Un breve viaggio tra i suoi scritti
di Gilda Diotallevi
Dialogando con il professor Marco Maria Gazzano, tra i massimi esperti di arti elettroniche e teorie dell’intermedialità, mi rendo subito conto di come tutto il suo lavoro sia incentrato sul valore della ricerca. Acuto osservatore del mondo e delle sue dinamiche nascoste, Gazzano mira a estendere e approfondire le sue conoscenze delle arti in modo sistematico, secondo un metodo che, nella sua accezione etimologica, crea una connessione tra un μετα- l’andare in direzione di, in cerca di, e un ὁδός, un cammino, una via.
Non meraviglia quindi che il suo testo Kinema, il cui titolo è già un manifesto, si componga di una serie di saggi, atti di convegni, scritti d’artista, inediti che testimoniano il lungo percorso necessario per giungere alla reale comprensione di un ambito tanto complesso ed eterogeneo come quello del cinema.

MMG «Il tema trattato in Kinema è molto ampio, è la definizione del concetto e della parola ‘cinema’ che è cambiata nei due, tre secoli che ne coprono la storia. Ma soprattutto è cambiata potentemente in funzione delle tecnologie che fanno il cinema, perché le tecnologie sono gli elementi che modificano i linguaggi, con cui si costruiscono le forme, i racconti, le immagini, i raccordi con le altre arti, con le performance con la musica, con l’arte contemporanea, col corpo, col corpo virtuale. Cambiano i linguaggi e non cambiano mai completamente, perché molto del passato rimane nel presente, cambia di forma, cambia di posizione all’interno dell’opera ma rimane. È sempre una transizione verso qualcosa che non sappiamo ancora, ma è comunque un passaggio che tiene conto di tutto ciò che c’è stato prima. Nonostante tutti i cambiamenti tecnologici l’immagine fotografica, il fotogramma, non perde mai di senso. Anche in digitale ci sarà sempre un campo medio, un campo lungo, un dettaglio, un particolare. Fatti costruiti in maniera diversa e allo stesso tempo persistenti.
Questa ricerca sulla definizione di cinema riguarda i linguaggi, le forme, le modalità interpretative, i significati. L’arte non cambia i contenuti, forse perché l’umanità stessa in fondo non è mai cresciuta. Motivo per cui i classici greci del V, VI sec a.C. sono così attuali.
L’arte è interessante perché cambia le forme con cui esprime i contenuti. Ciò che rende affascinate l’arte, che la vivifica, è che ogni cambiamento linguistico, espressivo, cambia il modo di rappresentare e formalizzare quei temi che possiamo definire eterni come la guerra, l’amore, la pace, il sesso, il corpo, lo specchio, il virtuale, il rapporto con la natura.
Eppure non sembra un concetto così chiaro, poco compreso in primis dalla politica così come da chi ha distinto arti e scienze. Manca la capacità di concepire l’arte oltre l’abbellimento. In realtà tutto ciò è lontanissimo dal vero significato di arte che abbiamo riscoperto anche grazie ai grandi pensatori del Novecento come ad esempio Heidegger e Nietzsche. Arte è di per sé una parola che parla del rapporto tra arte e tecnica e che usa quest’ultima non in senso tecnico ma in senso espressivo, come κινέω, come capacità del fare. A ricordarcelo è la stessa radice greca di τέχνη che non pone distanza epistemologica tra arte e tecnica nel loro senso più ampio. Il vero artista si è sempre occupato delle tecniche (dalla creazione dei pennelli, alla rielaborazione del colore rosso di Rembrant che studia Pompei, alla chimica appunto, forse più creativa dell’algoritmo di oggi dal punto di vista del rapporto con l’uomo), di quegli strumenti cioè con cui creare le forme e inventarne di nuove. Tutto questo non è un mero gioco edonistico ma un modo per sviluppare l’interpretazione della realtà nella sua infinita e inconoscibile complessità.
