di Francesca Consoli
#1 Morire per una foto
Fotografie, manifesti, filmati, e immagini in genere, sono stati sempre un mezzo per veicolare messaggi e suscitare emozioni, negative o positive che fossero.
Tanto più ciò è accaduto con la guerra, con quelle foto e reportage che hanno dato vita, in un certo senso, a un genere preciso: la fotografia di guerra per l’appunto.
Quest’ultima, categoria estremamente vasta e difficile da definire, ha però alcuni elementi che la contraddistinguono e altrettanti parametri che la costituiscono.
Il primo, tra tutti, è la corrispondenza della foto di guerra al parametro della veridicità. Esso diviene il carattere forte, preponderante, tanto da eclissare anche il parametro artistico, perché in questo caso la foto, prima di essere bella, deve mostrare la verità. Eppure non è stato sempre così, perché all’inizio le foto diffuse non avevano tanto lo scopo di informare quanto quello di manipolare l’opinione pubblica. Come non pensare a Roger Fenton e al suo reportage del 1855 sul fronte di Crimea le cui immagini volontariamente non mostravano gli aspetti più cruenti, rendendo così accettabile da parte dell’opinione pubblica inglese la spedizione stessa. O ancora allo scoppio della Prima guerra mondiale, in cui i racconti e i resoconti di vittorie e sconfitte erano corredati da immagini eloquenti, spesso strumentalizzate dalla propaganda politica per infervorare e rinfrancare gli animi dei civili provati dagli effetti del conflitto oppure per suscitarne sdegno e indignazione e giustificare, in qualche maniera, gli orrori e le atrocità commessi.
Alcune di queste fotografie hanno fatto la storia, una tra tutte quella drammaticamente dirompente e universalmente nota, scattata nel 1936 a Cordova da Robert Capa, che ritrae un miliziano dell’esercito repubblicano spagnolo mentre viene colpito, presumibilmente a morte, da un colpo di arma da fuoco nemico.

Capa può essere definito il primo fotografo di guerra così come lo intendiamo noi oggi, non solo perché con lui l’immagine di guerra assume quel carattere di veridicità di cui parlavamo, ma anche perché si definisce la figura stessa del fotoreporter. All’inizio infatti il compito di scattare tali fotografie era assegnato e lasciato alla inclinazione personale di un soldato piuttosto che di un civile e non si era ancora delineato un ruolo che, in tempi decisamente più moderni, si è praticamente istituzionalizzato.
Un reportage di guerra quindi deve far entrare con violenza in una certa logica, in situazioni che perlopiù ci sono ignote o che comunque non si conoscono per la loro effettiva portata. Informare, fare cronaca e, in un certo senso, risvegliare l’opinione pubblica o il senso di umanità di un individuo passa anche attraverso la crudezza, l’orrore e la sottrazione di filtri.
Come non ricordare la foto che fece epoca della bambina vietnamita, subito dopo l’attacco americano con il Napalm. La piccola è completamente nuda, scappa e piange, con il corpo ricoperto da estese ustioni. La violenza espressiva dell’immagine riesce a descrivere, senza bisogno di ulteriori didascalie, le drammatiche ripercussioni sui civili.
La foto di guerra perciò, e qui veniamo a un suo ulteriore requisito, deve riportare a un tutto generale. Deve, da un particolare, allargare la nostra prospettiva oltre quell’immagine stessa.
La capacità di ricreare questa suggestione è lasciata all’istantanea. Non possono esistere foto costruite, elaborazioni o modifiche sostanziali, perché la foto effettivamente di guerra è lì, esito dell’unione tra il caso fortuito, il pericolo di chi si spinge tanto vicino all’azione da descrivere e l’occhio dell’artista. Perché se è vero che il criterio dell’artisticità è in ombra e la ricerca sulla foto è fatta in studio solo in un momento successivo, esiste una oggettiva capacità del singolo fotografo di cogliere quell’attimo, quell’inquadratura, quel simbolo che rimanda ad altro. Anche oggi, dove la tecnologia ha permesso a chiunque di riuscire a scattare buone foto, esiste una differenza tra chi propone pura cronaca, pedissequa trasposizione di un avvenimento, e chi invece è capace di mostrarci un mondo. Potranno esserci milioni di foto che riprendono un bombardamento, ma nulla potrà farci immergere in quella realtà come la foto di un interno di una casa distrutta in cui compare un tavolo ancora apparecchiato.
Da un punto di vista tecnico l’attrezzatura è ridotta al minimo. Robert Capa portò alla ribalta la Leica, la 35 mm. del 1913, (anche se già nel 1888 la Kodak aveva iniziato a produrre macchine più piccole), la macchina fotografica snella, semplice, leggera. Tutto deve essere maneggevole, gli obiettivi sono pochi, mostrando ancor più l’abilità del fotografo. Quando nel 1863 Timothy O’Sullivan si reca sul campo di battaglia ha pochissimi mezzi a sua disposizione, molti inadatti e lenti per un uso come quello, eppure la sua capacità, il suo occhio attento ci ha regalato un pezzo di storia. Le immagini dei corpi senza vita dei soldati sono l’esempio perfetto di quel grido di umanità che la guerra lancia.

