La Malattia Mortale: disperazione e peccato in Kierkegaard

di Giancarla Perotti

Genesi dell’opera

La malattia mortale, scritta da Søren Aabye Kierkegaard nel 1849 sei anni prima della sua morte e pubblicata con lo pseudonimo usato per la prima volta di Anti-Climacus, tratta due categorie fondamentali dell’antropologia umana: la disperazione e il peccato. Infatti nella prima parte del testo egli afferma che l’uomo è mortalmente malato e che, tale malattia, è la disperazione, nella seconda dichiara che la disperazione è il peccato. L’opera appartiene, quindi, alla fase più matura e meglio definita del pensiero Kierkegaardiano, a quel momento culminante in cui lo stadio religioso domina e campeggia in uno spazio sovrano e autonomo mentre sempre più recedono lo stadio etico e lo stadio estetico, tappe comunque sempre presenti nell’itinerario spirituale di Kierkegaard.

Già il sottotitolo dell’opera, Un’analisi di psicologia cristiana per l’edificazione dello spirito, sembra mettere a fuoco e circoscrivere l’orizzonte del suo significato. L’argomento viene presentato come un saggio di psicologia cristiana per edificazione e risveglio, in cui Kierkegaard ha un chiaro intento, quello di presentare il problema del cristianesimo con il preciso ed esplicito proposito di contrapporlo al fenomeno degenere della cristianità ufficiale, impigrita e cristallizzata nel suo ordine costituito. Il filosofo ha anche come obiettivo quello di mettere in rilievo il senso di responsabilità che deve avere un uomo cristiano, per questo adotta una forma ansiosa, ma di un’ansia che edifica. Egli fa notare che la disperazione di cui si parla in questo scritto è intesa, come dice il titolo, come malattia.

Il filosofo con tale opera vuole difendere il cristianesimo scomodo, difficile da vivere perché tutto modellato sulla figura del Cristo deriso, umiliato, offeso, percorso e, infine, crocifisso. Il cristiano di Kierkegaard non è colui che ammira il Cristo risorto sfolgorante nel suo trionfo, ma l’iniziatore del Cristo perseguitato che affronta la sofferenza, l’angoscia, la persecuzione, la morte crudele, percorrendo tutte le tappe del suo calvario. Kierkegaard rimprovera con uguale furore due diverse negazioni del Cristo: quella dei nemici che si contrappongono apertamente al suo messaggio e quella dei suoi seguaci imborghesiti che si rifugiano in una cristianità accomodante, benpensante, tutta immersa nelle comodità di una esistenza che non si priva di alcun piacere.

Il pensatore danese presenta la disperazione sia come l’elemento che caratterizza la vita dell’esteta, sia come la condizione che permette il salto dalla vita etica a quella religiosa. Si tratta di due aspetti, spiega il filosofo, di due facce della stessa medaglia. La disperazione è sempre una negazione di sé, del proprio io; ma nel primo caso essa ha luogo in quanto l’uomo è sempre alla ricerca di se stesso, di un io che non coincide mai con quello che di volta in volta egli è, e che non trova mai; nel secondo caso essa è rifiuto totale di sé, è quella rinuncia a sé che si traduce, sul piano della fede, nella assoluta autodonazione a Dio.

La disperazione è una malattia nello spirito, nell’io, e può essere triplice: disperatamente non essere consapevole di avere un io (disperazione in senso improprio); disperatamente non voler essere se stesso; disperatamente voler essere se stesso. (La malattia mortale, p. 13.)

La disperazione appartiene all’uomo come spirito, come io.

Ma che cos’è l’io? È un rapporto che si mette in rapporto con se stesso, oppure è, nel rapporto il fatto che il rapporto si metta in rapporto con se stesso; l’io non è il rapporto, ma il fatto che il rapporto si mette in rapporto con se stesso. (Ivi, p. 13.) 

La gradualità con la quale si sviluppa questo rapporto è che l’uomo è sintesi di finito e infinito, temporale ed eterno, di possibilità e necessità. Ma la sintesi, come rapporto tra due elementi, non è ancora l’uomo; nel rapporto fra due elementi, infatti, il rapporto è un terzo negativo. Così solo quando il rapporto si mette in rapporto con se stesso, il rapporto diventa un terzo positivo, e questo è ’l’io.

