La retorica dell’emergenza. In dialogo con Eligio Resta

di Favorita Barra

L’uomo che si isola rinuncia al suo destino, si disinteressa del progresso morale. Parlando in termini morali, pensare solo a sé è la stessa cosa che non pensarci affatto, perché il fiore assoluto dell’individuo non è dentro di lui; è nell’umanità intera. […] Non si adempie il dovere, come spesso si è portati a credere e come ci si vanta di fare, confidandosi tra le vette dell’astrazione e della speculazione pura, vivendo una vita da anacoreta; non vi si adempie con i sogni ma con gli atti, atti compiuti nella società e per essa.

G. W. F. HEGEL, Scienza della logica, 1812

Un quadro introduttivo

Negli ultimi anni, la parola emergenza ha occupato drasticamente il linguaggio della politica. La sua eco, in assenza di un vero e proprio dibattito pubblico, si è propagata attraverso i flussi comunicativi che intercorrono tra governanti, media e cittadini.

L’emergenza sanitaria derivante dal propagarsi del virus COVID 19 ha messo alla prova le istituzioni, testando più specificamente la capacità degli ordinamenti di regolare la contingenza.

Ricordiamo il giorno in cui l’Italia fu dichiarata zona rossa e le regioni, le provincie e i comuni sono state divise da confini invisibili; l’adozione di atti emergenziali di contenimento e di gestione dell’epidemia; le proroghe dello stato di emergenza.

E ancora, il 24 febbraio di un anno fa, l’annuncio dell’invasione militare russa a danno dell’Ucraina ha materializzato nuovamente lo spettro della guerra, che continua a scandire la storia dell’umanità.

La comunità internazionale è sprofondata in uno stato emergenziale, segnato da una grave crisi energetica.

L’epidemia e la guerra sono accadimenti straordinari ed eccezionali che ridisegnano l’ordinario assetto dei diritti, delle garanzie costituzionali e del complesso sistema di pesi e contrappesi proprio degli ordinamenti democratici.

La Costituzione italiana non contempla lo stato di eccezione a differenza – a titolo esemplificativo –   della Costituzione spagnola, della Costituzione ungherese o della Costituzione di Weimar che all’art. 48 prevedeva la sospensione parziale o totale dei diritti costituzionalmente garantiti al fine di ristabilire l’ordine e la sicurezza pubblica.  

Tuttavia i decreti del Presidente del Consiglio italiano che durante la recente emergenza sanitaria hanno cadenzato le varie fasi del lockdown richiamano il Codice della Protezione civile, emanato il 2 gennaio del 2018. Più specificamente l’art. 7 del decreto legislativo n. 1 del 2 gennaio del 2018 sancisce che, di fronte a «emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo», si può ricorrere a «mezzi e poteri straordinari».

Recentemente il dibattito dottrinario si è accesso attorno a due posizioni dominanti. Secondo alcuni studiosi, giuristi e teorici del diritto, è necessario effettuare una distinzione tra emergenza ed eccezione, la prima implica la conservazione di un ordine precostituito, la seconda invece il suo disfacimento. (G. Zagrebelsky, ‘Non è l’emergenza che mina la democrazia. Il pericolo è l’eccezione’, la Repubblica, 28 luglio 2020)

È evidente che il punto di partenza di tale ricostruzione è la differenziazione schmittiana fra dittatura commissaria, che ha lo scopo di conservare o restaurare la costituzione vigente e dittatura sovrana, che tende invece a instaurare un nuovo ordine. La visione sopra esposta è fortemente criticata da chi sostiene che l’eccezione e l’emergenza implicano entrambi la sospensione della legge. Da ciò segue che, non è dirimente riflettere sulle intenzioni o sulle motivazioni sottese alla dichiarazione dello stato d’eccezione e dello stato emergenza, quanto sull’esito: l’interruzione delle garanzie costituzionali. (G. Agamben, Stato di eccezione e stato di emergenza, 2020).

Per giunta Carl Schmitt in Teologia Politica parla semplicemente di Ausnahmezustand, «stato di eccezione», termine tecnico che si è imposto per definire la condizione di eccedenza del politico sul giuridico; in altre parole la terra di mezzo tra l’ordine giuridico e il fatto politico, tra la legge e la sua sospensione.

Banksy, ballerina sulle rovine di un grattacielo di Borodyanka – Ucraina

Le parole di Eligio Resta

Proprio quando l’ordine precostituito sembra svanire e la forza immanente dei principi fondativi dell’ordinamento giuridico cede il passo alla sospensione e all’incertezza, è facile chiedersi quale sia il ruolo dei diritti.

