Quel che rimane. La poesia secondo Stefania Stefanini

Nei mesi di maggio e giugno, per l’evento Pomeriggi in poesia organizzato dalla Rivista Fiori vivi abbiamo incontrato l’artista Stefania Stefanini. Abbiamo parlato di poesia ma soprattutto di cosa significhi per lei il processo creativo.

Riportiamo alcuni passaggi dell’intervista e la lettura di alcune poesie tratte dal suo ultimo libro E ti immagino ancora lì (Edizioni Efesto 2023) che la Stefanini stessa ha registrato per noi. Parlano di fiori e le ha dedicate a tutti voi.

Come nasce la poesia

Che cos’è per lei, Stefania, la poesia?

S.S «Non so dirvi cosa sia in assoluto la poesia; per me, la mia poesia è quel che rimane. È l’emozione, l’essenza di quella emozione che riesco a cogliere soltanto mettendola su carta.

La somma di tutte le paure cheio trattengo in profondità e che riesco a tirar fuori soltanto mentre scrivo. Altrimenti le tengo chiuse, soffocate all’interno, perché non le voglio guardare, non le voglio vedere.

Scrivere è l’unico momento in cui riesco a parlarmi, a stare con me stessa e in tal modo a esorcizzare quella paura di cui vi parlavo. Le emozioni non riesco normalmente a tirarle fuori, a pronunciarle, a condividerle, cosa che invece scrivendo riesco a fare, ma cogliendone solo l’essenza. Ecco perché sono brevissime. Non ho bisogno di fare un dialogo lunghissimo o scrivere chissà quante parole per descrivere ciò che provo, perché nel momento in cui riesco a far affiorare quella parte di inconscio è tutto chiaro, netto. Lo vedo. Lo sento e quindi lo scrivo. È una necessità. E nel momento in cui lo faccio mi sembra di aver fermato qualcosa per l’eternità. Per la mia eternità. É lì, io stessa sono lì. Altrimenti so di perdere di nuovo quella rivelazione.»

Le capita di rileggere le sue poesie, anche le prime, di tanti anni fa?

S.S «Sì, spesso.»

E che effetto le fanno.

S.S «Mi toccano in profondità. Mi torna tutto in mente. Come se tornasse fuori ciò che ho incamerato. E questa sensazione è ciò che cerco di trasportare nello stile delle poesie.

E qualcosa di estemporaneo, non mi impongo di scrivere, mi metto solo in ascolto, mi sento e se c’è qualcosa che si muove, che ha bisogno di venir fuori esce da sola, senza il mio aiuto.

La mia poesia è quel che rimane, l’essenza

Questo effetto che prova a contatto con la poesia si verifica solo nel caso siano sue parole o le accade anche leggendo poesie o brano di altri autori?

S.S «Mi capita anche con gli altri, si accende una forma di empatia per cui provo la stessa necessità, lo avverto, è quella.

Penso che il meccanismo dietro la scrittura della poesia sia simile per tutti, ed è anche il motivo per cui sia difficile pubblicare, è la vera intimità che deve uscire, l’essenza della persona, sembra banale ma è davvero un mettersi a nudo.»

Ci sono autori che ancora più di altri suscitano in lei questa empatia?

S.S «Mario Luzi tantissimo. I notturni continuano ad affascinarmi. E poi Anna Achmatova, con cui condivido il fatto che scrivere sia anche un momento di dolore.

Quando il momento di scrivere mi chiama, sento al contempo dolore e gioia, tutto diventa essenziale, breve. Sono quelle parole, quel poco, l’essenza come dicevo prima. Una fragilità.»

È strano che parli di fragilità, perché nelle sue poesie c’è anche tanta forza, ruvidezza, violenza.

S.S «È proprio così, ma il contrasto nasce proprio dalla paura per quella fragilità che nascondo dietro la ruvidezza. Per questo sento la necessità di farla trasparire, per liberarmene.

In effetti scrivere assume per me una forma catartica. Nel momento in cui scrivo mi libero. Ed è come se quelle stesse fragilità non mi appartenessero più. Quando le rileggo, in un primo momento, non sembrano mie, ma sono esattamente me.

È un attimo in cui tutto viene a galla, per poi ricadere nell’inconscio. Richiudo le paure nel profondo, anche se poi all’improvviso ribussano e ho di nuovo bisogno di scrivere. E lo faccio, nonostante la timidezza. Provo sempre anche una certa vergogna nel condividere, anche se mi piace capire se gli altri provano le stesse emozioni. É un riconoscersi, come io mi riconosco in quelle poesie degli altri che svelano veridicità.

Un altro elemento fondante è rappresentato per me dalla mancanza, è come una spinta che solleva la malinconia. Il voler vivere qualcosa che non ho vissuto e il voler silenziare invece ciò che ho davvero vissuto. Anche se poi, contro il mio volere, tutto esce allo scoperto.»

I temi su cui si concentra non sono quindi specifici, ma sono la risultanza di una sedimentazione.

S.S «Assolutamente. Può essere di tutto, dalla gioia al dolore, un momento di malinconia, un ricordo, ma soprattutto quella sensazione di mancanza. È quest’ultima che scatena ogni cosa e che, proprio per questa ragione, faccio più difficoltà a condividere. Fa male anche a me stessa ritrovare quella parte più intima, mi fa paura.  

Nella vita di tutti i giorni non viene mai fuori, la tengo nascosta.»

Come mai, nonostante abbia scritto musica per tanti anni, proprio da poco ha iniziato a pubblicare poesia?

S.S «Con le parole riesco a disegnare una emozione, succede anche con la musica ma entra in gioco una forma diversa di emotività.

Mentre con le parole scavo a fondo dentro di me, con la musica mi allontano da me, viaggio.

Il suono mi fa uscire da me stessa, è la melodia che mi conduce in un viaggio lontano. Mentre con la poesia la voce esce dal di dentro e per questo ne ho paura, tanta, ma anche necessità perché è l’unico momento in cui si mostra. Delle volte rileggendo ciò che ho scritto mi chiedo se davvero sono stata io ad aver provato certe emozioni.

Quella stessa paura mi ha anche bloccata dal pubblicare poesie. Nonostante le scrivessi da tanto, è solo con la maturità e con le consapevolezze acquisite che ho potuto superare certe chiusure. Ho più coraggio nell’affrontare ciò che mi fa paura. Nonostante sia sempre difficile stare di fronte a se stessi, guardarsi allo specchio, oggi sono più capace a lasciare andare le cose e a rimanere a galla.

Non credo di avere la poesia dentro di me, ma è ciò che arriva dall’esterno dentro di me, lo immagazzino e poi mi sorprende quando decide di uscire.»

Letture

Dedicato

I versi che scrivo non seguono leggi metriche, rime. Con una immaginaria macchina fotografica inquadro emozioni, fragilità e paure. Scatto foto fatte solo di parole e so che se non le fermo in quel preciso istante le avrò perse per sempre. Ciò che cerco è l’essenza, il suono, l’onestà della verità senza timori. Cosa c’è di più reale di un verso poetico? S. Stefanini

Fiori vivi ringrazia

Stefania Stefanini: fondatrice della libreria Le Storie e della medesima casa editrice, dopo una lunga carriera musicale, si dedica alla poesia e alla diffusione di questa arte. Le poesie lette dall’autrice sono tratte dall’ultimo libro Ti immagino ancora lì, Edizioni Efesto 2022.

Tutte le persone che hanno partecipato all’evento Pomeriggi in poesia. La vostra presenza ha reso vivo l’amore per la poesia.

Identità vive

di Eros Lancianese

Quello dell’identità è un tema molto controverso che possiede numerose declinazioni, tante quante sono le diramazioni del nostro sapere.

Sempre più spesso sentiamo parlare di persone che ‘non sanno chi sono’ o ‘non riescono a definirsi’, muovendosi fra esempi nei quali identificarsi, simboli o bandiere alle quali aderire o test di personalità da consultare famelicamente per trovare un’indicazione statistica nella quale riconoscersi.

In una società dove non mancano modelli e profili nei quali rispecchiarsi sembra diventata una necessità collettiva scoprire ciò che ci caratterizza rispetto agli altri, un elemento, una facoltà o un talento che ci permetta di dire io sono questo!

Laddove invece la domanda sull’identità non trova risposta, si ripiega sull’ appartenenza, ovvero la ricerca della propria tribù urbana, un gruppo che condivida valori a noi affini, che faccia circolare fra i suoi ranghi delle qualità che ci possano far sentire riconosciuti e rappresentati come una squadra sportiva, una marca di abbigliamento o un credo spirituale. 

L’attualità dei nostri tempi presenta poi piccoli fenomeni di frammentazione di questa entità; oltre all’identità ufficialmente riconoscibile vi sono tante altre manifestazioni che poggiano su altre dimensioni cariche di investimenti psichici. Penso alle molteplici manifestazioni delle identità digitali, che diventano parcellizzazioni del nostro essere, modellate a seconda delle circostanze.

Siano esse un account per un digital store, un avatar per un gioco on-line o una app di incontri possiamo vedere come la stessa persona possa essere ridisegnata a seconda delle determinazioni di un preciso momento. In questo caso assistiamo a un processo diautodeterminazione di se stessi, una propagazione di ciò che di nostro può essere delegato ad uso e consumo della collettività, previo assoluto consenso attraverso il quale il singolo decide ciò che può essere condiviso o meno. Tale rappresentazione può poi essere restituita diversamente nel momento in cui viene in contatto con qualche algoritmo social o dall’indicizzazione di un motore di ricerca, che inizia a strutturare il nostro profilo suggerendo ciò che può fare al caso nostro.

A questo punto sembra uno strano paradosso, cercare una sintesi fra l’angoscia di definizione e la necessità di scoprire chi si è, che oscilla necessariamente tra la dimensione collettiva e la sfera individuale.

