di Eros Lancianese
Quello dell’identità è un tema molto controverso che possiede numerose declinazioni, tante quante sono le diramazioni del nostro sapere.
Sempre più spesso sentiamo parlare di persone che ‘non sanno chi sono’ o ‘non riescono a definirsi’, muovendosi fra esempi nei quali identificarsi, simboli o bandiere alle quali aderire o test di personalità da consultare famelicamente per trovare un’indicazione statistica nella quale riconoscersi.
In una società dove non mancano modelli e profili nei quali rispecchiarsi sembra diventata una necessità collettiva scoprire ciò che ci caratterizza rispetto agli altri, un elemento, una facoltà o un talento che ci permetta di dire io sono questo!
Laddove invece la domanda sull’identità non trova risposta, si ripiega sull’ appartenenza, ovvero la ricerca della propria tribù urbana, un gruppo che condivida valori a noi affini, che faccia circolare fra i suoi ranghi delle qualità che ci possano far sentire riconosciuti e rappresentati come una squadra sportiva, una marca di abbigliamento o un credo spirituale.
L’attualità dei nostri tempi presenta poi piccoli fenomeni di frammentazione di questa entità; oltre all’identità ufficialmente riconoscibile vi sono tante altre manifestazioni che poggiano su altre dimensioni cariche di investimenti psichici. Penso alle molteplici manifestazioni delle identità digitali, che diventano parcellizzazioni del nostro essere, modellate a seconda delle circostanze.
Siano esse un account per un digital store, un avatar per un gioco on-line o una app di incontri possiamo vedere come la stessa persona possa essere ridisegnata a seconda delle determinazioni di un preciso momento. In questo caso assistiamo a un processo diautodeterminazione di se stessi, una propagazione di ciò che di nostro può essere delegato ad uso e consumo della collettività, previo assoluto consenso attraverso il quale il singolo decide ciò che può essere condiviso o meno. Tale rappresentazione può poi essere restituita diversamente nel momento in cui viene in contatto con qualche algoritmo social o dall’indicizzazione di un motore di ricerca, che inizia a strutturare il nostro profilo suggerendo ciò che può fare al caso nostro.
A questo punto sembra uno strano paradosso, cercare una sintesi fra l’angoscia di definizione e la necessità di scoprire chi si è, che oscilla necessariamente tra la dimensione collettiva e la sfera individuale.
Il tema identitario non è una problematica recente: molte discipline hanno provato a sciogliere la questione definitoria, affidando la risposta agli strumenti propri di ciascuna disciplina.
Antropologia, filosofia e psicologia, giusto per citarne alcune, hanno provato a fornire risposte molto significative anche se non concordanti fra loro, trovandosi d’accordo su un punto: l’identità non è mai un tema esclusivamente legato all’autodeterminazione personale bensì una questione a due.
Nel periodo ellenico, ad esempio, l’identità era un dono sociale, una determinazione che non veniva da un individuo ma un’attribuzione che aveva la sua genesi nella polis e nel ruolo che il singolo rivestiva nel tessuto comunitario e nella vita politica della città-Stato.
Per Aristotele l’individuo che si dichiarava incapace di vivere in società o che riteneva di non averne bisogno, era «o una bestia o è Dio».
La partecipazione politica quindi era vitale per la dignità del singolo: non solo permetteva di accedere ad uno status pubblico riconosciuto fra pari che garantiva rispetto e tutele, ma consentiva anche l’accesso al dibattito per la gestione della città e in merito alla vita comunitaria.
Ricordiamo quanto terribile potesse essere, per un cittadino ateniese, essere sottoposto alla pratica dell’Ostrakòn, l’allontanamento dalla città per misure cautelative che la polis applicava nei confronti di un cittadino ritenuto pericoloso per la collettività; venire respinti dal demos ateniese significava essere privati dalla possibilità di partecipare e quindi far sentire la propria voce all’interno di un tessuto civile che offriva agi, protezione e riconoscimento.
Questo legame fra persone, comunità e ruolo ci consente di riflettere su uno dei principi basilari dell’identità ovvero sull’assunto che essa è una costruzione a due e non un’autodeterminazione.
