di Flavia Sorato
Pur non così temerario da pensare di comprendere il nocciolo della creatività sono curioso di spiarla quanto più è possibile. (Paul Klee)
Secondo quanto sosteneva Arthur Schopenhauer, «Con un’opera d’arte bisogna avere il comportamento che si ha con un gran signore: mettervisi di fronte e aspettare che ci dica qualcosa». Immaginando una tale disposizione, le esposizioni si offrono come occasioni e luoghi grazie ai quali oggetti ed opere possono entrare in relazione con un pubblico, assumendo una loro particolare risonanza e mostrandosi alla società che, interpretandone forme e contenuti, crea il proprio bagaglio culturale.
La pratica espositiva è segnata da una sua propria evoluzione e ha un profondo valore sociale nel divulgare sia le espressioni artistiche e culturali del passato, tramandando la memoria di una data collettività, sia quelle del presente, diffondendo la conoscenza e la consapevolezza della contemporaneità, del mondo e del contesto in cui si vive.
«La società ha bisogno di fondarsi su un passato, nessuna civilizzazione umana può durare senza». Così lo storico dell’arte Jean-Michel Leniaud descrive l’importanza del ruolo svolto dal museo che, con la sua opera di tutela, conservazione ed esposizione, assolve ad una funzione fondamentale per la sopravvivenza del patrimonio culturale di una società.
Breve storia dell’evoluzione espositiva
All’inizio del Settecento le grandi collezioni reali ed aristocratiche d’arte erano private. Come può essere riscontrato nella letteratura artistica del tempo, però, si comincia a far strada una concezione diversa, aperta all’idea di un importante valore formativo delle opere: Diderot nella sua Enciclopédie afferma che i collezionisti privati di quadri devono consentire l’ingresso non solo agli artisti «ma a tutti quelli che vogliono realmente istruirsi, senza eccezione di condizione». A partire dalla metà del secolo in questione, sulla base di tali presupposti e grazie al diffondersi di donazioni, in diverse città europee cominciano ad essere aperte alcune collezioni e fondati musei (che mantengono però ancora una natura sostanzialmente privata). Un primo esempio di vera collezione pubblica si ha a Roma quando, nel 1734, Papa Clemente XII apre i Musei Capitolini al pubblico. Da qui in avanti la strada si costella di momenti incisivi per la storia museale, fino ad arrivare a fine del secolo, che vede l’apertura pubblica del Louvre ed il diffondersi delle Accademie in cui fioriscono le esposizioni d’arte. A fine Settecento infatti, soprattutto in conseguenza della Rivoluzione del 1789, si affaccia e sedimenta l’idea di un bene comune che deve essere condiviso, come fosse una conquista collettiva, e maggiormente accessibile, non solo quindi godibile da una ristrettissima cerchia: come afferma il pittore Jaques-Luis David, la base ideologica su cui deve ergersi il nuovo Musée de la Republique, il Louvre, è quella di proporsi come scuola «in cui i maestri condurranno gli allievi e il padre accompagnerà il figlio».
Il Salon parigino diviene, così, la prima mostra regolamentata di Belle Arti, ma è da subito un’istituzione fondata su un sistema di controllo delle opere tramite veri e propri organismi di valutazione, commissioni che ne giudicano valore e moralità, con lo scopo di salvaguardare la “grande pittura”, quella storica, di volta in volta proposta secondo gli stili in voga. Si comprende, quindi, come la cristallizzazione di un tale sistema conduca alcuni artisti all’esigenza di una coraggiosa rottura nei confronti di un apparato che s’impone e giudica, lasciando a margine tutto ciò che ‘non è regola’.
Nella seconda metà dell’Ottocento, il sistema entra inevitabilmente in crisi. Il XIX secolo è un’era complessa: industria, commercio, l’affermarsi della borghesia, tutto porta a nuovi assetti sociali e culturali. Nasce un mercato privato dell’arte e germina l’idea dell’opera-merce che, come prodotto, trova spazio in eventi quali le esposizioni universali, prima fra tutte quella di Londra del 1851, The Great Exhibition of Works of Industry of All Nations. Alla scuola e all’Accademia ormai si affiancano raggruppamenti artistici liberi, sostenuti da scrittori, letterati e critici militanti e da nuove realtà espositive, rappresentate da collezionisti e galleristi.