Il tema identitario non è una problematica recente: molte discipline hanno provato a sciogliere la questione definitoria, affidando la risposta agli strumenti propri di ciascuna disciplina. 

Antropologia, filosofia e psicologia, giusto per citarne alcune, hanno provato a fornire risposte molto significative anche se non concordanti fra loro, trovandosi d’accordo su un punto: l’identità non è mai un tema esclusivamente legato all’autodeterminazione personale bensì una questione a due

Nel periodo ellenico, ad esempio, l’identità era un dono sociale, una determinazione che non veniva da un individuo ma un’attribuzione che aveva la sua genesi nella polis e nel ruolo che il singolo rivestiva nel tessuto comunitario e nella vita politica della città-Stato.

Per Aristotele l’individuo che si dichiarava incapace di vivere in società o che riteneva di non averne bisogno, era «o una bestia o è Dio».

La partecipazione politica quindi era vitale per la dignità del singolo: non solo permetteva di accedere ad uno status pubblico riconosciuto fra pari che garantiva rispetto e tutele, ma consentiva anche l’accesso al dibattito per la gestione della città e in merito alla vita comunitaria.

Ricordiamo quanto terribile potesse essere, per un cittadino ateniese, essere sottoposto alla pratica dell’Ostrakòn, l’allontanamento dalla città per misure cautelative che la polis applicava nei confronti di un cittadino ritenuto pericoloso per la collettività; venire respinti dal demos ateniese significava essere privati dalla possibilità di partecipare e quindi far sentire la propria voce all’interno di un tessuto civile che offriva agi, protezione e riconoscimento.

Questo legame fra persone, comunità e ruolo ci consente di riflettere su uno dei principi basilari dell’identità ovvero sull’assunto che essa è una costruzione a due e non un’autodeterminazione. 

In Antropologia culturale ritroviamo la questione identitaria, elaborata in questa declinazione.

Ugo Fabietti, eminente accademico nell’ambito dell’antropologia, ha dedicato gran parte della sua ricerca scientifica a questo tema. Fabietti parla di identità etnica in quanto rappresentazione di un insieme di valori, simboli e modelli culturali che «i membri di un gruppo etnico riconoscono come fra loro distintivi». Da questo punto di vista l’identità non riflette una realtà statica e immutabile ma quasi un processo che si produce a secondo delle circostanze, dei tempi e delle situazioni.

I tratti distintivi, riconosciuti come tali fra i membri di una collettività, devono essere in grado di contraddistinguerli e di differenziarli l’uno dall’altro, sottolineando un principio di mutua appartenenza. Proviamo semplicemente a pensare che potenza potevano avere i primi graffiti prodotti dall’uomo primitivo e che richiamo identitario potevano restituire a tutti coloro che avevano vissuto determinate esperienze e che provavano ad essere ricordati attraverso delle rudimentali, ma efficaci forme di narrazione.

L' identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco - Ugo Fabietti - copertina

Per poter studiare l’identità Fabietti stila tre principi, ritenuti presupposti fondamentali.

In base ai suoi studi:

1) gli esseri umani non possono vivere senza identità sia su un piano individuale, sia su un piano collettivo; del resto la strutturazione dell’identità in senso collettivo ha permesso la nascita di una unità tribale che garantiva protezione e coesione per scopi legati alla mera sopravvivenza.

2) le identità possono essere concepite e costruite in vari modi all’interno di una dicotomia, come bello/brutto, buono/cattivo, gradevole/sgradevole. Tali appercezioni sono tanto arcaiche quanto funzionali allo scopo, in quanto permettono di orientarsi in modo primordiale dinnanzi a dei significati simbolici.

3) lo studio del fenomeno identitario è svolto da soggetti, che a loro volta possiedono un’identità, per cui essa non può divenire un Oggetto Sociale Puro, ma sarà sempre mediata da una lente di decodifica.

L’invito è pertanto quello di tener presente la propria matrice identitaria quando si tenta un processo di comprensione e decodifica di realtà, che possono essere lontane dal nostro sistema vigente, pena un errore di intendimento del fenomeno stesso, che rischia di essere interpretato diversamente dalla sua natura originaria.

Fabietti pertanto lega in modo profondo la costruzione dell’identità ai processi storici vigenti, sottolineando come la ricerca dell’dentità sia una questione affrontata da ogni civiltà e che le sue caratteristiche sono condizionate dallo Zeitgeist del momento, ovvero del periodo storico ad esso legato.

Van Gennep, nel suo I riti di Passaggio descrive, invece, i momenti di trasformazione individuale che si consumano all’interno della struttura tribale di appartenenza; si pensi al matrimonio, ai funerali o alle iniziazioni.

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Queste cerimonie hanno un altissimo valore costitutivo.

Il passaggio di identità, da ragazzo a uomo, da padre ed anziano, si consuma sotto l’occhio vigile della popolazione divenendo un fatto collettivo, sostenuto dalla società e proteso a continui processi di autorinnovamento. Anche in questa circostanza è assente un’autoattribuzione di un’identità, si assiste ad una ricerca di un riconoscimento che viene vidimato da un osservatore esterno che conferma e certifica tale condizione. I riti nella società strutturano coloro che compongono il tessuto collettivo e nel farlo la collettività riafferma se stessa come organo vivo, tesa in un costante processo di rinnovamento e affermazione.

In Psicologia questi fenomeni sono stati studiati cercando di far tesoro dei contributi provenienti da altre discipline. Per identità, si intende «il senso del proprio essere continuo attraverso il tempo e distinto, come entità, da tutte le altre». La riflessione parte direttamente dal contributo filosofico al dilemma posto da Hume e Locke, due filosofi di corrente empirista che restituirono all’uomo l’importanza dell’impronta della storia nella costruzione dell’intimo senso di sé; l’identità non è un dato, ma una costruzione di senso che la memoria fa di se stessa in relazione agli avvenimenti del passato e all’appercezione del presente.

Alla luce di quanto detto si afferma un concetto di identità intesa come processo di percezione dell’io in relazione ad un fenomeno esterno: la continuità dell’esperienza con se stessi.

La Psicoanalisi ha attinto alla riflessione antropologica per la costruzione del suo pensiero in merito alla questione identitaria. Quando Freud postulò nella sua Metapsicologia la presenza di un’istanza psichica che aveva il compito di dare forma ai nostri istinti da realizzare sul piano del reale, descrisse il Super-Io come una dimensione costituita da due componenti: l’ Ideale dell’ Io, ovvero la meta di realizzazione personale alla quale l’individuo narcisisticamente tendeva e l’insieme delle specifiche regole che costituivano il vivere civile della società all’interno della quale l’individuo si era sviluppato e che aveva introiettato.

Metapsicologia (eBook) di Sigmund Freud

Viene da sé che questo dato è strettamente legato ad un elemento esterno variabile e non universalizzabile.

Il Super-Io vive però non solo di cambiamenti dettati dalle differenze fra culture differenti, ma anche di mutamenti che lo stesso tessuto sociale si trova a gestire lungo un lasso temporale specifico.

Umberto Galimberti ha delineato ad esempio il tipo di passaggio che la collettività si è trovata ad attraversare dalla Società della Disciplina, dove il conflitto dell’individuo si misurava sul rispetto della norma e la possibilità di poterla infrangere, ad una Società dell’Efficienza dove viene superata la dicotomia fra ciò che è proibito e ciò che è permesso, che viene sostituita dalla coppia dicotomica: ciò che è possibile realizzare e ciò che non lo è.

La differenza da un punto di vista della sofferenza psichica è notevole. Se nella Società della Disciplina le depressioni si realizzavano sotto l’egida del Senso di Colpa, per cui si doveva affrontare a livello terapeutico il modo in cui la realizzazione personale poteva aver leso l’altro o la società; nella Società dell’Efficienza, in assenza di un limite reale, l’individuo vive l’angoscia di non essere mai abbastanza, innescando una dimensione competitiva dove l’altro non è più da preservare, come compagno, ma diviene un possibile competitor.

La vita diviene quindi una sorta di enorme prova performativa di cui sono ignoti la data di inizio e il termine finale, nella quale il senso della esistenza si realizza sotto la cornice esclusiva delle capacità personali, privata però di un arbitro esterno che possa regolamentare il gioco.

In realtà è questo senso del limite esterno: le difficoltà della vita, le delusioni, le esclusioni alle quali possiamo incappare, mettono l’adolescente in condizione di misurare la sua forza, la sua capacità di realizzarsi, la possibilità di tollerare le frustrazioni, la necessità di trovare nuove strade per potersi realizzare, in altre parole la sua capacità di potersi individuare come soggetto misurando la sua reale potenza dinnanzi alla pressione di forze antagoniste esterne.

I riti di passaggio erano momenti collettivi che venivano attesi con entusiasmo, poiché spettavano a tutti i membri di una comunità, ma allo stesso tempo erano vissuti con reverenziale timore, poiché sarebbero stati banchi di prova necessari, in cui la forza e coraggio si sarebbero rivelati sotto la testimonianza di un’intera comunità.

Sentire quella paura, toccare la vergogna per poi assaporare la gioia del superamento del momento di stallo, rimangono esperienze necessarie per poter cogliere il proprio senso di sé, per capire cosa si è e cosa si può fare. Se nella vita odierna abbiamo perso gran parte di queste tradizioni rituali, possiamo invece ritrovare la corsa all’autoaffermazione personale che si svolge in una dimensione digitale.

Il riconoscimento immediato che tali contesti riescono a restituire è istantaneo, ma perfettamente calato nei codici di appartenenza che si sviluppano in determinati contesti. In una qualche forma viene restituita una identità, calata nel campo del digitale, che si affaccia ad un pubblico planetario.