Questa domanda e tanti altri interrogativi saranno il filo conduttore dell’intervista o per dirla come abbiamo sempre chiamato le nostre conversazioni – della chiacchierata, con il Professore e Filosofo Eligio Resta, la cui ricca produzione scientifica è da sempre caratterizzata dalla rarissima capacità di portare alla luce i paradossi del diritto.

E. R «L’emergenza è ormai definitiva e proprio in questo periodo storico possiamo notare il calpestare continuo dei diritti di individui e di intere popolazioni. È necessario chiederci in che modo i diritti possano essere Katéchon, ossia limite all’esercizio del potere.

La questione della guerra ancora una volta è fondamentale.  Aveva ragione Hans Kelsen a dire che non ci sarà mai pace fin quando non si metterà in crisi il meccanismo della sovranità degli Stati, che è un vero e proprio elemento di prepotenza.

Il vecchio proposito di sostituire il diritto alla sovranità o i diritti alla sovranità, che sicuramente rivive nella richiesta alla Corte penale Internazionale dell’Aja di aprire un’indagine sui crimini di guerra, non condurrà ad esiti significativi, in quanto la terzietà del diritto non sarà mai così forte da mettere in crisi la prepotenza dello Stato.

É necessario fare uno sforzo doppio, in modo da continuare, da un lato, a sperare nell’ordinamento giuridico internazionale e dall’altro a lavorare sulla dimensione ‘micro’ dei diritti, che consiste nell’attivazione costante della garanzia ai diritti individuali.

Molto suggestivo ciò che raccontava Carl Schmitt: quando i tempi si fanno inquieti la questione della tutela degli ameni parchi a tutela della natura lascia lo spazio ad una volontà di decisione, più propriamente di schieramento che ruota attorno alla dicotomia amico/nemico.

Purtroppo mai come in questa momento l’inquietudine dei tempi è emergente.»

Professore, in un’opera pubblicata nel 1984, intitolata L’ambiguo diritto, lei ricostruisce e decostruisce il diritto dell’emergenza. Questa espressione ‘l’ambiguo diritto’ mi ha fatto sempre pensare a un diritto personificato, un diritto che si fa umano e che, come un uomo, vive di complessità, di contraddizioni, di ambivalenza.

E. R «La questione dell’ambiguità del diritto mette in crisi la teologia giuridica – teologia orientata a colmare l’assenza di un dio – e lo fa fondamentalmente attraverso la scoperta del rapporto tra diritto e violenza.

Avevo preso questa formula da Walter Benjamin che, come è noto, ha fatto riferimento al carattere demonicamente ambiguo del diritto, in relazione non solo al fondamento, ma anche al suo funzionamento.

Più specificamente, il diritto che crea gli ordinamenti è lo stesso che li conserva ed esso è legato a doppio filo alla violenza. Del resto sappiamo benissimo come il gioco dell’ambiguità massima risiede proprio nel rapporto tra violenza legittima e violenza illegittima. Pensiamo che la violenza sia legittima, quindi positiva e che la violenza illegittima sia negativa, tuttavia la violenza legittima è sempre violenza.

In controluce il carattere demonicamente ambiguo del diritto è utile per comprendere i meccanismi della teologia della colpa. Benjamin ci ricorda, a tal proposito, che il giudice non vede colpa in un comportamento antigiuridico, ma infligge destino.  Forte è il rapporto tra destino, diritto e la vita; da questa consapevolezza è nata la mia modesta riflessione sul diritto vivente. (n.d.a. Cfr. Diritto vivente 2014)»

Nell’ambito de L’ambiguo diritto lei richiama la valenza simbolica dell’emergenza.

Più specificamente scrive: «Emergenza, destabilizzazione, eccezionalità sono piuttosto il frutto del ricatto e della propaganda della paura.»

E. R. «La retorica dell’emergenza si fonda sull’equivoco che l’emergenza è un intralcio alle magnifiche sorti e progressive dell’umanità. In altre parole essa viene intesa cioè come un’interruzione del progresso. Ma è ancora una volta Benjamin a guidarci; nell’ottava tesi di Filosofia della Storia il filosofo afferma che non bisogna stupirsi della violenza. Chi si stupisce della violenza la considera come un’eccezione nel cammino delle magnifiche sorti e progressive e così facendo, fa gli interessi del fascismo, come anche del nazismo, che considera la violenza come un’eccezione e lavora oltretutto per la sua giustificazione in nome dell’ordine.

