Camaleonti a Taormina: Truman Capote secondo Piero Melati

Piero Melati e Marco Steiner

In occasione della presentazione del libro di Piero Melati Il viaggio del Camaleonte, l’autore ci offre un ritratto inedito di Truman Capote, puntando lo sguardo su una traccia che pare sfuggita alla sua stessa biografia.

Piero Melati ne discute con Marco Steiner, direttore della collana di viaggio e avventura Zefiro, per la casa editrice Le Storie.

M.S «Vorrei riportare alla mente una bellissima poesia di Ghianni Ritsos, Rinascita, che meglio di altro spiega il senso della collana Zefiro, che dirigo. L’augurio infatti è che rinasca qualche goccia di letteratura, di avventura, capace di farci respirare, di essere per noi tutti una boccata d’aria.

Da anni più nessuno si è occupato del giardino. Eppure quest’anno – maggio, giugno – è rifiorito da solo, è divampato tutto fino all’inferriata, – mille rose, mille garofani, mille gerani, mille piselli odorosi – viola, arancione, verde, rosso e giallo, colori – colori-ali; – tanto che la donna uscì di nuovo a dare l’acqua col suo vecchio innaffiatoio – di nuovo bella, serena, con una convinzione indefinibile. E il giardino la nascose fino alle spalle, l’abbracciò, la conquistò tutta; la sollevò tra le sue braccia. E allora, in pieno mezzogiorno, vedemmo il giardino e la donna con l’annaffiatoio ascendere al cielo – e mentre guardavamo in alto, alcune gocce dell’annaffiatoio ci caddero dolcemente sulle guance, sul mento, sulle labbra.

Per parlare del libro di Melati partirei dall’Incipit:

Il tre aprile del 1950 lo scrittore di New Orleans Truman Capote era ben intenzionato a prendere il treno che da Catania lo avrebbe portato a Taormina. Ma non ci riesce. Lui e Jack Danphy, anch’esso autore, suo compagno di vita e soldato combattente in Francia nella recente guerra, si sono portati dietro il grosso e amatissimo bull terrier Kelly. Così li hanno fatti scendere in malo modo dal vagone. Niente cani sul treno. Non si può raggiungere Taormina-Giardini, una delle mete principali della linea Messina-Siracusa, con un animale. Troppo disturbo per turisti e viaggiatori. La pittoresca coppia di americani, con occhiali da sole, camicie sgargianti, valigie, e soprattutto con l’impiastro canino al seguito, dovrà attendere una tratta merci, per raggiungere infine la meta. Poco male. Il bull terrier saltella in giro lungo la stazione e Truman sorride. Vada pure per la tratta merci, dove viaggiano insieme bestie e contadini.

Piero, cosa hai raccontato in questa storia?»

P.M «L’incipit che hai appena letto è dedicato al concetto di discriminazione. Truman Capote è famoso per essere lo scrittore più superficiale di fine Novecento. Di lui si sa infatti che amava il gossip, frequentava i salotti, non si interessava di nessuno, pensava solo a se stesso, alla sua carriera e a vendere libri. Non dico che non sia vero, perché l’uomo interpreta, rappresenta, quello che accade nella sua epoca, ma c’è anche qualcosa di più. È nel 1950 che muove i suoi primi passi, la seconda guerra mondiale è finita da cinque anni e si è ancora sotto l’anatema del filosofo Adorno che sosteneva che dopo i campi di concentramento, dopo ciò che era successo, non c’era più nulla da dire. (Nel 1949 in Critica della cultura e società Adorno sostiene infatti che […] scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie o ancora in Metafisica che tutta la cultura dopo Auschwitz è spazzatura). Capote la pensa in modo opposto. Interpreta quell’idea che a fine secolo, a fine Ottocento, ci ha lasciato Nietzsche: sono crollati tutti i valori, è morto dio, non abbiamo nulla a cui credere. In qualche modo fa suo, e questo è un modo di leggerlo differentemente, ciò che aveva detto Nietzsche, ovvero che non c’è altro modo di vivere se non nella superficie delle cose. Nella realtà del mondo non ci sono mondi più alti da inseguire, realtà eteree, altri universi, idee platoniche o forme di vita dopo la morte. C’è solo la superficie del divenire e solo in essa possiamo vivere. Quest’uomo riesce a interpretare questo sentimento. Davvero non credeva in nulla, era un bugiardo, un impostore che pensava solo a se stesso, ma interpretava e incarnava quel preciso spirito. Non esiste nulla fuorché questa superficie dove siamo comunque costretti a vivere, ma qualche cosa dobbiamo fare, e lui comincia a costruire quello che sarà il suo universo. Nel libro che ho scritto, Il Viaggio del Camaleonte, vengono tratteggiati proprio i suoi primi passi letterari. Quando deve uscire A Sangue freddo, il suo capolavoro, (in cui inventa un genere, il giornalismo letterario, prendendo un fatto reale per raccontarlo come fosse letteratura, mettendo in fila i fatti così come sono accaduti), per lanciare il libro organizza una festa in maschera, che chiamerà ‘Black and White’, in cui tutti sono costretti ad andare mascherati. (Esiste una famosa foto in cui la coppia degli Agnelli, Mariella e l’avvocato Gianni vanno mascherati, perché ci si doveva andare alla festa di Capote!) Riesce a organizzare questi salotti in cui accorre il vippaio più famoso di quel tempo.

