [rileggiamo il profondissimo pensiero 186: l’uomo […] «non serve che l’universo si armi per schiacciarlo, un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo./Ma se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe comunque più nobile/di ciò che lo uccide perché sa di morire e conosce il potere che l’universo ha su di lui, mentre l’universo non ne sa nulla» (B. Pascal, Pensieri)].

Ma davvero l’uomo è consapevole del potere che l’universo ha su di lui? Questo universo, questa Terra, martoriata da un dissennato sfruttamento delle risorse? Non sembra. È noto, ad esempio, che l’erosione delle foreste primarie e, quindi, la distruzione dell’equilibrio tra spazi naturali e umani ha contribuito in maniera cruciale a quei “salti di specie” che virus prima confinati in altri mammiferi hanno fatto, aggredendo un tanto impreparato quanto ingenuo uomo. Non spingiamoci troppo in là: tuttavia, pare evidente lo stretto legame che esiste tra la prevalenza delle ragioni dell’economia (che si esprime non solo nello sfruttamento delle risorse, ma anche nei livelli di inquinamento che ci hanno resi più vulnerabili, nel depotenziamento dei sistemi sanitari avvenuto negli anni, e ora nella riluttanza a chiudere imprese anche non essenziali, o nella scommessa, giocata a livello globale, che per certi stati non fosse ancora necessario prendere misure tanto drastiche che ne avrebbero affossato la capacità produttiva, e via dicendo) e l’aggressività della pandemia in corso. Se l’Uomo ha avuto un ruolo in tutto questo – e lo ha avuto – allora è solo dalla chiara presa di coscienza delle proprie responsabilità che può nascere un diverso modo di stare al mondo: non soltanto di produrre, o di doing capitalism differently, come dice Mariana Mazzucato (il che mi pare piuttosto un invito a muoversi al di fuori dei confini del capitalismo), ma proprio di abitare questa Terra (M. Mazzucato, The Covid-19 crisis is a chance to do capitalism differently).

Non so se di tutto ciò terremo conto. In un esercizio di futurologia, non mi pare del tutto inutile interrogarsi sul lascito di questa pandemia. Le conseguenze di questo Evento rimarranno a lungo. Anche qui, vi sarà un prima e un dopo. Saremo diversi. Questo Evento è un’ulteriore messa in moto della Storia; sì, ma in quale direzione?

Saremo diversi politicamente. Vorrei (e di fatto lo sono) essere ottimista e augurarmi – come ha fatto Luigi Ferrajoli dalle colonne de “Il Manifesto” – che questa pandemia porti l’avvento di un costituzionalismo planetario, una Costituzione della Terra ispirata ai criteri della solidarietà e della fratellanza globale tra persone e popoli uniti da un comune destino (L. Ferrajoli, Il virus mette la globalizzazione con i piedi per terra, Il Manifesto, 17.03.2020). Ma la realtà è più dura; stiamo assistendo a un ritorno accelerato degli stati nazionali, allo sgretolamento impietoso di un agire comune [le esternazioni iniziali di Christine Lagarde, a capo della Banca Centrale Europea, che ha assicurato che non avrebbe fatto tutto il possibile per tenere contenuti gli spread italiani [(F. Fubini, BCE, Lagarde e la «gaffe» che fa esplodere lo spread, Corriere della Sera, 12.03.2020)], all’egoismo che oltraggia [la notizia – che nemmeno più ci indigna – che Trump avrebbe tentato di assicurarsi, comprandolo, l’uso esclusivo di un vaccino made in Germany (P. Valentino, Trump vuole comprare il brevetto di un vaccino tedesco in esclusiva per gli Usa, Corriere della Sera, 15.03.2020)]. Non saprei prevedere se si reagirà con una maggiore chiusura o con una maggiore concertazione politica. Dal grande al piccolo. Non saprei – per esempio – se riprenderemo a volare come facevamo prima, ad attraversare continenti come se fossero corridoi di una gigantesca casa, o se le restrizioni entreranno a far parte del nostro futuro DNA politico. Non saprei se nel prossimo avvenire (parlo da accademico) le conferenze via Skype rimpiazzeranno i convegni dalla parte opposta del mondo. E non ho nemmeno chiare le idee se questo sia, in fin dei conti, un male. Intanto, proprio pochi giorni fa, la filosofa americana Judith Butler denunciava il carattere correlato e paradossale di tutto questo: mentre stiamo combattendo un virus che non conosce confini e barriere (il virus più cosmopolita di tutti) noi ci stiamo recintando sempre di più dentro i nostri stati, le nostre regioni, città, case, stanze (J. Butler, Capitalism Has its Limits).