É in gioco l’ontologia della paura che da Hobbes in poi continua a legare la politica e il diritto al filo della modernità.»

L’emergenza è terreno fertile per l’instaurarsi di una società del controllo imperniata sul disciplinamento sociale

E. R. «In genere il disciplinamento fa parte delle tecniche di potere orientate all’ordine sociale.

La parola ordinamento è dotata di senso; ordine è la trama, l’ordito, che è costituto da un legame molto forte tra tutti gli elementi della società. L’ordine implica l’affermazione del controllo sociale, basato anche sulla perfetta consapevolezza della divisione delle funzioni sociali. Imprescindibile è il un ruolo del dissenso.

Nello Stato di diritto c’è un’ampia apertura al dissenso e al conflitto, tuttavia il dissenso e il conflitto non devono confondersi con il dissidio che è invece rottura: impossibilità della comunicazione.

Credo fortemente che dobbiamo ancora una volta tornare alle radici dello Stato di diritto e dunque a scommettere sull’autonomia del diritto, ripensando ad una divisione forte delle funzioni che sono equivalenti dei poteri. Del resto se c’è un potere che controlla l’altro, non ci può essere un monopolio di un potere sull’altro; tale equilibrio è affermato anche in nome della pluralità sociale.»

Vorrei, a questo punto della nostra conversazione, far riferimento alle rigide restrizioni che durante l’emergenza sanitaria hanno interessato i cittadini non vaccinati, di fatto esclusi dalla vita sociale.

Eppure, è stato il Codice di Norimberga, nato dagli orrori della seconda guerra mondiale, a sancire che il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente necessario.

Con questo documento si inaugura la rivoluzione del consenso informato; qualsiasi intervento medico sul corpo del paziente è pertanto ad esso subordinato. L’individuo non è più oggetto del potere medico e politico. Si afferma così il potere della persona, che in quanto soggetto morale, è capace di decidere per sé sulla sua vita e non è più sottoposta al volere altrui.

La legislazione adottata durante l’epidemia COVID 19 sembra, da un certo punto di vista, ‘barattare’ l’accesso ai servizi essenziali e la partecipazione alla vita sociale ad un trattamento sanitario sul corpo, il vaccino.  Tale scambio renderebbe, a mio avviso, il consenso al trattamento sanitario tutt’altro che libero e scevro da condizionamenti.

E. R «Ripartirei dal concetto di soggetto che, nella tradizione giuridica, viene investito del carattere della titolarità dei diritti e in quanto soggetto di diritto può decidere della propria vita. In realtà, da un punto di vista semantico, la parola soggetto porta con sé una dimensione di sottomissione. Soggetto è subiectum; sottoposto. L’idea del diritto come privilegio individuale è condizionata alla dimensione politica della comunità.

Vorrei mettere in luce questo termine: communitas, ossia dono e dovere comune. Alla comunità non si prende parte ma si dona. La storia del soggetto nella comunità è una storia più che di privilegi, di donazioni; ha a che fare con l’altruismo e non con l’egoismo.  La fraternità e comunità sono elementi fortemente collegati.

Io penso che sia necessario il sacrificio individuale in nome della salvezza della comunità. Ben venga il sacrificio se serva volontariamente a salvare il tutto!»

G. Klimt, L’albero della vita 1909

Professore, ricordo che ogni anno accademico, durante la prima lezione del corso di filosofia del diritto, era solito leggere agli studenti il famoso frammento di Georg Friedrich Hegel di seguito riportato: «La contraddizione sempre crescente tra l’ignoto che gli uomini inconsapevolmente cercano e la vita che ad essi è offerta e permessa e che essi hanno fatto propria, la nostalgia verso la vita di coloro che hanno elaborato in sé la natura in idea, contengono l’anelito a un reciproco avvicinamento. Il bisogno di quelli, di ricevere una consapevolezza sopra ciò che li tiene prigionieri e l’ignoto di cui sentono l’esigenza, s’incontra col bisogno di questi, di trapassare dalla propria idea nella vita.»

La vita, del resto, è uno dei nodi centrali di tutta la sua ricerca.

E. R «Ritengo questo passo fondativo, in quanto mette in relazione due dimensioni: la determinatezza e l’anelito verso una vita migliore, pertanto ciò che è determinato e la ricerca dell’indeterminatezza della libertà. 

