Il paradigma: intervista a Francesco Tigani

di Emiliano Ventura

Parlo di paradigma riferendomi alla prassi leopardiana di unire la poesia e la filosofia, all’impostazione moderna di Poe e di Baudelaire che prevede che non ci sia poeta senza critico. Essendo tu autore di una raccolta poetica e anche filosofo, ci muoveremo proprio su questi campi d’azione.

Nella tua raccolta poetica Il taccuino di Enmerker  recuperi la figura del fondatore della città di Uruk, imparentato con Gilgameš. Da cosa dipende questa tua scelta?

F.T «Per rispondere, prendo spunto proprio dal concetto di paradigma, nel significato più semplice di ‘modello’, di archetipo. In questo senso, potremmo dire che Enmerkar sia un paradigma. È una figura mitologica e in quanto tale funge da modello per qualcos’altro, è di per sé il calco di un’idea. Cerchiamo allora di spiegare che genere di idea sia. Nel poema sumerico Enmerkar e il signore di Aratta viene narrata l’invenzione della scrittura, che gli antichi abitanti di Sumer attribuivano a questo glorioso re, come gli Egizi l’attribuivano a Thot. La differenza è importante, perché per gli Egizi l’inventore di un così grandioso strumento era una divinità, mentre per i Sumeri era un semplice uomo, sebbene un uomo dalle doti straordinarie, tanto da configurarsi come un eroe culturale.

La scrittura è insomma una materia umana, che ha il compito di eternare gli oggetti del pensiero, i moti del cuore, i dubbi, le gesta dei condottieri e il ricordo delle persone comuni, cioè tutte cose espressamente umane.

A un dio non serve la scrittura: la sua onnipotenza e onniscienza gli consente di padroneggiare ogni ente e non dimenticare nulla. La scrittura serve all’uomo, che ha una memoria labile, si lascia sfuggire le cose, e ha bisogno di tramandare le nozioni che possiede per mantenere vivo il passato, avendo a disposizione solo la dimensione del tempo. Se disponesse invece della dimensione dell’eternità, non si porrebbe il problema della successione cronologica, ossia di dover collocare un determinato evento prima o dopo di un altro. E la scrittura serve a questo: a immortalare, a creare una struttura logica laddove vi sarebbero unicamente casualità e incoerenza. Ho dedicato la mia silloge a Enmerkar per rendere contezza di quella che sento come una necessità: la necessità di risalire alle origini della parola.

Il taccuino di Enmerker (Robin 2021)

Io sono sempre stato, fin da piccolo, ossessionato dal linguaggio: dall’impellenza di trovare la parola giusta, di dire le cose nel modo migliore, essendo consapevole che di modi ve ne sarebbero stati in numero illimitato. Enmerkar rappresenta una garanzia mitica, ancestrale, avendo fissato una volta per tutte le parole, imprimendole nell’argilla: un gesto che ha segnato l’inizio alla Storia, innescando la fondamentale evoluzione dall’homo loquens all’homo scrivens. Ma il suo legame dinastico con Gilgameš lo rende ancora più paradigmatico, giacché Gilgameš è l’eroe che cerca la vita eterna, il primo vero predatore del Graal, l’antesignano di Parsifal e della lunga schiera dei suoi emuli. E l’immortalità è proprio quella che Enmerkar ha consegnato a chiunque si avvalga della sua invenzione, che permette di creare qualcosa che rimane, un monumentum aere perennius, come dirà Orazio.

C’è peraltro una forma di purezza nella parola, che è legata al concetto stesso di mito, che in greco vuol dire sia ‘racconto’ che ‘parola’: parola scabra, essenziale, nuda e cruda, intesa come potenzialità significante, come veicolo di costruzione di una moltitudine di significati. In questo senso, la poesia, la filosofia, la storia, la sapienza in generale sono mythoi, perché nascono dalla parola: sono figlie della capacità enunciativa dell’uomo.»

Il mito è il fondamento di ogni possibile strutturazione linguistica, precorre e accompagna la facoltà umana di interpretare la natura. È il segno da cui scaturisce l’orizzonte di senso dell’ermeneutica, che colloca gli individui all’interno di coordinate ben precise e ineludibili: lo spazio, il tempo, la mentalità e il linguaggio stesso.»

In questa raccolta risulta evidente un legame con l’origine o la fondazione, anche in senso generale, mi ha fatto pensare alle Opere e i giorni di Esiodo, in un verso affermi: Un attimo può essere epocale/ e un’epoca svanire in un attimo.