Il cinema è interessante perché è l’ultima di questa evoluzioni, non è cioè frutto di una singola evoluzione tecnica, ma di mille di esse che si sono intrecciate, dalla fotografia di inizio Ottocento passando per il digitale (in realtà per ciò che oggi conosciamo, esistendo un mondo legato al digitale che ancora dobbiamo scoprire). L’arte cinematografica va quindi interpretata non come un punto di arrivo ma di passaggio, che ha obbligatoriamente necessità di tener conto del passato e di trovargli, per riconoscerlo, una forma, un luogo, come parte del presente. Se invece ci fossilizziamo esclusivamente sulla dimensione del presente rischiamo di non comprendere la realtà nella sua interezza.
Questa era la suggestione iniziale da cui tutto è partito. Se fin da giovane mi ero reso conto della complessità del cinema, solo successivamente ne ho scoperto la diversità dei modi e delle forme. Non a caso infatti Ėjzenštejn ha chiamato il cinema la sintesi delle arti.
Tutta la mia ricerca è quindi una interrogazione sul concetto di cinema, dall’impianto dei miei studi nei primi anni Settanta all’intreccio con le nuove teorie della comunicazione di massa (mi riferisco per esempio a mcLuhan) e la filosofia. Alcuni pensatori hanno infatti capito l’importanza del problema e hanno suggerito delle strade. I miei pensatori di riferimento sono anche politicamene differenti tra di loro, da Heidegger (penso ai saggi sulla tecnica e la televisione), ad Adorno che odiava il cinema ma che nelle cui pieghe del pensiero nasconde una sapienza cinematografica che non è ancora nota oggi, a Nietzsche, che si interessava di mitologia, passando per Pasolini e Carmelo Bene. Personaggi che nella loro follia aprono squarci di verità,
perché l’arte è proprio questo, cercare di stracciare i molti veli dell’apparenza, gli stereotipi, i luoghi comuni, le banalità, per provare ad acquisire punti di vista diversi.
Mi viene in mente un passaggio di Joyce,
«[…] per epifania …intendeva una improvvisa manifestazione spirituale, o nella volgarità del discorso o in un gesto o in un giro di pensieri, degno di essere ricordato. Epifanie…attimi assai delicati e evanescenti. L’anima dell’oggetto comune ci appare radiante. L’oggetto raggiunge l’epifania» (J. Joyce, Stephen Hero, Gente di Dublino).
Il cinema, tutta l’arte, ci avvicina a questa capacità epifanica, a questa struttura conoscitiva che scopre dietro una apparente realtà una realtà più profonda e anche discordante. La tecnica cinematografica ci dà degli strumenti molto più potenti che naturalmente l’industria cinematografica e i politici hanno ridotto a un minimo comun denominatore, allo specchio di ciò che vediamo senza elaborazione concettuale.
Invece ogni immagine è una interpretazione della realtà, un fraintendimento, uno spostamento.
Ogni fotografia lo è. Poi se alla capacità ottica si aggiunge la capacità del numerico si moltiplica la relazione tra immagine e arte. Banalmente considerati effetti speciali, sono dei falsi, fatti a volte per ingannare i sensi e far vendere semplicemente un prodotto, altre volte sono ciò che quel prodotto nega di essere, una vera magia che ‘potrebbe’ far capire di cosa si sta parlando…
La mia ricerca, continua, è arrivare a capire di cosa stiamo parlando.