Lungi dall’esaurire il concetto di identità possiamo però notare come sia effettivamente un fenomeno più relazionale che individuale. L’immagine abusata di Linus dei Peanuts, intento ad accoccolarsi con la sua copertina, in realtà è la rappresentazione molto chiara di quello che in Psicologia viene definito Oggetto Transizionale che con la percezione d’identità ha molto a che fare.

Quando Donald Winnicott postulò tale concettò tentava di spiegare il modo in cui il bimbo cercasse di gestire l’angoscia della solitudine, in assenza della madre ancora non sufficientemente introiettata, cercando supporto in oggetti che in un modo o nell’altro riteneva congrui per sostenere il suo essere. Questi oggetti avevano il compito di rievocare sensazioni di beatitudine che garantissero quel benessere necessario per non andare incontro ai nefasti sentimenti che potevano perturbare la sua serenità evocando sensazioni familiari capaci di tranquillizzarlo e rasserenarlo, dinnanzi ad un mondo esterno che poteva percepire incomprensibile e quindi minaccioso. Winnicott ci dice inoltre che con la maturazione l’individuo necessita sempre meno di questi oggetti che gli ricordano chi è, poiché sostenuto e corroborato da un’intensa capacità di introiezione che gli permette di fare appello non all’esterno, ma dentro di sé a ciò che occorre per modulare i propri affetti. Questa funzione rimane presente in misura minore e può essere utilizzata nei momenti di estrema crisi e difficoltà.

Si pensi al caso riportato da Giovanni Jervis, noto psichiatra e psicoterapeuta italiano, nel suo La conquista dell’identità. Nel testo Jervis riferisce di una donna anziana portata via della sua abitazione in seguito a complicanze di carattere medico che la costrinsero ad un ricovero. In una condizione come quella di un letto di un ospedale, nella quale si può andare facilmente incontro ad una dimensione necessariamente spersonalizzante, la donna riusciva a sostenere il suo animo attraverso la presenza di un elemento che era riuscita a portare da casa e che aveva l’innegabile qualità di ricordarle la confortevole atmosfera familiare, ovvero una piccola tartaruga.  Nell’opera citata viene descritta la sorpresa del personale ospedaliero alla scoperta della piccola testuggine, intento ad interrogarsi su come la donna fosse riuscita a superare i rigidi protocolli di igiene, tanto da portare quella piccola vita con sé. Al di là delle risorse impiegate dalla donna per superare la rigida dogana, le condizioni di salute della donna crollarono nel momento in cui le fu sottratto questo ultimo appiglio con la sua quotidianità e quindi con la sua identità.

È utile riferirsi alla dimensione relazionale quando proviamo a comprendere la questione identitaria, poiché anche ciò che ci circonda è intriso di una personale tonalità e coloratura che ci ricorda chi siamo.

In tal modo anche le relazioni con i nostri affetti sono caratterizzati da questa condizione che ci porta a trovare noi stessi nell’altro, per cui, come scrive Italo Calvino ne Il Barone Rampante:

Lui conobbe lei e se stesso,

perché in verità non s’era mai saputo,

E lei conobbe lui e se stessa,

perché pur essendosi saputa sempre,

mai s’era potuta riconoscere così

L’identità quindi è un fenomeno ‘a due’ poiché basato sulla percezione di sè, grazie alla quale l’uomo riesce a intendersi come soggetto in un determinato modo e ispecchiamento negli Altri, ottenendo un riconoscimento di sè nella relazione con l’altro o anche una conoscenza inedita di ciò che si è.

A qualcuno si potrà risultare interessante, ad un un altro sagace ed un altro ancora noioso.

Tanti sono i rispecchiamenti quanto è ricca l’esperienza umana di una vita.

L’identità è quindi un fenomeno necessario, complesso, in continuo divenire lungo un continuum storico e sociale che occorre riconoscere come pertinente al proprio sentire e congruo al proprio vissuto.

D’altronde il continuo interrogarsi sulla questione identitaria da secoli, non trova approdi definitivi, ma orizzonti aperti e mutevoli.

Bibliografia di riferimento:

S. FREUD, (1915a) Metapsicologia, vol. VIII, in OSF¸ Bollati Boringhieri, Torino1976.

U. GALIMBERTI, Enciclopedia di Psicologia, Garzanti, Milano 1999.

G. JARVIS, La Conquista dell’Identità, Feltrinelli, Milano 1997.

F. REMOTTI, Remotti F. (a cura di) Sull’ Identità, Raffaello Cortina, Milano 2021.

Il Covid e l’Edipo, una chiave di lettura del periodo di pandemia


Di Eros Lancianese

L’ epidemia di Covid 19 si è presentata un anno fa come un fenomeno collettivo che ha costretto la nostra società a dure misure cautelative per arginare la diffusione del virus. La sua comparsa ha generato risposte sociali di vario tipo, che andavano dalla negazione dell’evento ad altre reazioni collettive come i flashmob motivazionali; queste reazioni, se da una parte avevano un innegabile valore consolatorio, ai più smaliziati potevano apparire come un ingenuo tentativo di negare un lutto o una privazione alla quale stavamo andando incontro. Quale? La rinuncia, seppur momentanea, al nostro stile di vita.

Sì, perché mentre il mondo stava continuando ad intessere la sua relazione con il proprio stile di vita e la sua possibilità di progettarlo, il virus arrivava dalla Cina ed interrompeva questo legame presentandosi, seconda la letteratura classica della Psicoanalisi, come un’enorme Funzione Paterna che veniva a perturbare questa situazione dal  chiaro sapore edipico.

Un piccolo passo indietro.

Il complesso di Edipo come Esperienza Archetipica

Nella letteratura classica la teoria del complesso di Edipo è di importanza capitale (S. Freud, Il tramonto del complesso edipico) poiché stabilisce forma, ruoli e organizzazione della diade genitoriale in presenza del neonato, ovvero della famiglia. La struttura psichica delle origini si organizza attorno alle esperienze quotidiane nelle quali l’infante si trova e che coinvolgono il padre e la madre; la mente ne è immersa e inizia a lavorare cercando di poter trovare un senso fra gli inafferrabili accadimenti esterni e le sensazioni corporee alle quali non riesce a dare un significato specifico, mentre i genitori, interagendo, cercano di interpretare ed accogliere i bisogni del bambino.

Possiamo dire che la psiche nasce assolutamente nella relazione e attraverso di essa prospera e si evolve. Così crescendo, il nuovo arrivato farà esperienza delle due funzioni fondamentali dell’esperienza psichica che sono la Funzione Materna, una dimensione di accoglimento, raccoglimento e comprensione dove il bambino può sentirsi apprezzato ed amato per quello che è, colmando l’esperienza della mancanza e della solitudine, e la Funzione Paterna, istanza che valuta, divide e separa e che fa capo a tutte le dimensioni dove l’iniziativa e la spinta alla realizzazione motivano l’individuo.

Se il Materno è il sentire e la piacevolezza nello stare, il Paterno è l’obiettivo e la progettualità.

All’interno della compagine familiare possiamo accogliere ed essere accolti nella dimensione del materno, istanza paradisiaca dove i confini madre/bimbo perdono la loro consistenza, per venire in seguito definiti e separati dalla funzione paterna che spezza l’idillio e struttura dei parametri, o se vogliamo, dei limiti che arginano l’onnipotenza dell’infante che vorrebbe la madre tutta per sé

mantenendo inalterato questo ‘indistinto’ dove il tempo si dilata e lo spazio e la distanza non esistono. Il bimbo ovviamente non gradisce tale separazione e la lotta edipica si consuma in una contesa per riappropriarsi di quanto precedentemente tolto. La lotta al paterno, inteso come funzione, significa allora contestare questo terzo, che si presenta come un’autorità fuori dal nostro controllo mostrandosi come un degno avversario che impartisce direzioni e, ad intervalli regolari, ci permette di ricongiungerci con il materno.

Non è un caso che tutte le divinità che presiedono il controllo del tempo abbiano fattezze maschili: Aiòn con il passare delle ere, Chrono che sta a capo del tempo quantitativo (il mero, incessante, freddo, scorrere dei secondi), Kairòs, il dio dell’attimo, dell’occasione, del momento giusto ovvero il tempo qualitativo o Hermes, il dio che presiede alle trasformazioni (e quindi immerso nel tempo della gestazione dell’evoluzione). In questo caso possiamo dire che sottoposto alla funzione maschile nell’infante nasce il tempo, la possibilità di scandirlo e quindi di controllarlo cercando di prevederlo e pianificarlo. L’atemporalità del materno viene spezzata dal paterno che dona, attraverso il ritmo e intervallo, respiro alla vita, permettendo quindi di pensare sia la presenza quanto l’assenza e quindi organizzare dentro di sé la dimensione della mancanza.

Una buona relazione quindi fra queste due funzioni permette quindi di regolare il rapporto fra godimento e frustrazione, attività e stasi, dentro e fuori il rapporto; la vita acquista non solo tridimensionalità ma anche possibilità scegliere, abbracciare il piacere oppure trattenerlo e posticiparlo.

La Psicologia junghiana sottolinea non tanto l’idea che tali funzioni siano incastonate rigidamente nei ruoli genitoriali, visto che sono esercitati grossomodo da entrambi, bensì il fatto che, essendo esperienze Archetipiche, tutti noi possiamo farne esperienza o ricercarle qualora esse risultino carenti o assenti. Questo significa che la mente è recettiva e capace di percepire queste esperienze come significative, fondanti e necessarie per la propria formazione; la psiche riesce a introiettarle e darne un significato dentro sé in modo tale poi da riconoscerle, quando si ripresenteranno nella vita di tutti i giorni con fattezze e spoglie differenti.