Ed è strano che da tutto questo derivi comunque una riflessione sulla discriminazione, che lui stesso subisce proprio prima di arrivare a Taormina: non può andare in treno col suo cane. In quel periodo stava girando il mondo, era stato a Ischia, a Tangeri, a Parigi, e pensa che Taormina sia solo un’altra tappa del suo trottare. Ha già pubblicato il suo primo libro, sta scrivendo il secondo e si sta solo chiedendo bene cosa farne.

Apriamo una parentesi su questa discriminazione. Truman è famoso anche per avere seguito per la prima volta una compagnia di teatro americana che andava in Unione Sovietica. Ci scriverà un lungo reportage Si sentono le muse del 1959. È la prima volta che si apre una porta durante la guerra fredda e quindi gli americani si riuniscono, a livelli diplomatici elevatissimi, per gestire questo viaggio e la prima questione che si pongono è: «ma se i russi ci cominciano ad accusare di trattare male i neri, che siamo razzisti, noi cosa rispondiamo?» Truman annota queste riunioni, fregandosene altamente di rispettare il protocollo diplomatico e mettendo un po’ in ridicolo il loro tormento. Quando infine la carovana parte c’erano attori neri, perché prima questa rappresentazione, tratta da Gershwin, era interpretata da bianchi dipinti di nero. (Portata in teatro da Cab Calloway ebbe grade successo, sdoganando la possibilità negli anni cinquanta per gli attori neri di calcare il palcoscenico.) Però lui nota un’altra cosa, questo treno che parte dall’Europa ha qualcosa di strano. Tutti viaggiano assemblati, tranne lo sceneggiatore, che dovendo ultimare le ultime scene è in un vagone da solo, e la vedova Gershwin che ovviamente viaggia insieme a Capote su un intero vagone a parte. E da lì lui comincia una riflessione sul concetto di discriminazione che svilupperà nel secondo libro L’arpa d’erba, che scriverà dopo il suo viaggio in Sicilia, sostenendo che forse per razzismo, forse per differenza di classe o per altro, ma questo problema si ripresenta sempre, costantemente, ciclicamente nella storia degli uomini. E che c’è un solo posto in cui lui è riuscito a superarlo, la casetta sull’albero.

Questa casetta sull’albero è un’immagine che a lui viene dall’infanzia, di cui parlerà nel suo secondo libro e che userà per farsi confessare dai due detenuti di A sangue freddo tutto su quella strage immotivata. Capote convincerà i due autori del crimine a confessare dicendo loro che era come se stessero insieme su una casa sull’albero. La casetta è un episodio vero della sua infanzia, legato a questo paesino di seimila abitanti in Alabama e in particolare a un’altra grande scrittrice che lo accompagnerà nella raccolta dei documenti che serviranno per la stesura di A sangue freddo, Harper Lee. (La prima cosa che mi ha davvero colpito è come sia possibile che da un buco di città del genere siano usciti due dei libri più famosi dell’ultima parte del Novecento, ancora oggi venduti e studiati. Il buio oltre la siepe e A sangue freddo.) Fisicamente lui e Harper Lee sono stati in quella casetta sull’albero, se la ricorda, anche se l’aveva completamente rimossa, proprio in questo viaggio in Sicilia che crede sia solo l’ennesima tappa del suo viaggio e dove invece inciamperà in un nuovo se stesso.»

