Jung, l’Archetipo e la Civiltà: breve storia di una necessità collettiva. Parte seconda.

di Eros Lancianese

L’archetipo e la strada prima di Jung.

Generalmente la scoperta dell’Archetipo viene fatta rinvenire nell’ambito dell’opera di Carl Gustav Jung, ma la Psicologia Analitica non è stata l’unica disciplina che ha cercato di dare forma e credito a tale concettualizzazione. Quando Jung approda alla sua prima teorizzazione, su “Istinto ed Inconscio” del 1917, ha alle spalle illustri predecessori, che avevano tentato di avvicinarsi con alterne fortune e continue riformulazioni all’idea dell’archetipo, abbracciando ampie zone del sapere e aggiustandone man mano la traiettoria teorica nella quale si stavano incamminando.

È noto, infatti, come il termine fosse in uso nella filosofia tardo-ellenica per indicare il modello originario, l’archétypos delle forme, ovverosia la “forma originaria” della quale le “cose sensibili” sono semplici copie o mere riproduzioni. Platone riteneva che il mondo non fosse altro che un’illusione confusa, risultato della riproduzione di un modello originario “ontologicamente puro” costituito,appunto, da forme o archetipi già formate e precostituite. Da ciò deriva l’assunto che la manifestazione di un fenomeno richiede la sua pre-esistenza su un altro piano. Quindi tutto già esiste e tutto già ha una sua ragione d’essere, un inizio, una fine, un senso.

Il mondo fenomenico riproduce l’assoluta bellezza e perfezione delle Idee, tuttavia esse risiedendo nella dimensione dell’Iperuranio, una realtà soprasensibile e sovraordinata, possono essere raggiunte solamente attraverso l’esercizio dell’intelletto e la pratica del pensiero filosofico. Il loro sfondo ontologico ne delimita il senso e l’ordine per il loro recupero nell’ambito del reale possa avvenire per un atto mimetico o di reminiscenza. Tale atto è necessario per tornare a prendere contatto con la purezza delle Idee, ma insufficiente per una loro riproposizione fedele; esse infatti entrando in relazione con le infinite necessità del reale vengono trasfigurate dalle pieghe dei sensi che vanno a tradire la loro assoluta Verità, Bontà e Bellezza.

Utile alla nostra considerazione rimane il senso della dissertazione di Platone che vuole che ci sia un prima e un dopo della realtà, una matrice e una copia, che non riesce a mantenere l’assoluta fedeltà del materiale originale (concetto molto simile al rapporto che Jung andrà stipulare fra l’Archetipo in Sé e l’Immagina Archetipica), ma che ne conserva comunque le sue indicazioni e i suoi riverberi.

La concettualizzazione ontologica dominò per molto tempo la tradizione filosofica occidentale per poi subire delle significative rivisitazioni nel diciannovesimo secolo ad opera di un biologo, sir. Richard Owen, e di uno scrittore e poeta, Johann Wolfgang von Goethe.

Richard Owen, da paleontologo, aveva cercato di dare una sistemazione e classificazione agli scheletri dei vertebrati, distinguendo fra tipologie “generali” e le loro eventuali e palesi derivazioni, cercando di mostrare come loro afferissero a una matrice, appunto, originaria. L’Archetipo viene utilizzato per designare tale matrice, inserendo il termine nell’ambito della “zoologia comparativa”, spostando la sua concettualizzazione dal pensiero alla materia e mantenendo comunque il suo senso originario. Il concetto di “forma” non viene speso solo per indicare e comprendere i fenomeni della realtà sensibile, ma prova quindi ad acquisire una valenza classificatoria, che abbraccia solo l’ambito dei vertebrati, escludendo o non prendendo in considerazione altri piani della vita.

Goethe provò a colmare tale gap recuperando il termine nell’ambito delle scienze umane per cui l’Archetipo può essere utilizzato per esporre le caratteristiche strutturali ed evolutive di tutti gli esseri viventi. Il superamento del lavoro di Owen è evidente: si parla di una matrice che può avere influenze maggiori, poiché illustra delle proprietà che abbracciano l’intero campo del vivente mediante le peculiarità possedute dall’ Archetipo: la sua “forza inclusiva”, la sua “forza dinamica” e la “rappresentazione interna”. Queste qualità concorrono alla realizzazione della vita, integrandosi fra loro, creando una condizione comune, un minimo comun denominatore, necessario affinché vi sia una possibilità di esistenza.

