Stupóre e Filosofia. Festival Treccani della lingua italiana.

Con interventi di Mario De Caro, Gabriele Pedullà, Gilda Diotallevi

Il 27 e 28 maggio 2023 si è svolta a Garbatella, precisamente a Piazza Damiano Sauli, la VI edizione del Festival Treccani della lingua italiana, ideato appunto dalla Fondazione Treccani Cultura, con la collaborazione dell’Università di Roma Tre e dell’VIII Municipio di Roma. Un appuntamento annuale, pensato per presentare i temi più rilevanti della costante ricerca di Treccani sulla lingua italiana, prestando attenzione al valore delle parole, come mezzo di espressione, di ragionamento e di confronto tra diverse posizioni. Quest’anno il Festival si concentrava sulla parola stupore.

Dopo una breve introduzione sul nesso tra stupore e filosofia, riportiamo un estratto delle lezioni di due grandi filosofi e pensatori italiani: Mario De Caro e Gabriele Pedullà.        

Introduzione. Solo lo stupore conosce

di Gilda Diotallevi

STUPORE s. m. [dal lat. stupor -oris, der. di stupēre «stupire»]. – 1. Forte sensazione di meraviglia e sorpresa, tale da togliere quasi la capacità di parlare e di agire. 2. ant. b. Stato di stordimento, conseguente a cause fisiche o morali. c. Intorpidimento delle membra, torpore fisico.

Se consideriamo lo stupore nella sua accezione di meraviglia è possibile rintracciare il suo legame con la conoscenza già all’esordio del pensiero filosofico.

«Gli uomini, sia nel nostro tempo che da principio, hanno cominciato a filosofare a causa della meraviglia, poiché dapprincipio essi si meravigliavano delle stranezze che erano a portata di mano.» (Aristotele, libro I, Metafisica)

«TEETETO: Per gli dèi, veramente, Socrate, io mi meraviglio enormemente per cosa possano essere mai queste visioni e talvolta, guardandole intensamente, soffro le vertigini. SOCRATE: Non mi pare, caro amico, che Teodoro abbia opinato male sulla tua natura. Si addice particolarmente al filosofo questa tua sensazione: il meravigliarti. Non vi è altro inizio della filosofia, se non questo, e chi affermò che Iride era figlia di Taumante come sembra, non fece male la genealogia.»(Platone, Teeteto, 155d)

Taumante richiama il verbo θαυμάζω, utilizzato sia da Aristotele che da Platone, a indicare come la meraviglia dell’inatteso e non conosciuto, fosse anche angoscia per l’ignoto. Il θαῦμα, nella doppiezza della sua semantica che involve la meraviglia e il timore, è il vero e proprio movente dell’esercizio della filosofia. Esiste una connessione quindi tra lo stupore e la tensione alla conoscenza. Solo lo stupore conosce, scriveva Gregorio di Nissa nel IV sec, come a significare che quel disorientamento improvviso dovuto allo stupore sia ciò che spinga a porre domande. Sullo sfondo dell’inconsistenza del sapere sorge quindi la domanda intorno al senso dell’essere.

Tale posizione è rimasta centrale per lungo tempo, facendo tornare filosofi come Kant, Heidegger o Florenskij per esempio, a riflettere su tale connubio.

Non è un caso che Heidegger, nel corso di lezioni del 1937-1938 sulle Domande fondamentali della filosofia, richiami i passi di Platone e Aristotele sopra citati e definisca lo stupore (Er-staunen), con cui traduce il verbo greco  θαυμάζω, come la tonalità emotiva fondamentale del primo inizio della filosofia. Secondo Heidegger i Greci attraverso lo stupore scoprono il manifestarsi dell’ente, il suo uscire dalla latenza della visibilità. Lo stupore perciò è, in un certo senso, esperienza dell’ἀλήθεια, un dispiegarsi della φύσις.