Potrei citare come minimo altre due dozzine di foto sconvolgenti per la loro crudezza oppure per l’immediatezza con cui hanno immortalato un sentimento, un singolo istante significativo oppure una condizione generalizzata.
La maggior parte di esse sono immagini che vengono prodotte casualmente, senza un progetto di inquadratura, proprio perché scattate in situazioni di estremo pericolo, concitazione oppure perché fatte di nascosto.
Storiche le foto pubblicate da Life sullo sbarco in Normandia del 1944 di Capa, che, per motivi tecnici e per la mano tremante del fotoreporter stesso, pur essendo definite “leggermente fuori fuoco”, rappresentarono alcune tra le immagini più iconiche della guerra in generale. (R. Capa, Slightly out of focus, 1947).

Cosa differenzia allora una foto comune da una foto di guerra, un profano da un professionista? Forse la motivazione. Esiste una volontà ferma, un credo nel voler conoscere una realtà, nel volerne mostrare la conseguenza di un atto tanto orribile. E quindi è lì, dove tutto ha inizio, dove la vita è deflagrata che troveremo il fotografo di guerra. Colui che con il suo occhio allenato al bello, all’inquadratura scenica, sarà disposto a lasciare indietro tutto pur di mostrarci quell’attimo irripetibile. Ma il momento cruento, il momento simbolico non può essere raggiunto senza rischio. Alcuni sono morti per scattare quelle foto e ci si chiede se la vita non sia un prezzo troppo alto da pagare. Esistono giornalisti e fotografi che volontariamente e scientemente decidono di recarsi, anche con mezzi fortunosi, in quelle zone dove il conflitto è più aspro e sanguinoso oppure in aree dove la guerra e gli scontri tra etnie opposte ha lasciato desolazione, distruzione e morte o che ancora scelgono di seguire e documentare il viaggio di centinaia di esuli che, a causa proprio della guerra, lasciano tutto per cercare rifugio e protezione.
Sarebbe facile dire che si compiono certe scelte per un ritorno economico o per sete di riconoscimenti e fama. Ciò che forse viene sottinteso, o dato per scontato, è il coraggio nel mettere a repentaglio la propria incolumità, la fiducia incrollabile nelle proprie possibilità e la convinzione della necessità di dover mostrare e documentare la verità, o quella che si ritiene tale.
Per alcuni fotografi il loro lavoro diviene una missione di coscienza, un dovere civico di far comprendere ciò che realmente sta accadendo e che invece spesso i poteri forti non vogliono mostrare. Nonostante l’ammirazione per chi sceglie questa tortuosa via, per chi cioè credeva e crede profondamente nella necessità di documentare e denunciare proprio e soprattutto le situazioni più estreme, rimane sempre il dubbio che mettere a repentaglio la propria stessa vita sia un sacrificio troppo grande da sostenere.