Il sacrilegio della navigazione

di Gilda Diotallevi

La filosofia, nata in Asia Minore nel VI secolo a.C. sulle rive del Mar Egeo, parla, in un modo o nell’altro, il linguaggio del mare. Il suo destino, scritto sotto il segno dell’acqua, influenzerà infatti la sua stessa natura, riflettendosi nella teorizzazione, nella prassi così come nella sua semantica rilevante.

La ricerca del senso aleggia nelle metafore del viaggio, tantissime in tal senso, accomunate tutte dal desiderio di spingersi oltre il conosciuto, al di là del conoscibile. La terra ferma diviene il luogo da abbandonare, la riva da cui partire nel tentativo di solcare mari e pensieri nuovi.

Eppure ogni esplorazione, per quanto bramata dall’uomo, rimane sempre turbata da una certa inquietudine difficilmente decifrabile. Testimonianza ne è la nostra tradizione poetico-culturale la cui semantica non si immunizza dal retaggio di una colpa che, a dispetto del più intuitivo peccato originale, attiene storicamente al sacrilegio commesso nell’aver profanato luoghi sacri.

Il mare trattiene infatti tutta l’ambivalenza della scoperta e della perdita, esso, secondo Omero, è sempre terribile, duro, grande abisso, livido, instancabile e il suo pericolo più grande è rappresentato dal rischio del suo attraversamento, corrispondente, in molti casi, al rischio di una profanazione. «Ah! […] i mortali[…] si procurano dolori oltre il segno» (Omero, Odissea, Proemio). L’uomo vuole mettersi in mare e la sua navigazione in direzione dell’ignoto lo condurrà verso un disvelamento ma gli procurerà, allo stesso tempo, un senso di sradicamento.  Ed ecco che l’eroe per eccellenza del mediterraneo, Ulisse, paragona le onde del mare alla guerra, entrambe capaci di portare dolore, entrambe mobili e malferme.

In realtà solo la rilettura moderna di questo mito ha reso Ulisse metafora della sete di conoscenza, pronto a sfidare con consapevolezza ciò che gli dei proibiscono. Egli infatti, secondo una precisa lettura esegetica dei testi, «supera di senno i mortali» e si distingue dagli altri suoi compagni che (come nel caso dell’apertura dell’otre dei venti o della distruzione delle mandrie del sole) rischiano continuamente di superare il segno che gli dei impongono. Eppure l’idea della sfida del fato, del superamento del limite non è nuova alla nostra tradizione culturale.

Pensiamo ad esempio al mito degli Argonauti, la cui spedizione rappresenta senza dubbio l’infrangere tabù, a Serse, simbolo della violazione della legge e dei limiti imposti (nel suo caso dall’autorità persiana), così come ad Alessandro Magno, figura emblematica della tensione conquistatrice, disposto a giungere fino ai confini del mondo conosciuto.

Mare: simbolo di hybris

I riferimenti omerici, ma più in generale la cultura mediterranea con le Argonautiche e l’Eneide, sono pieni di esempi in cui lo spingersi oltre il consentito, il varcare limiti non concessi, il macchiarsi di hybris, rappresentino azioni difficilmente perdonabili. La furia degli dei era implacabile verso l’uomo che, macchiandosi di una tal colpa, pregiudicava non solo la sua vita ma quella della sua intera stirpe. E gli dei si vendicavano proprio attraverso il mare, facendo soffiare dirompenti tempeste, dando vita a violenti capovolgimenti di flutti. In fondo anche l’isola di Atlantide «[…] essendosi verificati terribili terremoti e diluvi, nel corso di un giorno e di una notte, […]sommersa dal mare, scomparve» (Platone, Timeo, 25c-d).

Anche nell’iconografia cristiana il mare torna a essere centrale; presente con diverse sfumature di senso esso è il luogo dell’epifania del male, lo strumento di cui si serve la collera divina per punire i peccati dell’umanità. La palingenesi è già nel diluvio universale, narrato nel poema di Gilgamesh, nella Bibbia, così come nel mito greco di  Deucalione e Pirra.

Il circoscrivere il mare di una qualche sacralità poteva celare un esercizio di potere, i divieti sul commercio marittimo che una classe dominante imponeva all’altra si servivano proprio dell’antica credenza di commettere sacrilegio nel toccare le acque del mare, ma spesso nascondeva anche il bisogno di autoprotezione da parte dell’uomo. «Il sacrilegio della navigazione punisce se stesso già col timore delle potenze superiori alle quali l’uomo si consegna e che traduce nelle immagini dei suoi dei, ai quali queste potenze vengono sostituite. Ma che con esse non può stringere un patto, l’uomo lo sperimenta nella vanità dei suoi sforzi di esorcizzarle». (H. Blumenberg, Naufragio con spettatore, p.54).