Avevo sempre avvertito l’insoddisfazione degli artisti, penso ad Antonioni, Ėjzenštejn, Lizzani, sul modo in cui i giornalisti e i professori raccontano il cinema, così come l’insoddisfazione nei confronti della realtà che cerchiamo di cambiare politicamente, ma che intanto cambiamo formalmente, insoddisfazione per lo stato di analfabetismo audio visivo in cui versa il popolo, preso in giro continuamente. L’ignoranza alfabetica nel Novecento si fa specifica, è audiovisiva. La gente usa la fotografia senza conoscerla, non capendo che anche una singola angolatura è in grado di cambiare l’intero significato di quell’immagine. Non sapendolo sono in balia di ogni forma di interpretazione falsificante della realtà. Non conoscere la musica può far credere che il suono sia solo un accompagnamento di un film o che se l’attore parla sia un guitto sul palcoscenico, quando invece la voce è parte della musica, del suono ed è in grado di creare con l’immagine combinazioni a volte banali, a volte meravigliose. Tutto ciò è analfabetismo cinematografico, fotografico, audiovisivo e oggi digitale, su cui da anni mi batto. Sembrano passare gli anni ma non la mentalità dominante se penso alla battuta, per altro attualissima, che fece Togliatti una volta che si era recato a Siena a una mostra d’arte concettuale più astratta del solito. Al piano di sopra c’era una mostra del Cinquecento dei Medici, così va dai pittori dell’astrattismo suoi amici comunisti e dice loro “Sì, sì siete bravi, però vi piacerebbe dipingere come quelli del Cinquecento”.
La tecnica di pittura di questi pittori astratti era buona come quella del Pinturicchio, ma usavano forme diverse, forse più adatte alla terza guerra mondiale imminente in quegli anni. Picasso sapeva dipingere, ma non voleva farlo in quel modo. Lo stesso vale, oggi, per gli artisti di videoarte. Non è che non siano capaci di fare un cinema narrativo alla Visconti, ma non vogliono più farlo, lo ha già fatto Visconti. Vogliono provare ad andare avanti con il linguaggio. Non sono meno bravi, sono bravi quanto, a volte di più.
La ricerca della conoscenza passa anche attraverso la ricerca delle definizioni. Così quando nel 1989 cercavo un nome per la mia associazione culturale, che già lavorava da 10 anni con artisti e organizzava mostre e convegni, ho scelto Kinema.
Ho così scoperto, grazie anche a una mia amica filologa classica, che cinema non vuol dire scrittura per movimento ma è un participio passato del verbo κινέω, che vuol dire movimento avvenuto. Che è esattamente ciò che accade nel cinema che si sostanzia in un movimento ma già avvenuto, già fissato nell’immagine. (Discorso che vale anche con il digitale perché in realtà la simultaneità della ripresa di un evento crea comunque uno scarto tecnologico, e quindi anche lì è κίνημα).
Questa parola greca, non un sostantivo ma un participio, aiuta a capire che stiamo ragionando sempre con l’illusione della presenza ma che in realtà lavoriamo su qualche cosa che già c’è stato e che, attraverso la memoria e la tecnica, elaboriamo. Produciamo una rielaborazione di ciò che è accaduto e lo chiamiamo cinema. Non è un caso che gli americani la traducano con movie picture, cancellando completamente l’atto della scrittura, ovvero del mezzo attraverso cui poter elaborare il pensiero. Si apre un problema di identità culturale europea».
Il professor Gazzano, proprio per illustrarmi il senso di questa rielaborazione, mi cita un caso, quello legato ai primordi del cinematografo. Scopro così non solo di dover retrodatare la nascita del cinema al 1892, anno in cui Leon Bouly inventò questa parola meravigliosa che i potenti fratelli Lumiere fecero invece loro. Ma anche che quello dei Lumiere può essere considerato il primo film sul lavoro, incentrato su alcune donne che escono dalla fabbrica (e quindi anche il primo film di genere). Eppure ciò che più mi meraviglia è il fatto che il professore lo rielabori attivamente. Mi cita infatti una intuizione di Peppino Ortoleva, professore a Torino di cinema ma anche di antropologia culturale secondo il quale questo stesso film potrebbe essere considerato il primo spot pubblicitario sulla officina Lumiere. In realtà tutte quelle donne che escono dalla fabbrica, non le vediamo lavorare, mostrano la potenza dei fratelli Lumiere che, così facendo, pubblicizzano il loro Cinema Lumiere.