In questo modo la sofferenza e la rabbia di un preadolescente al quale viene requisito lo smartphone per un pomeriggio dai suoi genitori a fini educativi può essere simile alla sofferenza e la rabbia di un neolaureato che non riesce a trovare subito lavoro nonostante la sua brillante carriere universitaria: entrambi lamenteranno che i genitori, nel primo caso, e il mondo del lavoro, nel secondo, sono sordi ed insensibili ai loro bisogni, che siano rimanere a contatto con i propri amici oppure avere subito un’occupazione.

Il Paterno, o istanza Super Egoicacome verrà intesa da Sigmund Freud, è in parte sordo ai bisogni dell’individuo, ma se adeguatamente introiettato permetterà ai due giovani di cui sopra di gestire l’enorme carico di frustrazione che ne potrebbe conseguire imparando la virtù della pazienza e del contenimento.

Il Covid 19 come manifestazione della Funzione Paterna

Data questa premessa possiamo provare a leggere gli eventi della Pandemia azzardando una lettura analitica rispetto a quello che è accaduto collettivamente. La diade madre/bambino, ovvero la dimensione del Materno, sarebbe, da questo punto di vista, la relazione che ognuno di noi aveva con la propria routine quotidiana, robusta o labile che fosse; ciascuno di noi portava avanti i propri interessi, le proprie passioni e i propri obblighi. Pensare che qualcosa turbasse questa relazione al punto tale da sospenderla a livello globale era pressoché una fantasia di qualche scrittore o il delirio catastrofista di qualcuno dotato di una fervida immaginazione.

La pandemia arriva e si presenta come una forza inarrestabile con la quale non è possibile negoziare, costringendo pian piano i vari governi a prendere misure di contenimento tali da promuovere, a livello planetario, un periodo di distanziamento sociale per non generare un’emergenza sanitaria che potrebbe portare le strutture sanitarie al collasso. Ecco la dimensione del Paterno, la dura circostanza da accettare ed entro la quale ragionare e decidere il proprio piano d’azione.

Ovviamente questa decisione che ci ha interessato tutti è stata accolta con alterne reazioni: c’è chi ha accettato le disposizioni della quarantena, comprendendo che l’azione era necessaria e dovuta, chi non ha gradito questa decisione e ha iniziato a lamentarsi e chi ha cercato di reagire in maniera maniacale (per ‘maniacalità’ si intende un’interferenza con il normale stato dell’umore dell’individuo colpito dalla dimensione della perdita, che lo induce a non metabolizzare l’evento ma ad esaurirlo frettolosamente per non percepire il dolore che altrimenti ne comporterebbe), cercando di negare il periodo di distacco e affollando già dalla prima settimana i balconi con i famosi flashmob, ai quali si può riconoscere un’innegabile qualità galvanizzante, ma allo stesso tempo rimproverare le precoci tempistiche e il fatto di essere stato un fenomeno piuttosto discontinuo.

È proprio questa discontinuità che forse può aver reso maggiormente ostico il periodo di chiusura di questo scorso marzo. Se come abbiamo detto, la Funzione Paterna è una dimensione che fa della sua inamovibilità una delle sue qualità precipue, è pur vero che il suo grado di tollerabilità è dato dalla sua capacità di essere rappresentata in un arco temporale stabilito, nel quale la sua azione si attiva per poi esaurirsi. Nella clinica possiamo notare che più che l’evento increscioso in sé, è l’indefinitezza del suo termine che rende il paziente particolarmente angosciato. Pensare il termine del malessere aiuta chiunque ad affrontare il dolore che lo accompagna; un futuro incerto, dove non ci si può collocare né immaginare, genera angoscia e terrore perché lascia soli nella sofferenza e nell’incapacità di soddisfare i propri bisogni, quali essi siano. Non è un caso che tutte le manifestazioni ansiose o fobiche sono legate alla dimensione temporale del futuro, poiché esso viene percepito come l’ignoto per eccellenza, le cui risoluzioni non si possono assolutamente intendere o percepire.

Umberto Galimberti, nel suo I miti del nostro tempo,  ritiene che il mondo ellenico generò il pensiero determinista, che si basa sulla relazione sequenziale causa/effetto e quindi passato/futuro, proprio per poter gestire e afferrare l’avvenire, scongiurando la percezione dell’uomo come impotente dinnanzi all’incertezza. In questo modo la visione causale del mondo avrebbe l’illusione di spiegare tutti gli avvenimenti secondo una sequenzialità che parte dal passato per giustificare gli eventi futuri. Sarà per questo motivo che l’uomo occidentale riesce così a rappresentarsi il tempo, in modo da poterlo gestire e piegare alla sua volontà, dimenticando quando potrebbe essere labile la sua pianificazione dinnanzi alle sorprese che la realtà può presentarci.

Alcuni ricercatori (E. Grey Ellis, What Coronavirus Isolation Could Do to Your Mind (and Body), Wired, 25.3.2002) hanno studiato le reazioni di un gruppo di scienziati occupati in missioni in solitaria in zone remote del globo o dello spazio, cercando di capire come la mente potesse reagire a lunghi periodi di isolamento. Le ricerche hanno rilevato come il morale degli intervistati fosse alto e in buono stato fino a metà del tempo stabilito dalla missione, dopodiché, complice la stanchezza o l’abitudine imposta dalla solitudine, andavano incontro ad un fisiologico periodo di sconforto che si risolveva poi con l’appropinquarsi del termine dell’esperienza. Anche la Psicologia delle Emergenze (M. Cuzzolaro M., L. Frighi L., Reazioni Umane alle Catastrofi ), che studia le reazioni psichiche a eventi catastrofici e le possibilità di aree di intervento, ritengono che la ripresa è facilitata in casi di disastri circoscritti nel tempo come un maremoto o uno tsunami, lasciando intendere che fossero i terremoti gli avvenimenti che generavano maggior paura data la loro imprevedibilità futura.

Il Covid purtroppo si è comportato alla stessa maniera. Le misure di intervento dovevano far fronte ad un quadro epidemiologico in continuo divenire; il virus mutava, generava focolai anche imprevisti costringendo a continui procrastinamenti delle date di riapertura, che facevano aumentare  malumori e insofferenza, sintomi di disagio e frustrazione che si aggiungevano a quella già accumulata durante il periodo di isolamento. Gli stati d’angoscia o ansia, riportati dalle prime indagini della stampa specializzata, testimoniavano un’insofferenza data da questa indecisione del futuro o, se si preferisce, l’impossibilità di pianificarlo o pensarlo ancora nostro. Per intenderci, è come se nostro padre o nostra madre, attivando la funzione paterna, ci dicesse che possiamo rilassarci o dedicarci alle nostre passioni, solo qualora abbiamo ottemperato ai nostri doveri, che vengono specificati chiaramente, salvo poi non esaurirsi al termine dell’impegno, ma rinnovandosi automaticamente con altri obblighi. Così facendo si sposta sempre un po’ in avanti il tempo nel quale potremmo goderci il riposo una volta esaurito il nostro compito. In questo caso, il paterno messo in atto smette di essere tale, poiché i contorni e i confini di quanto stabilito non sono chiari, ma mutevoli e quindi non pattuibili dall’inizio, ovvero al momento in cui ci si è accordati. Si pensi all’eventualità che il sole sorgesse sempre e immotivatamente un’ora dopo tradendo il suo ritmo e la sua regolare circolarità.

C’è da dire che sopportare questo continuo procrastinamento significava accettare una Autorità Paterna che sta facendo di testa sua; tuttavia in questo caso Lo Stato può assumere il ruolo di figlio, costretto a continui adeguamenti causati da forze maggiori quali la Pandemia che, invece, gioca il ruolo del Padre che non sa collocarsi all’interno di un piano prestabilito, data la sua natura imprevedibile e cangiante.

È per questo motivo che è importante ancora oggi parlare della relazione Triadica che scaturisce dal Complesso di Edipo: l’energia brulicante di entusiasmo e speranza non può scorrere idealmente nel solo rapporto diadico, che si esaurisce in un io e un tu, bensì deve scorrere attraverso una forma geometrica nota per essere reale e generare un noi, arricchendosi di particolari e visitando numerose esperienze che possono permetterci di star bene e sentirci accolti, o agire poiché sentiamo di essere ostacolati. È quest’alternanza di ritmo che va dallo stare all’agire e viceversa che rende reale l’umana esperienza, così poi da godere e sopportare, e sopportare per poi tornare a godere.

Introiettare questa relazione triadica rimane un passaggio importantissimo per lo sviluppo dell’infante, poiché se i genitori offrono innanzitutto un’immagine del mondo, avere dentro di noi questa struttura significherà riuscire a muoversi nel mondo reale nelle giuste coordinate simboliche e permettere di tollerare una condizione di malessere temporaneo dal quale sollevarci poi collettivamente.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

M. CUZZOLARO, L. FRIGHI, Reazioni Umane alle Catastrofi, Gangemi, Roma 1991.
S.FREUD, Il tramonto del complesso edipico, in OSF, vol. X, Bollati Boringhieri, 1978.
U. GALIMBERTI, I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano 2009.
E. GREY ELLIS, What Coronavirus Isolation Could Do to Your Mind https://www.wired.com/story/coronavirus-covid-19-isolation-psychology.

Psicologia e filosofia dell’abitare


Di Alessandro Montagna

Introduzione

Abitare in una casa non si risolve solamente nel risiedere in un ambiente, un edificio funzionale per garantire la propria sicurezza, ma significa anche e soprattutto vivere un simbolo, un luogo degli affetti e dei legami familiari. Mentre nella lingua italiana siamo abituati a denominare “casa” nella duplice accezione di edificio e di dimensione interiore, la lingua inglese offre una feconda riflessione sulla differenza tra i termini “house” e “home”, ossia, rispettivamente, struttura fisica nel primo caso e dimensione degli affetti nel secondo.