Ora l’io, come rapporto che si rapporta a se stesso è un rapporto posto da un altro, quindi oltre ad entrare in rapporto con se stesso, è anche un rapporto con ciò che ha posto il rapporto intero. Di conseguenza possono nascere due forme di disperazione in senso proprio: la prima è la disperazione di non voler essere se stesso, cioè di volersi liberare da se stesso. La seconda è la disperazione di voler essere se stesso che nasce dalla consapevolezza di non potere giungere da solo in uno stato di equilibrio e calma, ma può farlo solo se si rapporta a ciò che lo ha creato come rapporto. Kierkegaard conclude 

la formula che descrive lo stato dell’io quando la disperazione è completamente estirpata è questa: mettendosi in rapporto con se stesso, volendo essere se stesso, l’io si fonda, trasparente, nella potenza che l’ha posto. (op.cit., p. 15).

Anche la disperazione dunque, come ’l’angoscia, caratterizza un rapporto: la seconda, quella del singolo con il mondo, la prima quella del singolo con se stesso. Infatti l’angoscia si manifesta al cospetto di quegli infiniti possibili, e dell’infinità del possibile che il mondo rappresenta per l’uomo; la disperazione nasce invece di fronte a quella radicale incognita che è il proprio io. Due sono i possibili modi di relazionarsi a se stesso; uno è quello di accettare di essere se stesso, l’altro è quello di rifiutare di essere se stesso; ma la disperazione si verifica in entrambi i casi, sia quando l’uomo vuole essere se stesso, sia quando non vuole assolutamente essere se stesso, cioè quando egli rinnega totalmente se stesso, quello che è e quello che potrebbe essere. Nel primo caso il singolo si dispera perché vuole ma non riesce a trovare se stesso nei vari possibili, in quanto tutte le possibilità di essere se stesso si rivelano insufficienti e inadeguate. Nel secondo caso egli si dispera quando percepisce che non c’è più alcuna possibilità di trovare il vero se stesso, e vi rinuncia; e vorrebbe semplicemente distruggere se stesso senza potervi riuscire. Questa seconda è dunque la forma piena, totale, della disperazione; è quella che Kierkegaard chiama malattia mortale.

Cadere nella malattia mortale è non poter morire, ’perché morire significa che tutto è passato, ma morire la morte significa vivere e sperimentare il morire. Su questa definizione iniziale si amplia tutta la prima parte dell’opera: la malattia mortale è la disperazione.

 La realtà del peccato invece, trattata nella seconda parte dell’opera (la disperazione è peccato), viene posta in termini nuovi, concreti, storici. Il peccato non è solo negazione, né una fondamentale funzione dialettica, ma una posizione, non è qualcosa da capire, ma un paradosso, di cui la ragione non riesce a percepire la dimensione teologica. C’è una demoniaca coscienza del peccato che si chiude al bene facendo aumentare la profondità del distacco e non soltanto esclude il bene ma anche il pentimento. È il peccato contro lo Spirito dice Kierkegaard, il peccato che non sarà perdonato, la disperazione finale.

L’uomo e la malattia mortale

Nella Malattia mortale attraverso l’indagine della disperazione e del peccato Kierkegaard studia in modo globale il vivere in rapporto a Dio, tanto da rivoluzionare l’uomo dal profondo della sua esistenza interiore. Per capire bene cosa è la disperazione secondo il filosofo dobbiamo cercare di capire come egli definisce l’uomo. Cos’è l’uomo? L’uomo è una creatura che sintetizza corpo e spirito, è inoltre un rapporto di finito e infinito, di tempo ed eternità, di possibilità e necessità; e questo rapporto si rapporta con se stesso, nel senso che è cosciente di se stesso. Ma in realtà, il rapporto più importante che l’uomo intrattiene è quello con Dio: l’uomo non può e non deve dimenticare di essere creatura divina. 

La disperazione

La disperazione è la malattia dello spirito dell’io cioè dell’uomo. L’opera è ontologica, l’uomo infatti è definito un rapporto che si rapporta a se stesso, come una sintesi di finito e infinito, di tempo ed eternità, di possibilità e di necessità. All’uomo si apre due possibilità: essere se stesso, che comporta di rispettare la natura dei propri elementi costitutivi; non essere se stesso, svilupparsi quindi in maniera arbitraria e unilaterale sovvertendo il proprio intimo equilibrio. Inoltre la disperazione è un’opera di autodistruzione dell’attività dell’essere umano. L’uomo è un essere creato e solo nella fede egli può davvero realizzare se stesso. Quando l’uomo è pienamente consapevole di fronte a Dio, la sua disperazione diventa profonda, diventa la negazione volontaria e cosciente della essenzialità divina per l’esistenza stessa e diventa peccato.

