La fotografia è un’arte; anzi è più che un’arte, è il fenomeno solare in cui l’artista collabora con il sole.
(A. de Lamartine)
L’ispirazione
Come spesso accade, soprattutto nelle serate estive, si esce a fare delle passeggiate e così è capitato a me girovagando per il quartiere Garbatella a Roma dove l’architettura cosi variegata e le luci dei lampioni che illuminavano in maniera fioca e soffusa gli androni dei palazzi rendevano l’atmosfera ancora più suggestiva.
La mia attenzione è stata catturata dal gioco di luce e ombra su un cortile e un portone di ingresso e mi sembrava di essere stata catapultata indietro nel tempo di 60 anni.
In quel momento non vi era nessun elemento intorno a me che poteva indicarmi se mi trovassi nel 2020 oppure in una Roma che io ho solo potuto vivere attraverso altre fotografie d’epoca, libri e film.
La luce
E qui mi ritrovo a riflettere sulla luce, un elemento fondamentale per un fotografo, direi uno dei suoi più grandi alleati, anche se a volte si può trasformare in un vero e proprio elemento invalidante tale da rovinare in modo irreparabile una foto. In fondo, come ci ricorda John Berger, «Ciò che rende la fotografia una strana invenzione è che le sue materie prime principali sono la luce e il tempo».
Nello scatto qui pubblicato la luce era calda e circoscritta, non diffusa, regalandomi già essa stessa una inquadratura che io dovevo solo procedere a ritagliare mentalmente, per accompagnare l’occhio dell’osservatore dove volevo che più si soffermasse.
La scelta del bianco e nero poi è stata, oserei dire, obbligata in quanto i colori in questa cornice avrebbero potuto distogliere lo sguardo.
La foto che ho scattato è stata difficile da realizzare poiché il contrasto tra la luce e il buio era davvero forte e nessuno dei due elementi doveva prevalere sull’altro, ma il mio intento era quello di farli cooperare per riprodurre la stessa suggestione che quella immagine mi aveva creato dal vivo.
Spesso nelle mie fotografie mi sono trovata a fare i conti con luci sbagliate o per lo meno che non rendevano l’effetto desiderato, tanto è vero, si può dire, che dai grandi fotografi ho cercato di carpire il segreto del loro saper piegare questo elemento, tanto basilare eppur in grado di rendere una semplice foto un vero capolavoro.
Bianco e nero
Sicuramente in molti scatti usare l’effetto del bianco e nero è un valido aiuto per affinare quei giochi di chiaroscuro che rendono una fotografia dinamica, preservandola dalla staticità perché, a mio avviso, spesso si rischia, per paura di esagerare, di appiattire e uniformare ciò che invece dovrebbe essere lasciato nella sua dimensione di puro movimento.
Mi è capitato di discutere anche animatamente con alcuni miei colleghi fotografi che criticavano l’uso smodato che spesso viene fatto nelle mostre fotografiche di scatti in bianco e nero, nel tentativo di catturare maggiormente l’attenzione dello spettatore per via di contrasti visibilmente più marcati.
Questo discorso non mi ha mai trovata molto d’accordo in quanto, nonostante sia innegabile il fascino di una foto in bianco e nero, io penso che la creazione di una emozione, suscitata da una fotografia, risieda non solo nell’occhio del destinatario, ma anche in quello del fotografo e nella sua capacità di barcamenarsi e districarsi tra apertura e chiusura del diaframma e tempi più o meno lunghi di esposizione* per riprodurre in modo fedele ed enfatizzato la realtà. «Una differenza molto importante tra il colore e la fotografia monocromatica è questa: in bianco e nero suggerisci; a colori affermi». (Paul Outerbrige)
[n.d.a.*esposizione= intensità luminosa per tempo, dipende dalla combinazione tra le impostazioni del diaframma , che regola l’intensità luminosa e il tempo di esposizione]
Fotografie,
manifesti, filmati, e immagini in genere, sono stati sempre un mezzo per
veicolare messaggi e suscitare emozioni, negative o positive che fossero.