Nel corso dell’articolo verranno prese in esame le varie teorie filosofiche e psicologiche che si sono occupate di interpretare simbolicamente l’abitare e si affronteranno tematiche quali l’analisi di parti della casa come luogo dell’anima: la porta, le stanze, le scale e altro ancora, lette e considerate in chiave interiore e legate alla dimensione psicologica di chi la abita.

A tal proposito, in una prospettiva psicologica umanistico-esistenziale Maslow, nella elaborazione della sua piramide dei bisogni, posiziona l’abitare nei bisogni di sicurezza, immediatamente dopo quelli fisiologici, e perciò basici, legati al respirare, bere e mangiare. (A. Maslow, Motivation and Personality, 1954).

Per concludere questa introduzione si riporta anche come Ruskin, il raffinato esteta di fine Ottocento, nel suo saggio La lampada della memoria affermava che: “Se gli uomini vivessero veramente da uomini, le loro case sarebbero dei templi, templi che non oseremmo tanto facilmente violare e nei quali diventerebbe per noi salutare poter vivere” (L. Bonesio, L. Micotti, Paesaggi di casa. Avvertire i luoghi dell’abitare, p. 112).

La casa assume perciò le sembianze di un luogo consacrato da chi la abita, in ultima istanza una sorta di microcosmo al cui centro è posto il focolare (quello che i greci chiamavano Hestia: ovvero il centro della Terra e al contempo il centro della casa).

Filosofia dell’architettura

I filosofi dell’utopia, quali Platone, Moro e Campanella non hanno trascurato una sorta di progettazione architettonica dei luoghi nei quali trovano posto le loro teorizzazioni utopiche. Si pensi, a tal proposito, a Campanella, il quale richiedeva di decorare e disegnare momenti storici della Città del Sole, allo scopo di educare pedagogicamente e insegnare la storia della propria località alla popolazione.

Compiendo un passo avanti dal punto di vista cronologico, il filosofo positivista Jeremy Bentham progetta il Panopticon. Si tratta di una costruzione a forma di anello con una torre al centro, dalla quale è possibile tenere sotto controllo tutto quello che accade nell’edificio. La struttura del Panopticon è assimilabile a quella di tutti quegli edifici in cui è necessario controllare diversi ambienti contemporaneamente, come nelle scuole, negli ospedali o nei carceri. Per esempio, in un carcere speciale, è prevista una struttura circolare in cui risiedono i prigionieri e un padiglione centrale oscurato in cui si ritiene debba essere posizionata una guardia. Non importa che il custode sia effettivamente presente, dal momento che egli non è visibile dai detenuti, ma il suo sguardo si rivela onnicomprensivo. Infatti i carcerati sono indotti al rispetto delle regole dal timore di poter essere osservati in qualunque momento.

Anche i socialisti-utopisti ottocenteschi come Fourier si occupano di progettazione urbana e di abitare: lo stesso Fourier, infatti, cerca di coniugare vita lavorativa in fabbrica e familiare e progetta l’edificio del falansterio, che verrà ripreso nel corso del Novecento, nelle “arcologie” dell’architetto italiano Soleri. Inoltre seguendo questo filone che si inserisce nella scia del rapporto tra lavoro operaio e vita sociale, sono state realizzate in concreto ed edificate delle abitazioni per operai nel piccolo comune di Crespi d’Adda, in provincia di Bergamo. Il “villaggio operaio”, sorto nel 1878 per volere dell’imprenditore tessile Crisostomo Benigno Crespi, attira notevole attenzione per la peculiare trasformazione architettonica per funzioni lavorative ed attualmente è stato riconosciuto come patrimonio dell’Unesco. Accanto alla via principale della località si snodano intere file di villette con piccolo giardino che conducono alla fabbrica. Risulta chiaro come a differenza del modello del falansterio proposto da Fourier, il quale si sviluppa verticalmente come un palazzo alto e di grandi dimensioni, il villaggio operaio di Crespi d’Adda è costituito da case unifamiliari, bifamiliari o ville singole disposte sul piano orizzontale.

Il filosofo Georg Simmel, particolarmente interessato all’ambito sociologico, sostiene sia utile adottare una metodologia estetico-estesiologica del paesaggio e dello spazio. Questa concezione viene ripresa, anche se con peculiarità proprie, da Walter Benjamin, il quale ne I “passages” di Parigi pone enfasi sul concetto di intérieur e giunge a teorizzare un’analogia tra interno della casa e interiorità della nostra anima. Nella sua prospettiva, quindi, la porta di ingresso determina la soglia di comunicazione tra anima e mondo esterno.

É noto che il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein si sia occupato di giardini e abbia progettato e presieduto ai lavori di costruzione della villa di famiglia edificata a Vienna tra il 1926 e il 1928 con la collaborazione dell’architetto Paul Engelmann. La casa, tuttora esistente, è stata realizzata secondo i canoni estetici dell’architettura razionalista.

In tempi più recenti, il filosofo Fulvio Papi ha dedicato al rapporto filosofia-architettura un ciclo di conferenze universitarie presso la facoltà di architettura dell’università di Milano Bovisa, redatte poi nel volume Filosofia e architettura (F. Papi, Filosofia e architettura, 2000).

Il contributo del sociologo Marc Augé riguarda un’analisi di quelli che lui definisce i non-luoghi presenti nella città, ovvero spazi identici presenti in città differenti come ad esempio aeroporti, stazioni, cimiteri. Il concetto viene trasposto in modo similare dall’architetto olandese Rem Koohlas tramite l’appellativo di “città generica”. Paul Virilio ritiene che nella città del futuro lo scopo del costruire diverrà la dinamica specifica dell’informare e gli edifici saranno costituiti soprattutto con lo scopo di voler informare sempre di più i passanti attraverso, ad esempio, messaggi pubblicitari ed insegne colorate collocati in giro per la città. Il villaggio che verrà a configurarsi sarà così globale (come tra l’altro aveva sostenuto McLuhan) e pubblicitario.

Filosofia e casa

Martin Heidegger,  in una conferenza tenutasi nel 1951 a Darmstadt, espone una sua teoria sul rapporto stretto esistente tra costruire e abitare. A suo avviso, l’essenza del costruire consiste nel far abitare e nel ripararsi in un luogo sicuro in cui terra e cielo, i divini e i mortali, convivano nella loro semplicità (M. Heidegger, Costruire, abitare, pensare p. 107). Basandosi sulla lingua tedesca egli pone in correlazione e fa coincidere “bauen” e “baun”, ossia costruire e abitare, e, ancora, costruire e coltivare. Heidegger conclude la sua disamina sostenendo che diviene di primaria importanza imparare ad abitare che, nella sua ottica, significa abitare in modo “poetico”, esente da considerazioni altre. Fuor di metafora, l’intento di Heidegger è quello di persuaderci che per vivere pienamente il senso dell’abitare occorre non pensare a vivere in una abitazione solo per esigenze lavorativo o    pratiche , bensì considerare in modo interiore e legato alla propria anima la vita condotta nella propria abitazione.

La prospettiva di Jacques Derrida si pone invece agli antipodi dalle considerazioni heideggeriane dal momento che rifiuta la motivazione secondo cui lo scopo del costruire sia l’abitare e ritiene invece preferibile costruire per creare uno spazio della condivisione, della creatività, dell’apertura all’altro. Per questo motivo, egli sostiene che le porte e le finestre delle abitazioni devono offrire l’idea di uno spazio ibrido. In tal modo si ripensa concettualmente lo spazio in modo decostruzionista, propedeutico al formare uno spazio altro, uno spazio a venire, da lui definito, sulla scia platonica, Chora.

Luoghi dell’abitare e luoghi del ricordare

Il mondo degli oggetti che popolano le stanze di una abitazione contengono così tanti frammenti di ricordi da poter far ritenere la propria casa luogo d’elezione per la memoria. (A.Montagna, Vivere nella contemporaneità. Luoghi dell’abitare e luoghi del ricordare). Le cose, infatti, parlano di noi, del nostro modo di essere e dei ricordi che ci circondano. La casa, quindi, viene considerata come “specchio di noi stessi” e una modalità per rivolgerci alla nostra interiorità.

La camera da letto riporta ai momenti di sogno, nonché alla rielaborazione dei ricordi durante le riflessioni condotte da soli con noi stessi. La cucina può essere in grado di stimolarci ricordi di tipo olfattivo e gustativo come ci ricorda magistralmente l’esempio proustiano della madeleine. Assaporare pietanze che da tempo non mangiavamo più può riportarci in luoghi spazio-temporali differenti come quelli dell’infanzia. Il soggiorno è la camera dove si trascorre la maggior parte della vita casalinga da svegli. Gli oggetti qui riposti conservano un valore simbolico per noi; alcuni di essi si fanno testimoni di persone care che ce li hanno regalati, altri ci ricordano momenti importanti della nostra vita, i souvenir sono un richiamo mnestico dei luoghi che abbiamo visitato. L’album fotografico infine ci offre un supporto per la memoria e salva quei ricordi che rischierebbero di finire nell’oblio. Oltre agli oggetti, il nostro rapporto con i mass media (tv, computer) può essere utile per ricordarci momenti di vita fondamentali, in quanto questi strumenti possiedono poderose capacità di registrazione e archiviazione, oltre talvolta a far coincidere e porre in relazione memoria personale e memoria storico-culturale e collettiva (cfr. A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale).