È evidente in Malattia mortale che il filosofo tenta di scuotere l’apatia del lettore affinché possa aderire alla verità edificante con tutto il suo impegno e abbandona la tiepida esposizione cattedratica, per far crescere tutto il pathos dialettico e poetico fondamentale a questa missione di risveglio.

L’uomo è spirito. Ma che cos’è lo spirito? Lo spirito è l’io. Ma che cos’è l’io? È un rapporto che si mette in rapporto con se stesso oppure è, nel rapporto, il fatto che il rapporto si metta in rapporto con se stesso; l’io non è il rapporto, ma il fatto che il rapporto si mette in rapporto con se stesso. (op.cit. p.13).

L’io è sempre in rapporto con un altro. Il fragile equilibrio la cui rottura fa precipitare il rapporto in una disperante stasi spirituale, è mantenuto fino a che il rapporto che si rapporta con se stesso si rapporta con ciò che l’ha posto come rapporto.

Nell’io che spezza i legami con l’altro che l’ha posto come rapporto c’è disperazione. Se tronca tali legami infatti, l’io si immobilizza, diventa statico in se stesso; al contrario, l’io che tiene solidi i legami con l’altro che l’ha posto come rapporto, accetta la propria esistenza come un continuo rapporto di apertura rispetto questo altro, volendo essere se stesso, cioè essenzialmente rapporto, si riflette nello stesso tempo infinitamente nel rapporto con la potenza che l’ha posto. L’io che vuole essere se stesso non nega la propria trascendenza. Nell’apertura all’altro che l’ha posto come rapporto, il rapporto si fa trasparente. Nella disperante chiusura il rapporto si fa opaco e indecifrabile. L’uomo scopre la propria finitezza nell’apertura che segna il limite oltre il quale si dà altro. A differenza dell’animale, che non sa nulla della propria finitezza, poiché non gli è dato di vedere, e che è immune da quella malattia che è la disperazione, l’uomo, e ancor di più il cristiano, siccome questi ha imparato a pensare tutte le cose terrestri e mondane, compresa la morte, è condannato a vedere e a guardarsi. Nel momento della creazione l’uomo è quasi scivolato via dalle mani di Dio.

Dov’è poi l’origine della disperazione? Nel rapporto in cui la sintesi si mette in rapporto con se stessa, nel momento in cui Dio, il quale creò l’uomo come rapporto, se lo lascia quasi scivolare di mano, cioè nel momento in cui il rapporto si mette in rapporto con se stesso. (op.cit. p.17)

     Egli è caduto e si è poi rialzato in un mondo che lo sovrasta per estensione, mentre di fronte a sé infiniti spazi tacciono la possibilità ch’egli possa percorrerli per intero. D’innanzi a ciò che gli è altro e che lo supera da ogni lato, l’uomo che dispera si riconosce miserabile. E in questo riconoscimento c’è grandezza.

     Quindi l’opposto della disperazione, che è la fede, è la speranza e la fiducia in Dio. Tuttavia, la fede è assurdità, paradosso, scandalo, conduce l’uomo al di là della ragione, della logica, della comprensione. Lo scandalo fondamentale del cristianesimo è che la realtà dell’uomo sia quella di un individuo isolato di fronte a Dio.

     Nonostante diversi paradossi del pensiero religioso, la fede crede, ma resta comunque qualcosa di incerto, precario, in quanto essa è espressione della condizione esistenziale umana, che è rischiosa perché dominata dalla precarietà delle possibilità: poiché Dio, è la gigantografia delle possibilità, l’uomo che ha fede non fa altro che rafforzare la condizione dell’esistenza.

     Di fronte all’instabilità costitutiva dell’esistenza dominata dal possibile, la fede si appella alla stabilità di Dio, cui tutto è possibile. Ricapitolando Kierkegaard chiama malattia mortale la disperazione. Perché mortale? Non perché conduce alla morte, molto peggio! È mortale perché consiste nel vivere la morte del proprio io, sentirsi insufficiente e limitato, ma non poter andare oltre se stessi; è un provare la disperazione vivendo. Si continua a vivere in un’eterna agonia, in uno stato di impotenza, come un moribondo, e senza la speranza di morire. Ma essere consapevoli della disperazione è già un passo avanti, perché in qualche modo è possibile superare questo stato. Certo, è necessario un salto, il salto della fede: solo accettando di essere nelle mani di Dio è possibile combattere questo sentimento. 

Il peccato

Per Kierkegaard, il peccato è il rifiuto dell’amicizia con Dio che si è fatto uomo per salvare l’uomo. Il peccatore è colui che non ascolta la voce del Salvatore, che agisce contro l’alleanza.

