di Gilda Diotallevi
La storia delle bambole
La storia delle bambole inizia in tempi antichissimi e, in stretto connubio con l’evoluzione dell’uomo e dei suoi costumi, fornisce un trattato antropologico e sociologico di notevole rilevanza. È possibile rintracciare, attraverso le epoche, significati differenti attribuiti alle bambole. Esse, oltre ad essere giocattoli, sono state figure magiche, hanno assunto funzioni di feticcio fino a diventare manichini. Le bambole perciò, specchio delle civiltà in evoluzione, riflettono gli usi, i costumi e la moda nei secoli.
Nello specifico le bambole sono state legate a funzioni commemorative, pensiamo alle donne delle tribù pellerossa che portavano sulle spalle le bambole e i giochi dei figli deceduti. Hanno assunto un ruolo centrale in varie pratiche rituali, le giovani Wasaramo portavano con loro una bambola fino a quando non avevano procreato il primo figlio e lasciavano un posto su uno sgabello a casa per loro. Segnano momenti di passaggio, come nel caso delle fanciulle romane che dovevano offrire le loro bambole e i giochi prima di convolare a nozze alle dee Afrodite e Artemide (Anth-Pal., VI, 280) in segno di abbandono dell’età infantile e entrata nell’età adulta. Si trasformano in poupées mannequin, bambole manichino dell’ottocento, utilizzate dalle case di moda francesi per far conoscere i propri modelli; interamente abbigliate, dalla biancheria intima ai posticci, alle sottovesti, agli abiti, esse venivano spedite, in bauli ricolmi dei più eleganti abiti confezionati a la mode da sarte e modiste specializzate, o addirittura fungevano da modelle per quadri, come nel caso di Albercht Dürer (1471-1528). Senza tralasciare l’aspetto ludico, pedagogico ed educativo che ha accompagnato i giochi dei bambini di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Una eccezione è forse riscontrabile nei paesi mussulmani che, per via del divieto di rappresentare la figura umana, le bambole assumono al contrario una valenza negativa.
Non si conosce la data esatta della loro comparsa ma, anche se in versione primitive, le prime bambole sono state ritrovate già nelle antichissime tombe peruviane. Addirittura Babilonia ne ha conservata una di alabastro con le braccia mobili, così come l’antico Egitto dove le membra delle bambole erano mobili con asticelle di legno dipinte a simulare le vesti. Ma ancora i greci e i romani costruivano bambole in argilla, legno, osso, a volte con il corpo di cuoio o stoffa e dotate, come riportato da Pausania circa il tesoro di Era a Olimpia, di una ricca e minuscola suppellettile. Non meravigli infatti scoprire non solo nelle bambole, ma negli abiti, nelle vesti e soprattutto nei mobili l’evoluzione del gusto e della moda nei diversi secoli. La pomposità del seicento, la grazia del settecento e il neoclassicismo tipico dell’ottocento. Talmente lunga e complessa è la storia della manifattura delle bambole, e dei suoi corredi, da offrirci una significativa testimonianza sulla tradizione artigianale che si è susseguita e sull’evolversi delle tecniche e dei materiali impiegati per la loro fabbricazione. Le bambole costituiscono un vero e proprio trattato su usi e costumi di diverse epoche, mostrando tutta l’abilità e l’ingegno dei loro costruttori, capaci infatti di affascinare ancora oggi moltissimi ammiratori e collezionisti.
A celebrare la storia della bambola troviamo in Italia un posto incredibile, il Museo della bambola e del giocattolo nella Rocca Borromea di Angera.
Il Museo
Fondato nel 1988 dalla principessa Bona Borromeo Arese e diretto dal prof. Marco Tosa, docente presso l’accademia di belle arti di Venezia, rappresenta il più grande museo europeo di bambole, ma anche di giochi e automi. Basato su collezioni private, la più ampia ovviamente della principessa Borromeo, il museo incanta, oltre che per il livello altissimo dei pezzi presenti, fulgidi esempi del periodo d’oro del giocattolo industriale europeo (seconda metà dell’Ottocento e primi del Novecento), per la sede. La Rocca di Angera, fortezza della famiglia Borromeo affacciata sul l’estremità meridionale del Lago Maggiore mantiene un fascino fuori dal tempo.