F.T. «Con Esiodo siamo nella stagione in cui la poesia mitologica diventa poesia gnomica, sapienziale. Già nella Teogonia si parla della nascita di divinità che vengono subito associate a concetti (pensiamo a Mnemosine, la Memoria, tanto per fare un esempio). Il nesso fra mitologia e filosofia è dunque segnato fin da questo poema, che riunisce le tematiche profonde che allignano nella coscienza dell’uomo a partire da una loro simbolizzazione, da una loro immagine. Esiodo si può considerare, in un certo senso, come l’antesignano del platonismo: a Platone spetterà il compito di definire lo stretto legame che intercorre fra i pensieri e le immagini. Il termine ‘idea’, che deriva dal greco eidomai ed è imparentato con eidolon, significa proprio ‘immagine’. Le idee sono tali in quanto vengono viste dalla mente: sono presenti alla coscienza sotto forma di idoli, di simulacri. Ma il collegamento con Esiodo, come fai giustamente notare, si coglie con maggior precisione attraverso le Opere e i giorni, che è un poema di fondazione appunto, dedicato al lavoro, alle attività, alle praxeis: a quella dimensione che, avvalendoci del lessico politico della Arendt, potremmo indicare come vita activa. Bisogna comprendere, tuttavia, che la vita activa non è solo quella finalizzata all’utile collettivo e non può essere separata dalla vita contemplativa, giacché essa stessa costituisce una praxis a tutti gli effetti, richiedendo tenacia, concentrazione e una notevole dose di tempo. Il poetare e il filosofare sono dunque modalità di esistenza che rientrano a pieno titolo nella vita activa. Il poeta crea con le parole dei mondi concettuali, il filosofo li decostruisce e li rielabora. Con il termine ‘mondo’ intendo una modalità di esistenza di qualcosa. Esistono allora mondi umani e mondi non-umani: mondi avulsi dalla dimensione abitativa che gli uomini cercano ugualmente di colonizzare, come il mare (dove comincia ad affermarsi il fenomeno delle floating cities, delle città galleggianti) e lo spazio (dove le stazioni orbitanti sono già una realtà). Nella poesia Cristalli di ghiaccio rendo omaggio agli esploratori che per primi raggiunsero l’Antartide, col proposito di antropizzare un luogo dove la vita risulta impossibile e il tempo biologico degli esseri sussiste in uno stato di sospensione, di ibernazione. Qui troviamo infatti l’elemento fondamentale che dà la vita (l’acqua, la prima arché) convertito nel suo allotropo (il ghiaccio), nell’eterna lotta fra le forze del caldo e del freddo che Telesio ricondurrà alla dialettica universale della natura. In questa dimensione, però, l’uomo viene sopraffatto dall’angoscia del Nulla, che per difendersi dal suo baratro maschera con il Sogno e la Speranza. Il che rimanda, per tornare a Esiodo, al mito di Pandora, che finisce per identificarsi con la natura stessa: colei che tutto dona e tutto toglie.»

Non è un caso che torni il concetto del mito.

F.T «Aristotele nella Metafisica lo dice esplicitamente: i primi filosofi sono philomythoi, sono ‘amici del mito’. Questo vale per i presocratici, ma vale anche per i socratici: Platone ricorre spesso al mito e non si potrebbe concepire la sua filosofia separata da quella costellazione di miti che ne costituiscono l’ossatura (i miti di Theut, di Gige, di Er, della caverna, della biga alata, delle cicale, giusto per citare i principali). Ma nel corso dei secoli la filosofia si è progressivamente allontanata dal mito, scegliendo la strada del discorso, del logos. Si è trattato di una trasformazione naturale, ma a lungo andare non credo che abbia giovato alla filosofia: tutt’altro. Fintanto che il passaggio ha riguardato i poli del mythos e del logos, il trauma è stato inavvertito. Ma quando si è aggiunto il polo dell’episteme, della scienza, che ha preteso di dettare legge sugli altri due, relegando l’uno nella sfera della fantasia e l’altro in quello della fumisteria, ecco che la filosofia ha cominciato a perdere il suo ubi consistam. Per recuperarlo bisognerebbe dunque, ritengo, ripartire da quei linguaggi che fortunatamente sono rimasti impermeabili alla scienza e vengono infatti etichettati, senza ombra di dubbio, come “non-scientifici” dalla sensibilità neopositivista della nostra epoca. Mi riferisco alla poesia e al mito, che sono autenticamente alla base dell’universo filosofico e possono condurre sulla strada dell’epistrophé, del ritorno all’Uno, e alla conseguente ‘ricomposizione dell’infranto’, che nel lessico teologico assume il nome di apocatastasi