MMG «Quanto appena descritto è un esempio di come sia possibile interpretare cose archeologiche non in maniera archeologica, ma intrecciandole con ciò che sappiamo della comunicazione oggi, dei nuovi prodotti audio visivi e degli spot pubblicitari. Propone nuove chiavi di lettura come le identità di genere. Mostra la possibilità di cambiare il punto di vista di un oggetto che continua a essere vivo, ma che non può essere bloccato nella archeologia del cinema dicendo solo che è il primo film sugli operai. È diverso. È una operazione trasversale di interpretazione. E tutto questo lo si deve a quegli studiosi, a quegli intellettuali che non si fermano ai confini della propria disciplina ma provano a muoversi tra filosofia, storia, etimologia. Ed è proprio muovendosi in direzione transcuturale, transreligiosa che si acquisiscono punti di vista nuovi, che si lotta contro la semplificazione».
Questa intensione di mettere in correlazione più ambiti è ciò che ho ritrovato anche in un altro bellissimo testo, La lotta e l’utopia in cui lei afferma: […] tante correnti – un insieme di voci più che un movimento – trasversali a tutte le arti, sempre meno sperimentali, e sempre più coscienti di sé e avviate alla conquista degli spazi istituzionali, che inaugurano pratiche diffuse di spostamento semantico, di critica alle ideologie dominanti, di nuove attorialità, di riposizionamento dei materiali espressivi, di spiazzamento del crocianesimo dominante a destra come a sinistra. Pratiche di dis-locazione dei linguaggi e delle modalità conoscitive: e di ri-locazione in inedite relazioni espressive. (M.M. Gazzano, La lotta e l’utopia, pp.159-160)
Ciò che più affascina di questo suo pensiero è che tutti gli elementi di cui parla vengono proposti in una visione sincretica.

MMG «Durante il mio percorso, lavorando con Aristarco, dialogando con Visconti, Antonioni e conoscendo i miei amici musicisti o artisti come Paik, Vasulka ho capito che le arti non possono essere chiuse in settori troppo rigidi. Tutti loro, da Zavattini a Paik, erano persone transculturali e transdisciplinari, a prescindere dalle categorie in cui oggi li separiamo per spiegare e catalogare l’inspiegabile, ovvero la scenografia, l’arte, il cinema, la poesia. Non ho mai sentito un pittore, penso a Lucio Fontana che ho conosciuto, che parlasse di pittura. Parlava di musica, di televisione, di politica…la sua pittura quindi, ovvero la forma che aveva prescelto, era un modo per far entrare il suo pensiero. Ciò che mi sono sempre chiesto fin da piccolo è stato “Perché Fontana fa dei tagli sulle tele?” Perché in quel taglio c’era tutta questa complessità che non era detta apparentemente. Il suono musicale, concettuale, del musicista sembra solo una nota, ma dentro c’è un mondo che io, come spettatore prima e come critico poi, ho sempre cercato di comprendere. Questa è stata la mia impostazione fin dall’inizio, cercare di vedere oltre il dato visibile.
Nascono così le mie lezioni, solo apparentemente eclettiche, che hanno un centro preciso: realizzare un punto di vista che metta in relazione gli spostamenti tra le tecniche, tra i concetti, tra le ideologie. Non mi sono mai fermato solo al cinema o alla televisione, anche se mi piacevano molto, ma mi sono occupato criticamente di teatro, di musica, di pittura e ho tentato di annodarne i fili.