In Antropologia culturale ritroviamo la questione identitaria, elaborata in questa declinazione.
Ugo Fabietti, eminente accademico nell’ambito dell’antropologia, ha dedicato gran parte della sua ricerca scientifica a questo tema. Fabietti parla di identità etnica in quanto rappresentazione di un insieme di valori, simboli e modelli culturali che «i membri di un gruppo etnico riconoscono come fra loro distintivi». Da questo punto di vista l’identità non riflette una realtà statica e immutabile ma quasi un processo che si produce a secondo delle circostanze, dei tempi e delle situazioni.
I tratti distintivi, riconosciuti come tali fra i membri di una collettività, devono essere in grado di contraddistinguerli e di differenziarli l’uno dall’altro, sottolineando un principio di mutua appartenenza. Proviamo semplicemente a pensare che potenza potevano avere i primi graffiti prodotti dall’uomo primitivo e che richiamo identitario potevano restituire a tutti coloro che avevano vissuto determinate esperienze e che provavano ad essere ricordati attraverso delle rudimentali, ma efficaci forme di narrazione.

Per poter studiare l’identità Fabietti stila tre principi, ritenuti presupposti fondamentali.
In base ai suoi studi:
1) gli esseri umani non possono vivere senza identità sia su un piano individuale, sia su un piano collettivo; del resto la strutturazione dell’identità in senso collettivo ha permesso la nascita di una unità tribale che garantiva protezione e coesione per scopi legati alla mera sopravvivenza.
2) le identità possono essere concepite e costruite in vari modi all’interno di una dicotomia, come bello/brutto, buono/cattivo, gradevole/sgradevole. Tali appercezioni sono tanto arcaiche quanto funzionali allo scopo, in quanto permettono di orientarsi in modo primordiale dinnanzi a dei significati simbolici.
3) lo studio del fenomeno identitario è svolto da soggetti, che a loro volta possiedono un’identità, per cui essa non può divenire un Oggetto Sociale Puro, ma sarà sempre mediata da una lente di decodifica.
L’invito è pertanto quello di tener presente la propria matrice identitaria quando si tenta un processo di comprensione e decodifica di realtà, che possono essere lontane dal nostro sistema vigente, pena un errore di intendimento del fenomeno stesso, che rischia di essere interpretato diversamente dalla sua natura originaria.
Fabietti pertanto lega in modo profondo la costruzione dell’identità ai processi storici vigenti, sottolineando come la ricerca dell’dentità sia una questione affrontata da ogni civiltà e che le sue caratteristiche sono condizionate dallo Zeitgeist del momento, ovvero del periodo storico ad esso legato.
Van Gennep, nel suo I riti di Passaggio descrive, invece, i momenti di trasformazione individuale che si consumano all’interno della struttura tribale di appartenenza; si pensi al matrimonio, ai funerali o alle iniziazioni.

Queste cerimonie hanno un altissimo valore costitutivo.
Il passaggio di identità, da ragazzo a uomo, da padre ed anziano, si consuma sotto l’occhio vigile della popolazione divenendo un fatto collettivo, sostenuto dalla società e proteso a continui processi di autorinnovamento. Anche in questa circostanza è assente un’autoattribuzione di un’identità, si assiste ad una ricerca di un riconoscimento che viene vidimato da un osservatore esterno che conferma e certifica tale condizione. I riti nella società strutturano coloro che compongono il tessuto collettivo e nel farlo la collettività riafferma se stessa come organo vivo, tesa in un costante processo di rinnovamento e affermazione.
In Psicologia questi fenomeni sono stati studiati cercando di far tesoro dei contributi provenienti da altre discipline. Per identità, si intende «il senso del proprio essere continuo attraverso il tempo e distinto, come entità, da tutte le altre». La riflessione parte direttamente dal contributo filosofico al dilemma posto da Hume e Locke, due filosofi di corrente empirista che restituirono all’uomo l’importanza dell’impronta della storia nella costruzione dell’intimo senso di sé; l’identità non è un dato, ma una costruzione di senso che la memoria fa di se stessa in relazione agli avvenimenti del passato e all’appercezione del presente.