Saremo diversi personalmente. Ci siamo scoperti più solidali, ma anche più isolati. Più empatici con chi soffre, ma anche più diffidenti e più distanti, in questa quarantena, come dentro un quadro di Edward Hopper (il pittore della solitudine, come definito da Gail Levin in una sua biografia). Più uniti, ma anche più guardinghi. Ci siamo scoperti più “comunità”, trovando nuove modalità di relazione e spazi dello stare insieme (i flash mob sui balconi, la musica dai palazzi, gli applausi a chi è indispensabile), ma, allo stesso tempo, più aggressivi, pronti, anzi prontissimi a stigmatizzare violentemente l’amico, il vicino, il collega alla più innocua trasgressione dei decreti. Ci siamo scoperti più “collettività” ma anche, ahimè, parte noi stessi di una potentissima macchina di controllo sociale diffuso. La direzione che prenderemo non è affatto scontata.

E, forse, allora Giorgio Agamben non ha tutti i torti quando – in una serie di discussi (e per certi versi discutibilissimi) interventi – ci mette in guardia dai pericoli futuri di questo perdurare dello stato emergenziale (G. Agamben, Interventi). Questa pandemia non è una invenzione, né un dispositivo biopolitico, o uno strumento concepito dal Potere (qualunque cosa esso sia) per riaffermare sé stesso. Certo, vi è una dimensione importante che chiama in causa questioni di potere (la gestione del bisogno di sicurezza). Ma l’emergenza che stiamo vivendo – se mai ci fosse bisogno di ricordarlo – è sconcertante, e un sistema giuridico che non rispondesse all’emergenza con strumenti di emergenza agirebbe esso stesso illegittimamente, si porrebbe fuori dal diritto (le limitazioni ai nostri diritti di libertà di circolazione, di riunione devono e quindi possono essere ristrette per tutelare il superiore diritto alla vita). Quello che però vale la pena sottolineare sono i rischi sociali e personali (antropologici verrebbe da dire) che derivano dal consolidarsi di certe dinamiche pensate per essere rigorosamente temporanee. Se tutto questo durasse molto, che tipo di ferite lascerà dentro di noi? D’altronde, dentro certi abissi – Nietzsche insegna – non bisogna guardare troppo a lungo, altrimenti saranno gli abissi stessi a entrare in noi e a conformare ciò che siamo (F. Nietzsche, Al di là del bene e del male). Quello che non vorrei, quindi, è che si conservasse in noi quel malcelato desiderio di essere l’uno il poliziotto dell’altro, che sta purtroppo caratterizzando questo momento. Non resta che sperare che la fine dell’emergenza si porti via anche quella diffidenza nello stringerci la mano, nel parlarci a meno di un metro e cinquanta di distanza, quel disagio nel percepire qualcuno tossire un po’ più frequentemente del solito su un autobus.

Bibliografia di riferimento

G. AGAMBEN, Interventi, in https://www.quodlibet.it/una-voce-giorgio-agamben
J. BAUDRILLARD, L’illusione della fine o lo sciopero degli eventi, Anabasi, Milano 1993.
J. BAUDRILLARD, Lo spirito del terrorismo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002.
J. BUTLER, Capitalism Has its Limits, in https://www.versobooks.com/blogs/4603-capitalism-has-its-limits?fbclid=IwAR1Ij4gOFP_idBtowt6i9FFUHDEhHOgAnmgFxaq7iG1btea1Sti0rwAdHl0
L. FERRAJOLI, Il virus mette la globalizzazione con i piedi per terra,in https://ilmanifesto.it/il-virus-mette-la-globalizzazione-con-i-piedi-per-terra/
G. LEVIN, Edward Hopper. Biografia intima, Johan & Levi, Monza 2009.
M. MAZZUCATO, The Covid-19 crisis is a chance to do capitalism differently, in https://www.theguardian.com/commentisfree/2020/mar/18/the-covid-19-crisis-is-a-chance-to-do-capitalism-differently
F.W. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano  1977.
B. PASCAL, Pensieri, Utet, Torino 2014.