Tu sei autore di diversi saggi il più recente è un testo di filosofia, L’oscuro argonauta. Sulla forma del tempo e del mistero. Leggendo il libro ho subito colto un aspetto che mi ha molto colpito, il tuo è un saggio di filosofia con un’impronta tradizionale, ovvero presenta una pagina pulita senza note in cui l’argomentazione filosofica non rinuncia, ma anzi provoca, la prosa letteraria. In parole povere non è in linea con i dettami accademici che prevedono un tasso di ‘scientificità’ che finisce per mortificare l’autore e il lettore. Posso chiederti il perché di questa scelta?

L’oscuro argonauta. Sulla forma del tempo e del mistero (Transeuropa Edizioni)

F.T «Io sono sempre stato legato a un’idea tradizionale, originaria, della filosofia. Non a caso, è soprattutto la filosofia antica a essere richiamata costantemente nelle mie pagine. E anche quando mi confronto con autori contemporanei, come Spengler e Schmitt, lo faccio partendo da concetti classici, quali polis, polemos, homonoia, koinonia, katechon etc. A ciò si aggiunga che sono per indole e coscienza un antiaccademico. I miei maestri mi hanno insegnato a diffidare degli schematismi, specie quando questi diventano delle gabbie. “L’uomo nasce libero, ma ovunque si trova in catene”, per citare Rousseau. L’accademia, se cessa di essere un luogo di formazione, di accrescimento, può assumere i connotati di un’enclosure, di un recinto che viola lo ius naturae e stabilisce dei diritti artificiali per alcuni che sono per altri la negazione degli stessi in chiave universale. Se opporsi a questo stato di cose significa essere anarchici, ebbene lo sono. Meglio ancora, preferisco identificarmi nella figura dell’anarca di Jünger, che è uno di quei maestri antiaccademici (come Emerson, Borges, Camus o Sgalambro, e naturalmente Nietzsche) che hanno avuto un ruolo preponderante nella mia crescita personale. Ciò non toglie che altri miei saggi rispondano ai dettami di scientificità previsti dall’accademia, con il loro bell’apparato di note dettagliatissime e una ricca bibliografia primaria e secondaria. In quel caso, trattandosi di “studi” a tutti gli effetti, nel significato più completo del termine, questo tipo di tecnicismi era ammissibile e in un certo senso doveroso. Ma devo dire che anche nei miei studi più convenzionali sono sempre stato abbastanza parco nella disseminazione delle note, tanto da attirarmi molte critiche a livello accademico, perché (come mi venne detto da un professore) in un testo scientifico non è possibile esprimersi con la propria voce, bisogna sempre citare qualcun altro, quindi non può esistere una pagina dove non sia presente almeno una nota. In realtà, quest’ansia citazionista non è affatto garanzia di scientificità o lo è specificamente in un’ottica italica. Sfogliando alcune opere capitali, come quelle di Foucault (per esempio, L’archeologia del sapere e La volontà di sapere), si vedrà che le note sono ridotte all’osso: ciò significa che non sono testi scientifici?»

Assolutamente no, soprattutto se prendi in considerazione, oltre ai testi da te citati, anche La nascita della clinica o La storia della follia, parliamo infatti di un autore che ha faticato non poco per essere accolto anche dall’accademia.

F.T «Il problema è un altro: che, come osservi tu, i dettami accademici finiscono per svilire il valore di un testo filosofico, che dovrebbe essere anzitutto un testo letterario, piacevole da leggere. Se la differenza fra la letteratura filosofica e quella generica risiede in una certa specificità del linguaggio, significa che un testo filosofico è tale per il modo in cui si esprime. L’espressione presuppone però un livello di libertà che dovrebbe costituire la cifra stilistica di un autore, mentre si rivela l’esatto opposto, perché nell’ambito della cosiddetta letteratura scientifica ciò dipende da alcuni orpelli tecnici, come l’apparato delle note e dei riferimenti bibliografici. Si è passati insomma dall’espressività come criterio di originalità a una standardizzazione di elementi comuni, con il conseguente prevalere del conformismo sull’autorialità e dello schematismo sulla libertà di espressione. Nei miei testi più personali, come La nave di Teseo e Virotopia, avevo già abiurato a molti aspetti del conformismo scientifico imperante. Con L’oscuro argonauta, che è un testo ancora più personale, ho deciso di fare un passo ulteriore, concedendomi il lusso di argomentare in totale libertà.»