Si è ormai estremizzato il rapporto tra passato e nuove realtà, espressioni d’indipendenza culturale. Da una parte è questa l’età in cui si consolida l’immagine delle istituzioni, in cui l’arte ufficiale si decide a Parigi ed il museo diventa un simbolo roccaforte di un sapere artistico lontano dal sentire vivo della società che cambia, divenendo appunto un emblema di ciò che è visto e vissuto come antiquato, alla stregua di un deposito o di un cimitero. Ma d’altra parte, nel corso dei decenni si formano ed infine divampano critiche e sistemi alternativi, sulla scia dei cambiamenti sociali, economici, culturali e dei nuovi movimenti artistici che si oppongono all’autorità uniformante. Il cambio di rotta a metà secolo è segnato, appunto, da eventi seminali come il Pavillon du Realisme, organizzato da Gustave Courbet nel 1885, il Salon des Refuses, del 1863 (è qui che viene esposto il quadro di Manet, Le Dejeuner sur l’herbe), e le mostre impressioniste organizzate tra il 1874 e il 1886. La prima viene organizzata nello studio parigino del fotografo Nadar, al 35 di Boulevard des Capucines e, come evidenzia Argan, sono queste le occasioni in cui si configura una nuova modalità espositiva. La rottura è anche in questo, nel considerare lo spazio in modo diverso: così, se nel Salon le opere vengono giustapposte e poco valorizzate, il gruppo impressionista che espone in questi contesti ha un approccio critico all’allestimento, anzi si può dire che comincia a delinearsi una consapevole azione curatoriale.


La nuova condizione dell’arte, che fonda un sistema anche privo di imposizioni (per partecipare al Salon des Independants non ci sono criteri o limiti d’ammissione), apre sipari su nuovi palcoscenici, luoghi di risonanza per le tendenze più avanzate. «Non esistono più scuole, esistono soltanto dei gruppi che si frazionano continuamente. Tutte queste tendenze mi fanno pensare ai mobili disegni geometrici del caleidoscopio, che ora si riuniscono, ora si intersecano per separarsi e allontanarsi poco dopo, ma nondimeno girano tutti in una stessa sfera, quella dell’arte nuova». (Emile Verhaeren)
La svolta ormai avviata, infatti, giunge ad un punto di non ritorno con le Avanguardie, movimenti che assumono posizioni di netto contrasto con il passato e la sua relativa e incriminata immobilità, una collisione fortissima impersonata da Marinetti e dal suo inneggiare alla modernità, simboleggiata dall’automobile ruggente più bella della Vittoria di Samotracia.
Quello che si contesta è quindi l’immagine e il ruolo conservatore proprio del museo, non più capace di essere e contenere testimonianza della società, poiché mutando totalmente il modo di concepire l’opera d’arte, tutto si riforma: con il ready-made di Duchamp, con le serate e gli eventi futuristi e dadaisti si attua il passaggio fondamentale dall’oggetto al concetto, dalla materia al gesto.
Cambiano, quindi, di conseguenza anche le modalità espositive, dal momento che si trasforma sia il ruolo dell’artista, ormai agitatore sociale e curatore egli stesso, sia quello dello spettatore, coinvolto nell’azione artistica, e si acquisisce un nuovo senso dello spazio, non più vissuto e percepito in modo chiuso, ma aperto all’interazione del pubblico con le opere.
Gli sviluppi artistici di fine Ottocento avevano, dunque, assunto il ruolo di aprire la via a queste sperimentazioni che portando sconvolgimento sul piano creativo, hanno anche svolto la funzione di riformare il sistema curatoriale: il Futurismo ed il Dadaismo, con le loro peculiarità, hanno concorso in modo decisivo alla definizione di una nuova concezione di mostra, intesa come azione-partecipazione, introducendo anche forme nuove di comunicazione, come le operazioni commerciali volte a pubblicizzare l’evento. Tutto il senso dissacratorio si converte, perciò, in intervento diretto e diviene «[…] vitale soltanto quell’arte che trova i propri elementi nell’ambiente che la circonda». Partendo da questo presupposto la modalità di presentazione dell’arte non riguarda più gli aspetti comuni dell’allestimento, ma concerne l’ideazione e la messa in scena di un vero e proprio evento. In questo senso vanno viste le serate futuriste realizzate con lo scopo di essere «[…] un momento di fondamentale interazione con il pubblico che viene coinvolto in prima persona. A metà tra spettacolo teatrale, balletto, concerto, mostra e agitazione politica le serate segnano la definitiva fusione di ambiti artistici e culturali fino ad allora ben distinti».