Lo stupore potrebbe allora dischiuderci ciò che è chiuso? (M. Heidegger, Colloqui su un sentiero di campagna 1944-1945)

«Lo stupore è il nocciolo della filosofia», scriverà più avanti Pavel Florenskij in Stupore e Dialettica. Lo stupore per il filosofo corrisponde sia alla sensazione di mistero che, generando la realtà, vi si manifesta integralmente e compiutamente: «[…] tutte le idee scientifiche che mi stanno a cuore sono sempre state suscitate in me dalla percezione del mistero.» Sia a quella meraviglia, di cui parla Aristotele, da cui scaturisce la vera conoscenza.  La ragione infatti permette un’apertura all’ignoto che, secondo Florenskij, può cogliere la vita del mondo, il significato ultimo, intuito ma mai afferrato, della realtà che viviamo e sperimentiamo ogni momento. 

Ciò su cui dobbiamo riflettere è se anche oggi siamo in grado di stupirci, se può dirsi ancora valido quell’antico connubio tra stupore e filosofia.

Per rispondere a questi e ulteriori quesiti, riportiamo alcuni passaggi di due illuminanti lezioni tenute in occasione del Festival Treccani.

FILOSOFIA, STUPORE E ALTRE COSE STUPEFACENTI

Mario De Caro

Il termine stupore è abbastanza peculiare, perché se si pensa alla sua radice semantica, che deriva da stupire, essa è all’origine di termini molto diversi tra loro. Da una parte stupefacente e stupendo, dall’altra stupido e instupidito. Ci dovremmo chiedere come mai la stessa radice dia conto di due situazioni così diverse. La ragione è che questo termine può essere visto da due punti di vista. Stupendo e stupefacente è ‘qualcosa’, stupito, instupidito è ‘qualcuno che vede quella cosa’, che la contempla. In questa luce si comincia a capire perché Platone, Aristotele, sia altri fino a Heidegger hanno detto che la filosofia inizia dallo stupore. Proprio perché la filosofia è intesa come la contemplazione dei misteri più profondi della realtà.

In questo senso quando ci troviamo a contemplare misteri insondabili restiamo attoniti ma anche instupiditi. In qualche modo l’idea originaria di Platone e Aristotele è ancora con noi. Ed è ciò che accade nella filosofia che, a differenza per esempio problemi scientifici che possono essere difficili, magari irrisolvibili, ma chiari, non risulta così. Pensiamo al libero arbitrio su cui, secondo molti, non abbiamo saputo elaborare nessuna concezione veramente convincente. Non esiste un’alternativa di soluzioni plausibili, ma siamo di fronte a un problema che sembra sfuggire a tutti i tentativi di concettualizzazione.

Quando Platone e Aristotele sostenevano che la filosofia originasse dallo stupore, dicevano qualcosa di diverso dalla filosofia contemporanea, perché al tempo non esisteva ancora una distinzione netta tra la filosofia, le scienze, la matematica, ma tutto era un continuum. Diventa difficile capire oggi come un antico si confrontava con la realtà. Per l’antico il mondo è diverso, è un mondo intrinsecamente valutativo. Per i contemporanei, da Galileo in poi, l’universo fisico è invece molto democratico, è isotropico, le proprietà dello spazio sono identiche, non ci sono parti privilegiate. Nell’antichità non era così, lo spazio era connotato assiologicamente, cioè da valori. Dante, per esempio, quando immaginava l’universo, considerava il centro della terra la cloaca dell’universo, in cui collocare il diavolo, perché essa era il punto più lontano dall’empireo, ovvero da quel luogo sopra la costellazione delle stelle fisse, al di sopra del quale ci sono le gerarchie angeliche fino a Dio. La terra è il punto più lontano da questo universo. Pur essendo una visione cristiana e distante da Platone e Aristotele, condivide però il fatto che l’universo fosse connotato con valori. Pensiamo appunto ad Aristotele secondo cui l’alto vale più del basso e intrinsecamente gli elementi più nobili, come l’aria, tendono verso l’alto, mentre quelli meno nobili, come la materia, tendono verso il basso. Ma non è solo questo.