M.S «Passiamo a un altro aspetto. Continuo a leggere il testo di Melati:

Sono alto come un fucile e altrettanto rumoroso», diceva. Sa di avere per gli scandali un imbattibile talento, tagliente come lama di rasoio, che affinerà negli anni. E poi, adesso ha un altro piano: determinato com’è a farsi largo nel mondo delle lettere, è partito per quella lontana, esotica isola soprattutto sulle tracce di una suggestione erotico-letteraria. Vuole toccare il grande romanziere francese André Gide, habitué della perla del Mediterraneo, che a sua volta aveva intrecciato la sua vita con quella di Oscar Wilde, che a sua volta ancora aveva visto da vicino Marcel Proust.

Già da quanto letto si nota come tu abbia citato altri libri. Il viaggio del camaleonte ha una caratteristica ben precisa, è una fonte di curiosità ed è un viaggio nei libri.

Vogliamo parlare dei libri che parlano di altri libri, proprio come il tuo?»

P.M «Truman va a Taormina esattamente per questo, sa che Andre Gide va sempre lì, è il periodo dei Grand Tour e degli scandali, da Tangeri a Taormina da Tennese Williams in giù fanno scandali uno dopo l’altro, li cacciano regolarmente dagli alberghi. Andrè Gide in particolare era definito il terrore delle cinque, perché a quell’ora scendeva dall’albergo e andava in cerca di ragazzi. Interessante, per inquadrare il personaggio, pensare a come scendeva dall’albergo, con un cappotto di lana si sedeva sul muretto della spiaggia e beveva acqua di mare. Truman arriva a Taormina che non crede proprio in nulla e in nessuno, almeno in apparenza. Però crede al proprio successo letterario e,  in quel mondo privo di valori, si chiede perché mai lui non debba fare successo. Intercetta qualcosa di importante, capisce la potenza del cinema. Hollywood è esplosa in quegli anni, lui c’è stato e parla di una Los Angeles capace di aprire le porte del paradiso. Capisce che non c’è più la vecchia aristocrazia che fino all’Ottocento, in qualche modo, era rimasta in piedi. Al suo posto c’è una nuova aristocrazia, battezzata da Andy Warhol quando, in occasione della sua prima mostra, dirà che la gente non sarebbe andata a vedere le sue opere ma lui. Ed è ciò che Capote comprende e fa suo, il singolo artista diventa il protagonista, non importa cosa fa.

Capote è uno scrittore di talento ma senza arte né parte, non è un uomo colto, per nulla. È un trovatello abbandonato dai genitori e adottato dalle zie in quel piccolo paese dell’Alabama, dove conosce Harper Lee. Però il primo libro è andato bene, anche se i critici lo accusano che sia solo merito della sua foto di bel ragazzino biondo lascivo nel retro della copertina. Pensavano che non fosse letteratura, ma la messa in vendita delle sue perversioni, che si fosse fatto fotografare in quella maniera per occhieggiare a quei mondi. Capote fa finta di lamentarsi di questo ma in realtà non gliene importa nulla. Però capisce che può appropriarsi di un patrimonio letterario importante. Di Gide nelle lettere parlerà malissimo, perché Capote non credeva neanche ai suoi miti, e si riferirà a lui come a un vecchiaccio con la finta moglie laida, sicuramente non padre della figlia che la moglie avrà fatto con chissà chi. Insomma dirà delle cose pestifere. Però Gide è Gide, è un premio Nobel della letteratura. Ed è l’uomo che a Tangeri, secondo i suoi stessi scritti, è stato iniziato ai riti omosessuali con i ragazzini da Oscar Wilde in persona. E Oscar Wilde a sua volta è andato fisicamente a trovare Proust, l’autore de Alla ricerca del tempo perduto. Truman vuole essere il loro erede, il loro discendente, e per questo motivo vuole andare a conoscere Gide. Pensa perciò di rimanere in Sicilia pochissimo, giusto il tempo di vedere questa vecchia ciabatta, ma lì comincia a succedere qualcosa di strano, perché dai libri si può inciampare in altre faccende.