Prima insegnavo le materie classiche, come storia e critica del cinema, e per farlo avevo comunque la stessa impostazione, partivo dalla fotografia, che fa parte della storia del cinema, per arrivare fino alla videoarte. Punto di vista non molto condiviso, non lo era negli anni ottanta, non lo è oggi. Alcuni grandi professori di cinema mi dicevano di non insegnare cinema ma televisione; in realtà cambia il linguaggio e il modo di rappresentazione ma, nella mia logica della cinematografia, è comunque immagine in movimento. Per alcuni invece era solo televisione per cui dovevano occuparsene i sociologi dei media. C’era questa separazione disciplinare molto fondamentalista.
Quando nel 2004 ho scelto il titolo della materia da insegnare ho optato qualcosa di ampio, Cinema (Kinema, nel senso più ampio), arti elettroniche (perché sono arti al plurale, che hanno una base elettronica) e intermediali (perché il mio punto di arrivo teorico è che questi intrecci non creino solo multimedialità o cose che servono all’industria ma devono creare dei salti di sensi ulteriori, ovvero le estensioni dei linguaggi che certe tecniche producono).
All’inizio delle lezioni racconto che questo corso presenta un punto di vista diverso da come viene di solito raccontato il cinema sui libri di testo, perché mescola i tempi, le arti, le parole. Il tentativo è quello di consegnare differenti chiavi di lettura. Dopo il 2000 abbiamo avuto una regressione politica, etica, in realtà incredibile anche solo per la mente del ’68, siamo tornati anche al fondamentalismo disciplinare. Una regressione disciplinare che tende a rinchiudersi nel già conosciuto, senza più interrogarsi sul futuro.
Abbiamo delle eccezioni come Cassese, Zagrebelsky che ogni tanto si interrogano con uno sguardo più ampio, ma gli altri lavorano su codici che già possiedono, senza pensare di creare altro. Così anche gli studiosi di cinema sono ritornati sui loro passi magari aggiungendo l’elettronica al discorso cinematografico, perché non potevano farne a meno, ma senza porla in relazione con il resto. Ecco perché il mio corso risulta inusuale, come l’idea di cambiare lo stato delle cose esistenti (prima, 50 anni fa era un tema, seppur in alcuni casi declinato in maniera opportunistica o giovanilistica, ma era un tema non una bizzarria). Ora i giovani se vogliono produrre qualcosa di veramente artistico saranno costretti a interrogarsi e a reinventarsi il mondo».
Lei professore parla infatti del ruolo dell’artista, di responsabilità, di interpretazione dell’esistente, tematiche che difficilmente trovo così esplicitate nei testi di altri autori. Quindi chiedo proprio a lei se sia ancora possibile oggi, in cui l’attitudine al dissenso e alla critica viene meno, parlare di arte e cinema politico.
MMG «Sono cresciuto col dissenso, con Oppenheimer che criticava in televisione il progetto Manhattan e la bomba nucleare che lui stesso aveva contribuito a creare. Ma oggi manca qualcosa. Mi chiedo come sia stato possibile passare da quella foto iconica delle olimpiadi del’68 in cui i due atleti statunitensi alzarono il pugno guantato di nero (simbolo dei black Panthers) per sostenere i diritti civili contro le discriminazioni razziali al caso di Floyd, ucciso dalla polizia, con un tiepido sostegno da parte dei calciatori.
Anche se gli artisti sono sempre stati politicamente impegnati, io mi appassiono a quelli che lo dichiarano, magari non facendo politica direttamente, ma nei loro testi. Leopardi ad esempio ha fatto più politica con la Ginestra, ha dichiarato più cose sul socialismo e sull’utopia in quella poesia che tutti quelli che erano vicini a Mazzini in quegli anni. Pensiamo a Manzoni, Dante autori particolarmente impegnati.