C’è anche una corrispondenza tra le cose che il pensiero moderno ha sostanzialmente cancellato.  Mi riferisco, per esempio, al pensiero astrologico, secondo cui esistono corrispondenze tra la posizione degli astri rispetto alle costellazioni al momento della nascita di un individuo che svelano chi esso sia. Esistono cioè legami tra le cose che non sono di natura causale ma di somiglianza. Nella elaborazione che ha avuto più successo, l’astrologia, che è rimasta valida fino al Rinascimento almeno e all’inizio dell’età moderna, la nascita di un individuo avviene sotto una particolare configurazione dei pianeti, che provoca un particolare equilibrio dei quattro umori, dei quattro liquidi che abbiamo nel corpo, (sangue, flegma, bile rossa, bile nera) che fa di quella persona una certa persona particolare. Essi potrebbero essere visti come dei tentativi protonaturalistici, tesi a ricercare un senso e a fornire una spiegazione alla natura, al motivo del perché siamo diversi gli uni dagli altri; spiegazione rintracciabile nella corrispondenze tra le cose.

In fondo questo è anche l’assunto del pensiero magico, ovvero che ci siano segrete corrispondenze tra le cose, tra il microcosmo e il macrocosmo, tra noi e l’intero cosmo.

[…]Con la rivoluzione scientifica tutto cambia e qualcuno sostiene che finisca la capacità di stupirsi. Ma credo che questo non sia corretto. Non cambia così radicalmente il nostro atteggiamento stupefatto davanti alla realtà, almeno per chi si impegna a cercare di comprenderla.

Non ci sono più i nessi segreti fra le cose, le cause finali. Secondo Aristotele per esempio se un corpo cade, non è perché esiste un’attrazione di gravità ma perché è nella sua natura tendere al basso, se è una cosa materiale. O il fuoco va verso l’alto, proprio perché è nella sua natura.

Tale mentalità è valsa in biologia fino a Darwin, dopo di lui invece si è cominciato a credere che gli organismi non tendessero più a qualcosa. In biologia, come era avvenuto nella fisica con la rivoluzione galileiana e newtoniana, spariscono le cause finali. Ci sono solo le cause efficienti. Qualcosa accade perché è determinato da qualche altra cosa, secondo le leggi di natura: viene in evidenza il meccanismo.

Non ci sono più le cause finali, le corrispondenze tra le cose e non c’è più, nei pensatori religiosi e nei filosofi l’intrusione di Dio quando si tratta della realtà terrena. Non si è più spiegato un fenomeno terreno con l’intervento divino. Dio, per chi crede, sovrintende a un mondo diverso dal nostro. In qualche modo possiamo affermare che la filosofia si è naturalizzata, ha perso i valori e forse anche i significati; prima la nostra esistenza era legata a un ciclo vitale di natura complessa, ora è una questione naturalistica.

Ma in tal modo, per utilizzare un termine di Max Weber, l’uomo risulta disincantato? Non c’è più quell’incantamento che ci stupefaceva, perché non c’è più quel misterioso rapporto tra le cose che si somigliano. Tutto è retto da meccanismi di causa ed effetto. Ma allora non c’è più da stupefarsi?

Io non lo credo, ma non lo credeva neanche Kant che nel Settecento, ben consapevole della rivoluzione scientifica e pur avendo aderito al newtonianesimo, scrive un passo famosissimo nella Critica della ragion pratica,

«Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me.»

Dividiamo il discorso in due parti:

Il cielo stellato, anche se non più fatto da sfere mobili mosse da gerarchie angeliche, è comunque qualcosa che ci lascia attoniti, stupiti. […]Kant parlava, in senso tecnico, di sublime, quando contemplando la natura e ci rendiamo conto della nostra piccolezza.