Il tuo libro di filosofia è anche un omaggio alla filosofia stessa, è presente quella dialettica originaria con cui ogni filosofo deve confrontarsi, mi riferisco all’essere e al divenire, se vuoi l’essere e il tempo. Potresti tornare su questo tema?

F.T «Il tempo è la questione intorno a cui ruota la filosofia nella sua interezza. È l’argomento principe: tutti gli altri ne conseguono inevitabilmente e non possono che confrontarsi e scontrarsi con esso in una lotta all’ultimo sangue. In fondo, la tauroctonia praticata nei culti antichi (come quello mitriaco) è una sorta di cronomachia, perché il Toro rappresenta astronomicamente la precessione degli equinozi e la sudditanza della Terra alle leggi del cambiamento, quindi testimonia la volontà dell’uomo di dominare e uccidere il tempo per garantirsi una stabilità che a livello cosmico non esiste. Dal tempo dipende la forma del nostro essere: siamo e non siamo, aspiriamo all’immobilità e all’imperturbabilità e siamo sempre inquieti e transeunti, cerchiamo la terra promessa, un luogo in cui riposare, e finiamo per vestire perennemente i panni del viandante. E l’ombra che ci accompagna è quella dell’Essere, che ci costringe a interrogarci sulla nostra origine e sul nostro destino. E qui viene a inserirsi il dilemma della nave di Teseo, che mutando è rimasta identica a se stessa, ma solo per un artificio. Chi siamo veramente? Quelli che eravamo? Quelli che siamo adesso, in questo preciso momento? Quelli che saremo? Chi può rispondere a questa domanda una volta per tutte, prima che la propria vicenda personale sia conclusa? La verità dovrebbe forse apparire hegelianamente al crepuscolo, portata dalla nottola di Minerva. Ma non bisogna dimenticare che il crepuscolo ha una doppia facies, di cui quella serotina è solo una delle due. L’aspetto più esoterico del crepuscolo si evince al contrario dalla sua variante mattutina, quando la tenue oscurità che lo caratterizza prelude alla luce abbagliante dell’alba. È in questo frangente che si consuma l’opposizione fra il dionisiaco e l’apollineo, fra i chiaroscuri del baccanale e gli accecanti strali del dio del sole, che è tutore dell’ordine cosmico. Ciò che rimane fra la tenebra e il barbaglio, fra il trambusto e il silenzio è la gnosi del profondo. Nella sapienza orientale è il rintocco di una campana a risvegliare l’Essere: una vibrazione che racchiude nei suoi echi i cicli delle reincarnazioni, che contengono ciascuna un risvolto dell’Essere, una sua determinazione particolare. Nella dialettica fra Essere e tempo, l’Essere sembra uscire sconfitto: la nave di Teseo, che ha mutato ogni singolo pezzo che la componeva, ha perduto la sua identità. Ma in questo libro io parlo di un’altra nave: parlo di Argo, la ‘Rapida’, la nave magica che riportò indietro il Vello d’Oro, la reliquia dai poteri risananti, immortalizzanti, come la pianta di Gilgameš, come il Soma del Rigveda e l’Haoma dell’Avesta, come il Graal dei cavalieri. La vittoria dell’Essere sul tempo avviene quando si realizza che il tempo non è qualcosa di irreversibile, non segue un’unica direzione: quando all’immagine della freccia si sostituisce quella del cerchio, dell’ouroboros, del serpente autofagico, della ruota del chakra. Allora si può comprendere che il senso del tempo non è quello di passare, di scorrere e basta, ma è quello di ritornare. E il ritorno permette una riacquisizione dell’Essere, la reintegrazione delle sue facoltà apparentemente transitorie. E l’epopea degli Argonauti, che può leggersi come il primo nostos, racconta proprio il grande ritorno dal mare del tempo, che è il mare delle possibilità (per citare il titolo di un altro mio saggio): un mare che può essere navigato infinite volte sulle medesime rotte, in un verso come nell’altro.»