Il problema del cinema politico, mi riferisco al libro, è che ci siamo ritrovati in pochi, il filosofo Pietro Montani che insegnava estetica alla sapienza, Giovanni Spagnoletti, un professore di cinema dell’Università di Tor vergata figlio di un poeta e studioso di cinema e letteratura tedesca, ed io a chiederci nel centenario della rivoluzione di ottobre (2017), se sia ancora possibile parlare di cinema politico. Cosa è il cinema politico? È cinema che fa propaganda politica? No, tutti noi pensavamo che non fosse così. Per questo è iniziato questo progetto che dal 2017 ha visto la luce nel 2021, anno in cui ricorre il centenario del partito comunista e i 50 anni del ‘Manifesto’».
Il bello di questo progetto è che non ci leggo alcun compiacimento nostalgico.
Esattamente, anche se abbiamo consapevolezza di essere potentemente sconfitti, magari amati, ma sconfitti dalla realtà e dalla chiusura che troviamo di fronte a noi.
In un altro suo testo, Comporre audiovisioni, si legge
L’educazione pluriculturale oggi è il primo luogo di educazione alla percezione della complessità, contro le semplificazione, gli slogan indotti dalla situazione politica, come dallo stesso sistema dei media, dalla pubblicità come dalla maggior parte del cosiddetto mondo della cultura.
L’artista deve e può saper scegliere tali linguaggi di volta in volta, di opera in opera, intrecciandoli e facendoli interagire tra loro per creare opere non soltanto tecnologicamente avanzate ma che ci aiutino a cogliere il senso profondo e stratificato dell’esistenza, oggi. (M.M. Gazzano, Comporre Audio Visioni, p. 143).
Un’affermazione suggestiva, capace di esemplificare una questione centrale, la relazione tra educazione, complessità e responsabilità.

MMG «Il tema principale è la complessità, spesso considerata indigeribile o, come direbbe Francesco Merlo giornalista di Repubblica, da radical chic. (Ed io sarò radical ma neanche troppo chic!).
Ma di enorme importanza è anche la responsabilità. Parlo non solo della responsabilità politica dell’artista ma del pubblico. Questo tipo di opere così intrecciate, a volte intermediali, mette naturalmente, anche se non è così intuitivo, il pubblico di fronte a qualcosa che stupisce, che dovrebbe far capire che ciò che stai vedendo non è ciò che pensi di vedere. Ci si dovrebbe sentire curiosamente impegnati nella comprensione. L’affermazione che tanti linguaggi insieme non fanno una somma ma una sintesi ha senso se si capisce davvero dove sia e cosa sia e a cosa serva tale sintesi.
Da preservare è proprio la complessità unita al senso di responsabilità del pubblico che invece il mondo della politica e dei media cerca invece di arginare deresponsabilizzando. Mi riferisco ai moniti di non andare a votare, di farlo on line, di mettere il like (come si fa a mettere mi piace o non mi piace a una proposta politica). Tutto ciò non è solo drammatico, ma è la fine dell’elaborazione. La mancanza di senso di responsabilità del pubblico è gravissima. Già negli anni’80 sostenevo a Strasburgo che queste nuove forme artistiche (che sono cinematografiche, audiovisive) presuppongono un punto di vista più responsabile degli artisti che devono conoscere le tecniche e capire le loro differenze (in realtà gli artisti, i poeti pensano ogni gesto che fanno…altrimenti non sono artisti e non possono farlo)».
Lei è ideatore anche del progetto La torre della pace: strategie dell’arte contro la strategia della violenza. E anche in questo caso è riuscito a sorprendermi perché se risulta intuitivo il ruolo del cinema o dell’arte nella preservazione della memoria, nella lotta contro l’oblio, lo stesso non può dirsi per quel suo potere strategico contro la violenza.
MMG «In realtà il progetto a cui lei si riferisce può essere considerata la prima opera di videomapping. Oggi ne parlano in molti come della proiezione di immagini su un palazzo o su una discoteca, ma in tutto ciò non c’è nulla di artistico. Nel senso che artistico per me è la rielaborazione dei linguaggi in funzione di un significato. Proiettare suoni e luci, ad esempio, su un palazzo barocco a Roma pone in relazione l’architettura barocca, che è un tipo di arte, con il cinema. Non si può pensare che sia uno schermo e che sia neutrale. Chi usa indifferentemente i palazzi della Garbatella come quelli del centro sbaglia, perché fare una videoproiezione su Garbatella ha un senso ma la stessa proiezione su un altro palazzo ha un altro senso. È multimedialità, che può diventare anche intermedialità.