Questa visione allontana il termine da digressioni puramente speculative: il concetto di Archetipo si apre al campo della natura e della biologia con maggiore incisività, suggerendo una cornice concettuale che pone alla base della vita i processi di sviluppo ed evoluzione, non solo nel dominio fisico e somatico, ma anche nella dimensione psichica.

Difficile non pensare quindi ad un concetto molto caro al pensiero junghiano ovvero il Processo di Individuazione, l’idea di un percorso fisiologico di maturazione enantiodromica della psiche, che accompagna l’uomo seguendo le tappe della sua crescita, sia come essere vivente, sia come animale sociale, inserito in un tessuto comunitario scandito da ruoli, status e riti di passaggio.

In altre parole, non solo l’archetipo suggerisce un’origine, un occhio del ciclone o un gorgo dal quale parte l’energia o ne viene risucchiata, ma la sua forma evolve, si espande, può anche mutare ma maitradire profondamente quello “stampino” originario dal quale è nato. Dalla civiltà ellenica fino all’età moderna, il suo significato primigenio è rimasto sommariamente intatto: l’archetipo è, fondamentalmente, una struttura o delle strutture, che organizzano l’esperienza, la materia o la psiche, seguendo le leggi della dimensione del vivente, oltre ad adattarsi dinamicamente alle esigenze dell’attuale. Spiegare in questi termini questo concetto, attraverso categorie che ricordano i processi naturali, permette di comprendere con un pizzico in più di semplicità i processi di trasformazione all’interno della psiche, che la organizzano per soddisfare criteri assolutamente adattivi.

In altre parole, l’Archetipo è a disposizione della vita.

Bibliografia:

CAMBREY J., CARTER L. a cura di (2004) Psicologia Analitica, prospettive contemporanee di analisi junghiana, Giovanni Fioriti Editore, 2010
FORDHAM M. a cura di (1985) La psicologia Analitica, una scienza moderna, Edizioni Magi,2006

Jung, l’Archetipo e la Civiltà: breve storia di una necessità collettiva. Parte prima.

di Eros Lancianese

L’archetipo e la dimensione della scoperta

Le scoperte scientifiche sono eventi importantissimi agli occhi di un ricercatore: ti meravigliano, permettendoti di osservare la natura che svela le sue caratteristiche, mostrandosi nella sua nuova, inedita bellezza, ma allo stesso tempo possono rappresentare un vero e proprio rompicapo per colui che ne è venuto a conoscenza. La scoperta scientifica infatti ci sprona a riconsiderare la realtà, inducendoci a ripensare tutto: la teoria sulla quale abbiamo basato le nostre dissertazioni, la certezza della logica formale dalla quale partiamo per la formulazione di un’ipotesi, l’approccio causa/effetto dell’impianto determinista su cui poggia il nostro modo di pensare. 

Per cogliere il senso profondo di quanto accaduto occorre colmare un “gap”, nello specifico quel tassello che fa da ponte fra il lavoro svolto fino a quel momento e il fenomeno per come adesso si (ri) presenta: nuovo, abbagliante e sconvolgente. Superare il proprio approccio teorico può essere difficile, ostico, in alcuni casi traumatico, sicuramente una sfida, ma per poter affrontare tutto questo, un elemento deve rimanere sempre vivo e immutato: la curiosità. 

Probabilmente la stessa curiosità che colpì Carl Gustav Jung quando venne a contatto con una delle tante manifestazioni dell’Archetipo, un episodio singolare, atipico, certamente bizzarro per chi è estraneo al lavoro con pazienti affetti da disagio psichico, un episodio che anni dopo costrinse il padre della Psicologia Analitica a riconsiderare la sua opinione riguardo a quanto accaduto.

Nel 1906 Jung aveva 31 anni, era un giovane psichiatra che aveva condotto e pubblicato i suoi primi lavori empirici sull’associazione verbale in ambito psichico e stava iniziando a guardare con enorme simpatia ed interesse alla “talking cure”, un metodo di intervento non somatico per la cura delle paralisi corporee negli stati isterici, sviluppato da un collega austriaco, tale Sigmund Freud. I suoi interessi in ambito clinico e lo studio della malattia mentale lo avevano condotto a Washington per un periodo di osservazione al St. Elizabeth Hospital: Jung voleva capire se il materiale onirico prodotto dai pazienti afroamericani fosse simile a quello dei bianchi euroasiatici (McGuire W., Hull R.F.C., Jung parla, Adelphi, Milano  2002), per perorare una sua ipotesi riguardate l’esistenza di un tessuto psichico immaginativo comune a tutta l’umanità. Un episodio accaduto in quelle corsie destò la sua curiosità portandolo ad avvalorare la sua ricerca, ma non nel modo in cui lui si sarebbe aspettato. 