É questo concetto identico con il concetto del primo peccato, del peccato di Adamo, della caduta del primo uomo? Così talvolta lo si intende, e di conseguenza il compito di spiegare il peccato originale fu identificato con quello di spiegare il peccato di Adamo. (Il concetto dell’angoscia, p. 29)

Secondo i concetti tradizionali la differenza che corre tra il primo peccato di Adamo e il primo peccato di ogni uomo è questa: il primo peccato di Adamo condiziona la peccaminosità come conseguenza, mentre il primo peccato degli altri presuppone la peccaminosità come condizione. (Ivi p. 33)

Kierkegaard esaminando il racconto biblico della genesi del peccato originale, definisce Adamo innocente, fintanto che resta ignorante, finché non conosce le proprie infinite possibilità; ma tale ignoranza contiene già in sé l’elemento che determina la caduta, e tale elemento non è né calma, né riposo, né perturbamento, né lotta, perché non c’è alcunché da cui riposarsi o contro cui lottare. Non è che un niente: ma è proprio questo niente a generare angoscia. A differenza del timore e di altri stati analoghi, che si riferiscono sempre a qualcosa di determinato, l’angoscia non si riferisce a nulla di preciso. Essa è il puro sentimento della possibilità.    

Lo scrittore danese distingue così fra peccato originale e primo peccato.  

Nel cristianesimo il peccato è atto di libertà e il suo muoversi verso la propria perdizione: perché l’io si scandalizza perché non supera la possibilità dello scandalo.

L’uomo che disperatamente non vuole essere se stesso poiché non sa scendere fino nel fondo della sua anima, o perché, giunto di fronte ad essa, dispera per la debolezza che gli impedisce di stringersi nel rapporto con chi l’ha posto come rapporto, è un peccatore. E peccatore è anche l’uomo che disperatamente vuole essere se stesso perché insegue ostinatamente l’infinito che custodisce in sé nel tentativo di farsi assoluto, o perché, spinto dall’odio per un’esistenza colma di sofferenze e percossa dall’assurdo, si scontra con forza contro chi l’ha posto come rapporto.

Qui il peccato è disperazione, è farsi distante da Dio, infatti il peccato è una posizione. L’uomo si fa scivolare di mano Dio quando disperatamente non vuole essere se stesso; ovvero quando disperatamente vuole essere se stesso. Cosa dice la disperazione? Essa dice che si è nel peccato, ovvero in un rapporto ormai compromesso tra l’uomo e chi l’ha posto come rapporto. Chi è colpevole di questo rapporto compromesso? Non certo chi ha posto il rapporto, ma l’uomo che sceglie di non rapportarsi con chi l’ha posto come rapporto

Vi sono dunque due gradi distinti di colpevolezza, di disperazione. In quanto compromesso rapporto con chi l’ha posto come rapporto, v’è il peccato di chi ignora Dio, ossia di chi ignora cosa è il peccato, di chi ignora il rapporto; e c’è il peccato di chi non ignora cosa è il peccato, giacché conosce Dio, ma che insiste ostinatamente nel peccato. Nel primo caso c’è l’uomo naturale, il pagano; nel secondo caso c’è il cristiano.

Il peccatore cristiano, il più disperato tra i disperati, è colui che, dopo aver saputo, per mezzo di una rivelazione da Dio, che cosa è il peccato, davanti a Dio disperatamente non vuole essere se stesso, o disperatamente vuol essere se stesso. La distanza scellerata che il disperato cristiano pone tra sé e Dio, la posizione disperante di fronte a questo, misura l’incapacità di accogliere, tramite le fede, la Rivelazione. Se la possibilità dello scandalo testimonia la distanza infinita che corre tra Dio e l’uomo, il peccato dello scandalo fissa disperatamente il posizionamento di tale distanza. Per Kierkegaard quindi l’individuo è nello stato equivoco di ’un’innocenza colpevole per generazione e di una colpa innocente che si traduce nella malinconia dell’innocenza perduta e nella possibilità del peccato.

M. Ernst, Castor and Pollution 1923

La definizione socratica del peccato

Il peccato è ignoranza. Questo è, come si sa, la definizione socratica la quale, come tutte le cose di Socrate, è sempre un’istanza degna di essere presa in considerazione. Però a riguardo di questo detto socratico è successo lo stesso che di molti altri detti socratici: gli uomini hanno imparato a sentire l’impulso di oltrepassarlo. (La malattia mortale, p. 123).

