di Stefania Parigi
La letteratura e il cinema di Pasolini sono attraversati dall’esaltazione mitica delle forme naturali, degli elementi primari della vita: aria, terra, acqua. La natura appare come una sorta di mistero religioso e carnale.
Nei versi friulani il corpo del poeta e dei suoi personaggi è immerso in un paesaggio fatto principalmente di cielo e di terra, di acque fluviali e piovane, di odore dell’erba, di luce che piove dal cielo, di aria che avvolge, di sole che illumina e arde, di colori e di fiori. È una sorta di Eden primitivo in cui la vita e la morte sono strettamente legate e ripetono il ciclo delle stagioni, il ritmo delle albe e dei tramonti. La natura è vista come una forma del mondo (La nuova gioventù, p. 182), che appartiene all’arcaico mondo contadino, caratterizzato da un eterno ritorno dell’identico, in cui i figli ripetono le sembianze dei padri e ciò che è morto rinasce costantemente, come il seme piantato nella terra. In questo universo, scrive Pasolini, il tempo non si muove (Ibidem), ovvero il tempo non è quello lineare della storia e del progresso, ma quello del ciclo naturale che si ripete all’infinito.
Il mito di Aprile

Il paesaggio friulano rappresenta una sorta di Paradiso che già reca in sé i segni della perdita: ciò che appartiene alla vita è contemporaneamente proiettato nella morte e scivola verso il nulla, verso il mistero delle origini e della fine. Proprio questo continuo senso del nulla stimola quello che Franco Fortini (F. Fortini, Attraverso Pasolini, p. 155) ha definito il più floreale manierismo funerario di Pasolini: il Friuli è rappresentato come un giardino pieno di odori e di colori; il colore predominante è l’azzurro del cielo; il fiore prediletto la viola e il mese l’aprile, a cui è legata anche una delle sue poesie più belle, scritta molti anni dopo il periodo friulano e intitolata Il glicine (aprile 1960, compresa nella raccolta La religione del mio tempo). Pasolini affida a questo ‘rampicante’ il compito di rappresentare la forza e insieme la caducità della natura, la sensualità dell’esistenza, l’immersione del corpo nella natura e la frattura con il mondo della storia:
Tra il corpo e la storia c’è questa / musicalità che stona, / stupenda, in cui ciò ch’è finito / e ciò che comincia è uguale, e resta / tale nei secoli: dato dell’esistenza.
L’aprile è una figura del ritorno, della nascita connessa alla morte, che rimanda al culto dell’alba e della primavera. Straordinarie appaiono a mio giudizio le sintonie tra Il glicine e i primi famosissimi versi della Terra desolata (The Waste Land, 1922) di Thomas S. Eliot:
April is the cruellest month, breeding /Lilacs out of the dead land, mixing /Memory and desire, stirring /Dull roots with spring rain.
Il mito di aprile evoca una sensualità funerea della natura, in cui il pieno è legato al vuoto, la luce all’ombra. In La religione del mio tempo (1957-59) Pasolini scrive:
Non c’è più niente / oltre la natura – in cui del resto è effuso / solo il fascino della morte – niente / di questo mondo umano che io ami.
(P.P. Pasolini, Tutte le poesie, tomo I, p. 985).
In Edipo re (1967), a conclusione di un percorso che riproduce quello autobiografico di Pasolini, il protagonista, interpretato da Franco Citti, esclama: «La vita finisce dove comincia».
La natura friulana viene rappresentata come la scena originaria della vita che coincide con quella della morte. Esemplari in questo senso appaiono le prime e le ultime sequenze. Nel prologo il mondo è una sorta di emanazione del corpo della madre e consiste nell’unione primordiale di terra e di cielo esplorati dallo sguardo di Edipo bambino che compone una sorta di cantico del creato innalzandosi dal prato all’azzurro del cielo incorniciato dai pioppi e poi ridiscendendo dal cielo al verde dell’erba. Nell’epilogo, dove Edipo è ormai vecchio e accecato, si ripetono gli stessi movimenti degli occhi sulla medesima immobilità cangiante della natura. In Medea (1970) l’immagine sacrale, che simbolicamente accompagna il personaggio della protagonista interpretata da Maria Callas, è quella della terra infuocata dal sole che vediamo nei titoli di testa, nell’inquadratura finale e quando la tragica eroina rievoca la sua origine.
