Buddismo e carta: storia di un legame millenario

di Gilda Diotallevi

«Signore del Cielo, se qualcuno in punto di morte ricorda questo divino Dharani, anche solo per un momento, la sua vita si allungherà e acquisirà la purificazione di corpo, parola e mente. Senza soffrire alcun dolore fisico e secondo le sue azioni meritorie, godrà ovunque della tranquillità. Ricevendo benedizioni da tutti i Tathagata, e costantemente sorvegliato dai deva e protetto dai Bodhisattva, sarà onorato e rispettato dalla gente, e tutti gli ostacoli malvagi saranno sradicati.»

(Versione tradotta del Maestro Buddhapala durante la dinastia Tang)

Nell’ottobre del 1966, in occasione dei lavori di restauro della Pagota Seokgatar (석가탑) Sŏkkat’ap in Corea del Sud, precisamente nella città di Gyeongju, nel tempio principale dell’Ordine Joyge del buddhismo coreano Bulguksa (불국사), venne alla luce un sorprendente ritrovamento, una antica trascrizione in cinese del Dharani Sutra.

Tale copia rappresenta la traduzione dal sanscrito (उष्णीष विजय धारणी सूत्र) del famoso Uṣṇīṣa Vijaya Dhāraṇī Sūtra, appartenente al periodo dell’espansione del buddismo mahayano in Corea e in Cina. Mentre il sutra originale però, per altro diffusissimo in alcune regioni dell’Estremo Oriente che avevano provveduto a tradurlo e distribuirlo, era inciso su tavolette di pietra, la traduzione ritrovata nella pagoda di Seokgatar è oggi considerata la xilografia più antica al mondo. Il Great Dharani Sutra, così viene infatti definito il ritrovamento, èdatabile intorno al 704 d.C. Composto da 12 fogli di carta, per un totale di 620 cm di lunghezza e 8 di altezza, colpisce per un ulteriore elemento. Da una accurata indagine al microscopio si è infatti scoperto che il Great Dharani Sutra fu realizzato servendosi di una particolare carta, ovvero la tradizionale carta coreana hanji.

La stampa del sutra, che prende in Corea il nome di Mugujŏnggwang Taedaranigyŏng (무구정광 대다라니경), ha quindi almeno 1250 anni e viene riconosciuta come il più antico materiale stampato al mondo, su una carta che lo ha conservato per più di mille anni.

L’inizio di una lunga storia

Davvero complesso risulta stabilire la data d’origine della carta.

Il suo etimo latino charta richiama il greco χαράσσω, col significato di incidere e imprimere, che forse a sua volta deriva dall’origine egizia del papiro, pianta utilizzata dagli Egizi per scrivere, confluito poi nelle derivanti anglosassoni (paper), francesi/tedesche (papier) e spagnole (papel).

Mentre la leggenda vuole che l’inventore della carta sia stato Ts’ai Lun, ufficiale imperiale della dinastia Han, intorno al 105 d.C., i ritrovamenti di differenti siti archeologici (pensiamo a quello di Fangmatan in provincia di Gansu, o a quelli di Dunhuang e Yumen) anticipano di molto la sua datazione.

In un passo dell’Hou Hanshu, l’opera di storiografia cinese ufficiale scritta da Fan Ye nel V secolo sulla base di documenti precedenti, che descrive il periodo della dinastia Han Orientale dal 25 al 220 d.C. leggiamo:

Nell’antichità le scritte e le iscrizioni erano generalmente realizzate su tavolette di bambù o su pezzi di seta[…]. Ma essendo la seta costosa e il bambù pesante, non erano convenienti da usare. Cai Lun ha quindi avviato l’idea di produrre carta dalla corteccia degli alberi, dalla canapa, dai vecchi stracci e dalle reti da pesca. Ha presentato il processo all’imperatore nel primo anno di Yuanxing [105] e ha ricevuto elogi per la sua abilità. Da quel momento, la carta è stata utilizzata ovunque ed è universalmente chiamata la carta di Lord Cai. (Hou Hanshu 78/68:2513-14)

Sempre nelle cronache della dinastia Han si narra, anche se tale teoria non pare essere supportata da prove concrete, che Ts’ai Lun si recava ogni giorno a meditare in uno stagno che di solito veniva usato dalle donne per lavare i vestiti e le stoffe. Un giorno notò che le fibrille, staccatesi dai panni sporchi per opera dello strofinio, si erano riunite in un angolo dello stagno come a formare un tessuto. Lui le raccolse e le fece essiccare. Alla fine si accorse che si era venuto a creare una sorta di foglio in cui si sarebbe potuto scrivere.