Se guardiamo il mondo senza preclusioni e senza barriere ideologiche ci rendiamo conto di quanto il mondo sia stupefacente, pensiamo alla relatività e al modo in cui ha cambiato la nostra concezione del tempo. O che nella meccanica quantistica si dicano cose incredibili, tipo che due particelle subatomiche che entrano in contatto, due elettroni ad esempio, anche quando si allontanano continuano a comunicare. Sembra proprio che si ritorni al vecchio legame intrinseco tra le cose. Si dice infatti che se qualcuno pensa di aver capito la meccanica quantistica allora non l’ha capita. Perché capire significa legare questa disciplina alle intuizioni chiare e distinte del pensiero comune. E questo è infinitamente difficile. Il mondo non sarebbe più deterministico, ovvero che ciò che avviene sia determinato dal passato secondo le leggi della natura. A livello subatomico non sarebbe così. Ciò che avviene, avviene perché era provabile in una certa misura ma sarebbe anche potuto non avvenire. Non è determinato.

Ieri ero a un convegno a Taormina parlavo del libero arbitrio insieme a Roger Penrose, premio Nobel per la fisica nel 2020. E Penrose sostiene proprio ciò, che il nostro libero arbitrio dipende da quei misteriosissimi fenomeni dell’indeterminismo quantistico. Se si guarda alla scienza i misteri che ci possono stupire sono infiniti.

Ma poi Kant parla della legge morale dentro di noi e il discorso si complica. Kant è un pietista (una forma di puritanesimo religioso che viene dal protestantesimo) e crede fermamente che le leggi morali siano scritte dentro di noi in modo chiaro. L’imperativo categorico è qualcosa che chiunque voglia prestare attenzione non può non notare. Abbiamo dei doveri che sappiamo essere assolutamente vincolanti. Una posizione, la sua, a sostegno dell’etica deontologica.

Perché però si stupisce? Perché non c’è più una chiara origine religiosa. Kant tenta allora un’altra operazione, un’analisi trascendentale. (Quando vedo gli altri non posso non capire che alcune volte si comportano bene e altre male. Non posso non attribuire loro una responsabilità che oggi diremmo morale. Nel film Schindler’s List, il capo dello sterminio di Auschwitz è razionale, ha il controllo delle sue azioni, ma è un sadico che usa la sua empatia per godere della sofferenza altrui. Per Kant quella persona non obbedisce all’imperativo categorico e il filosofo non ha nessun problema a condannarlo.)

Ma esiste anche un’altra posizione contrapposta a Kant e alla sua legge morale che ci stupisce ovvero una forma radicale di relativismo morale, di chi sostiene che non esista una etica oggettiva. Quando cioè si sostiene che qualcosa è ingiusto, si sta in realtà solo esprimendo una preferenza. Non è cioè possibile dimostrare che Göth (per rimanere all’esempio del film di cui sopra) fosse moralmente in errore, così come si dimostra che i corpi cadono secondo la legge di gravità. Non c’è alcuna valenza oggettiva delle nostre tendenze morali. Questa è una forma di relativismo morale molto diffusa che però ci rende un po’ incapaci di comprendere la realtà. Il discorso di Kant si complica, perché si dovrebbe dimostrare che esistono dei principi universali e contemplarli con ammirazione e meraviglia. Ma è cosa davvero complessa.

Vorrei ora parlare un altro aspetto, di cui lo stesso Kant parla, ovvero dello stupore che viene dall’arte, però legandolo alla morale. Kant si riferisce al sublime naturale, ma esiste un’altra forma di sublime legata alla grande arte. Se pensate a Stendhal, quando si reca in Italia e si trova di fronte le opere che aveva visto solo riprodotte ha dei mancamenti (la sindrome di Stendhal).

Succede che la grandezza dell’arte ci ricorda che esiste qualcosa di enorme che siamo in grado di fare e che ci sopravviverà sfidando la grandezza della natura.

Per approfondire questo punto mi servirò della forma d’arte più influente dell’ultimo secolo, il cinema.

Quando assistiamo a un’opera cinematografica ben riuscita ci succede una cosa strana, immediatamente ci dimentichiamo la finzione. Pensiamo al cosiddetto paradosso dell’orrore, noi ci spaventiamo mortalmente, rimaniamo paralizzati, pur sapendo che è finzione. Perché ci stupefacciamo? È una strana forma di identificazione.