Il peccato è definito da Socrate come: ignoranza. Il difetto di tale definizione è che non spiega se tale ignoranza sia originaria o sia prodotta a posteriori. Se fosse vera quest’ultima, il peccato non consisterebbe nell’ignoranza ma in altro. La domanda diventa allora un’altra, ovvero se quando l’uomo ha cominciato a oscurare la propria conoscenza, ne fosse cosciente. Se ne fosse stato cosciente allora il peccato non starebbe nella coscienza ma nella volontà. Se il peccato è ignoranza, allora propriamente non esiste, perché il peccato è coscienza.

Ma l’uomo è cosciente di questo processo? E se ne fosse stato inizialmente cosciente allora il peccato non sarebbe il risultato dell’ignoranza, ma piuttosto il risultato della volontà dell’uomo stesso. E che rapporto ci sia tra volontà e conoscenza Socrate non lo puntualizza così come non presuppone l’esistenza del peccato in se stesso; cosa che è ammessa dal pensiero cristiano che si configura nel dogma del Peccato Originale. Se invece l’uomo è ignorante, cioè non ha la consapevolezza del peccato, ovvero non sa cosa sia il giusto, allora il peccato secondo l’impostazione socratica non esiste. Questa è la posizione di partenza del Cristianesimo secondo cui l’uomo non ha coscienza del peccato, in quanto tale, e necessita di un aiuto divino perché si renda a lui manifesto. Sarebbe stata un’obiezione molto pericolosa contro il cristianesimo se il paganesimo avesse avuto una definizione del peccato che il cristianesimo doveva riconoscere come giusta.

Qual è allora la determinazione che manca a Socrate per definire il peccato? È questa: la volontà, l’ostinazione.

La grecità non riesce a comprendere che un uomo possa coscientemente tralasciare di fare il bene, oppure in coscienza conoscendo il bene, fare il male, fare l’ingiusto pur conoscendo il giusto. Per Socrate se un uomo comprendesse in verità una cosa allora la sua vita lo esprimerebbe non come un risultato intellettuale, ma come concezione etica per la vita di ogni giorno. Quindi tra il comprendere il bene e fare il bene manca un passaggio fondamentale, una pietra miliare che il cristianesimo ha definito, cioè la volontà dell’individuo e la sua ostinazione. Il peccato per Kierkegaard consiste nella volontà, non nella conoscenza, e la degradazione di questa volontà non è alla portata dell’individuo, ma trascende la sua coscienza e la sua conoscenza. La possibilità dello ‘scandalo’ consiste nel fatto che è necessaria una divina rivelazione per insegnare all’uomo che cosa è il peccato e quanto profonde siano le sue radici

Allora, che cos’è lo scandalo? Lo scandalo è ammirazione infelice; è perciò una specie di invidia, ma un’invidia che si rivolge contro l’uomo stesso, in un senso più stretto: è la forma peggiore di invidia contro se stesso. La grettezza di cuore dell’uomo naturale non può non invidiare a se stesso lo straordinario che Dio gli ha voluto concedere; perciò si scandalizza. (La malattia mortale p. 120)

La definizione di peccato è: davanti a Dio, disperatamente non voler essere se stesso.  Il peccato non è una negazione, ma una posizione. Se il peccato è determinato negativamente allora il cristianesimo perde il suo carattere, quindi ci deve essere per forza una rivelazione, per insegnare all’uomo cosa sia e questa rivelazione deve essere creduta.

Il pensiero di Kierkegaard è perciò un pensiero essenzialmente religioso: è la difesa dell’esistenza del Singolo, esistenza che si fa autentica soltanto davanti alla trascendenza di Dio.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

CANTONI R., La coscienza inquieta, Mondadori, Milano 1949.

CORTESE A., Kierkegaard oggi, Vita e Pensiero, Milano 1986.

GARAVENTA R., Angoscia e peccato in Søren Kierkegaard, Aracne, Roma 2007. 

GARFF SAK J., Søren Aabye Kierkegaard. Una biografia, Castelvecchi, Roma 2013.

KIERKEGAARD S., Il concetto dell’angoscia, Se, Milano 2007.

KIERKEGAARD S., La malattia mortale, Newton Compton, Roma 1995.

MARIO PIZZUTI G., Invito al pensiero di Kierkegaard, Mursia, Milano 1995. 

MASI G., Disperazione e speranza. Saggio sulle categorie Kierkegaardiane, Gregoriana Libreria, Padova 1971.

Ringraziamo Giancarla Perotti, filosofa, teologa Sacramentaria, scrittrice e fondatrice del Centro Ricerche personaliste Raissa e J. Maritain. Tra i suoi lavori segnaliamo Amore e Giustizia nel pensiero di Jacques Maritain del 2009.

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