Al di là dei racconti, certo è che Ts’ai Lun abbia dato l’avvio a un tipo di carta differente, i cui fogli erano orditi non da fibre animali ma vegetali. Già nel 123 d.C. impiegava nel procedimento di produzione infatti stracci di vestiti, fibre del gelso da carta, erba cinese (Bohìehmeria), canna di bambù, materiali ancora oggi utilizzati, soprattutto da alcune popolazioni orientali. I materiali venivano lasciati immersi nell’acqua per parecchio tempo, fino a quando, ormai macerati, creavano una poltiglia che, scaldata al sole veniva piegata in sottili strati.

Il materiale adottato però da Ts’ai Lun, una volta messo a punto il procedimento di fabbricazione, fu la corteccia del gelso da carta (Brussonetia papyrifera). La parte fibrosa della corteccia veniva messa a macerare in acqua, risciacquata e successivamente battuta in mortai di pietra fino ad ottenere una pasta uniforme di fibre.

I cinesi custodirono il segreto della loro produzione di carta fin quando nel 610 d.C. i sacerdoti inviati in Cina dalla Corea ne appresero l’arte, finendo poi per eccellerne. Secondo alcuni studiosi l’introduzione della carta in Corea fu opera della Cina tra il II e il VII sec. All’inizio prodotta con scarti di canapa e rmaji (ramiè), già intorno al IV la Corea aveva sviluppato e perfezionato la tecnica per produrre la carta hanji.

Tale innovazione arrivò a sua volta anche in Giappone, grazie al monaco buddista coreano Damjing inviato da Goguryeo.

In primavera, marzo, diciannovesimo anno [dell’imperatrice Suiko], il re di Koma offrì [i] sacerdoti Doncho e Hojo come tributo [al Giappone]. Doncho conosceva i Cinque Classici. Produsse bene colori, carta e inchiostro, inoltre fece mulini ad acqua. (Nihon Shoki, vol. 22, 720 d.C.)

Ts’ai Lun con Donchō (sinistra) e Mochizuki Seibee

La carta giapponese, che prese il nome di Washi, era infatti prodotta utilizzando fibre vegetali del gelso da carta, nonché altre piante locali come la Diplomorpha sikokiana, la Edgeworthia papyrifera e l’Euonymus sieboldianus.

Dal suo luogo di origine la carta si diffuse in Medio Oriente e in Occidente. Le sue peculiarità infatti erano tali da poter sostituire ogni altra trama e la sua malleabilità permetteva un utilizzo ulteriore, non relegabile alla sola scrittura sacra.

La connessione tra carta e Buddhismo

La storia della connessione tra la carta e il buddhismo è lunghissima e si stabilisce fin dall’inizio. Durante il regno Goryeo, individuabile tra il 918 e 1392 e corrispondente al periodo di massimo splendore del buddhismo in Corea, si compivano lavori di copiatura e di stampa dei sutra e di altri testi sacri. Se è vero che da un lato proprio la stampa contribuì alla diffusione e al mantenimento della religione buddhista in Corea, è pur vero che la principale necessità fosse quella di preservare i sacri testi dalle continue invasioni, soprattutto mongole. I monaci buddhisti a tal fine perfezionarono le loro tecniche, producendo la più ricercata carta dell’Estremo Oriente che, per malleabilità e resistenza fuori dal comune era diventata un vero tesoro. Di questo periodo sono i Tripitaka Koreana, delle scritture buddhiste, derivate in gran parte dal Canone buddhista cinese, scolpite su tavolette di legno. Tale maestria nell’incisione non era un semplice esercizio, ma era al contrario considerato un modo per invocare l’aiuto di Buddha durante i periodi di guerra. Il valore dei Tripitaka era individuabile per l’estetica, la perfezione della trascrizione e per essere storicamente la collezione più ricca di trattati, leggi e canoni buddhisti. Nonostante poi siano state riprodotte, queste prime tavolette furono quasi completamente distrutte dall’invasione mongola in Corea nel 1232.

Nel 1234 la dinastia Goryeo incaricò il ministro Choe Yun-ui di stampare un altro testo buddhista, il rituale prescritto del passato e del presente (Sangjeong Gogeum Yemun). Lungo quasi cinquanta volumi avrebbe richiesto un numero troppo elevato di blocchi di legno. Il ministro civile così pensò di alterare il metodo utilizzato per coniare le monete di bronzo e di applicarlo alla carta. I caratteri venivano rivestiti di inchiostro e premuti su molti fogli di carta in successione. Nonostante il tentativo riuscì perfettamente, anche tale esemplare è andato distrutto e disperso.

Per cui, ad oggi, il più antico libro esistente stampato con caratteri mobili è l’Antologia degli insegnamenti Zen dei grandi sacerdoti buddhisti, il Baegun hwasang Chorok Buljo Jikji simche yojeol (백운화상초록불조직지심체요절), conosciuto semplicemente come Jikji.