Natura e Storia

Il mito pasoliniano della natura contrapposta alla storia viene affidato alle parole del centauro Chirone il quale afferma che la natura è un’apparizione, che la scena naturale è abitata da un Dio, che la natura non è naturale ma è una visione, un’esperienza religiosa. La storia, il cammino del cosiddetto progresso, allontana l’uomo dalle sue origini, ma non può distruggerle del tutto. L’impronta sacra del mondo si conserva anche nelle forme sconsacrate della storia e della modernità e la natura può ancora configurarsi sia come il luogo dell’autenticità e della pienezza vitale sia, contemporaneamente, come il luogo del dolore e del mistero dell’esistenza.
Nell’incontro con la storia il giardino friulano delle prime poesie salta in aria senza mai scomparire del tutto. I romanzi e i film sulle borgate romane mostrano un paesaggio di rovine: le baracche, le case diroccate, i resti antichi del passato, i cumuli d’immondizia, gli stracci, il fango, la terra smossa e desertificata. Su questo spazio sconnesso di rifiuti, il sole e gli elementi naturali continuano a imprimere un timbro atemporale e astorico, simile a quello che ancora vibra nei corpi barbarici dei sottoproletari mitizzati da Pasolini. Nella scarpata ricoperta di spazzatura di Che cosa sono le nuvole? (1968) Totò, davanti alla visione del cielo, inneggia alla «straziante meravigliosa bellezza del creato». E non a caso alcuni brevi film come appunto Che cosa sono le nuvole? o La terra vista dalla luna (1967) recano fin dai titoli il richiamo agli elementi del cosmo. I meravigliosi titoli di testa cantati da Domenico Modugno in Uccellacci e uccellini (1966) hanno come sfondo una luna di giorno su cui si muove una nuvolaglia.


Le immagini astrali connotano tutta l’opera pasoliniana fino al progetto non realizzato di Porno-Teo-Kolossal in cui i personaggi inseguono, come i re magi, una cometa. In Poema per un verso di Shakespeare (compreso nella raccolta Poesia in forma di rosa, 1964) il poeta è rapito in cielo e dall’alto osserva la terra come uno spazio di scintillanti frantumi, di casuali rifiuti (Ivi, p. 1165).
Tra terra e cielo
Una delle forme simboliche che la scena naturale assume di frequente nei suoi film è quella della nudità, dell’unione di cielo e di terra senza più alcun ornamento, floreale o di altro tipo. Nel passaggio dai prati friulani, dal paesaggio acquoso e aereo del Nord alle borgate romane e poi agli aridi spazi africani e arabi dei film sul mito greco, lo spazio tende sempre più a desertificarsi, a ridursi alle sue entità primarie di cielo e di terra.
Una sorta di immagine desertica è già la visione che Accattone ha della propria morte, quando nel sogno chiede al becchino di scavargli la fossa al sole. Attraverso due panoramiche simmetriche, dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto, lo sguardo si apre su monti e vallate inondate di luce che – commenta Pasolini – sembrano dipinte da Corot e sono chiamate a evocare il paradiso della natura (Il paradiso di Accattone, «Vie Nuove», 1° luglio 1961).
Totò e Ninetto Davoli in Uccellacci e uccellini camminano dentro immagini del tutto spoglie, divise a metà tra cielo e terra, in un paesaggio stilizzato che Pasolini definisce ormai appartenente a una sorta di “dopostoria”, totalmente disarticolato e sconnesso. In questo spazio la modernità ha seminato le sue icone distruttive, il passato e il presente si contaminano in forme stridenti e il deserto diventa una figura dell’apocalisse causata da una industrializzazione selvaggia. Nell’episodio medievale di Uccellacci e uccellini, al contrario, l’essere umano è sprofondato nel paesaggio composto dalla natura e da antiche, sacre costruzioni del passato. Totò che parla francescanamente con gli uccelli appare addirittura come una figura arborea, totalmente fuso nel mondo vegetale e animale. In Teorema (1968) il personaggio della serva, legato all’antica cultura contadina, vive analogamente tra la terra e il cielo. Può innalzarsi in cielo come una santa o sprofondare nella terra come il seme che muore per risuscitare.