È un frammento di grande apertura verso la modernità: la contraddizione sempre crescente, mai come in questo momento, ci condiziona fortemente. D’altro canto l’esistenza è fatta di aneliti verso una vita migliore, che ognuno nel proprio piccolo cerca. L’anelito, tuttavia, viene in contraddizione con la necessità – Anánkē – del resto, sono nato in una certa epoca, sono inserito in un determinato contesto sociale, devo sottostare ad alcune condizioni economiche, insomma sono determinato dalla vita.

Certamente un elemento forte di consapevolezza è quello di considerare se stessi come determinati dalla vita, ma l’anelito verso la vita migliore è ciò che spinge al di là dei confini.

Hegel aggiunge un elemento ulteriore: la contraddizione sempre crescente non può essere ridotta con un atto di violenza, che è qualcosa che produrrà un nuovo dolore. Noi pensiamo che attraverso le regole si possa incidere sulla vita, mentre la vita sfugge alle regole. Le passioni fredde del diritto si scontreranno sempre con le passioni calde della vita. Piuttosto, alla luce di una lettura hegeliana, la contraddizione viene risolta nella dimensione dello Spirito Assoluto, cioè di quelle forme della vita che si incarnano nello Stato e nella politica. Lo Stato diventa il risultato degli opposti antagonismi.

Questo bellissimo frammento sulle determinatezze della vita termina con un Oder, con un ‘oppure’, seguito da puntini di sospensione.

Un’altra soluzione è sempre possibile ma, guai a dare un significato a questo Oder, a questa possibilità esclusa ma non eliminata.»

Una via d’uscita dalle determinatezze della nostra epoca è quindi possibile, probabilmente il punto di partenza è proprio la capacità di vedere oltre il presente. «Eppure la paura umana del nuovo è spesso grande quanto la paura del vuoto, anche quando il nuovo rappresenta il superamento del vuoto.»

Ho sempre trovato profondamente suggestivo questo passaggio dell’opera Terra e Mare.

Mi piace pensare, citando ancora una volta Carl Schmitt che «nella lotta più accanita fra le vecchie e le nuove forze nascono giuste misure e si formano proporzioni sensate.»

E. R «Non so se sensate, ma sicuramente nuove misure. Il passato dobbiamo considerarlo hegelianamente come la determinatezza della vita, di questo si tratta, d’altra parte esso corrisponde ad una complessità già ridotta. Il nuovo si pone in un rapporto di continuità e nello stesso tempo di rottura con il vecchio. Ogni epoca pensa se stessa come il superamento della precedente, vale per le epoche quello che vale per gli individui. Il rapporto giovane/vecchio è costruito sulla base della conservazione delle aspettative e della delusione che ne nasce. Ogni futuro sarà il passato di un futuro prossimo e a sua volta il passato è stato futuro di un passato; siamo di fronte ad un rapporto di inseguimento circolare.

Piuttosto mi colpisce un’altra dimensione della storia narrata da Nietzsche, quella secondo cui i primordi sono sempre possibili e mai come oggi ci troviamo di fronte a questa evenienza.»

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:

G. AGAMBEN, Stato di eccezione e stato di emergenza, Quodlibet, Macerata 2020.

W. BENJAMIN, Angelus Novus, Einaudi, Torino 2014.

W. BENJAMIN, Tesi di filosofia della storia, Mimesis, Sesto San Giovanni 2012.

H. KELSEN, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale. Contributo per una dottrina pura del diritto, Giuffrè, Milano 1989.

E. RESTA, L’ambiguo diritto, FrancoAngeli, Milano 1984.

C. SCHMITT, Le categorie del politico, Mulino, Bologna 2013.

C. SCHMITT, Ex captivitate salus, Adelphi, Milano 1987.

C. SCHMITT, Terra e mare, Adelphi, Milano 2002.

Fiori Vivi ringrazia:

Eligio Resta Giurista e Filosofo. Professore Emerito di Filosofia del diritto e Sociologia del diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi Roma Tre, già membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura, è autore di innumerevoli testi di grande pregio e articoli scientifici. Tra i suoi lavori ricordiamo Poteri e Diritti (Giappichelli 1996), L’infanzia ferita (Laterza 1997), Diritto fraterno (Laterza 2004), Il diritto vivente (Laterza 2008), Le regole della fiducia (Laterza 2011).

Favorita Barra Docente a contratto di Informatica giuridica presso la Link Campus University, e collaboratrice alla didattica del corso Diritto dell’amministrazione digitale presso la Luiss Guido Carli è attualmente consulente presso il FormezPA. Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Funzione pubblica.

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