In realtà i caratteri mobili erano già stati inventati in Cina durante la dinastia Song che però era solita utilizzare un materiale troppo fragile come la porcellana prima e il legno poi. Solo nell’epoca Goryeo si introdussero i caratteri in lega metallica.

Il Jikji perciò, essendo databile nel 1377, anticipa di molti anni Gutenberg e l’omonima Bibbia stampata intorno al 1452, oggi conservato nella biblioteca nazionale di Francia.

La carta coreana, con le sue principali caratteristiche di malleabilità e resistenza, comincia ad essere richiesta e utilizzata anche per usi differenti rispetto alla trascrizione di testi sacri.

Caduto infatti il regno Goryeo, la nuova burocrazia di impronta neo-confuciana richiedeva quantità maggiori di carta e un minore investimento in essa. La produzione della carta hanji comincia così ad essere sottratta all’esclusività dei monaci e lasciata a privati che ne realizzavano, necessariamente, una qualità inferiore con una minore accuratezza.

Nel periodo Joseon (1292-1919) poi l’uso della carta hanji si estende anche ad aspetti non legati alla scrittura. Essa comincia ad essere impiegata nella produzione di oggetti di uso quotidiano, come suppellettili e ventagli, fino ad essere utilizzata per le armature. Tale tendenza sembrava poi coadiuvata dall’ideale di austerità tipico di questo periodo che tendeva a rinunciare allo sfarzo. Pensiamo ad esempio a come alcuni materiali preziosi venivano sostituiti dalla carta. Esemplare al riguardo è l’abbandono dei fiori artificiali composti con cera e seta a favore di fiori di carta che finivano così per entrare all’interno dei riti e delle feste buddiste. Proprio per supplire alla continua richiesta di dak (ovvero della corteccia del gelso da cui veniva ricavata la carta hanji), accanto alla versione tradizionale della produzione di carta se ne affiancano altre, prodotte con corteccia di pino, paglia di riso e bambù.

Propri del periodo Joseon sono gli Uigwe. Genere di testi che descrivevano i rituali reali e le cerimonie della dinastia Joseon. Una sorta di protocolli reali lunghissimi, in cui le cerimonie pubbliche e gli affari della famiglia reale (matrimonio, funerali, successioni) si intrecciavano. Essi contenevano una descrizione dei fatti molto dettagliata che si serviva anche dell’ausilio di illustrazioni fatte a mano, estendendo in tal modo l’uso della carta hanji anche alla pittura.

Addirittura il governo creò un’agenzia amministrativa che commissionava armature impermeabili utilizzando proprio il materiale hanji, che si era sperimentato possedesse proprietà altamente isolanti. Proprio quest’ultima caratteristica fece estendere l’utilizzo di tale carta (nella versione oliata) all’architettura interna delle abitazioni tradizionali, riscontrando infatti in essa la capacità di controllare il calore e l’umidità. Venivano così ricoperte con carta le porte di legno, così da garantire il raffreddamento in estate e il mantenimento del calore in inverno.

Tutti questi fattori e la difficoltà dei monaci buddhisti di far fronte alla crescente richiesta, portarono alla industrializzazione della carta e al lento abbandono della hanji a favore di altri tipi di carta meno costosi e più facilmente reperibili. Anche il cambio delle unità abitative, sostituite pian piano da moderne abitazioni che eliminavano i tetti in paglia, le coperture e le rifiniture fatte in carta hanji, nonché l’economicità della carta cinese contribuirono ad estromettere l’hanji da quella quotidianità di cui, per anni, aveva fatto parte.

Non è un caso che l’attuale produzione delle bambole ricavate da carta hanji, considerata una vera e propria arte, raffigura personaggi tradizionali che si sarebbero potuti incontrare nei villaggi intenti a esercitazione abitudini familiari nelle tipiche case o giochi legati comunque all’antica tradizione.

(한지)Hanji

Per Hanji si intende la tipica carta coreana interamente prodotta a mano, secondo una procedura tradizionale che richiama il valore della lentezza e della ritualità. La particolarità è data dalla sua provenienza totalmente naturale, non chimica, che richiede la complicità della ciclicità della natura.

Essa si ottiene dalla corteccia interna della Broussonetia payrifera, (in coreano prende il nome di Dak) comunemente detto gelso di carta, albero originario dell’Asia appartenente alla famiglia delle Moraceae.  Le fibre di cellulosa estratte dalla corteccia del gelso, i cui rami vengono tagliati a dicembre, sono infatti lunghe e capaci di impigliarsi le une alle altre.