Come prima cosa va a stare in una splendida villa a Fontana Vecchia, a Taormina, che è un nido d’aquila, elevatissimo, da cui si vede tutta la costa del Catanese. In questa villa, che non ha acqua, luce, gas, scopre che vi aveva abitato Lawrence quando raccontò L’amante di Lady Chatterley. Scopre che quella storia era vera, non era finzione letteraria. Il povero Lawrence aveva assistito al rapporto tra sua moglie e questo scugnizzo, un contadino siciliano. E proprio lì cominciano a succedere una serie di cose. Intanto gli viene una suggestione di tipo giapponese, perché in questa casa senza nessuna comodità si sente trasportato in una specie di mondo primitivo, in cui si mangia nelle ciotole e la luce è fatta di candele. Comincia a leggere Tanizachi, che nel suo Libro d’ombra racconta di come gli occidentali siano pazzi a usare le luci, perché così tutti gli ambienti sembrano ospedali. Mentre invece se li illumini con una candela è tutta un’altra storia, vedi le ombre.

Poi comincia a sentire il canto dei siciliani quando fanno la mietitura e lui lo racconta come un’ossessione. «Di notte non dormivo. Questo canto mi ossessionava, non riuscivo a staccarmene, mi sembrava una vita oltre la vita.» Una affermazione quasi mistica per uno che non crede in nulla.

Gli tornano in mente le immagini della sua infanzia, descritte da Harper Lee all’inizio de Il buio oltre la siepe. L’autrice racconta l’arrivo nel suo paesino di questo ‘Merlino tascabile’, di questo piccoletto che sembrava un fucile impazzito che si avvicina alla sua cerchia di amici dicendo di aver visto Dracula. Tutti i ragazzini del posto rimangono sconcertati. Ma questo lo fa diventare famoso e spinge quella ciurma di amici, che intanto non leggeva più topolino e non guardava più i cartoni animati, a vedere i mostri, a vedere Dracula. Secondo Capote c’era stato uno spostamento del mostruoso dal politico e dal sociale, dai campi di concentramento nazisti alla vita privata. Perché questa è poi la strada che seguirà in A sangue freddo. I killer ormai ti bussano alla porta e tu, ignaro, sei disposto ad aprire e a far entrare i mostri.  E proprio grazie a questa idea si svilupperà anche tutta la storia del libro di Harper Lee, incentrata sullo stesso problema della discriminazione, perché il gruppo di ragazzini va a caccia di un mostro, di qualcuno cioè che non esce mai di casa ma che alla fine li salverà, commettendo per altro un omicidio.

Perché Dracula, perché i mostri? Per questo bisognerebbe fare una riflessione a parte. I campi di concentramento indicano forse il punto più alto dell’orrore accaduto di cui si possa avere contezza diretta. Era qualcosa di non definibile fino in fondo, perché io sfido tutt’ora chiunque a dare una spiegazione esaustiva di cosa fosse il progetto hitleriano dello sterminio degli ebrei, eppure era lì, presente. Geniale Stephen King a chiamarlo It, perché davvero non ha nome. I mostri sono apparsi, nella loro rappresentazione fisica, intorno al 1950. Nonostante Stoker avesse già scritto Dracula prima in un libro, è stato il cinema a veicolarlo. Chi non ricorda Bela Lugosi muovere le mani in Dracula. Truman aveva un’altra ossessione, quella dei cigni, che erano l’opposto dei mostri. Marylin, di cui era il confidente (ci sono le foto che ballano insieme) era un cigno. Greta Garbo era un cigno, una delle poche che aveva partecipato ai funerali del regista del primo Nosferatu, tenendosi la maschera mortuaria nella scrivania. In lui c’è questa contrapposizione tra cigni e mostri. Dei cigni parla meno, indirettamente, dei mostri è il primo a farsene un’idea ben precisa. Diventa un topos perché la questione non si risolve. Cosa hanno combinato i tedeschi, perché? In fondo a quell’abisso cosa c’è? Perché ci siamo dati molte spiegazioni ma nel cuore dell’uomo che fa quelle cose non siamo stati… Chi riprendeva il processo di Norimberga inquadrava da vicino i carnefici nella speranza di carpire qualcosa, ma non si scorgeva nulla. Non si è risolta mai questa questione, così siamo passati dalla ossessione per i serial killer ai film horror. Eppure Capote con A sangue freddo ha compiuto un salto di qualità: questa cosa può venire a bussare alla tua porta di casa. Questa è la differenza rispetto a prima, si può palesare più facilmente, è più vicina a noi, non averla risolta l’ha resa più vicina. Per questo secondo me lui è meno superficiale di come appare.