L’apertura del primo museo italiano dedicato alla bambola e al giocattolo antico nel 1988 è stato un importante evento culturale nel panorama nazionale, fino ad allora estraneo a questo argomento. Importante ricordare che esistono profonde connessioni tra le bambole antiche e moderne e i comportamenti sociali, educativi, nonché l’indissolubile legame con il costume, la moda di ieri e di oggi. Il museo si pone quindi al di là dell’aspetto emotivo, e romantico. Intento del museo percorrere le strade legate attentamente alla storia e alle tecnologie specifiche del prodotto considerato, questo per permettere una lettura essenzialmente didattica e circoscritta, lasciando al visitatore ogni altra possibilità di interpretazione.
Il museo intende fornire una ricchissima e seria documentazione indirizzata a far conoscere le mutazioni attraverso il tempo di questo affascinante oggetto che da sempre si è affiancato allo sviluppo e alla crescita dell’uomo. Per questa ragione le bambole sono state esposte seguendo un percorso scandito dall’avvicendarsi dei diversi materiali utilizzati nelle varie epoche e fasi, dall’artigianato fino all’affermazione della grande industria del giocattolo. Ad esse sono state affiancate diversi giochi e materiale iconografico per meglio comprendere l’organicità del percorso. Inoltre il museo non è limitato alla sola esposizione della collezione Borromeo, che ne costituisce comunque il nucleo principale, ma le affianca continue acquisizioni e donazioni che contribuiscono a far crescere il Museo della bambola rendendolo sempre vivo e attuale. (Marco Tosa, curatore del museo della bambola)
La collezione Borromeo
Tre i nuclei che compongono il museo: la collezione Borromeo di bambole e giocattoli, una sezione dedicata agli automi e, in una sala separata, una vetrina sulla storia antica delle bambole, con pezzi provenienti da diverse parti del mondo.
La collezione delle bambole raccolta dalla principessa Bona Borromeo Arese costituisce una raccolta unica per varietà, quantità e qualità dei pezzi che la compongono. Composta da materiale proveniente dai mercati antiquari europei, offre una visuale ben precisa dei più grandi maestri delle bambole, appartenuti alla Francia, all’Inghilterra, alla Germania e, non da ultimo, all’Italia.
Molte bambole esposte inoltre sono protagoniste di aneddoti, vicende e ricordi. Particolarità che non sorprende affatto, essendo la filosofia, la storia e la letteratura piena di loro riferimenti. Pensiamo ad esempio a quanto raccontato sulla madre di Goethe che restò scioccata dalla richiesta del figlio di trovare la minuscola ghigliottina destinata a decapitare le bambole aristocratiche per una piccola rivoluzionaria francese. O ancora quanto riporta la studiosa Antonia Fraser citando la raccolta di fiabe indiane di Somdeva, undicesimo secolo, che parla di bambole mosse da strani meccanismi capaci addirittura di farle parlare.
Considerata una delle più importanti collezioni d’Europa, permette di seguire l’evoluzione e lo sviluppo dell’oggetto bambola negli anni che vanno dalla metà del XVIII sec. fino ai giorni nostri. Siamo così testimoni di cambiamenti sociali; nel 1845 infatti il fabbricante François Greffier presenta all’Esposizione Universale la sua creazione del bébé, una bambola con il corpo non più di adulto ma di bambino. Fino a quel momento la bambola era una donna in miniatura, dovendo ‘educare’ le piccole a diventare donne emulandone le pose e i costumi. Ma possiamo anche seguire lo sviluppo di opere sempre più sofisticate. Se prima la fattura delle bambole era approssimativa, pian piano esse, anche grazie alla maestria dei produttori e all’ applicazione in questo campo di tecniche e materiali nuovi divengono delle piccole opere d’arte in cui la verosimiglianza con il reale si fa sempre più forte.
La collezione del museo offre esempi del passaggio dall’utilizzo del legno, figure di legno scolpite e articolate del XVIII sec. di produzione italiana ancora legate alla tradizionale iconografia religiosa, accanto a cui spiccano invece i primi esempi, datati intorno alla seconda metà del XVIII sec, di bambole composte da testa e arti di legno ma montati su corpi di stoffa o pelle imbottiti.


La rivoluzione nell’artigianato dei balocchi avvenne a Norimberga solo intorno al 1860, anche se alcuni esemplari sono anche antecedenti, in cui al legno e alla cera, o comunque ad altri materiali più fragili, fu sostituita la cartapesta.