La rivoluzione espositiva
Cos’è, dunque, che viene rivoluzionato in ambito espositivo? Come si è visto, prima di tutto, la relazione con lo spazio, il ruolo dell’artista, che diventa protagonista, e la posizione dello spettatore, non più distante dall’opera, ma da essa coinvolto; a questo, poi, si aggiunge la consapevolezza di un dato cruciale, ossia la comunicazione che, nella forma di pubblicità su giornali e volantini lanciati durante gli eventi, diventa un mezzo di presa sulla realtà con lo scopo di diffondere le idee e il nuovo stile di vita/arte.
Un simile modus operandi viene assunto anche dal movimento Dada. Il Cabaret Voltaire al n.1 della Spielgasse, a Zurigo, diviene il punto di ritrovo e la base operativa degli interventi dadaisti che si legano anch’essi al teatro e alla performance. Duchamp e Tzara, infatti, come Marinetti ed altri, hanno dato un contribuito fondamentale nello svincolare l’arte da sistemi di presentazione definiti, diventando loro stessi curatori, organizzatori e critici.
Vi è, però, un aspetto di Dada ancora più sovversivo rispetto agli altri movimenti, poiché secondo il loro manifesto l’arte stessa deve essere demolita, negata e con essa tutto ciò che le gravita intorno: diventa allora un’azione senza senso, sono sospesi giudizi, tutto si paralizza ed il mercato crolla dinanzi a una tale illogicità. Una conclusione estrema questa, complessa da figurarsi, tanto da domandarsi come possa essere stata messa in atto. Nel 1920, a Colonia, viene organizzata una mostra da Ernst, Arp e Baargdel:
L’esposizione di quadri, sculture, ed oggetti ebbe luogo nel cortile di un caffè centrale: per accedervi bisogna attraversare i gabinetti di decenza. All’ingresso una ragazza in costume da prima comunione recitava dei versi osceni. In mezzo al cortile di alzava un oggetto di legno di Ernst, con accanto una scure attaccata ad una catena: il pubblico era invitato ad impugnare la scure e a distruggere la scultura. In un angolo Baargdel aveva addirittura collocato un acquario, pieno di un liquido rosso come il sangue e tutto intorno erano appesi fotomontaggi di carattere sacrilego […]. I visitatori infuriati a varie riprese devastarono il locale e sfregiarono le opere, finché le autorità impedirono la mostra.
La centralità dello spazio espositivo
Se gli impressionisti avevano avuto il merito di svincolare il sistema dell’arte da quello delle istituzioni, le Avanguardie con il loro atteggiamento di rottura netta nei confronti della ‘regola’ hanno per di più creato nuove (anti)logiche e nuovi canoni.
Con il Surrealismo, poi, si affermano ulteriori modalità di presentazione legate al mondo dell’onirico, dell’inconscio e del caso. L’opera diventa un qualcosa in grado d’innescare un processo immaginativo e creativo nello spettatore e quindi anche lo spazio espositivo diventa il luogo in cui ricreare questa dimensione. Una mostra esemplificativa in tal senso è l’esposizione Art of this Century voluta da Peggy Guggenheim nella sua galleria omonima a New York, nel 1942. Vengono lì esposte opere di movimenti europei, in particolare della corrente surrealista e dell’astrattismo, con un allestimento decisamente sperimentale messo a punto dall’architetto Kiesler: per rompere il senso di fissità e la staticità, la sezione dell’arte surrealista è pensata come una struttura con pannelli curvi ed i quadri, privi di cornici, sono montati su bracci mobili che li tengono sospesi nella sala. Ne consegue che il quadro si trasforma quasi in un oggetto tridimensionale. Luci intermittenti, poi, rendono difficile, se non impossibile, qualsiasi continuità visiva, mettendo in discussione le abituali condizioni in cui l’identità del soggetto è definita. Allo stesso modo, la sala dedicata all’astrattismo presenta soluzioni particolari e inaspettate: le pareti blu e turchesi sono ricoperte con tendaggi di simile tonalità tanto da creare un ambiente equoreo immaginifico. Le opere, anche qui, non appese alle pareti ma, tese da corde, sono come mobili nello spazio, libere tra soffitto e pavimento.