Nel film sul Vangelo (1964) e poi in quelli sul mito della tragedia classica (Edipo re, Medea, ma anche Porcile, 1969) il deserto si configura come un luogo della narrazione, in cui si radicano gli eventi e, insieme, come una sorta di spazio originario della vita.
Paradiso e deserto

Teorema (libro e film) offre la più conseguente teorizzazione e rappresentazione del deserto come spazio materiale e simbolico: investito da una trasfigurazione biblica, rimanda alla dimensione originaria dell’essere ormai smarrita nel mondo moderno, dominato dai consumi della società di massa. Le immagini desertiche qui solcano il film senza una motivazione narrativa, per indicare un’origine rimossa e una violenta contestazione del presente, dell’omologazione sociale contemporanea.
In Teorema (libro) si trova un approfondimento filosofico di questa icona. Il deserto è «la realtà di tutto spogliata fuori che della sua essenza». Non c’è niente «oltre a ciò che è necessario» (P.P. Pasolini, Romanzi e racconti, volume secondo 1962-1975, p. 1053): la terra, il cielo e, come avviene nel finale del film, il corpo nudo. È il luogo da cui si proviene e a cui si ritorna, che precede addirittura il prato friulano della nascita rappresentato in Edipo re. Pasolini elabora la teoria dei due Paradisi, entrambi perduti: il primo è rappresentato, appunto, dal deserto che è il luogo di una prima nascita, nel grembo di un padre androgino (donna e uomo insieme come nel mito raccontato da Aristofane nel Simposio di Platone); il secondo ha il colore verde del prato friulano, lo stesso odore delle primavere e delle primule, gli stessi fiumi. Rappresenta una seconda nascita, nel grembo di una madre e poi di un padre che Pasolini definisce adottivi. Il primo paradiso è il regno della comunione dei sensi, di una unicità primigenia governata dall’ambivalenza. Nel deserto non c’è inizio, fine, limite, distinzione o sviluppo. Esso, scrive Pasolini, «nasceva da se stesso, continuava in se stesso e finiva in se stesso» (Ivi, p. 961). Al di là del deserto non c’è altro che deserto: qui si sperimenta un tempo che non procede, che non si muove, uno spazio che non cambia pur mutando incessantemente. Il deserto è l’idea del tutto che coincide con il nulla, dell’origine che si unisce alla fine. La sua immobilità mutevole (per usare uno dei tipici ossimori pasoliniani) è suggerita nelle inquadrature di Teorema dal vento che alza la polvere e dalle nubi che si riflettono sulla terra. Nei versi che concludono Teorema (libro) Pasolini lo definisce un «luogo immaginato dalla mia povera cultura» (Ivi, p. 1055) dove risuonano domande senza risposta.
Il deserto è vibrante e misterioso come la vita, sta prima e dopo la storia. È il regno di una natura impenetrabile, che dà insieme la vita e la morte. È qualcosa di simile a ciò che Pasolini ha definito in alcuni suoi versi Inespresso Esistente o nulla lucente (Ivi, p. 1055).