La torre della pace era nata da un’idea di Veltroni, che conosco da tantissimi anni, che voleva dare una risposta ai tragici avvenimenti dell’11 Settembre.
A me piaceva l’idea di ricostruire una torre, proprio perché ne avevano abbattuta una, e mi viene in mente quella che abbiamo qui a Roma, che erroneamente chiamano il Colosseo quadrato. È un’opera modernista, una torre di richiamo metafisico che ha però il problema di avere dei fornici difficili da gestire. Profondi 4 metri e alti 12, soprattutto con le tecniche degli anni ‘90, nessun video proiettore era in grado di raggiungerli e i ballatoi erano troppo stretti per permettere di posizionarne uno. Ho capito che esiste una forma di architettura che offre delle resistenze strutturali alle nostre stupidaggini tecnologiche. Non volevo una proiezione lontana, ma una che rispettasse l’architettura, per cui la struttura non doveva essere totalmente coperta. La rientranza doveva vedersi. Non volevo proiettare Paik solo per fare spettacolo. Allora abbiamo costruito, con grandi spese personali, degli schermi alti quanto i fornici, posizionati dietro di essi su cui sparare con proiettori da 10.000 lux contro il palazzo, uno sopra l’altro coassiali, delle immagini, un loop di immagini di artisti diversi. L’idea era che ogni fornico avesse la sua immagine d’artista contemporaneo diversa e in movimento.
L’immagine finale era molto bella, avevo fatto il possibile nonostante il budget limitato e le difficoltà burocratiche. Avrei voluto ottenere la proiezione sul lato della torre visibile dalla Roma-Fiumicino. Avevo detto a Veltroni che sarebbe stato bello per gli americani che arrivavano in città dall’aeroporto vedere le immagini sulla facciata. Il senso del progetto era di non abbattere una torre ma di riedificarla attraverso l’arte contemporanea che propone sguardi diversi sulla realtà, non violenti. Non facciamo vedere pistole, kalasmikov, ma belle immagini, pezzettini, senza suono, con una sfumatura ancora più contemporaneo perché il suono glielo dà la città. Lasciamo che la città e il movimento si muovano insieme. Così è nata questa bellissima video istallazione, molto apprezzata a Parigi, in Spagna, in Colombia, in giro per il mondo, ma non molto a Roma.
Una volta terminata l’opera ho messo queste immagini d’artista in movimento nei primi schermi a led della stazione Termini in mezzo alla gente, col rumore della città. Ed era la prova che queste immagini erano diverse da quelle della pubblicità che stavano sui cartelloni. Le persone si incuriosivano. Andavo alle 5 del mattino e vedevo i pendolari che si fermavano davanti alle immagini dei grandi maestri della videoarte e accanto avevano la pubblicità di Armani. Era commovente».
Potremmo asserire quindi che contraltare della responsabilità sia l’educazione all’arte e alle nuove forme di espressione artistica?
MMG «La proiezione di quelle immagini d’artista era un rischio, non sapevo se avrebbe funzionato o meno. La gente comune che non sa nulla di arte, né tanto meno di videoarte, doveva fare ciò che poi ha fatto, ovvero fermarsi e domandarsi, interrogarsi.
Nel 2006 alla festa dell’Unità feci un esperienza simile. In uno stand istallai degli schermi posizionati in verticale, non come i televisori ma come dei quadri con delle mie immagini in movimento corredate da suoni. Il pubblico, perlopiù generalista, si comportava come in chiesa. Entravano timidamente, guardavano e si stupivano. Non c’era una etichetta esplicativa accanto allo schermo, non c’era un catalogo, una spiegazione didattica, o il professor Gazzano pronto a raccontare. Entravano nella caverna delle arti elettroniche e, liberi, se lo spiegavano da soli.