Se però andiamo sul piano morale le cose si complicano. Se anche assumessimo come vera la posizione di Kant sulla legge morale, succede che a volte al cinema ci affezioniamo a caratteri moralmente negativi. Parteggiamo per i cattivi. Cosa succede?

Per rispondere dobbiamo prima brevemente inquadrare la questione della rappresentazione del bene e del male al cinema. C’è tutta una fase aurea del cinema, in particolare di Hollywood, almeno fino agli anni ’60 in cui risulta lampante chi sia il buono (Hero) e chi il cattivo (Villain).Per esempio i film Western classici presentano questa chiara contrapposizione tra l’eroe (Henry Fonda, John Wayne, Gary Cooper) che generalmente lo è perché non è vigliacco e affronta da solo il cattivo che lo è lo radicalmente, irrimediabilmente. Anche esteticamente sono facilmente identificabili (i cattivi sono brutti, ubriaconi, senza barba fatta).

Ma il cinema va avanti e comincia a emergere una figura nuova, quella dell’antieroe, che ha cioè degli aspetti più umani rispetto alla figura dell’eroe classico che non ha mai paura. Ha delle debolezze. Penso a James Stewart che in alcuni film di Alfred Hitchcok (L’uomo che sapeva troppo, La finestra sul cortile o La donna che visse due volte) ha paura, in Vertigo si paralizza, è eroe per caso.

Oppure a Humphrey Bogart in Casablanca con i suoi molti aspetti negativi. Per la prima metà del film è scontroso, poco generoso, tratta male tutti, incontra l’amore della sua vita che gli chiede di andare a cena e lui risponde “non faccio mai piani a così lunga scadenza”. Invece poi si dimostra l’eroe che è. Forse parteggiamo per lui ancora di più, proprio per le sue debolezze.

Mi piace citare anche un altro esempio, del cinema italiano però. Ne Il Sorpasso di Dino Risi il personaggio di Bruno Cortona, magistralmente interpretato da Vittorio Gassman è megalomane, chiacchierone, profittatore, ha molti difetti, ma ti accorgi alla fine della sua fragilità, che è sostanzialmente buono e infelice e finisci per parteggiare con lui, l’antieroe, con un trasporto emotivo.

Però, già alla fine degli anni ’50, emerge un’ulteriore categoria, il Rough Hero, che nel libro che ho scritto con Terroni (Valori al cinema) abbiamo chiamato l’eroe brutale, l’eroe cioè cattivo, che ha dei tratti negativi tali da non poter essere definito buono e tuttavia patteggiamo per lui. Potrebbe essere per esempio Michael Corleone, ovvero Al Pacino ne Il Padrino parte I e II, è un personaggio affascinante ma negativo. Allora perché ci attrae?

Secondo la teorica americana Ann Wescott Eaton, questi personaggi ci attraggono, nonostante siano assolutamente irredimibili, e ci identifichiamo con loro perché capaci di illuminare quella parte negativa di noi, quella parte brutale che teniamo nascosta. Come diceva Freud la civiltà serve a questo, a contenere le nostre pulsioni negative, ma quando le vediamo rappresentate al cinema allora simpatizziamo con questi personaggi perché parlano di noi e di queste tendenze intrinseche.

Secondo Eaton, Alex il protagonista di Kubrick di Arancia Meccanica appartiene a questa categoria.

Alex è molto intelligente, è sensibile, apprezza moltissimo, in un clima di degenerazione culturale umana, la musica di Beethoven, apprezza la grande arte, sa cogliere il bello. Allo stesso tempo però usa la sua intelligenza per orchestrare crimini tremendi, ruba, tortura, violenta, uccide e gode nel farlo. Secondo la Eaton noi simpatizziamo per lui perché appunto è capace di illuminare quella parte di nascosta di noi.

Credo che, soprattutto rispetto a questo personaggio, non sia così e che Arancia Meccanica non voglia dire questo. Noi simpatizziamo per una ragione diversa.

