di Eros Lancianese
L’archetipo e la dimensione della scoperta
Le scoperte scientifiche sono eventi importantissimi agli occhi di un ricercatore: ti meravigliano, permettendoti di osservare la natura che svela le sue caratteristiche, mostrandosi nella sua nuova, inedita bellezza, ma allo stesso tempo possono rappresentare un vero e proprio rompicapo per colui che ne è venuto a conoscenza. La scoperta scientifica infatti ci sprona a riconsiderare la realtà, inducendoci a ripensare tutto: la teoria sulla quale abbiamo basato le nostre dissertazioni, la certezza della logica formale dalla quale partiamo per la formulazione di un’ipotesi, l’approccio causa/effetto dell’impianto determinista su cui poggia il nostro modo di pensare.
Per cogliere il senso profondo di quanto accaduto occorre colmare un “gap”, nello specifico quel tassello che fa da ponte fra il lavoro svolto fino a quel momento e il fenomeno per come adesso si (ri) presenta: nuovo, abbagliante e sconvolgente. Superare il proprio approccio teorico può essere difficile, ostico, in alcuni casi traumatico, sicuramente una sfida, ma per poter affrontare tutto questo, un elemento deve rimanere sempre vivo e immutato: la curiosità.
Probabilmente la stessa curiosità che colpì Carl Gustav Jung quando venne a contatto con una delle tante manifestazioni dell’Archetipo, un episodio singolare, atipico, certamente bizzarro per chi è estraneo al lavoro con pazienti affetti da disagio psichico, un episodio che anni dopo costrinse il padre della Psicologia Analitica a riconsiderare la sua opinione riguardo a quanto accaduto.
Nel 1906 Jung aveva 31 anni, era un giovane psichiatra che aveva condotto e pubblicato i suoi primi lavori empirici sull’associazione verbale in ambito psichico e stava iniziando a guardare con enorme simpatia ed interesse alla “talking cure”, un metodo di intervento non somatico per la cura delle paralisi corporee negli stati isterici, sviluppato da un collega austriaco, tale Sigmund Freud. I suoi interessi in ambito clinico e lo studio della malattia mentale lo avevano condotto a Washington per un periodo di osservazione al St. Elizabeth Hospital: Jung voleva capire se il materiale onirico prodotto dai pazienti afroamericani fosse simile a quello dei bianchi euroasiatici (McGuire W., Hull R.F.C., Jung parla, Adelphi, Milano 2002), per perorare una sua ipotesi riguardate l’esistenza di un tessuto psichico immaginativo comune a tutta l’umanità. Un episodio accaduto in quelle corsie destò la sua curiosità portandolo ad avvalorare la sua ricerca, ma non nel modo in cui lui si sarebbe aspettato.
Un giorno venne avvicinato da un giovane paziente schizofrenico, ospite della struttura da una ventina d’anni, un impiegato di umili origini e modesta cultura, che, preso da un incontenibile entusiasmo, afferrò il giovane psichiatra invitandolo a guardare il “sole che era nel cielo” e scorgere, insieme a lui, l’enorme fallo che si sviluppava e che muovendosi dava origine al vento (Jung C.G., 1936, Il concetto d’Inconscio Collettivo, vol IX, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1980).
All’inizio Jung assecondò il delirio del paziente e ritenne congrua la diagnosi sulla sua condizione mentale, salvo poi dover rivedere completamente le sue considerazioni, anni dopo, quando venne a conoscenza di un ritrovamento archeologico che destò il suo interesse e il ricordo dell’evento accaduto in terra americana. Durante i suoi studi s’imbatté nel testo di Albrecht Dieterich (A. Dieterich, Eine Mithrasliturgie, Lipsia 1903), un filologo tedesco che nei suoi lavori si era occupato dei culti persiani dedicati a Mithra, una della divinità solari molto simile per caratteristiche ad altre figure presenti nelle mitologie delle origini. Lo studioso riteneva di aver rinvenuto una parte di un rituale nel quale veniva riportata una divinazione riferita a “un disco del sole, che è Dio mio padre” dal quale partiva “un tubo, l’origine del vento soccorrevole” (Jung C.G., 1936, Il concetto d’Inconscio Collettivo, op. cit.).
Jung rimase stupito per come le due immagini aderissero perfettamente, quella presente nel delirio dello psicotico e quella presentata nella liturgia che Dieterich aveva recuperato. Questo episodio fornì un suggerimento a suffragio della sua ipotesi di partenza, motivo del viaggio intrapreso 4 anni prima, ovvero la presenza di uno strato impersonale della nostra psiche, una sorte di “bacino collettivo inconsapevole” dove non risiedono le ferventi ed inaccettabili pulsioni umani, come nell’inconscio personale di freudiana memoria, bensì “le umane esperienze” o più precisamente “le possibilità di fare determinate esperienze”. Quali? Quelle atte allo sviluppo, maturazione e adattamento della Psiche Umana.
Tali possibilità esperienziali risiedono in ciascun uomo, sono “strutture in divenire”, latenti e pronte ad “attualizzarsi” nel presente, ovvero a prendere vita a seconda delle circostanze. Un fulgido esempio di tale funzionamento viene fornito dallo stesso Jung nel 1917 nel saggio “Istinto ed Inconscio”; in questo lavoro, dove per la prima volta appare il termine “Archetipo”, egli prova a spiegare l’enorme differenza che può esserci fra il modo di presentarsi dell’istinto animale e l’archetipo (Jung C.G., Istinto e inconscio. Vol. VIII, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1980). Secondo il padre della Psicologia Analitica, questa funzione differisce dalla spinta istintuale per la sua capacità di “regolabilità”, ovvero la possibilità di mutare, cambiare e declinarsi a seconda delle condizioni cui ci si trova davanti. A suffragio di tale affermazione, egli spiega che: l’istinto all’autoconservazione, spinta motivante che orienta la condotta di ogni essere vivente, può accumunare un cittadino europeo con un uomo di una tribù africana, ma si attiverà, a parità di condizioni, davanti un autocarro che sta sbandando lungo la strada o dinnanzi una belva feroce. Il sentimento di pericolo è lo stesso, ovvero l’esperienza della paura, ma prenderà una forma congrua all’ambiente di provenienza.
Nella sua esperienza, lo psicotico americano, come nelle antiche civiltà persiane, si appellava al bisogno di contatto dell’uomo con una entità divina di carattere propiziatorio; chiaro, nello schizofrenico l’identificazione con il “Fallo Solare” era un modo per gestire la fragile condizione psichica nella quale versava ma in entrambi i casi si sottolinea l’aspetto “fecondo” e generatore di vita, il tubo che genera il vento, che l’immagine, la stessa immagine per entrambi i casi, suggerisce.
Si faceva così spazio, agli occhi di Jung, all’idea dell’“Inconscio collettivo”, matrice esperienziale impersonale e sede degli Archetipi.
Era il 1910.
Bibliografia di riferimento
JUNG C.G. (1919), Istinto e inconscio, vol. VIII, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1980.
JUNG C.G. (1936), Il concetto d’Inconscio Collettivo, vol IX, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1980.
MCGUIRE W., HULL R.F. (a cura di), (1977), Jung parla, Adelphi, Milano 2002.