Gli torna anche la suggestione di un altro episodio, probabilmente finto, avvenutogli prima di scrivere il primo libro, quando in una notte in Alabama piena di lampi e tuoni, scivola in un fiume e qualche cosa lo morde. Stava per morire, cammina per chilometri e chilometri fino ad arrivare in una fattoria in cui viene salvato. Tutti hanno sempre pensato fosse una balla e probabilmente lo era, ma comunque attribuisce a questo episodio la decisione di buttare il suo primo manoscritto e di riscriverne un altro. In fondo la stessa cosa che farà in Sicilia, quando butta il manoscritto del secondo libro, quello che doveva renderlo famoso come continuatore di Proust-Wilde-Gide e ne scrive un altro di sana pianta che racconta l’infanzia sua e di Harper Lee.

In più, ecco perché era Merlino, proprio in Sicilia ha la prima suggestione dalla quale scaturisce l’ossessione per quella storia che lo porterà a scrivere A Sangue Freddo. Una mattina di pioggia a Taormina vede un manipolo di persone davanti la tabaccheria intente a leggere i giornali appesi al muro in cui viene raccontata la morte del famoso bandito Salvatore Giuliano. Ucciso dai carabinieri, il famoso brigante indipendentista era stato accusato della strage di Portella della Ginestra del 1947, e Capote si domanda come mai alla gente piaccia tanto un fatto di sangue. Incamera questa informazione che poi lo porterà a prendere quella notizia dai giornali e ad andare in Kansas sul posto della strage dove, da grande impostore e bugiardo, si farà raccontare tutto. Usa, sicuramente mentendo, le star di Hollywood per farsi passare i documenti e le carte del processo dal detective del posto che rimane impressionato dalle confidenze di Capote. Gli dice infatti di fare a braccio di ferro con Humphrey Bogart e di poterlo battere, di essere amico di Marylin Monroe.

Ma succede anche altro durante questo suo soggiorno a Taormina, perché comincia a scrivere Colazione da Tiffany in cui chiaramente Capote intercetta lo spirito del tempo. (Tutte le donne americane, quando esce il libro, chiameranno le figlie col nome di battesimo della protagonista.) Capisce che sta succedendo qualcosa, che è partito un treno che lui chiama quello dei camaleonti, da cui il titolo del mio libro.

Ma chi sono questi camaleonti?

Ieri vedevo la pubblicità di una scuola di scrittura “Iscriviti, così potrai apprendere i trucchi di quelli che hanno fatto della tua passione un mestiere.” Una balla in fin dei conti. Ecco Capote è stato il primo a capire che quasi tutti coloro che leggono vorrebbero scrivere, hanno questo sogno. Se un domani gli archeologi scaveranno nella nostra epoca, sosteneva Capote, non troveranno templi, statue, vasi, argille ma sceneggiature, poesie, racconti. Ma non c’è nulla di male, nelle epoche di decadenza succede sempre così. E capisce l’esistenza dei camaleonti, cioè di quelle persone spinte verso la bellezza che ricercano nell’arte, nella scrittura, da qualsiasi parte, ma senza avere il talento che ha lui. Quelli che ricercano una vita oltre la vita sono diventati il suo pubblico. Lui risolve il problema di Stendhal, convinto di non avere pubblico e di dover aspettare per questo la generazione successiva. No, Capote il suo pubblico lo vede, sta iniziando la beat generation degli anni sessanta, Woodstock è piena di migliaia di artisti a cui, in teoria, piacerebbe la bellezza ma che non sanno come fabbricarla. Di questi lui ne fa i suoi camaleonti.