Alla luce di quanto detto si afferma un concetto di identità intesa come processo di percezione dell’io in relazione ad un fenomeno esterno: la continuità dell’esperienza con se stessi.
La Psicoanalisi ha attinto alla riflessione antropologica per la costruzione del suo pensiero in merito alla questione identitaria. Quando Freud postulò nella sua Metapsicologia la presenza di un’istanza psichica che aveva il compito di dare forma ai nostri istinti da realizzare sul piano del reale, descrisse il Super-Io come una dimensione costituita da due componenti: l’ Ideale dell’ Io, ovvero la meta di realizzazione personale alla quale l’individuo narcisisticamente tendeva e l’insieme delle specifiche regole che costituivano il vivere civile della società all’interno della quale l’individuo si era sviluppato e che aveva introiettato.

Viene da sé che questo dato è strettamente legato ad un elemento esterno variabile e non universalizzabile.
Il Super-Io vive però non solo di cambiamenti dettati dalle differenze fra culture differenti, ma anche di mutamenti che lo stesso tessuto sociale si trova a gestire lungo un lasso temporale specifico.
Umberto Galimberti ha delineato ad esempio il tipo di passaggio che la collettività si è trovata ad attraversare dalla Società della Disciplina, dove il conflitto dell’individuo si misurava sul rispetto della norma e la possibilità di poterla infrangere, ad una Società dell’Efficienza dove viene superata la dicotomia fra ciò che è proibito e ciò che è permesso, che viene sostituita dalla coppia dicotomica: ciò che è possibile realizzare e ciò che non lo è.
La differenza da un punto di vista della sofferenza psichica è notevole. Se nella Società della Disciplina le depressioni si realizzavano sotto l’egida del Senso di Colpa, per cui si doveva affrontare a livello terapeutico il modo in cui la realizzazione personale poteva aver leso l’altro o la società; nella Società dell’Efficienza, in assenza di un limite reale, l’individuo vive l’angoscia di non essere mai abbastanza, innescando una dimensione competitiva dove l’altro non è più da preservare, come compagno, ma diviene un possibile competitor.
La vita diviene quindi una sorta di enorme prova performativa di cui sono ignoti la data di inizio e il termine finale, nella quale il senso della esistenza si realizza sotto la cornice esclusiva delle capacità personali, privata però di un arbitro esterno che possa regolamentare il gioco.
In realtà è questo senso del limite esterno: le difficoltà della vita, le delusioni, le esclusioni alle quali possiamo incappare, mettono l’adolescente in condizione di misurare la sua forza, la sua capacità di realizzarsi, la possibilità di tollerare le frustrazioni, la necessità di trovare nuove strade per potersi realizzare, in altre parole la sua capacità di potersi individuare come soggetto misurando la sua reale potenza dinnanzi alla pressione di forze antagoniste esterne.
I riti di passaggio erano momenti collettivi che venivano attesi con entusiasmo, poiché spettavano a tutti i membri di una comunità, ma allo stesso tempo erano vissuti con reverenziale timore, poiché sarebbero stati banchi di prova necessari, in cui la forza e coraggio si sarebbero rivelati sotto la testimonianza di un’intera comunità.
Sentire quella paura, toccare la vergogna per poi assaporare la gioia del superamento del momento di stallo, rimangono esperienze necessarie per poter cogliere il proprio senso di sé, per capire cosa si è e cosa si può fare. Se nella vita odierna abbiamo perso gran parte di queste tradizioni rituali, possiamo invece ritrovare la corsa all’autoaffermazione personale che si svolge in una dimensione digitale.
Il riconoscimento immediato che tali contesti riescono a restituire è istantaneo, ma perfettamente calato nei codici di appartenenza che si sviluppano in determinati contesti. In una qualche forma viene restituita una identità, calata nel campo del digitale, che si affaccia ad un pubblico planetario.
Lungi dall’esaurire il concetto di identità possiamo però notare come sia effettivamente un fenomeno più relazionale che individuale. L’immagine abusata di Linus dei Peanuts, intento ad accoccolarsi con la sua copertina, in realtà è la rappresentazione molto chiara di quello che in Psicologia viene definito Oggetto Transizionale che con la percezione d’identità ha molto a che fare.