Tanto
più ciò è accaduto con la guerra, con quelle foto e reportage che hanno dato
vita, in un certo senso, a un genere preciso: la fotografia di guerra per
l’appunto.
Quest’ultima,
categoria estremamente vasta e difficile da definire, ha però alcuni elementi
che la contraddistinguono e altrettanti parametri che la costituiscono.
Il
primo, tra tutti, è la corrispondenza della foto di guerra al parametro della
veridicità. Esso diviene il carattere forte, preponderante, tanto da eclissare
anche il parametro artistico, perché in questo caso la foto, prima di essere
bella, deve mostrare la verità. Eppure non è stato sempre così, perché
all’inizio le foto diffuse non avevano tanto lo scopo di informare quanto
quello di manipolare l’opinione pubblica. Come non pensare a Roger Fenton e al
suo reportage del 1855 sul fronte di Crimea le cui immagini volontariamente non
mostravano gli aspetti più cruenti, rendendo così accettabile da parte
dell’opinione pubblica inglese la spedizione stessa. O ancora allo scoppio della
Prima guerra mondiale, in cui i racconti e i resoconti di vittorie e sconfitte
erano corredati da immagini eloquenti, spesso strumentalizzate dalla propaganda
politica per infervorare e rinfrancare gli animi dei civili provati dagli
effetti del conflitto oppure per suscitarne sdegno e indignazione e
giustificare, in qualche maniera, gli orrori e le atrocità commessi.
Alcune di queste fotografie hanno fatto la storia, una tra tutte quella drammaticamente dirompente e universalmente nota, scattata nel 1936 a Cordova da Robert Capa, che ritrae un miliziano dell’esercito repubblicano spagnolo mentre viene colpito, presumibilmente a morte, da un colpo di arma da fuoco nemico.
Capa
può essere definito il primo fotografo di guerra così come lo intendiamo noi
oggi, non solo perché con lui l’immagine di guerra assume quel carattere di
veridicità di cui parlavamo, ma anche perché si definisce la figura stessa del
fotoreporter. All’inizio infatti il compito di scattare tali fotografie era
assegnato e lasciato alla inclinazione personale di un soldato piuttosto che di
un civile e non si era ancora delineato un ruolo che, in tempi decisamente più
moderni, si è praticamente istituzionalizzato.
Un
reportage di guerra quindi deve far entrare con violenza in una certa logica,
in situazioni che perlopiù ci sono ignote o che comunque non si conoscono per
la loro effettiva portata. Informare, fare cronaca e, in un certo senso,
risvegliare l’opinione pubblica o il senso di umanità di un individuo passa
anche attraverso la crudezza, l’orrore e la sottrazione di filtri.
Come
non ricordare la foto che fece epoca della bambina vietnamita, subito dopo
l’attacco americano con il Napalm. La piccola è completamente nuda, scappa e
piange, con il corpo ricoperto da estese ustioni. La violenza espressiva
dell’immagine riesce a descrivere, senza bisogno di ulteriori didascalie, le
drammatiche ripercussioni sui civili.
La
foto di guerra perciò, e qui veniamo a un suo ulteriore requisito, deve
riportare a un tutto generale. Deve, da un particolare, allargare la nostra
prospettiva oltre quell’immagine stessa.
La capacità di ricreare questa suggestione è lasciata all’istantanea. Non possono esistere foto costruite, elaborazioni o modifiche sostanziali, perché la foto effettivamente di guerra è lì, esito dell’unione tra il caso fortuito, il pericolo di chi si spinge tanto vicino all’azione da descrivere e l’occhio dell’artista. Perché se è vero che il criterio dell’artisticità è in ombra e la ricerca sulla foto è fatta in studio solo in un momento successivo, esiste una oggettiva capacità del singolo fotografo di cogliere quell’attimo, quell’inquadratura, quel simbolo che rimanda ad altro. Anche oggi, dove la tecnologia ha permesso a chiunque di riuscire a scattare buone foto, esiste una differenza tra chi propone pura cronaca, pedissequa trasposizione di un avvenimento, e chi invece è capace di mostrarci un mondo. Potranno esserci milioni di foto che riprendono un bombardamento, ma nulla potrà farci immergere in quella realtà come la foto di un interno di una casa distrutta in cui compare un tavolo ancora apparecchiato.
