Jung, l’ Archetipo e la Civiltà: breve storia di una necessità collettiva. Terza parte: L’archetipo e i Principi Bionomici


Di Eros Lancianese

Procedendo con l’origine del termine e i suoi possibili legami con le altre discipline umane la costante che si ripresenta con consueta regolarità è l’intima connessione fra l’Archetipo e la Natura. Possiamo capire il funzionamento dell’Archetipo attraverso lo studio dei principi bionomici.

Un piccolo passo indietro.

Per Bionomia si intende l’insieme di leggi che regolano le Strutture del Viventenelle sue forme ed espressioni e che ne normatizzano lo sviluppo lungo l’arco della loro crescita e della loro maturazione. Tali leggi, redatte nell’ambito delle scienze biologiche ad opera di personalità quali Jakob Johann von Uexkull, sono definite universali e sovraordinate, ovvero fanno riferimento a tutte le forme di vita e si attivano nel momento in cui essa ha origine, quindi al primo battito, al primo scambio cellulare, al primo equilibrio biochimico o legame energetico. Queste leggi contengono in nuce un progetto di sviluppoche si dipanerà nel tempo chiamato Ontogenesi (l’insieme dei processi che si attivano nel determinare uno sviluppo biologico completo), che ripercorre un sentiero evolutivo chiamato Filogenesi (l’asse che traccia il suo punto di partenza).

Fra tutte queste leggi che segnano il ‘percorso che deve compiere la vita per vivere’ ve ne è una che potrebbe essere definita come la più importante, ovvero la proprietà finalistica del biòs, intensa come il suo ‘orizzonte di sviluppo’, un proprio percorso da realizzare per condurre la vita a compimento. Prendendo ad esempio una metafora tanto cara a James Hillman, continuatore a suo modo del pensiero junghiano e fondatore della Psicologia Archetipica, nel suo Il Codice dell’Anima egli scrive che a dispetto di come verrà nutrito, cresciuto e curato un seme sarà sempre destinato ad esprimere sé stesso, sia esso un baobab, una vite o una ghianda, anche se le condizioni climatiche saranno ostiche, i coltivatori distratti o troppo apprensivi o la terra troppo arida per fornire il necessario nutrimento. Il suo percorso di crescita si esprimerà comunque, non subirà arresti, tutt’al più verrà vincolato dalle condizioni nelle quali si è trovato a venir fuori.

I Principi Bionomici intendono quindi la vita come un ‘processo in pieno e costante svolgimento’e non come una condizione data, un percorso che deve essere alimentato, sostenuto, può subire accelerazioni o rallentamenti, può bloccarsi o impennarsi, non di certo una curva gaussiana puntata a un ottimistico e indiscusso ad maiora, ma qualcosa di più delicato, soggetto a imprevisti o rallentamenti, anche improvvisi, che non possono essere dati per scontato.

Negli stessi anni nei quali queste regole venivano e scoperte e redatte, Carl Gustav Jung era alle prese con la stesura di uno dei suoi testi più importanti, Tipi Psicologici, un volume denso e difficile, frutto di una ventina d’anni di studi empirici sull’animo umano derivati dalla sua pratica clinica di psicopatologo. L’opera si pone l’obiettivo di spiegare come la vita psichica, a seconda della propria precipua e naturale inclinazione, prenda forma in relazione alle condizioni nelle quali si trova a operare e quindi come questa lotta affermativa avvenga non solo nella nuda realtà della natura, ma anche all’interno della nostra mente. Tale lotta viene però regolamentata anch’essa da regole ben precise, regole entro le quali l’energia psichica si colloca e si organizza. Queste regole sono date dagli Archetipi, che assumono il ruolo di Organi Psichici che strutturano e determinano i processi della nostra organizzazione psichica. Possiamo rintracciare un parallelismo con le leggi bionomiche seguendo il pensiero del fondatore della psicologia Analitica. Andiamo a vedere.