A completare la procedura per creare tale carta viene utilizzata anche la mucillagine derivante dalla radici di un altro albero, ovvero l’Hibiscus manihot, ibisco del tramonto, aibika. Il materiale usato per l’incollatura non è chimico, ma è ottenuto dalla linfa (dak pul), una sostanza naturale ricavata dalla pianta omonima, che si dissolve in acqua, non influendo con la propria neutralità ma permettendo una conservazione della carta per secoli. Anche il colore successivo che può essere utilizzato per la carta è di origine naturale, il più delle volte ad esempio si usano petali di fiori.

Produrre la carta richiede grande precisione, un lavoro complesso appreso nel tempo suddiviso in diverse fasi che si susseguono secondo un ordine di ore e di giorni.

Il legame con la natura si riflette sulla sua lunga procedura, su una ciclicità sacra che non può essere compromessa. I tempi corretti sono essenziali alla riuscita del processo. Senza di essi il foglio non può prendere forma, senza di essi la carta non svilupperà quella lucentezza e resistenza al tempo. Alla base perciò rimane una sorta di ritualità ancestrale, una arte, una poiesis in comunione con una dimensione meditativa tipica delle filosofie e delle discipline di stampo orientale.

L’intero processo è basato su fasi, ritmi, passaggi in una correlazione tra azione e inazione.

E proprio l’azione simbolica è ciò che sorregge i riti e gli ordinamenti di una comunità, che ne descrive il suo valore identitario. La Corea, nello specifico, riconosce nella carta hanji un valore eccedente, una declinazione della propria cultura, della propria identità nazionale. In Oriente infatti, questa tecnica millenaria esprime un processo identitario la cui produzione investe nazioni, centri, addirittura villaggi.

Il recupero della tradizione

Avevamo già citato la carta artigianale giapponese Washi, realizzata con la corteccia interna dell’albero di gelso e l’ausilio della linfa dell’ibisco del tramonto.

Ma dalla fibra del gelso si ricava anche una altra tipologia di carta, il Tengujo, inventata a Gifu, la provincia giapponese che viene considerata il luogo di nascita della carta giapponese stessa. Già presente nel periodo Muromachi (1336-1573 d.c.) era molto più spessa della sua versione successiva di soli 0,3 mm. Sarà proprio la sua trasparenza e sottigliezza a renderla utilissima per gli interventi di recupero e di risanamento di altri testi.

L’acidificazione dei libri fatti di carta prodotta con la pasta di legno vanno necessariamente incontro a deterioramento, che dal semplice ingiallimento arriva fino alla possibilità di sbriciolarsi. Motivo per cui si utilizza la carta Tengujo per riparare le parti mancanti.

Al di là della sua indiscussa ricchezza, la carta hanji ha vissuto un periodo di declino. La lentezza di tale procedimento, la difficoltà spesso degli antichi artigiani di trovare loro successori rischia costantemente di far perdere una trazione millenaria. Ciò che inizialmente aveva permesso l’archiviazione di una sapienza antica, religiosa, sacrale, ciò che aveva contribuito a creare uno scambio culturale e un progresso dell’intera civiltà umana rischia di perdere il suo valore.

Eppure questa incredibile sapienza artigianale deve essere preservata. E meraviglia che le forme di tutela, sviluppo e mantenimento di una parte della nostra storia siano affidate esclusivamente ad artisti e calligrafi del sud della Corea.

Perciò nonostante commuova che sia poeticamente l’arte a recupere l’arte, una tale ricchezza dovrebbe essere tutelata anche in altre forme.

Una forte testimonianza in tal senso è stata la recente mostra dedicata alla carta hanji e al suo utilizzo artistico tenutasi presso il museo Carlo Bilotti di Roma.

Frutto della collaborazione tra l’Accademia di Belle Arti di Roma e l’Istituto Culturale Coreano, si è dato vita a un progetto espositivo il cui intento era quello di recuperare la dimensione artigianale, prettamente manuale degli artisti, chiamati a ricreare in laboratorio la carta secondo il procedimento tradizionale. Ne sono scaturiti disegni, dipinti, sculture, opere sonore, fotografiche e performative, in grado di mostrare il potenziale inalienabile di una tradizione millenaria.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

Lee Seung Chul, Hanji- Everything you need to know about traditionale Korean paper, Hyeonamsa, Corea 2012.

Jan C. Heestermann, Il mondo spezzato dal sacrificio, Adelphi 2007.

http://www.buddhism.org/Sutras/2/UsnisaVijayaDharani.htm

http://www.bulguksa.or.kr/

Fiori Vivi ringrazia Flavia Sorato per il reportage sulla Mostra Carta coreana – Hanji, Museo Carlo Bilotti Aranciera di Villa Borghese di Roma https://www.museocarlobilotti.it/it

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