Per una psicologia della casa

Dopo aver trattato la tematica dell’analisi filosofica del fenomeno abitativo e architettonico tout court, ci si concentra ora sull’aspetto psicologico connesso all’abitare. Come ha modo di notare Walter Benjamin “abitare significa lasciare tracce” (W. Benjamin, I passages di Parigi, op.cit., p. 12), da ciò deriva anche che abitare non è solamente vivere, ma anche riflettere su se stessi. La persona, conservando oggetti, parla di se stessa, comunica qualcosa di sé agli altri. In tal modo, la casa viene considerata da alcuni studiosi di topografia psicologica (psicologia della casa) la metafora della propria anima. Quindi i luoghi della casa possono venire assunti quali luoghi della psiche umana.

Un teorico che dedica un primo approccio a questo filone può essere considerato lo psicanalista Carl Gustav Jung, discepolo di Sigmund Freud, il quale compie studi su quelli che lui definisce “archetipi collettivi”, ossia idee cardine e ataviche presenti in tutti gli esseri umani. Egli, nella sua opera Psicologia analitica stabilisce un parallelo tra casa e psiche umana, creando una sorta di planimetria di un’abitazione su tre piani. Egli ritiene che la soffitta corrisponda al Super Io (istanza delle norme morali formatasi nel bambino a partire dai 5 anni dopo aver risolto la fase edipica), il pianterreno coincida con l’Io (dimensione della coscienza e del piano della realtà) ed infine la cantina sia l’emblema dell’Es (la parte più arcaica, sede degli impulsi irrazionali e delle inclinazioni oniriche).

L’impostazione junghiana apre la strada ad interpretazioni psicologiche dello spazio dell’abitare, la cui più rilevante e feconda espressione è senza dubbio la ricerca condotta dal filosofo francese Gaston Bachelard, riguardante la dimensione domestica quale luogo di sogno (réverie) e di ricordi della propria infanzia. Nella sua topo-analisi egli afferma che la casa è il nostro primo spazio nel mondo, il nostro “primo universo” (G. Bachelard, La poetica dello spazio, p. 32). Egli cita numerosi poeti e letterati che hanno descritto o offerto considerazioni sull’abitare, sul vivere intimamente la casa. Partendo dall’assunto che “camera e casa sono diagrammi psicologici che guidano gli scrittori e i poeti nell’analisi dell’intimità” (Ivi, p. 65), Bachelard ravvisa tematiche ricorrenti e metafore connesse con il mondo dell’immaginazione e dell’anima come la cantina, la soffitta, i cassetti, le cassapanche, gli armadi, gli angoli, simboli del nido e del guscio.

Il volume di Bachelard influenzerà molto l’architetto milanese Aldo Rossi. Quest’ultimo è convinto della concezione simbolica dell’abitare e fonde le considerazioni bachelardiane con il pensiero proustiano, cercando di individuare strutture di memoria e conservazione del passato nell’architettura delle città e ispirando, in ultima istanza, il suo comporre architettonico.

Come abbiamo potuto fin qui osservare, dalle opere di questi pensatori prende le mosse una psicanalisi della casa che ricerca significati emblematici nell’ambito domestico, luogo di rifugio e al contempo di comunicazione degli esseri umani.

L’analisi condotta da Oliver Marc, architetto francese con la passione per la psicanalisi, è significativa in tal senso: egli, infatti, ritiene che vivere nella casa significhi viaggiare in se stessi, ovvero compiere uno scavo introspettivo. Egli infatti raccomanda come sia fondamentale assicurarsi di aver chiuso bene la porta della propria dimora dal momento che si stia entrando in se stessi. Questa considerazione risuona come una precauzione al fine di favorire un viaggio nella propria interiorità non inficiata da alcun turbamento o preoccupazione esterna.

Sulla stessa scia di pensiero si situano due autori, Day e Eiguer che sostengono la necessità di costruire la casa tenendo in considerazione fattori ed esigenze di chi la abita.

Christopher Day afferma che: “L’anima di un luogo è l’intangibile sensazione che questo comunica […]”, e conclude con la seguente dichiarazione: “Ogni luogo dovrebbe avere uno spirito” (C. Day, La casa come luogo dell’anima, p. 158).

Alberto Eiguer, psicanalista, nel suo volume L’inconscio della casa ritiene che nella propria abitazione, da lui reputata di principale importanza per donare un senso di continuità alla famiglia, si possano distinguere le camere dedicate all’apertura verso il mondo esterno, teatro del nostro agire su di esso (per esempio il salotto al fine del ricevimento degli ospiti), dalle altre intimamente legate alla nostra interiorità come la camera da letto.

Considerazioni sulle strutture archetipiche della casa ad uso degli architetti

In conclusione e alla luce delle considerazioni svolte dagli autori sopra citati, è possibile rintracciare in modo più generale dei topos di significato ricorrenti nelle abitazioni. Come infatti ha modo di precisare Oliver Marc: “l’anima delle cose attinge a un patrimonio comune che risale alle origini dell’universo, dell’umanità e delle nostre rispettive civiltà” (O. Marc, op. cit. p. 16). Secondo alcuni di questi autori, con la consapevolezza di conoscere valenze simboliche inerenti le diverse parti che compongono la casa, l’architetto dovrebbe tenere in considerazione queste variabili nel suo progettare, rendendo di conseguenza i suoi progetti più vicini e consoni al vissuto esistenziale di chi andrà ad abitarla.

La soglia corrisponde al confine tra interno ed esterno, demarcando così l’ingresso alla zona privata. Entrando nella casa l’atrio funge da biglietto da visita per una prima percezione e talvolta, se buio, può dare un’impressione di freddezza oppure di calore e accoglienza qualora gli angoli curvi invitino a giungere nella sala. Il significato della porta consiste nel passaggio, in un ponte di comunicazione tra stanze e aree diverse della casa. Il centro della casa rappresenta l’archetipo della difesa, della protezione (insieme ai muri che la cingono) e dell’unione della famiglia attorno al focolare, sia esso reale o, molto più probabilmente, metaforico. Infine, la scala indica, secondo gli psicologi della casa, la volontà di percorre i nostri stati psicologici dall’alto in basso e viceversa: il tetto corrisponde allo spirito, il piano terra alle funzioni psichiche di base e la cantina denota la parte irrazionale, come abbiamo già potuto comprendere con lo studio intrapreso da Jung e Bachelard. Anche l’esterno della casa possiede significato. Il giardino, infatti, con gli alberi, l’erba e i fiori rappresenta una sorta di nostro giardino interiore, nonché luogo di vite parallele alla nostra, emblemi dei cicli vitali, del tempo che trascorre e del ritmo dei giorni e delle stagioni, capaci di stimolarci riflessioni tra vissuto interiore e divenire della natura.

Bibliografia di riferimento

A. ASSMANN, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Il Mulino, trad. S. Paparelli, Bologna 2002.
G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Dedalo, trad. Ettore Catalano, Bari 1975.
W. BENJAMIN, I passages di Parigi, Einaudi, trad. Rolf Tiedemann, Torino 2000.
C. DAY, La casa come luogo dell’anima, Red, trad. B. Lepori, Como 1990.
A. EIGUER, L’incoscio della casa, Red, Como 2006.
M. HEIDEGGER, Costruire, abitare, pensare in Saggi e discorsi, a cura di G. VATTIMO, Mursia, Milano 1976.
C. G. JUNG, Psicanalisi analitica, Bollati Boringhieri, trad. S. Stefani, P. Santarcangeli Torino 1978.
O. MARC, Psicanalisi della casa, Red, trad. B. Lepori, Como 1994.
A. MONTAGNA, Vivere nella contemporaneità. Luoghi dell’abitare e luoghi del ricordare in Tempo e lavoro nell’era della tecnica, Verba e Scripta, Pavia 2011.
F. PAPI, Filosofia e architettura, Ibis, PaviaComo 2000.
J. RUSKIN, La lampada della memoria cit. in L. Bonesio, L. Micotti, Paesaggi di casa. Avvertire i luoghi dell’abitare, Mimesis, Milano 2003.

Jung, l’ Archetipo e la Civiltà: breve storia di una necessità collettiva. Terza parte: L’archetipo e i Principi Bionomici


Di Eros Lancianese

Procedendo con l’origine del termine e i suoi possibili legami con le altre discipline umane la costante che si ripresenta con consueta regolarità è l’intima connessione fra l’Archetipo e la Natura. Possiamo capire il funzionamento dell’Archetipo attraverso lo studio dei principi bionomici.

Un piccolo passo indietro.

Per Bionomia si intende l’insieme di leggi che regolano le Strutture del Viventenelle sue forme ed espressioni e che ne normatizzano lo sviluppo lungo l’arco della loro crescita e della loro maturazione. Tali leggi, redatte nell’ambito delle scienze biologiche ad opera di personalità quali Jakob Johann von Uexkull, sono definite universali e sovraordinate, ovvero fanno riferimento a tutte le forme di vita e si attivano nel momento in cui essa ha origine, quindi al primo battito, al primo scambio cellulare, al primo equilibrio biochimico o legame energetico. Queste leggi contengono in nuce un progetto di sviluppoche si dipanerà nel tempo chiamato Ontogenesi (l’insieme dei processi che si attivano nel determinare uno sviluppo biologico completo), che ripercorre un sentiero evolutivo chiamato Filogenesi (l’asse che traccia il suo punto di partenza).

Fra tutte queste leggi che segnano il ‘percorso che deve compiere la vita per vivere’ ve ne è una che potrebbe essere definita come la più importante, ovvero la proprietà finalistica del biòs, intensa come il suo ‘orizzonte di sviluppo’, un proprio percorso da realizzare per condurre la vita a compimento. Prendendo ad esempio una metafora tanto cara a James Hillman, continuatore a suo modo del pensiero junghiano e fondatore della Psicologia Archetipica, nel suo Il Codice dell’Anima egli scrive che a dispetto di come verrà nutrito, cresciuto e curato un seme sarà sempre destinato ad esprimere sé stesso, sia esso un baobab, una vite o una ghianda, anche se le condizioni climatiche saranno ostiche, i coltivatori distratti o troppo apprensivi o la terra troppo arida per fornire il necessario nutrimento. Il suo percorso di crescita si esprimerà comunque, non subirà arresti, tutt’al più verrà vincolato dalle condizioni nelle quali si è trovato a venir fuori.