Lasciare la terra ferma in vista di una navigazione coincideva con l’abbandono del presidio e della guida a favore di un indeterminato. Ma ancor più rappresentava il pericolo dell’alterazione dell’antico rapporto tra terra e mare, «paragonabile all’offesa arrecata alla inviolabilità della terra, alla legge della terra inviolata che ad esempio sembrava proibire il taglio di istmi e la creazione di porti artificiali, cioè drastiche modificazioni del rapporto tra terra e mare». (H. Blumenberg, Naufragio con spettatore). Ciò che il divino aveva tenuto separato viene, attraverso la spavalderia della navigazione, congiunto e l’uomo, dimentico del monito degli dei, commette impiae rates. L’assolutizzazione di un elemento a discapito dell’altro infatti avrebbe eliminato quella necessaria contrapposizione dialettica, compromettendo l’ordo naturans delle cose e rendendo così il mare spaventoso. 

Ma in fondo, come ci ricorda Conrad, il mare non è mai stato amico dell’uomo quanto senz’altro complice della sua irrequietezza.

L’illusione metafisica

L’antico sacrilegio della navigazione, seppur abbandonato nella sua piena accezione di superstizione, permane nel tempo, confluendo nell’accento di sconsideratezza, se non di empietà, di cui si macchieranno gli uomini moderni. Il tentativo di oltrepassare il limite, così come la ricerca spasmodica di un elemento a discapito dell’ordine naturale, rischia di trascinare il pensiero verso derive nichilistiche.

Pensiamo oggi alla ricerca scientifica portata avanti senza il freno del proprio contraltare, del proprio opposto o a come la tecnica, privata di una qualche resistenza del dubbio, si muova senza nessun presidio etico.

Sarà Franco Cassano, nel suo bellissimo Il Pensiero meridiano, a far coincidere la crisi del pensiero con l’assolutizzazione del mare/tecnica, privato di ogni forma di possibile contrapposizione dialettica. «È qui la radice della crisi del pensiero, del suo arrendersi al predominio della tecnica: d’ora in poi vale solo il pensiero che vive sempre in alto mare e che ha rimosso le idee stesse del limite, del ritorno, della terra come superstizioni, timidezze o regressioni. L’aver sostituito al vecchio infinito quello della tecnica significa solo aver cambiato il lato della dismisura».(F. Cassano, Il Pensiero meridiano, p. 32).

Misure e dismisure oggi fanno i conti con il pericolo continuo dello smarrimento del pensiero, lì dove le cose, sottratte al loro posto, non ritrovano una collocazione ma viaggiano in una lacerante mancata relazione con i propri opposti. Ed ecco che Giustizia e Legge, verità e conoscibilità, progresso ed etica non possono più dialogare. La ragione è smarrita, letteralmente, e si ritrova a navigare nella sua sconfinata libertà senza più nessun porto sicuro. Il mare aperto della conoscenza torna a macchiarsi di una certa forma di sacrilegio, così come il diritto all’allontanamento porta dietro non solo la libertà ma anche lo sradicamento.

La terra ferma dei principi, il luogo della sicurezza, l’oikos, verranno abbandonati in direzione di una navigazione che non troverà più approdo. Il pensiero è mosso da un vento che non trova mai scogli e le forme conosciute si dissolveranno, i limiti si decostruiranno e alla ragione pura si sostituirà una tentata ragionevolezza.

Non è possibile per l’uomo stringere a lungo un patto di non belligeranza tra se stesso e la Natura, a cui peraltro appartiene, perché, come ci ricorda Lucrezio, «mentre va sulla prua, al supplice voto un turbine sorge violento/e lo prende e contro le rocce lo sbatte, al guado/ignoto dell’implacabile morte». Consci di tutto ciò, a noi non rimane che sperare che l’augurio di Martin Heidegger si avveri e che al pensiero calcolante della tecnica, a quel pensiero che si trova, sempre e di continuo, in alto mare torni a contrapporsi la forza radicata di un pensiero diverso, di un pensiero meditante.

Bibliografia di riferimento

H. BLUMENBERG, Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, Mulino, Bologna 1985.
F. CASSANO, Il Pensiero meridiano,Laterza, Roma-Bari 1996.
OMERO, Odissea.
PLATONE, Timeo.