Mi fa piacere che hai accennato alla simbologia del serpente, che tu hai illustrato in maniera dettagliata, approfondita. Volevo chiederti di tornare sulla polifunzionalità di un tale simbolo, esso cambia significato con il mutare di una cultura, per gli antichi greci o romani ha un significato diverso da quello assegnato dai cristiani. È forse il simbolo che richiama immediatamente l’idea del pharmakon, su cui ti soffermi. Inoltre tu riporti la presenza del serpente anche nello Zarathustra nietzschiano, un filosofo che con l’eterno ritorno dell’uguale ha posto una personale sintesi della dialettica essere e tempo, ti chiedo di tornare su questi due aspetti, la simbologia del serpente e la sintesi nietzschiana.

F.T «Questa domanda, di cui ti sono grato, è molto importante e impegnativa e costituisce probabilmente il nocciolo del discorso. Va detto subito che la simbologia legata al serpente assume una particolare rilevanza, in quanto varia da religione a religione e presenta una stretta attinenza col modo di intendere il tempo in diverse civiltà. Laddove s’impone una concezione ciclica, ecco che troviamo l’ouroboros, raffigurato come un cerchio graficamente concluso ma non concettualmente. Infatti è un cerchio vivente e feroce: il serpente si morde la coda e promette di divorarsi poco per volta fino alla fine. Il che crea un paradosso, come osserva Ernst Gombrich (in Freud e la psicologia dell’arte): che cosa farà il serpente quando non sarà più in grado di mordere, ormai ridotto a un moncherino? Quindi la sua immagine, che dovrebbe sciogliere l’enigma del tempo ciclico, finisce invece per alimentarlo: come succede ne L’enigma dell’ora di De Chirico, dove il vero enigma consiste nel capire quale sia l’enigma (a parte la discrasia fra la luce e l’ora segnata sul quadrante, il dipinto appare del tutto privo di mistero; in effetti, usando la logica, si potrebbe supporre semplicemente che l’orologio sia rotto). Il potere del mistero è dunque quello di replicare sè stesso. Il tema del doppio è uno dei più affascinanti e ricorrenti nella storia della letteratura dall’antichità ai nostri giorni, passando per Plauto, Dostoevskij e Borges, la cui ossessione per gli specchi deriva proprio dalla paura di essere duplicato, di scindersi in Io e non-Io. Il serpente è una sorta di specchio vivente, perché riesce a duplicarsi cambiando pelle, ringiovanendo, lasciandosi dietro le spoglie del tempo per vestire un nuovo corpo, come Sata, il ‘serpente dagli infiniti anni’ del Libro dei Morti. Sempre nella civiltà egizia troviamo un altro serpente, Mehen, che ha un ruolo fondamentale, perché protegge Ra, il dio del sole, nel suo viaggio notturno agli Inferi, creando con il suo corpo una cabina protettiva intorno al dio. Nella fattispecie, il serpente diviene nuovamente garante della ciclicità cosmica, ossia del regolare sorgere del sole al mattino. L’uomo ha quindi cercato di domare questa creatura (simultaneamente mistica e demoniaca) per poter imbrigliare il tempo, senza riuscirci. Non è un caso che dallo zodiaco sia stato escluso un segno, il tredicesimo, che raffigura proprio un uomo nell’atto di domare un serpente: l’Ofiuco, già conosciuto e studiato dagli astrologi babilonesi. Spostandoci oltreoceano ci imbattiamo nel serpente celeste chiamato dai Maya Kukulkán e dagli Aztechi Quetzalcóatl, che è dotato di piume come un uccello e si caratterizza come una creatura ibrida, in grado di volare fra le nubi e saettare sulla terra. Del resto, anche quella del Genesi è una creatura ibrida, descritta inizialmente in posizione eretta (al pari dell’egizio Sata) e solo in seguito, come punizione per il suo inganno, costretta a strisciare sul ventre, mangiando la polvere. Da ciò è dipesa la sua demonizzazione in ambito cristiano, dove il serpente diviene un simbolo satanico, con la Vergine raffigurata spesso nell’atto di schiacciargli la testa: una caratterizzazione diametralmente opposta rispetto alla civiltà greco-romana, che lo associa allo scettro di Hermes (il caduceo), che dissipa le nubi ed è quindi latore di conoscenza, di schiarimento mentale e morale, e alla verga di Asclepio, portatrice di risanamento e assurta a emblema della scienza medica. E a questa si connette la duplicità del concetto di pharmakon, che in greco significa sia veleno che medicamento: ogni farmaco è infatti potenzialmente venefico