Da un punto di vista tecnico l’attrezzatura è ridotta al minimo. Robert Capa portò alla ribalta la Leica, la 35 mm. del 1913, (anche se già nel 1888 la Kodak aveva iniziato a produrre macchine più piccole), la macchina fotografica snella, semplice, leggera. Tutto deve essere maneggevole, gli obiettivi sono pochi, mostrando ancor più l’abilità del fotografo. Quando nel 1863 Timothy O’Sullivan si reca sul campo di battaglia ha pochissimi mezzi a sua disposizione, molti inadatti e lenti per un uso come quello, eppure la sua capacità, il suo occhio attento ci ha regalato un pezzo di storia. Le immagini dei corpi senza vita dei soldati sono l’esempio perfetto di quel grido di umanità che la guerra lancia.
Potrei
citare come minimo altre due dozzine di foto sconvolgenti per la loro crudezza
oppure per l’immediatezza con cui hanno immortalato un sentimento, un singolo
istante significativo oppure una condizione generalizzata.
La
maggior parte di esse sono immagini che vengono prodotte casualmente, senza un
progetto di inquadratura, proprio perché scattate in situazioni di estremo
pericolo, concitazione oppure perché fatte di nascosto.
Storiche le foto pubblicate da Life sullo sbarco in Normandia del 1944 di Capa, che, per motivi tecnici e per la mano tremante del fotoreporter stesso, pur essendo definite “leggermente fuori fuoco”, rappresentarono alcune tra le immagini più iconiche della guerra in generale. (R. Capa, Slightly out of focus, 1947).
Cosa
differenzia allora una foto comune da una foto di guerra, un profano da un
professionista? Forse la motivazione. Esiste una volontà ferma, un credo nel
voler conoscere una realtà, nel volerne mostrare la conseguenza di un atto
tanto orribile. E quindi è lì, dove tutto ha inizio, dove la vita è deflagrata
che troveremo il fotografo di guerra. Colui che con il suo occhio allenato al
bello, all’inquadratura scenica, sarà disposto a lasciare indietro tutto pur di
mostrarci quell’attimo irripetibile. Ma il momento cruento, il momento
simbolico non può essere raggiunto senza rischio. Alcuni sono morti per
scattare quelle foto e ci si chiede se la vita non sia un prezzo troppo alto da
pagare. Esistono giornalisti e fotografi che volontariamente e scientemente decidono
di recarsi, anche con mezzi fortunosi, in quelle zone dove il conflitto è più
aspro e sanguinoso oppure in aree dove la guerra e gli scontri tra etnie
opposte ha lasciato desolazione, distruzione e morte o che ancora scelgono di
seguire e documentare il viaggio di centinaia di esuli che, a causa proprio
della guerra, lasciano tutto per cercare
rifugio e protezione.
Sarebbe
facile dire che si compiono certe scelte per un ritorno economico o per sete di
riconoscimenti e fama. Ciò che forse viene sottinteso, o dato per scontato, è il
coraggio nel mettere a repentaglio la propria incolumità, la fiducia
incrollabile nelle proprie possibilità e la convinzione della necessità di
dover mostrare e documentare la verità, o quella che si ritiene tale.
Per
alcuni fotografi il loro lavoro diviene una missione di coscienza, un dovere
civico di far comprendere ciò che realmente sta accadendo e che invece spesso i
poteri forti non vogliono mostrare. Nonostante l’ammirazione per chi sceglie
questa tortuosa via, per chi cioè credeva e crede profondamente nella necessità
di documentare e denunciare proprio e soprattutto le situazioni più estreme,
rimane sempre il dubbio che mettere a repentaglio la propria stessa vita sia un
sacrificio troppo grande da sostenere.