Fino a qui però potrebbe sembrare una biografia di uno scrittore di fine Novecento, l’unica questione è che in Sicilia lui scrive L’arpa d’erba, il secondo libro, e avverte: «tutti dicono che il mio primo libro è biografico il secondo è inventato. Invece vi dico che il primo è inventato il secondo è biografico.» E mette dentro tanti di quei segnali, tante di quelle circostanze e suggestioni che mi hanno sempre lasciato sgomento. Mi viene infatti difficile dare di lui il giudizio di autore gossipparo, superficiale e basta.  Penso che si mascherasse così ma poi intendesse altro o avesse comunque la pretesa di intendere qualche altra cosa.»

M.S «Vi ricordate la poesia che abbiamo letto all’inizio? Qualche gocciolina di letteratura… sono certo che si cominci a intuirla. Rimaniamo su questo tema.

I siciliani cantano mentre lavorano i campi, durante il carnevale, nel corso della vendemmia o della raccolta delle mandorle. Quest’ultima l’ha descritta così: «Tutti i giorni il canto raggiungeva una intensità quasi demente. Non mi riusciva più di pensare: c’era in me una sensazione soverchiante di vita fuori dalla vita. Alla fine, durante gli ultimi giorni pazzeschi, le belle e selvagge voci parevano levarsi dal mare, dalle radici dei mandorli; si aveva l’impressione di essersi perduti in una caverna piena di echi, e anche quando calavano le tenebre e il silenzio, potevo sentire, sul limite del sonno, l’eco di quel canto, e sebbene facessi di tutto per respingerlo, mi sembrava che volesse narrarmi una storia pietosa e dolorosa, che volesse impartirmi un terribile insegnamento.

Abbiamo parlato di libri e scrittori ma ora ti chiedo che differenza c’è tra scrivere e raccontare.»

P.M «Bella domanda. Penso di risponderti seguendo le tracce di Truman Capote. Raccontare sarebbe stato possibile, si sarebbe tenuto il vecchio manoscritto, aggiungendo delle suggestioni qua e là, limitandosi a questo. Scrivere significava anche appropriarsi di una tecnica, scegliere le parole, asciugarle, selezionarle.

Lui in Sicilia, in cui rimane quasi tre anni e non solo pochi giorni come all’inizio credeva, riporta a galla qualcosa che già in passato aveva impattato sulla sua infanzia con i film di Dracula. I suoi primi racconti infatti sono horror ma li aveva dimenticati perché non pensava fossero facilmente vendibili e invece lì li riscopre: lì scopre il perturbante. (Centrale il passo che Marco Steiner ha appena letto.)

Una serie di cose che gli accadono lo condizionano, per esempio lui sarà costretto a scappare perché lo prendono per iettatore. Conosce poi la ragazza che va da loro ogni giorno a portargli il cibo e a pulire casa e scopre che viene picchiata dal fratello, di nuovo una differente forma di discriminazione. Vorrebbe aiutarla, intervenire ma la ragazza lo impedisce perché sa che il fratello può farlo, ne ha diritto. In questa realtà siciliana retrograda, gli cominciano a narrare dell’esistenza dei lupi mannari. Lui non ci crede naturalmente però lì lo danno tutti per scontato, gli raccontano infatti che prima ce n’erano moltissimi a Taormina, mentre ora ne sono rimasti solo due o tre. La ragazza un giorno gli dice che se vuole può portarlo nel posto in cui erano soliti trovarsi i lupi mannari, e lo accompagna in questa vallata pietrosa, piena di corvi, a migliaia. A un certo punto lui ne vuole uno, la ragazza però gli dice che per tenertelo bisogna fare qualcosa e gli strappa le ali prima di consegnarglielo. Questo corvo poco dopo comincerà a comportarsi come il loro cane e Truman se lo porterà con sé a Roma quando lascia Taormina.

Si potrebbe raccontare tutto questo impasto senza senso: dai lupi mannari, al corvo, al fratello che picchia la ragazza. E questa sarebbe la narrazione, ma Capote vuole fare un’operazione differente, decide di non raccontarla, la lascia sotto, come sottotraccia. Non accenna minimante a tutti questi episodi che gli sono avvenuti, a queste strane suggestioni perturbanti, ma quando scrive lo fa esattamente con la vibrazione e i toni di tutto ciò che gli è successo.