È un ambiente disorientate, quello che si viene a creare, e l’atmosfera magica di opere a mezz’aria mostra più che mai la verità delle parole di Duchamp, secondo il quale sono gli spettatori a fare il quadro.


Il Novecento si apre con questo forte spirito di rinnovamento radicale, ma dopo aver assistito all’uscita dell’opera dall’idea classica di quadro e dai luoghi istituzionali, vi è un ritorno entro certe cornici dell’ufficialità. In modo nuovo si assiste alla creazione di un diverso sistema, quello delle gallerie e dei musei d’arte contemporanea, la cui nascita è causa e conseguenza dell’affermarsi di differenti poli culturali mondiali: nei decenni tra le due guerre mano a mano l’America guadagna spazio e toglie centralità all’Europa e New York, così, prende il posto di quella che un tempo era stata la città dell’arte, Parigi.
Questo celere sviluppo degli Stati Uniti è dovuto soprattutto a un sistema fondato su una connessione stretta tra artisti, musei, collezionisti, il tutto vitalizzato da un mercato dinamico. Si ricordi che è stata la stessa Peggy Guggenheim ad aver promosso e sostenuto fin dall’inizio un artista come Pollock, e la pittura dell’espressionismo astratto americano, tra le cui opere anche quelle di Rothko. Vi è, infatti, nell’America di quegli anni una forte attenzione nei confronti delle espressioni artistiche della contemporaneità che trovano casa presso le nuove forme dell’architettura del tempo: nel 1929 viene fondato il Museum of Modern Art di New York; l’anno successivo nasce il Whitney Museum, e poi tra il 1943 e il 1959 viene al mondo il capolavoro di Frank Lloyd Wright, il Guggenheim Museum.

Mentre modernità e contemporaneità corrono sui binari del Novecento, questo secolo assiste anche, però, all’ascesa di sistemi reazionari che creano apparati di controllo su cultura e arti visive. I decenni tra le due guerre sono quelli in cui prendono potere dittature, dedite a condurre campagne violente verso espressioni dell’arte moderna. Tale azione culmina in eventi specifici, come la Entartete Kunst, mostra di arte degenerata inaugurata a Monaco nel 1937, con l’intento di presentare al pubblico tedesco il disfacimento dell’arte, in rovina a causa di movimenti come l’espressionismo, il cubismo e l’astrattismo. Evento questo che, però, presenta un risvolto della medaglia indesiderato al regime: la mostra è stata così tanto visitata, da aver ottenuto l’effetto contrario, quello cioè di pubblicizzare la stessa avanguardia che si voleva sopprimere.
La seconda metà del Novecento si distingue, infine, per un fiorire di numerose manifestazioni, con l’avvicendarsi di esposizioni Biennali e Triennali: il passaggio al Ventunesimo secolo è infatti caratterizzato da un’arte ormai globale che propone una serie di contenitori espositivi che rivaleggiano con gli eventi più tradizionali ed insigni, come la Biennale di Venezia (la cui prima rassegna risale al 1895) e la Documenta di Kassel.
Negli ultimi decenni, alcune mostre hanno segnato un passaggio decisivo in senso artistico e curatoriale, in particolare gli anni Novanta del secolo passato hanno delineato un certo nuovo corso: nel 1992 la nona Documenta di Jan Hoet (grande figura di curatore, come Szeeeman, Fuchs, Celant) rappresenta un ponte tra l’arte contemporanea del Novecento e quella del Duemila, conducendo in un mondo dell’arte non più eurocentrico ed filoamericano, ma globale, appunto: un circuito ormai vastissimo che si estende dalla Corea, al Brasile, passando per il Sudafrica e arrivando a manifestazioni come le biennali di Mosca, Shangai, Taiwan, Santa Fe, Atene, Istabul.
Bibliografia di riferimento:
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A. NEGRI, L’arte in mostra, Mondadori, Milano 2011.
F. POLI, M. CORGNATI, G. BERTOLINO, E. DEL DRAGO, F. BERNARDELLI, F. BONAMI, Contemporanea. Arte dal 1950 ad oggi, Mondadori, Milano 2008.
D. SCUDERO, Manuale del curator. Teoria e pratica della cura critica, Gangemi, Roma 2006.