I Principi Bionomici intendono quindi la vita come un ‘processo in pieno e costante svolgimento’e non come una condizione data, un percorso che deve essere alimentato, sostenuto, può subire accelerazioni o rallentamenti, può bloccarsi o impennarsi, non di certo una curva gaussiana puntata a un ottimistico e indiscusso ad maiora, ma qualcosa di più delicato, soggetto a imprevisti o rallentamenti, anche improvvisi, che non possono essere dati per scontato.

Negli stessi anni nei quali queste regole venivano e scoperte e redatte, Carl Gustav Jung era alle prese con la stesura di uno dei suoi testi più importanti, Tipi Psicologici, un volume denso e difficile, frutto di una ventina d’anni di studi empirici sull’animo umano derivati dalla sua pratica clinica di psicopatologo. L’opera si pone l’obiettivo di spiegare come la vita psichica, a seconda della propria precipua e naturale inclinazione, prenda forma in relazione alle condizioni nelle quali si trova a operare e quindi come questa lotta affermativa avvenga non solo nella nuda realtà della natura, ma anche all’interno della nostra mente. Tale lotta viene però regolamentata anch’essa da regole ben precise, regole entro le quali l’energia psichica si colloca e si organizza. Queste regole sono date dagli Archetipi, che assumono il ruolo di Organi Psichici che strutturano e determinano i processi della nostra organizzazione psichica. Possiamo rintracciare un parallelismo con le leggi bionomiche seguendo il pensiero del fondatore della psicologia Analitica. Andiamo a vedere.

Nelle Definizioni, capitolo finale dell’opera, Jung scrive che gli Archetipi sono dei principi strutturanti che danno ordine ai contenuti psichici attraverso organizzazioni di senso e spinte motivazionali di autorealizzazione. Sono collettivi, poiché sono possibilità che appartengono a tutti gli individui e sono di natura aprioristica, ovvero precedono l’esperienza. Tali archetipi si attivano nel momento in cui l’ambiente sollecita l’individuo ad appellarsi alle sue proprietà adattive dando la possibilità di fare una determinata esperienza utile alla realizzazione e autoconservazione dell’uomoma, differentemente dagli istinti, sono altamente modulabili a seconda della realtà di riferimento. Come i principi bionomici, anche essi possiedono una caratteristica poietica, ovvero la promozione di uno specifico percorso di crescita che tocca specifiche tappe dello sviluppo e una qualità teleologica, ovvero che la sua manifestazione non solo avviene come risposta ad un adattamento ambientale al quale l’individuo deve far fronte modulandosi e trovando il suo equilibrio ottimale, ma descrive un arco, un orizzonte che si deve realizzare, un obiettivo.

 Da queste considerazioni, dove si può notare il forte parallelismo fra le regole Bionomiche e quelle dell’Archetipo che suggeriscono un legame e un’origine comune, possiamo vedere come sia il biòs che la psichè siano emanazioni della vita e dalla vita traggono le stesse disposizioni per potere esistere. Entrambe sono impegnate in una fortissima lotta ontologica dove resistere, alle intemperie, alle condizioni, alle difficoltà, ai conflitti, al caos come all’ordine, significa esistere.

Se è quindi vero l’enunciazione nietzschiana che la vita vuole vivere allora è ovvio che essa può essere considerata alla stregua di un urlo che vuole pronunciarsi fino a che c’è fiato in gola, portando un suo messaggio e avendo in mente chissà quali destinatari. La vita psichica è, in questa maniera, ornata di senso; mira puramente all’autoconservazione e al mantenimento di se stessa.     La forza affermativa non può essere fermata o mitigata, ma assecondata.

Quando Jung distingueva l’archetipo dall’Istinto intendeva proprio questo: laddove quest’ultimo si esprime con caratteristiche della ripetitività, consuetudine e non modularità, l’Archetipo predispone l’uomo all’adattamento, con se stesso e gli altri, con le sue qualità che possono divenire delle competenze, con la sua esplosività che può assurgere a metodo, il suo impeto che deve divenire negoziazione. La capacità di cambiare e mutare punta solo alla spinta realizzativa, diventare, insomma, se stessi.

Vi è tanto di Bergson, Minkowski e Heidegger in questo discorso: la possibilità di essere inseriti all’interno dello slancio continuo e costante del flusso del divenire, la realizzazione di un’esistenza autentica all’interno delle compagini del tempo, l’appercezione di un passato che fonda il presente e prepara il terreno alla realizzazione del futuro, la sofferenza come tradimento al proprio percorso personale, che non porta ad una realizzazione ma ad un suo compendio, figlio dell’incapacità, della paura, del passato o dell’impossibilità di cambiare o scegliere. Questo è insomma il Processo di Individuazione, il percorso personale di espressione della nostra natura endopsichica, la nostra realizzazione che può completarsi attraverso il modo in cui il nostro corredo archetipico si esprime nell’arco della vita, mettendoci di fronte a difficoltà, sfide, ma anche alle nostre possibilità, e alle nostre risorse. Tale processo mira all’espressione dell’uomo, il diventa te stesso il cui dominio non è affidato alla semplice forza di volontà, specie se arriva dall’arroganza della psiche cosciente: l’io direbbe Freud, suo mentore negli anni giovanili, ma abbraccia forme inaspettate anche inedite, inespresse o inesprimibili (e per questo inconsce).

Bibliografia

J. HILLMAN (1996), Il Codice dell’Anima, Adelphi Edizioni, Milano 1997.
C.G. JUNG (1921), Tipi Psicologici, vol. VI, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1977.

Jung, l’Archetipo e la Civiltà: breve storia di una necessità collettiva. Parte seconda.

di Eros Lancianese

L’archetipo e la strada prima di Jung.

Generalmente la scoperta dell’Archetipo viene fatta rinvenire nell’ambito dell’opera di Carl Gustav Jung, ma la Psicologia Analitica non è stata l’unica disciplina che ha cercato di dare forma e credito a tale concettualizzazione. Quando Jung approda alla sua prima teorizzazione, su “Istinto ed Inconscio” del 1917, ha alle spalle illustri predecessori, che avevano tentato di avvicinarsi con alterne fortune e continue riformulazioni all’idea dell’archetipo, abbracciando ampie zone del sapere e aggiustandone man mano la traiettoria teorica nella quale si stavano incamminando.

È noto, infatti, come il termine fosse in uso nella filosofia tardo-ellenica per indicare il modello originario, l’archétypos delle forme, ovverosia la “forma originaria” della quale le “cose sensibili” sono semplici copie o mere riproduzioni. Platone riteneva che il mondo non fosse altro che un’illusione confusa, risultato della riproduzione di un modello originario “ontologicamente puro” costituito,appunto, da forme o archetipi già formate e precostituite. Da ciò deriva l’assunto che la manifestazione di un fenomeno richiede la sua pre-esistenza su un altro piano. Quindi tutto già esiste e tutto già ha una sua ragione d’essere, un inizio, una fine, un senso.

Il mondo fenomenico riproduce l’assoluta bellezza e perfezione delle Idee, tuttavia esse risiedendo nella dimensione dell’Iperuranio, una realtà soprasensibile e sovraordinata, possono essere raggiunte solamente attraverso l’esercizio dell’intelletto e la pratica del pensiero filosofico. Il loro sfondo ontologico ne delimita il senso e l’ordine per il loro recupero nell’ambito del reale possa avvenire per un atto mimetico o di reminiscenza. Tale atto è necessario per tornare a prendere contatto con la purezza delle Idee, ma insufficiente per una loro riproposizione fedele; esse infatti entrando in relazione con le infinite necessità del reale vengono trasfigurate dalle pieghe dei sensi che vanno a tradire la loro assoluta Verità, Bontà e Bellezza.

Utile alla nostra considerazione rimane il senso della dissertazione di Platone che vuole che ci sia un prima e un dopo della realtà, una matrice e una copia, che non riesce a mantenere l’assoluta fedeltà del materiale originale (concetto molto simile al rapporto che Jung andrà stipulare fra l’Archetipo in Sé e l’Immagina Archetipica), ma che ne conserva comunque le sue indicazioni e i suoi riverberi.

La concettualizzazione ontologica dominò per molto tempo la tradizione filosofica occidentale per poi subire delle significative rivisitazioni nel diciannovesimo secolo ad opera di un biologo, sir. Richard Owen, e di uno scrittore e poeta, Johann Wolfgang von Goethe.

Richard Owen, da paleontologo, aveva cercato di dare una sistemazione e classificazione agli scheletri dei vertebrati, distinguendo fra tipologie “generali” e le loro eventuali e palesi derivazioni, cercando di mostrare come loro afferissero a una matrice, appunto, originaria. L’Archetipo viene utilizzato per designare tale matrice, inserendo il termine nell’ambito della “zoologia comparativa”, spostando la sua concettualizzazione dal pensiero alla materia e mantenendo comunque il suo senso originario. Il concetto di “forma” non viene speso solo per indicare e comprendere i fenomeni della realtà sensibile, ma prova quindi ad acquisire una valenza classificatoria, che abbraccia solo l’ambito dei vertebrati, escludendo o non prendendo in considerazione altri piani della vita.