Ebbro di erba e tenebre

Attraverso la rappresentazione della natura – di cui ho ricordato soltanto qualche squarcio all’interno della sua opera – Pasolini esprime così la sua filosofia dell’esistenza e, insieme, la sua concezione dell’arte: da una parte esalta il mito di una vita anteriore alla storia, inafferrabile nel suo mistero, in cui si realizza una sorta di indifferenziazione tra uomo e natura e i rituali fisici si presentano come rituali conoscitivi; dall’altra fonda il processo artistico e in specie quello dell’immagine cinematografica sul desiderio di ritrovare la scena naturale, di immergersi nella sensualità degli elementi, direi quasi di liquefarsi in quella che Maurice Merleau-Ponty ha definito la «carne del mondo». Dagli anni sessanta in poi Pasolini attribuisce al cinema la capacità di essere un linguaggio della presenza, che rende possibile una immersione fisica nella realtà. La letteratura, invece, gli appare come un’arte dell’assenza. Mentre la parola si limita a evocare la vita quando questa è ormai passata, l’immagine sembra mantenere il contatto con il mondo e con il suo fluire.
La passione che aveva assunto la forma di un grande amore per la letteratura e per la vita – dichiara nel ’69 – si era spogliata dell’amore per la letteratura diventando ciò che era davvero, ossia una passione per la vita, per la realtà, per la realtà fisica, sensuale, oggettuale, esistenziale attorno a me. Questo è il mio primo, unico grande amore e in un certo qual modo il cinema mi ha costretto a rivolgermi ad esso e a esprimerlo in forma esclusiva.
(O. Stack, Pasolini on Pasolini, Thames & Hudson, London-New York 1969; pubblicato in traduzione italiana con il titolo Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, Guanda, Parma 1992; poi in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, p. 1302).
All’isolamento del tavolino dello scrittore, il cinema contrappone l’ebbrezza sensuale del set, che assume quasi i caratteri di una droga, come afferma Pasolini in un’altra intervista del 1969 (Pietro Bianchi, Con il cinema non ho respiro e… l’ulcera è roba passata, «Il Giorno», 1° aprile 1969). Il rapporto fisico che lo lega al cinema è lo stesso che impronta la sua immersione nella realtà, nella natura, nei corpi. Già nel 1960, ricostruendo in poche righe la sua autobiografia, scrive:
Amo la vita così ferocemente, così disperatamente, che non me ne può venir bene: dico i dati fisici della vita, il sole, l’erba, la giovinezza: è un vizio molto più tremendo della cocaina, non mi costa nulla e ce n’è un’abbondanza sconfinata, senza limiti: e io divoro, divoro… come andrà a finire non lo so… (E. F. Acrocca, a cura di, Ritratti su misura, 1960, p. 321).
Concludendo la sua pièce teatrale Bestia da stile (1966-1974) offre il suo ennesimo autoritratto definendosi ebbro di erba e di tenebre, perennemente sospeso su quel ciglio dove la vita e la morte si incontrano nella tragica beatitudine che unisce l’esistenza e la creazione estetica.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:
ELIO FILIPPO ACROCCA (a cura di), Ritratti su misura, Sodalizio del Libro, Venezia 1960.
PIETRO BIANCHI, Con il cinema non ho respiro e… l’ulcera è roba passata, «Il Giorno», 1/04/1969.
FRANCO FORTINI Franco Fortini, Attraverso Pasolini, Einaudi, Torino 1993.
PIER PAOLO PASOLINI La nuova gioventù, Einaudi, Torino 1975.
Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2003.
Romanzi e racconti, volume secondo 1962-1975, Mondadori, Milano 1998.
Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999.
Poesia in forma di rosa, Garzanti, Milano 1964.
OSVALD STACK Pasolini on Pasolini, Thames & Hudson, London-New York 1969
FIORI VIVI ringrazia
STEFANIA PARIGI, scrittrice, studiosa e profonda conoscitrice di cinema, prevalentemente italiano. Attualmente Professoressa ordinaria di cinema presso l’Università di Roma Tre, si è occupata di Moravia, Pasolini, Ferreri, Maselli, Zavattini, Rossellini e altri, curando e scrivendo testi di notevole rilievo. Tra i suoi ultimi lavori si segnalano: Cinema-Italy (Manchester University Press, 2009); Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra (Marsilio, 2014); la nuova edizione di Pier Paolo Pasolini. Accattone ( Lindau 2021)
La libreria Le Storie e in particolare Stefania Stefanini
Gilda Diotallevi