A un certo punto Alex viene condannato a 15 anni di carcere, simula di essere diventato buono e gli si presenta un’occasione. Viene a sapere di una terapia sperimentale chiamata Ludovico, in cui si inducono alcuni condannati a diventare persone diverse. Vengono indotti a vedere immagini violente per giorni, senza possibilità di distogliere lo sguardo al punto da avere ripugnanza per il male. Allo stesso tempo però queste immagine sono accompagnate dalla musica di Beethoven (che potrebbe avere un senso rispetto a questa terapia perché a un certo punto si vedono le immagini dei nazisti che consideravano Beethoven come un antesignano della grandezza tedesca.) Alex si sottopone a questa cura ed esce dal carcere impossibilitato a fare il male; appena cerca di aggredire, di insultare qualcuno ha un incredibile senso di nausea e non può fare nulla. Ma la stessa cosa gli succede quando sente la musica che prima tanto apprezzava, non riesce più ad apprezzarla. Metafora fortissima che viene chiarita in due dialoghi centrali nel film tra un bislacco cappellano della prigione, che Kubrick stesso definisce il personaggio positivo, e Alex. Quando Alex gli chiede di essere sottoposto alla terapia, alla fine della quale prevedeva la scarcerazione, il prete gli dice che però in quel modo sarebbe diventato una macchina per fare il bene. Non riuscendo più fisicamente a fare il male, gli dice, agirai meccanicamente nel fare il bene, perdendo la capacità di scelta. Perderà il libero arbitrio. E ciò vuol dire perdere l’umanità, perdere ciò che ci rende umani, la possibilità di scegliere di essere buoni. La morale disturbante di questo film ci dice che è preferibile Alex quando è sadico e cattivo che quando diventa una macchina per fare il bene, perché perdendo la libertà, anche di fare il male, perde anche quella di fare il bene. Il male è il prezzo che dobbiamo pagare per avere la possibilità di fare il bene, senza libero arbitrio non sarebbe il bene.

Quindi noi non ci identifichiamo con Alex per quegli istinti brutali che abbiamo nascosti in ognuno di noi, ma perché esprime quella idea del libero arbitrio.

Alex rappresenta la dualità, è cattivo, perfido ma è anche in grado di apprezzare il bello, l’arte perché può scegliere, ma dopo perde tutto, non può neanche più apprezzare il bello.

Una persona pur malvagia, proprio perché dotata di libero arbitrio, ha la capacità di scegliere il bene, di redimersi. Perciò, secondo il mio parere, quando ci identifichiamo nel personaggio cattivo di un film, come in Alex, è perché speriamo che per quel personaggio, potenzialmente, si possa aprire un futuro diverso. Che abbia dentro di sé qualcosa di bello che possa dare una svolta alla sua vita, che quindi sia redimibile.

Speranza che non riguarda solo il singolo ma l’umanità intera, che possa avere un futuro migliore.

BELLEZZA E STUPORE

Gabriele Pedullà

Qual è il ruolo dello stupore quando incontriamo qualcosa che ci appare bella?

Partirei da alcuni pensatori antichi che si sono interrogati sul ruolo dello stupore, della meraviglia e che non si sono posti in particolare il problema della bellezza, ma che ci aiutano a inquadrare il problema.

Platone, dal Teeteto: «Ed è proprio del filosofo questo che tu provi, di essere pieno di meraviglia, né altro cominciamento ha il filosofare che questo.»

Aristotele, «gli uomini hanno cominciato a filosofare ora, come in origine, a causa della meraviglia.»

Quel non comprendere, il trovarsi di fronte a fenomeni misteriosi, mette in moto il desiderio di sapere. C’è un’altra citazione autorevole «evita di meravigliarti», che sembra in qualche modo entrare in tensione con quello che dice Aristotele, quella del grande filosofo epicureo e poeta romano Lucrezio che, diverse volte nel suo capolavoro, il De rerum natura. Gli studiosi di Lucrezio dicono che questa espressione si ripete perché il poema è incompiuto, non avendo perciò l’autore fatto in tempo a eliminare le ripetizioni.