Goethe provò a colmare tale gap recuperando il termine nell’ambito delle scienze umane per cui l’Archetipo può essere utilizzato per esporre le caratteristiche strutturali ed evolutive di tutti gli esseri viventi. Il superamento del lavoro di Owen è evidente: si parla di una matrice che può avere influenze maggiori, poiché illustra delle proprietà che abbracciano l’intero campo del vivente mediante le peculiarità possedute dall’ Archetipo: la sua “forza inclusiva”, la sua “forza dinamica” e la “rappresentazione interna”. Queste qualità concorrono alla realizzazione della vita, integrandosi fra loro, creando una condizione comune, un minimo comun denominatore, necessario affinché vi sia una possibilità di esistenza.

Questa visione allontana il termine da digressioni puramente speculative: il concetto di Archetipo si apre al campo della natura e della biologia con maggiore incisività, suggerendo una cornice concettuale che pone alla base della vita i processi di sviluppo ed evoluzione, non solo nel dominio fisico e somatico, ma anche nella dimensione psichica.

Difficile non pensare quindi ad un concetto molto caro al pensiero junghiano ovvero il Processo di Individuazione, l’idea di un percorso fisiologico di maturazione enantiodromica della psiche, che accompagna l’uomo seguendo le tappe della sua crescita, sia come essere vivente, sia come animale sociale, inserito in un tessuto comunitario scandito da ruoli, status e riti di passaggio.

In altre parole, non solo l’archetipo suggerisce un’origine, un occhio del ciclone o un gorgo dal quale parte l’energia o ne viene risucchiata, ma la sua forma evolve, si espande, può anche mutare ma maitradire profondamente quello “stampino” originario dal quale è nato. Dalla civiltà ellenica fino all’età moderna, il suo significato primigenio è rimasto sommariamente intatto: l’archetipo è, fondamentalmente, una struttura o delle strutture, che organizzano l’esperienza, la materia o la psiche, seguendo le leggi della dimensione del vivente, oltre ad adattarsi dinamicamente alle esigenze dell’attuale. Spiegare in questi termini questo concetto, attraverso categorie che ricordano i processi naturali, permette di comprendere con un pizzico in più di semplicità i processi di trasformazione all’interno della psiche, che la organizzano per soddisfare criteri assolutamente adattivi.

In altre parole, l’Archetipo è a disposizione della vita.

Bibliografia:

CAMBREY J., CARTER L. a cura di (2004) Psicologia Analitica, prospettive contemporanee di analisi junghiana, Giovanni Fioriti Editore, 2010
FORDHAM M. a cura di (1985) La psicologia Analitica, una scienza moderna, Edizioni Magi,2006

Jung, l’Archetipo e la Civiltà: breve storia di una necessità collettiva. Parte prima.

di Eros Lancianese

L’archetipo e la dimensione della scoperta

Le scoperte scientifiche sono eventi importantissimi agli occhi di un ricercatore: ti meravigliano, permettendoti di osservare la natura che svela le sue caratteristiche, mostrandosi nella sua nuova, inedita bellezza, ma allo stesso tempo possono rappresentare un vero e proprio rompicapo per colui che ne è venuto a conoscenza. La scoperta scientifica infatti ci sprona a riconsiderare la realtà, inducendoci a ripensare tutto: la teoria sulla quale abbiamo basato le nostre dissertazioni, la certezza della logica formale dalla quale partiamo per la formulazione di un’ipotesi, l’approccio causa/effetto dell’impianto determinista su cui poggia il nostro modo di pensare. 

Per cogliere il senso profondo di quanto accaduto occorre colmare un “gap”, nello specifico quel tassello che fa da ponte fra il lavoro svolto fino a quel momento e il fenomeno per come adesso si (ri) presenta: nuovo, abbagliante e sconvolgente. Superare il proprio approccio teorico può essere difficile, ostico, in alcuni casi traumatico, sicuramente una sfida, ma per poter affrontare tutto questo, un elemento deve rimanere sempre vivo e immutato: la curiosità. 

Probabilmente la stessa curiosità che colpì Carl Gustav Jung quando venne a contatto con una delle tante manifestazioni dell’Archetipo, un episodio singolare, atipico, certamente bizzarro per chi è estraneo al lavoro con pazienti affetti da disagio psichico, un episodio che anni dopo costrinse il padre della Psicologia Analitica a riconsiderare la sua opinione riguardo a quanto accaduto.

Nel 1906 Jung aveva 31 anni, era un giovane psichiatra che aveva condotto e pubblicato i suoi primi lavori empirici sull’associazione verbale in ambito psichico e stava iniziando a guardare con enorme simpatia ed interesse alla “talking cure”, un metodo di intervento non somatico per la cura delle paralisi corporee negli stati isterici, sviluppato da un collega austriaco, tale Sigmund Freud. I suoi interessi in ambito clinico e lo studio della malattia mentale lo avevano condotto a Washington per un periodo di osservazione al St. Elizabeth Hospital: Jung voleva capire se il materiale onirico prodotto dai pazienti afroamericani fosse simile a quello dei bianchi euroasiatici (McGuire W., Hull R.F.C., Jung parla, Adelphi, Milano  2002), per perorare una sua ipotesi riguardate l’esistenza di un tessuto psichico immaginativo comune a tutta l’umanità. Un episodio accaduto in quelle corsie destò la sua curiosità portandolo ad avvalorare la sua ricerca, ma non nel modo in cui lui si sarebbe aspettato. 

Un giorno venne avvicinato da un giovane paziente schizofrenico, ospite della struttura da una ventina d’anni, un impiegato di umili origini e modesta cultura, che, preso da un incontenibile entusiasmo, afferrò il giovane psichiatra invitandolo a guardare il “sole che era nel cielo” e scorgere, insieme a lui, l’enorme fallo che si sviluppava e che muovendosi dava origine al vento (Jung C.G., 1936, Il concetto d’Inconscio Collettivo, vol IX, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1980).

All’inizio Jung assecondò il delirio del paziente e ritenne congrua la diagnosi sulla sua condizione mentale, salvo poi dover rivedere completamente le sue considerazioni, anni dopo, quando venne a conoscenza di un ritrovamento archeologico che destò il suo interesse e il ricordo dell’evento accaduto in terra americana. Durante i suoi studi s’imbatté nel testo di Albrecht Dieterich (A. Dieterich, Eine Mithrasliturgie, Lipsia 1903), un filologo tedesco che nei suoi lavori si era occupato dei culti persiani dedicati a Mithra, una della divinità solari molto simile per caratteristiche ad altre figure presenti nelle mitologie delle origini. Lo studioso riteneva di aver rinvenuto una parte di un rituale nel quale veniva riportata una divinazione riferita a “un disco del sole, che è Dio mio padre” dal quale partiva “un tubo, l’origine del vento soccorrevole” (Jung C.G., 1936, Il concetto d’Inconscio Collettivo, op. cit.).

Jung rimase stupito per come le due immagini aderissero perfettamente, quella presente nel delirio dello psicotico e quella presentata nella liturgia che Dieterich aveva recuperato. Questo episodio fornì un suggerimento a suffragio della sua ipotesi di partenza, motivo del viaggio intrapreso 4 anni prima, ovvero la presenza di uno strato impersonale della nostra psiche, una sorte di “bacino collettivo inconsapevole” dove non risiedono le ferventi ed inaccettabili pulsioni umani, come nell’inconscio personale di freudiana memoria, bensì “le umane esperienze” o più precisamente “le possibilità di fare determinate esperienze”. Quali? Quelle atte allo sviluppo, maturazione e adattamento della Psiche Umana

Tali possibilità esperienziali risiedono in ciascun uomo, sono “strutture in divenire”, latenti e pronte ad “attualizzarsi” nel presente, ovvero a prendere vita a seconda delle circostanze. Un fulgido esempio di tale funzionamento viene fornito dallo stesso Jung nel 1917 nel saggio “Istinto ed Inconscio”; in questo lavoro, dove per la prima volta appare il termine “Archetipo”, egli prova a spiegare l’enorme differenza che può esserci fra il modo di presentarsi dell’istinto animale e l’archetipo (Jung C.G., Istinto e inconscio. Vol. VIII, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1980). Secondo il padre della Psicologia Analitica, questa funzione differisce dalla spinta istintuale per la sua capacità di “regolabilità”, ovvero la possibilità di mutare, cambiare e declinarsi a seconda delle condizioni cui ci si trova davanti. A suffragio di tale affermazione, egli spiega che: l’istinto all’autoconservazione, spinta motivante che orienta la condotta di ogni essere vivente, può accumunare un cittadino europeo con un uomo di una tribù africana, ma si attiverà, a parità di condizioni, davanti un autocarro che sta sbandando lungo la strada o dinnanzi una belva feroce. Il sentimento di pericolo è lo stesso, ovvero l’esperienza della paura, ma prenderà una forma congrua all’ambiente di provenienza.

Nella sua esperienza, lo psicotico americano, come nelle antiche civiltà persiane, si appellava al bisogno di contatto dell’uomo con una entità divina di carattere propiziatorio; chiaro, nello schizofrenico l’identificazione con il “Fallo Solare” era un modo per gestire la fragile condizione psichica nella quale versava ma in entrambi i casi si sottolinea l’aspetto “fecondo” e generatore di vita, il tubo che genera il vento, che l’immagine, la stessa immagine per entrambi i casi, suggerisce. 

Si faceva così spazio, agli occhi di Jung, all’idea dell’“Inconscio collettivo”, matrice esperienziale impersonale e sede degli Archetipi.

Era il 1910.

Bibliografia di riferimento

JUNG C.G. (1919), Istinto e inconscio, vol. VIII, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1980.
JUNG C.G. (1936), Il concetto d’Inconscio Collettivo, vol IX, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1980.
MCGUIRE W., HULL R.F. (a cura di), (1977), Jung parla, Adelphi, Milano 2002.