Quando Donald Winnicott postulò tale concettò tentava di spiegare il modo in cui il bimbo cercasse di gestire l’angoscia della solitudine, in assenza della madre ancora non sufficientemente introiettata, cercando supporto in oggetti che in un modo o nell’altro riteneva congrui per sostenere il suo essere. Questi oggetti avevano il compito di rievocare sensazioni di beatitudine che garantissero quel benessere necessario per non andare incontro ai nefasti sentimenti che potevano perturbare la sua serenità evocando sensazioni familiari capaci di tranquillizzarlo e rasserenarlo, dinnanzi ad un mondo esterno che poteva percepire incomprensibile e quindi minaccioso. Winnicott ci dice inoltre che con la maturazione l’individuo necessita sempre meno di questi oggetti che gli ricordano chi è, poiché sostenuto e corroborato da un’intensa capacità di introiezione che gli permette di fare appello non all’esterno, ma dentro di sé a ciò che occorre per modulare i propri affetti. Questa funzione rimane presente in misura minore e può essere utilizzata nei momenti di estrema crisi e difficoltà.
Si pensi al caso riportato da Giovanni Jervis, noto psichiatra e psicoterapeuta italiano, nel suo La conquista dell’identità. Nel testo Jervis riferisce di una donna anziana portata via della sua abitazione in seguito a complicanze di carattere medico che la costrinsero ad un ricovero. In una condizione come quella di un letto di un ospedale, nella quale si può andare facilmente incontro ad una dimensione necessariamente spersonalizzante, la donna riusciva a sostenere il suo animo attraverso la presenza di un elemento che era riuscita a portare da casa e che aveva l’innegabile qualità di ricordarle la confortevole atmosfera familiare, ovvero una piccola tartaruga. Nell’opera citata viene descritta la sorpresa del personale ospedaliero alla scoperta della piccola testuggine, intento ad interrogarsi su come la donna fosse riuscita a superare i rigidi protocolli di igiene, tanto da portare quella piccola vita con sé. Al di là delle risorse impiegate dalla donna per superare la rigida dogana, le condizioni di salute della donna crollarono nel momento in cui le fu sottratto questo ultimo appiglio con la sua quotidianità e quindi con la sua identità.
È utile riferirsi alla dimensione relazionale quando proviamo a comprendere la questione identitaria, poiché anche ciò che ci circonda è intriso di una personale tonalità e coloratura che ci ricorda chi siamo.
In tal modo anche le relazioni con i nostri affetti sono caratterizzati da questa condizione che ci porta a trovare noi stessi nell’altro, per cui, come scrive Italo Calvino ne Il Barone Rampante:
Lui conobbe lei e se stesso,
perché in verità non s’era mai saputo,
E lei conobbe lui e se stessa,
perché pur essendosi saputa sempre,
mai s’era potuta riconoscere così
L’identità quindi è un fenomeno ‘a due’ poiché basato sulla percezione di sè, grazie alla quale l’uomo riesce a intendersi come soggetto in un determinato modo e ispecchiamento negli Altri, ottenendo un riconoscimento di sè nella relazione con l’altro o anche una conoscenza inedita di ciò che si è.
A qualcuno si potrà risultare interessante, ad un un altro sagace ed un altro ancora noioso.
Tanti sono i rispecchiamenti quanto è ricca l’esperienza umana di una vita.
L’identità è quindi un fenomeno necessario, complesso, in continuo divenire lungo un continuum storico e sociale che occorre riconoscere come pertinente al proprio sentire e congruo al proprio vissuto.
D’altronde il continuo interrogarsi sulla questione identitaria da secoli, non trova approdi definitivi, ma orizzonti aperti e mutevoli.
Bibliografia di riferimento:
S. FREUD, (1915a) Metapsicologia, vol. VIII, in OSF¸ Bollati Boringhieri, Torino1976.
U. GALIMBERTI, Enciclopedia di Psicologia, Garzanti, Milano 1999.
G. JARVIS, La Conquista dell’Identità, Feltrinelli, Milano 1997.
F. REMOTTI, Remotti F. (a cura di) Sull’ Identità, Raffaello Cortina, Milano 2021.