Ma perché evitare di meravigliarsi? Si capisce che Lucrezio ha risolto le grandi questioni esistenziali, non è più il momento di meravigliarsi per coloro che sono stati illuminati dalla dottrina epicurea e hanno affrontato gran parte delle questioni e anche delle paure che attanagliano gli uomini.  Se il sapere nasce dallo stupore, quando il sapere è stato raggiunto, è del tutto inutile continuare a stupirsi.

Le due posizioni, quella di Platone e Aristotele da un lato e quella di Lucrezio dall’altro non sono perciò incompatibili ma mostrano comunque una tensione sulla utilità o inutilità dello stupore.

Nel tempo infatti lo stupore sarà visto sia come pericolo, rischio che come spinta.

Spostando il discorso su questioni più prettamente estetiche, vorrei partire da una prospettiva quanto più ampia possibile. Mi rifaccio a quella branca dell’antropologia che si interessa dell’estetica delle popolazioni isolate dall’occidente, che studia come si formano i loro valori rispetto alla bellezza. Secondo gli antropologi ci sono tre qualità universali, molto diffuse, della bellezza in queste culture: la simmetria delle forme, la luminosità del materiale, la grandiosità delle dimensioni.

Se noi guardiamo queste tre qualità, simmetria, luminosità, grandezza dal punto di vista dello stupore, ci accorgiamo che la simmetria è un fattore molto comune in natura, che perciò non desta tanta meraviglia, piace ma non è così particolare, è un ordine a cui siamo abituati. Diversa è però la posizione della seconda qualità, la luminosità del materiale, la luce che accompagna le nostre vite ha il potere di meravigliarci e l’apprezzamento per la luminosità coincide spesso con la meraviglia. Questa è una cosa che sanno molto bene i leader politici e religiosi, da sempre, la cosiddetta magnificenza dei sovrani: la lunga tradizione del potere europeo ha spesso a che fare con la luce. La luce serve a persuadere di una superiorità, con argomenti che non sono razionali, contribuisce ad attribuire autorevolezza alle persone, alle cose, è una sorta di attributo del divino e spesso del potere.

(Pensiamo alla Cupola della rocca a Gerusalemme, con la sua cupola interamente d’oro, al Buddha d’oro, la più grande statua d’oro che esiste al mondo del XIII XIV sec, o all’effetto che suscitava la vista delle armi di bronzo sfilare sotto il sole di Roma, come simbolo della protezione degli dei.)

Passiamo ora al terzo elemento, le dimensioni. Il modo migliore per evidenziare il rapporto tra dimensioni ed esperienza della meraviglia basta riportare alla mente la tradizione classica con le sette meraviglie del mondo: la piramide di Cheope, i giardini pensili di Babilonia, la statua di Zeus a Olimpia, il tempio di Artemide a Efeso, il colosso di Rodi, il museo di Alicarnasso e il Faro di Alessandria. Le sette meraviglie dell’antichità sono necessariamente grandi e luminose. Producono stupore per l’impresa delle loro realizzazione e rimandano all’idea del potere.

Grazie allo stupore, a volte, le dimensioni bastano da sole a prescindere dalla qualità architettonica della costruzione, come se esse fossero già di per se stesse significative. Il modo migliore per illustrarlo è con l’architettura americana tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. (Quartiere di Soho, palazzi di mattoni a cui si attaccavo strutture di ghisa, secondo una concezione neoclassica. Sono alti otto, nove piani. L’effetto è di una architettura estremamente convenzionale ma nel momento in cui passa in una riproduzione a scala superiore diventa qualcosa di molto diverso, già le dimensioni trasformano un’architettura banale in qualcosa di sorprendente da un punto di vista estetico)

Vorrei passare a un’altra questione, e parlare del fatto che esistono vere e proprio culture dello stupore. Non tutte le culture della nostra tradizione occidentale hanno scommesso altrettanto sul momento della meraviglia. Ma quella che l’ha fatto più di tutte è senza dubbio il barocco. E famosa rimane la dichiarazione di Giambattista Marino, massimo tra gli esponenti della poesia barocca

«È del poeta il fin la meraviglia, parlo dell’eccellente e non del goffo/chi non sa far stupir, vada alla striglia!»