Un giorno venne avvicinato da un giovane paziente schizofrenico, ospite della struttura da una ventina d’anni, un impiegato di umili origini e modesta cultura, che, preso da un incontenibile entusiasmo, afferrò il giovane psichiatra invitandolo a guardare il “sole che era nel cielo” e scorgere, insieme a lui, l’enorme fallo che si sviluppava e che muovendosi dava origine al vento (Jung C.G., 1936, Il concetto d’Inconscio Collettivo, vol IX, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1980).

All’inizio Jung assecondò il delirio del paziente e ritenne congrua la diagnosi sulla sua condizione mentale, salvo poi dover rivedere completamente le sue considerazioni, anni dopo, quando venne a conoscenza di un ritrovamento archeologico che destò il suo interesse e il ricordo dell’evento accaduto in terra americana. Durante i suoi studi s’imbatté nel testo di Albrecht Dieterich (A. Dieterich, Eine Mithrasliturgie, Lipsia 1903), un filologo tedesco che nei suoi lavori si era occupato dei culti persiani dedicati a Mithra, una della divinità solari molto simile per caratteristiche ad altre figure presenti nelle mitologie delle origini. Lo studioso riteneva di aver rinvenuto una parte di un rituale nel quale veniva riportata una divinazione riferita a “un disco del sole, che è Dio mio padre” dal quale partiva “un tubo, l’origine del vento soccorrevole” (Jung C.G., 1936, Il concetto d’Inconscio Collettivo, op. cit.).

Jung rimase stupito per come le due immagini aderissero perfettamente, quella presente nel delirio dello psicotico e quella presentata nella liturgia che Dieterich aveva recuperato. Questo episodio fornì un suggerimento a suffragio della sua ipotesi di partenza, motivo del viaggio intrapreso 4 anni prima, ovvero la presenza di uno strato impersonale della nostra psiche, una sorte di “bacino collettivo inconsapevole” dove non risiedono le ferventi ed inaccettabili pulsioni umani, come nell’inconscio personale di freudiana memoria, bensì “le umane esperienze” o più precisamente “le possibilità di fare determinate esperienze”. Quali? Quelle atte allo sviluppo, maturazione e adattamento della Psiche Umana

Tali possibilità esperienziali risiedono in ciascun uomo, sono “strutture in divenire”, latenti e pronte ad “attualizzarsi” nel presente, ovvero a prendere vita a seconda delle circostanze. Un fulgido esempio di tale funzionamento viene fornito dallo stesso Jung nel 1917 nel saggio “Istinto ed Inconscio”; in questo lavoro, dove per la prima volta appare il termine “Archetipo”, egli prova a spiegare l’enorme differenza che può esserci fra il modo di presentarsi dell’istinto animale e l’archetipo (Jung C.G., Istinto e inconscio. Vol. VIII, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1980). Secondo il padre della Psicologia Analitica, questa funzione differisce dalla spinta istintuale per la sua capacità di “regolabilità”, ovvero la possibilità di mutare, cambiare e declinarsi a seconda delle condizioni cui ci si trova davanti. A suffragio di tale affermazione, egli spiega che: l’istinto all’autoconservazione, spinta motivante che orienta la condotta di ogni essere vivente, può accumunare un cittadino europeo con un uomo di una tribù africana, ma si attiverà, a parità di condizioni, davanti un autocarro che sta sbandando lungo la strada o dinnanzi una belva feroce. Il sentimento di pericolo è lo stesso, ovvero l’esperienza della paura, ma prenderà una forma congrua all’ambiente di provenienza.

Nella sua esperienza, lo psicotico americano, come nelle antiche civiltà persiane, si appellava al bisogno di contatto dell’uomo con una entità divina di carattere propiziatorio; chiaro, nello schizofrenico l’identificazione con il “Fallo Solare” era un modo per gestire la fragile condizione psichica nella quale versava ma in entrambi i casi si sottolinea l’aspetto “fecondo” e generatore di vita, il tubo che genera il vento, che l’immagine, la stessa immagine per entrambi i casi, suggerisce. 

Si faceva così spazio, agli occhi di Jung, all’idea dell’“Inconscio collettivo”, matrice esperienziale impersonale e sede degli Archetipi.

Era il 1910.

Bibliografia di riferimento

JUNG C.G. (1919), Istinto e inconscio, vol. VIII, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1980.
JUNG C.G. (1936), Il concetto d’Inconscio Collettivo, vol IX, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1980.
MCGUIRE W., HULL R.F. (a cura di), (1977), Jung parla, Adelphi, Milano 2002.