Altra data centrale è quella del 1862 in cui il francese Jumeau crea la prima bambola con la testa di biscuit o di porcellana.
La porcellana: questo duttile materiale già largamente impegnato dalle storiche fabbriche europee, Limbach, Meissen, Limoges, per oggetti d’uso domestico, trovò dal secondo quarto del 1800 in poi un nuovo utilizzo nella produzione di teste e parti di bambole.La grande reperibilità di caolino, sostanza base per l’impasto ceramico, estratto prevalentemente nell’Europa centrale, l’ottimo effetto finale, unitariamente alla relativa resistenza, alla caratteristica lavabilità, alla speditezza della lavorazione in processi industriali, determinarono il successo incontrastato della porcellana anche nel settore balocchi. La testa continuava a essere la parte determinante nella costruzione della bambola, quella che concentrava tutti gli aspetti di fascino e attrattiva.
Venivano realizzate teste in porcellana vetrinata, dette anche lucide, oppure satinate, dall’apparenza opaca, dette ‘biscuit’. In quelle più antiche, la lavorazione procedeva attraverso la pressione in stampi della foglia di porcellana, stampi sempre suddivisi in due parti. Anteriore e posteriore.
Analogamente alle pupe di legno, cera e cartapesta, anche queste avevano testa e spalle realizzate in un solo pezzo; l’articolazione al collo per bambole con testa in biscuit, venne brevettata nel 1858 da Leontine Rohmer, a Parigi. Queste teste continuavano la tipologia preesistente definita da lineamenti dipinti e acconciature modellate.
Grazie alla lavorabilità della porcellana era possibile raggiungere effetti di grande raffinatezza nella descrizione dei particolari delle acconciature nonché nella decorazione del volto.
La finitura con uno strato di vernici lucida steso precedentemente alla cottura dava quella particolare lucentezza che ancora oggi caratterizza quelle teste, differenziandole nettamente da quelle dei biscuit (che eliminando la freddezza del lucido, nella sua tenue porosità, conferiva al volto un aspetto più morbido e di più realistico calore). L’impressione di grande verosimiglianza che l’impiego del biscuit permetteva, fece sì che sempre più teste di bambole venissero fabbricate con tale materiale che […] ben imitava l’incarnato umano, specialmente se dipinto con la maestria insuperata dagli artigiani di allora. A questo venivano aggiunti splendidi occhi a smalto e vetro, parrucche di mohair o capelli veri per completare l’immagine di grande realismo ricercata. (M.Tosa)


Solo in un momento posteriore infatti le bambole furono dotate di occhi mobili, di capelli naturali (la lana moire inglese veniva bollita per creare ricci naturali) e addirittura soffietti che permettevano alle bambole di emettere suoni simili alla voce umana.
Alle parti assemblate separatamente si univa il corpo non più solo di pezza o porcellana ma fatto di cuoio, di stoffa e riempito di segatura e crusca. Il tentativo era quello di rendere le bambole più resistenti da un lato, si arrivò a utilizzare metallo, gomma, celluloide, e più snodabili dall’altro, servendosi di tecniche particolari per la realizzazione delle articolazioni e di materiali che ne garantissero una certa malleabilità come la cera. Si fa rifermento a bambole di produzione Inglese e Tedesca, in cera pura e cera su cartapesta, fino ad arrivare all’utilizzo nel tempo di celluloide, plastica rigida, polistirolo, vinile nonché di materiali di ultima generazione come resine o termoindurenti tipo Cernit.
I mobili
Nel 1600 dai Paesi del Nord-Europa si diffusero in tutto il continente le cosiddette ‘case di bambole’. Fedelissime riproduzioni delle abitazioni dell’epoca, proporzionate alla statura delle bambole e arredate di suppellettili e stoviglie (acquistabili anche separatamente) conformi ai modelli allora usati nella vita quotidiana. Ciò che sorprende è non solo che gli elementi di arredo, così come tutti i costumi e la biancheria, corrispondessero esattamente agli stili dell’epoca, ma che fossero creati con una maestria e una attenzione ai particolari fuori dal comune. Come non notare ad esempio i portaprofumi in porcellana o in vetro inciso decorato a smalto.
Per i mobili in miniatura il museo si avvale principalmente della collezione Roberta della Seta Sommi Picenardi che ci permette di ammirare veri e propri capolavori di ebanisteria eseguiti con la stessa perizia impiegata per mobili veri: bureau-trumeau, letti, piccoli armadi, fornelli con batteria da cucina, servizi da toletta e da tè, comò che contenevano abiti finemente confezionati con stoffe pregiate e biancheria spesso ricamata che riproducevano la moda del tempo.