se assunto in dosi errate, perché il concetto di pharmakon presuppone l’annientamento di qualcosa. Il suo compito è quello di annientare il male che possiede una persona per consentirle di continuare a vivere, ma se non annientasse il male potrebbe annientare la persona stessa e la cura si dimostrerebbe peggiore della malattia. Il farmaco oscilla fra questi due estremi, ecco perché è essenziale la protezione di un dio come Asclepio, che funga da mediatore: la sua verga con il serpente attorcigliato serve a calibrare l’effetto del pharmakon, agendo da equilibratore, da ago della bilancia (la bilancia appunto con cui lo speziale deve dosare attentamente i composti nella preparazione del farmaco). L’immagine del serpente sintetizza allora, alla perfezione, l’ambivalenza del farmaco: il serpente che con il suo morso può uccidere, può anche, allo stesso modo, guarire. Sicché nell’antichità spiccano diversi culti connessi alla venerazione di un serpente guaritore o pantocratore, come i semidei Nāga degli Indù e il dio Glicone di Alessandro di Abonotico, per arrivare al serpente “eucaristico” degli Ofiti. E veniamo così a Nietzsche. La velenosa insinuazione con cui un demone gli prospetta la possibilità dell’eterno ritorno si rivela l’autentica cura per un tempo lineare, teleologico, che non conserva e non restituisce nulla. Solo l’Übermensch può farsi carico del peso di una simile eventualità, utilizzando questo veleno come antidoto contro la mortalità e la fatuità di ogni istante. Nell’eterno ritorno tutto è vano e niente è vano: è vano perché ogni istante ritornerà, quindi perde la sua essenzialità, la sua unicità; non lo è per la medesima ragione, perché ogni istante si qualifica come permanente, eterno, necessario: anche quando sembra fuggire via, in realtà è custodito per sempre, è un frammento ineludibile intessuto nella trama del destino. Il Superuomo è allora l’Ofiuco disceso in terra dal cielo, come il Demiurgo fuggito dall’Iperuranio con la sua particella di eternità stretta fra i denti, l’exaiphnes, l’istante infinito con cui darà forma al tempo, plasmandolo secondo l’ordine della successione cronologica. Il Superuomo è il vero dominatore del serpente, come rivela Nietzsche in un capitolo dello Zarathustra, quello Della visione e l’enigma, dove il profeta della “trasvalutazione dei valori” insegna come trasvalutare il primo fra tutti i valori, cioè il tempo. In questo capitolo troviamo infatti un uomo che sta per avere divorata la lingua da un serpente che si è intrufolato nella sua bocca mentre dormiva e per liberarsene Zarathustra gli consiglia di addentarlo, mozzandogli la testa. Così facendo, il Superuomo porta a compimento il lavorio dell’ouroboros: sottrae al serpente la facoltà di divorarsi a partire dalla coda, rubandogli la forza che lo caratterizza, quella del morso, per appropriarsene. Un’azione che esige il sacrificio del serpente, che viene simbolicamente decapitato. L’Übermensch-Ofiuco ha così vinto la sua battaglia cosmica, come Mitra che sgozza il toro e offre al serpente ormai domato di bere il suo sangue, sancendo il proprio definitivo trionfo sulla tirannia del tempo. Il serpente dei mitrei può intendersi perciò come una raffigurazione eterna del mysta, dell’iniziato, che prenderà posto nel taurobolium per il bagno di sangue e la regeneratio in aeternum, come il serpente egizio Sata che costituisce la forma ultraterrena del defunto immortalizzato.»

Francesco ti ringrazio molto per il tempo che ci hai dedicato, i temi sono talmente tanti e affascinanti che son sicuro avremo modo di continuare questo nostro dialogo, non più intervista ma vero e proprio dialogo.

In dialogo

Francesco Tigani, storico delle dottrine politiche, scrittore e poeta. Tra le sue opere, oltre quelle già citate nell’articolo, ricordiamo Vita d’Europa. La nascita e il declino della coscienza europea, Rubettino 2018, Le ceneri del politico in due capitoli: il teologo e l’erostrato, Moltemi 2019.

Emiliano Ventura, saggista, scrittore e filosofo. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Il mito di Diana e Atteone in Ovidio, Arbor Sapientiae 2018, Mario Luzi. La poesia in teatro, Scienze e Lettere 2010, David Foster Wallace. La cometa che passa rasoterra, Elemento 115 2019, Giordano Bruno. Tempo di non essere, Aracne 2021.

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