Ma la stessa esperienza l’ho avuta anche con un pubblico diverso, con persone che leggevano libri, che frequentavano le accademie straniere polacche, ungheresi. Spesso mi è capitato che mi chiedessero perché queste cose non erano mai state mostrate in televisione. ‘Chiedetelo alla televisione’ rispondevo.
Perché ci sono in televisione molte serate d’arte, documentari su artisti, ma nulla sulla videoarte? Rimarremo l’unico paese che non se ne è occupato. Le faccio un altro esempio. Avevo organizzato una mostra alla Galleria d’arte moderna dedicata a un fotografo di scena bravissimo, Enrico Appetito sui set di Antonioni. L’ho voluta chiamare 400 scatti per Michelangelo Antonioni (come omaggio ai 400 colpi della nouvelles vagues). Ho riempito la galleria di queste straordinarie foto inedite, anche di Monica Vitti, e poi vi ho accostato i quadri della collezione anni’60 della galleria che richiamavano le fotografie dei film di Antonioni. Ma la direzione sembrava non capire. Io posizionavo Rotella con i manifesti stracciati e di fianco le foto di Appetito che fotografa Antonioni davanti a un manifesto stracciato. Al centro della sala ho posizionato un Fontana, una palla rotonda con un taglio, e intorno solo le foto di Monica Vitti in una Avventura che accarezza un pezzo di pietra della stessa forma. Eppure il commento finale fu “troppe cose”!».

Per quanto riguarda invece i suoi prossimi progetti?
Sto cercando, con il ministero, di organizzare un corso di preservazione e restauro di nastro magnetico, video e arte. Visto che non riesco più a esporre, cerco di preservare. Perché un altro tema che mi preme molto è proprio il recupero, l’archivio. Sono anni che cerco il modo di tutelare questo patrimonio che vive un problema di restauro e preservazione necessario. Ho provato più volte ad agire concretamente in tal senso, ma senza successo.
La mia associazione Kinema ha inoltre un archivio ricchissimo, che non ha nessun museo italiano. La curiosità è che ad esempio le prime opere di artisti come Barbero Corsetti che ora dirige l’Argentina o di Martone, che dirige il teatro di Roma, sono videoteatro. Il problema è che quando qualche giornalista fa loro qualche domanda sembrano rinnegare quel passato, relegando quelle esperienze a sperimentazioni giovanili. Ho opere di entrambi che conservo e racconto ma loro se ne sono dimenticati, perché il loro teatro e il loro cinema è tornato a essere molto meno sperimentale, più tradizionale.»
Da questa breve incursione nel mondo di Gazzano comprendiamo l’importanza della complessità, della ricerca di nuovi linguaggi, come della vivificazione delle cifre più tradizionali. Ma più di ogni altra cosa scopriamo come la relazione tra immagini e tecnologie sia davvero in grado di consegnarci uno sguardo nuovo, più consapevole sul mondo che abitiamo.
Bibliografia di riferimento:
M.M. GAZZANO, Kinema. Il cinema sulle tracce del cinema. Dal film alle arti elettroniche, andata e ritorno Exòrma, Roma 2013.
M.M. GAZZANO, Comporre AudioVisioni. Suono e musica nell’esperienza della videoarte, Exòrma, Roma 2021.
M.M. GAZZANO, Ultraimmagini. Verso la producibilità elettronica del cinema attraverso le metamorfosi delle arti, Exòrma, Roma 2021.
Le lotte e l’utopia 1968-1970. Il progetto e le forme di un cinema politico, (a cura di), M. M. GAZZANO, P. SCARNATI, E. TAVIANI, Effigi, 2021.