Gli automi
All things are artificial, because nature is the art of God (T. Brown, Of Dreams, Religio Medici, 1642)


Una sezione diversa del museo è dedicata agli automi. Dal greco autòmatos, che si muove da sé, descrive proprio quegli oggetti meccanici, già conosciuti dai greci, in grado di riprodurre i movimenti e la forma di animali prima e degli umani poi. La letteratura è piena di riferimenti, pensiamo ad Aulo Gellio che nel suo Le notti attiche (X,12,9), racconta che Archita costruì un oggetto di legno in forma di colomba, e che (forse per una serie di contrappesi) questa colomba volò. O a Petronio che, testimoniando così l’apprezzamento anche dei romani per tali meccanismi, nel Satyricon (34) scrive circa le tante meraviglie della cena di Trimalcione: «Entrò nella sala del banchetto un servo. Portava tra le mani una figurina d’argento, fatta in maniera tale che tirando o allentando un filo, gli arti e le vertebre, si muovevano da tutte le parti. Trimalcione la posò sul tavolo e azionando il meccanismo le fece assumere diverse posizioni». Si narra anche che Leonardo Da Vinci costruì un leone meccanico da regalare al re Francesco I.
Eppure è solo intorno al XVIII sec., che si possano trovare testimonianze concrete di queste creature o automi, quando l’incontro tra arte e tecnica, scienza e magia convogliano e gli artisti fanno a gara per inventare automi, meraviglie meccaniche da poter regalare a principi e imperatori. È il secolo in cui Jacques de Vaucanson passò alla storia per aver realizzato tra il 1737 3 il 1741 una serie di automi che si muovevano grazie a un sistema di pesi, canne e leve. La sua creazione più celebre raffigurava un suonatore di flauto in grado di eseguire con il suo strumento undici melodie differenti.

Nel museo sono presenti reperti incredibili che testimoniano lo sviluppo di tecniche che dalla semplice osservazione delle forze fisiche esistenti in natura, come il moto delle acque, del vento o la forza del fuoco e il potere del calore da applicare agli automi, si rendono sempre più complesse e sofisticate. Così se all’inizio il movimento era generato da macchine mosse da una forza idraulica o pneumatica, durante il XVI secolo i maestri orologiai di Augusta e Norimberga realizzando piccoli orologi da tavola applicarono lo stesso procedimento agli automi.
L’impiego della molla infatti gettò le basi dell’innovazione tecnica in questo settore, garantendo agli automi un movimento più regolare e duraturo. Fritz Saxl nel suo saggio Costumi e feste della nobiltà milanese degli anni della dominazione spagnola, descrive la bambola meccanica del XVI sec. (Kunsthistorische Museum di Vienna) capace di riprodurre una gestualità profondamente simile a quella umana. «Si ha notizia certa che il marchese del Vasto fece conoscere a Carlo V un ingegnere lombardo, Giovanni Torriano da Cremona il quale costruiva bambole di questo tipo.Tra queste figure, per esempio, una dama che danza al ritmo di un cembalo […]: i movimenti sono caratterizzati da una combinazione di grazia e solennità: i piedi si spostano lentamente, la figura sembra librarsi. La forma del corpo viene completamente occultata dalla sottana. Al contrario, mani e testa si muovono con agio e eleganza. Al suono della musica, modulata con le mani sensibili e aggraziate, la testa descrive nel suo moto un arco grazioso. In questo modo un congegno meccanico riproduce lo stile di una donna di società del tempo, per i suoi stessi limiti enfatizzandone, alla misura di una caricatura, le caratteristiche».
[la molla è utilizzata anche per la prima immagine di questo articolo, una bambola nuda con ventre apribile all’interno del quale è visibile il complesso meccanismo azionato da caricamento e molla e che le permette di camminare, ruotare la testa e mandare baci.]
Il primo a dare la voce alla bambola fu, verso il 1820, J. N. Mälzel, l’inventore del metronomo; ma i più significativi risultati in tale campo si otterranno dopo il 1887 quando, semplificando al massimo i meccanismi del grammofono inventato da Edison, si riuscì a far fare alla bambola brevi discorsi, a recitare brevi poesie e cantare canzoncine.