Tale stupore si ottiene in modi molto diversi. Per esempio parlando attraverso metafore per descrivere in maniera inaspettata elementi semplici. (Un esempio Il canto dell’Usignolo dall’Adone di Marino, per altro uno dei poemi più lunghi della letteratura italiana, in cui un usignolo viene definito atomo sonante, voce pennuta, piuma canora, canto alato).

Ma anche fuori dalla letteratura, con la Galleria di Palazzo Spada, uno degli esempi maggiori di illusione ottica che gli specialisti chiamano prospettiva accelerata, quando cioè con un pavimento in salita e un soffitto in discesa si riesce a far sembrare di grandi dimensioni qualcosa che non lo è (la statua centrale di questa galleria alta circa 60 cm appare a grandezza naturale).

Questo mi porta a riflettere e a volervi far riflettere sulle illusioni della vita terrena e quindi sul un richiamo alla morte, aspetto tipico della cultura barocca. Pensiamo ai fuochi d’artificio, amatissimi in quel periodo, capaci di trasformare la notte in giorno, di creare un incontro di estremi opposti, di riempire il cielo di fuoco e di vita ma destinati a esaurirsi brevemente perché straordinariamente effimeri.

Un buon esempio degli artisti che si confrontano con la morte per generare la meraviglia potrebbe essere l’acrobata Philippe Petit che il 7 agosto 1974 compì un evento spettacolare passeggiando tra i campanili della cattedrale di Notre-Dame su un filo che univa le due parti, senza protezione. E più avanti anche tra le Torri Gemelle di New York, dalla cui performance hanno anche tratto un film.

Un tratto dell’arte che stupisce, a livello estetico, è la paura che non duri, che accada qualcosa a interromperlo. Perché quest’arte è troppo grande e troppo ardita e potrebbe fallire da un momento all’altro.

Vorrei fare un esempio letterario. Nel 1969 il francese Georges Perec pubblicò La Disparition, un romanzo di 300 pagine, non utilizzando mai la lettera e. In realtà la lettera e è molto più preziosa in francese che non in italiano.

Qualche anno dopo scrisse un altro libro, Les Revenentes, utilizzando solo la vocale e, ma anche qui il gioco rimanda ad altro, a un proprio al ricordo d’infanzia in cui racconta indirettamente dei genitori morti nella seconda guerra mortale. Nella dedica sul libro troviamo Per la lettera E. La lettera e, in maiuscolo, che aveva cancellato nel primo libro e che poi torna nel secondo, suona in francese come loro, ovvero i genitori a cui si rivolge il libro senza parlarne. Forse quando rintracciamo questo indizio, capiamo che la storia che ha raccontato su una delle più grandi tragedie, la seconda guerra mondiale, cammina sull’abisso e gioca, con lo stupore, per parlarci della morte.

Fiori vivi ringrazia:

Treccani cultura www.treccani.it/cultura;

Mario De Caro: filosofo italiano, professore di filosofia morale presso l’Università Roma Tre. Dal 2000, insegna anche presso la Tufts University, dove è regolarmente Visiting Professor. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Il libero arbitrio, Laterza 2004; Realtà, Bollati Boringhieri 2020; Le sfide dell’etica, Mondadori 2021; I Valori del cinema. Una prospettiva etico-estetica, (con Enrico Terrone), Mondadori 2023.

Gabriele Pedullà: critico letterario, critico cinematografico e saggista italiano. professore ordinario di Letteratura, Letteratura contemporanea comparata e presso l’Università Roma Tre. Autore di diversi libri di saggistica, con Sergio Luzzatto ha curato l’Atlante della letteratura italiana (Einaudi 2010-12). Tra i suoi libri ricordiamo inoltre Lo spagnolo senza sforzo (Einaudi 2009), Lame (Einaudi 2017) tradotto, o in corso di traduzione, in sette lingue. Biscotti della fortuna (Einaudi 2020).

La libreria Le Storie www.lestorie.it per averci ospitati nei due giorni del Festival della lingua italiana.

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