Nelle Definizioni, capitolo finale dell’opera, Jung scrive che gli Archetipi sono dei principi strutturanti che danno ordine ai contenuti psichici attraverso organizzazioni di senso e spinte motivazionali di autorealizzazione. Sono collettivi, poiché sono possibilità che appartengono a tutti gli individui e sono di natura aprioristica, ovvero precedono l’esperienza. Tali archetipi si attivano nel momento in cui l’ambiente sollecita l’individuo ad appellarsi alle sue proprietà adattive dando la possibilità di fare una determinata esperienza utile alla realizzazione e autoconservazione dell’uomoma, differentemente dagli istinti, sono altamente modulabili a seconda della realtà di riferimento. Come i principi bionomici, anche essi possiedono una caratteristica poietica, ovvero la promozione di uno specifico percorso di crescita che tocca specifiche tappe dello sviluppo e una qualità teleologica, ovvero che la sua manifestazione non solo avviene come risposta ad un adattamento ambientale al quale l’individuo deve far fronte modulandosi e trovando il suo equilibrio ottimale, ma descrive un arco, un orizzonte che si deve realizzare, un obiettivo.

 Da queste considerazioni, dove si può notare il forte parallelismo fra le regole Bionomiche e quelle dell’Archetipo che suggeriscono un legame e un’origine comune, possiamo vedere come sia il biòs che la psichè siano emanazioni della vita e dalla vita traggono le stesse disposizioni per potere esistere. Entrambe sono impegnate in una fortissima lotta ontologica dove resistere, alle intemperie, alle condizioni, alle difficoltà, ai conflitti, al caos come all’ordine, significa esistere.

Se è quindi vero l’enunciazione nietzschiana che la vita vuole vivere allora è ovvio che essa può essere considerata alla stregua di un urlo che vuole pronunciarsi fino a che c’è fiato in gola, portando un suo messaggio e avendo in mente chissà quali destinatari. La vita psichica è, in questa maniera, ornata di senso; mira puramente all’autoconservazione e al mantenimento di se stessa.     La forza affermativa non può essere fermata o mitigata, ma assecondata.

Quando Jung distingueva l’archetipo dall’Istinto intendeva proprio questo: laddove quest’ultimo si esprime con caratteristiche della ripetitività, consuetudine e non modularità, l’Archetipo predispone l’uomo all’adattamento, con se stesso e gli altri, con le sue qualità che possono divenire delle competenze, con la sua esplosività che può assurgere a metodo, il suo impeto che deve divenire negoziazione. La capacità di cambiare e mutare punta solo alla spinta realizzativa, diventare, insomma, se stessi.

Vi è tanto di Bergson, Minkowski e Heidegger in questo discorso: la possibilità di essere inseriti all’interno dello slancio continuo e costante del flusso del divenire, la realizzazione di un’esistenza autentica all’interno delle compagini del tempo, l’appercezione di un passato che fonda il presente e prepara il terreno alla realizzazione del futuro, la sofferenza come tradimento al proprio percorso personale, che non porta ad una realizzazione ma ad un suo compendio, figlio dell’incapacità, della paura, del passato o dell’impossibilità di cambiare o scegliere. Questo è insomma il Processo di Individuazione, il percorso personale di espressione della nostra natura endopsichica, la nostra realizzazione che può completarsi attraverso il modo in cui il nostro corredo archetipico si esprime nell’arco della vita, mettendoci di fronte a difficoltà, sfide, ma anche alle nostre possibilità, e alle nostre risorse. Tale processo mira all’espressione dell’uomo, il diventa te stesso il cui dominio non è affidato alla semplice forza di volontà, specie se arriva dall’arroganza della psiche cosciente: l’io direbbe Freud, suo mentore negli anni giovanili, ma abbraccia forme inaspettate anche inedite, inespresse o inesprimibili (e per questo inconsce).

Bibliografia

J. HILLMAN (1996), Il Codice dell’Anima, Adelphi Edizioni, Milano 1997.
C.G. JUNG (1921), Tipi Psicologici, vol. VI, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1977.

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