Soprattutto all’inizio tali meccanismi, in virtù della loro assoluta novità, suscitarono uno stupore tale nel pubblico da convincerlo ad assistere a qualche prodigio della magia.
Wolfgang von Kempelen, nel 1778 realizza il celebre automa giocatore di scacchi. Si racconta che nel 1809 Napoleone perdesse una partita giocando con quell’androide, forse l’imperatore non era un buon giocatore, ma certamente non era al corrente che all’interno della scatola atta a contenere il meccanismo, vi era un uomo, attento ad osservare le varie mosse del gioco tramite un sistema di specchi, e quindi a indirizzare la risposta corretta dell’automa.
Il perturbante
La verosimiglianza tra bambole e bambine e il loro apparire in procinto di un qualche movimento, la realizzazione di oggetti così vicini al reale da superarlo, in altre parole la capacità dell’uomo di mettere in scena la vita ma non infonderle lo spirito, crea una dimensione di sottesa ambiguità, difficilmente eliminabile. Non è un caso che esista la pediofobia, ovvero la paura delle bambole, sottospecie della automatonofobia, ovvero del terrore che alcuni nutrono per automi, robot e statue di cera.
Il primo a identificare quel sentimento suscitato da un oggetto, una persona o una situazione che possono essere recepiti da un lato come familiari, ma allo stesso tempo come estranei, fu Freud che lo definì Unheimliche, ovvero perturbante. Lo psicologo Ernst Jensch applicò tale teoria all’incertezza generata da un essere dalle sembianze umane, sviluppata poi da Masahiro Mori, esperto di robotica, secondo cui un robot troppo simile a noi sia in grado di generare un sentimento di paura.
La paura delle bambole è stata studiata anche dallo psicologo Frank McAndrew che lega tale sentimento all’ancestrale istinto di allerta verso ciò che si presenta a noi come ambiguo e perciò pericoloso. Un’altra teoria rintraccerebbe invece l’origine di tale paura dalla naturale classificazione operata dal cervello che si allarma di fronte a qualcosa di innaturale, di malato. Le bambole infatti posseggono tutta l’ambiguità di oggetti vividi e realistici eppure non viventi, come se fossero dei simulacri vuoti al loro interno, in cui forze sconosciute possano abitare. Da ricordare a tal proposito che nel 1523 il Vives (De istiutione christianae feminae) dichiarò le bambole imago quedam idolatrae et quae comptus ac ornatus cupitatem docent. Un altro esempio in tal senso ci viene dal filosofo Cartesio che, spinto dalla sua passione per la meccanica e triste per la scomparsa prematura della figlia Francine, costruì una bambina meccanica chiamata con lo stesso nome. Durante il viaggio verso la Svezia i marinai ne furono a tal punto terrorizzati da crederla opera diabolica e da decidere così di gettarla in mare.
Dolls of the world
n una sala separata rispetto al museo troviamo una raccolta di bambole provenienti da tutto il mondo, principalmente da culture africane e sudamericane (collezione Lo Curto), che le riportano ai loro significati più ancestrali e apparendo lontane sia per fattura che, soprattutto per concezione, dai tipici giochi europei. Come ad esempio le bamboline giapponesi del periodo Edo (1603/1868), Meiji (1868-1926) che, per abbigliamento e pose, rispecchiano la rigida e formale gerarchia della corte imperiale giapponese.


Magia, ritualità, potere scaramantico si mescolano nel gioco-rito, spesso perfettamente fuso con il significato più profondo dell’esistenza tribale. In questo senso vanno osservate le bambole Africane della tribù ashanti, dette Akua-Ba, legate al ciclo della procreazione, così come quelle amazzoniche in terracotta dipinta con motivi uguali a quelli dei disegni magici che, in varie occasioni, gli indigeni eseguono sul loro corpo.
Nonostante la collezione offra reperti ‘antichi’ di bambole provenienti da differenti paesi, in Francia intorno al 1870 se ne produsse una serie, le cosiddette Belle Straniere, caratterizzate da fattezze esotiche: bambole cinesine, giapponesi, creole abbigliate con i costumi dei rispettivi paesi, testimoniando l’interesse e l’apertura del gusto verso luoghi e tradizioni sconosciute.
Bambola nuda con ventre apribile all’interno del quale è visibile il complesso meccanismo azionato da caricamento e molla e che le permette di camminare, ruotare la testa e mandare baci.