Nel suo secondo libro, L’arpa d’erba, troviamo la storia delle zie che lo adottano, e in particolare quella di Molly, che da bambino vede inviare lettere a tutta l’America. Arrivano lettere e lei come risposta rinvia una boccetta, un elisir per guarire dall’idropisia, dalla ritenzione idrica. Si scopre che la zia Molly, in una notte di tregenda, e lui qui riprende la questione delle notti di tregenda già vissute, in un fienile, durante una tempesta aveva aiutato una delle zingare a partorire e le altre per gratitudine le avevano detto quali erbe doveva trovare nel boschetto per lavorarle e fare questo elisir. Lui fa le descrizioni di queste gite nel bosco per cercare le erbe con una donna nera e la zia Molly che sembra una strega dei vecchi racconti. Ha un paiolo (che lui descrive come assomigliante a un astro sceso dal cielo, una scheggia di meteora), un mattarello preso da un manico di scopa per impastare queste erbe. Alla fine il libro diventa quasi un giallo perché un’altra zia cattiva si vuole appropriare di questa ricetta per venderla a una casa farmaceutica e fare soldi ma la zia Molly si rifiuta e si rifugia in questa casa sull’albero, posta tra due sicomori giganti, e con lei c’è questo gruppo di amici che la sostiene. Lì Truman scopre un mondo in cui non c’è discriminazione, in cui non ci sente diversi, ma si sta insieme solo per simpatia, perché lo si vuole. A me leggendo questi passaggi mi risuonano nella mente quei particolari momenti storici in cui si è accomunati da qualcosa di forte e si provano sensazioni particolarmente intense: le rivoluzioni sociali di grandi sommovimenti, le barricate risorgimentali, quelle di Jean Van Jean in Hugo, Dumas che racconta dei garibaldini, quando li andava a trovare in Sicilia per portargli i fucili, la Comune di Parigi. Una specie di tesoro che avviene tra le persone, che sembra talmente forte in quei momenti che non c’è bisogno di annotarselo, di chiamarlo con un nome. Poi però finisce e non lo si ricorda più, non si hanno parole per raccontarlo. Si disperde, svanisce. E deve essere stato un sentimento del genere quello che ha provato questa gente nella casetta sull’albero che Capote spiega con dovizia di particolari e fa diventare un topos. Ma ciò che stupisce è che questo secondo libro finisce esattamente come finirà anni dopo A sangue freddo. Che cosa resta alla fine se non un arpa d’erba, un vento che muove l’erba e che un giorno racconterà le storie di quelli che non ci sono più.

E anche noi, prima o poi, saremmo tra quelli e l’unica cosa che resterà saranno queste storie che andranno raccontate, che si trasmetteranno. Questa è la scrittura.»

M.S «Per ritornare A sangue freddo, Capote riesce a entrare in confidenza con uno di questi assassini, il più efferato ma anche il più tranquillo, proprio rassicurandolo di poter parlare con lui come fossero sulla casetta sull’albero. In tal modo crea una confidenza intima che è quasi perversa come punto di arrivo per uno scrittore, però è fondamentale per entrare nella mente di chi commette un assassinio del genere, per poter raccontare il suo punto di vista.

In inverno passavo molte e molte ore arrampicata sulla casetta dell’albero, come nella villa di Truman a fontana vecchia dall’alto. Un luogo isolato, senza le comodità della civiltà, ma essendo se stessi forse possiamo intravedere un barlume di luce.

Cosa vuol dire raccontare una storia da una casa come Fontana Vecchia che non ha la luce, non ha elettricità, non ha acqua, però ti fa vedere le cose dall’alto? Non credo sia una via fuga, ma una necessità narrativa. Se vuoi raccontare una storia è come se dovessi prendere il filo di un aquilone, farti portare più in alto e guardare le cose da un’altra prospettiva per capirle veramente. Perché altrimenti, e qui torniamo alla precedente domanda, le narri, le racconti, ma non fai entrare chi legge nel mondo dello scrittore.»

P.M «Lui era tanto convinto di questo metodo che mentre stava ultimando A sangue freddo confida ad Harper Lee, che lo aveva accompagnato nella raccolta di documenti e prove, che non può concludere il libro, manca il racconto vero e profondo dell’altra parte. Chiunque di noi si sarebbe già accontentavo, aveva tutto, le carte del processo, le testimonianze, aveva già incontrato i due detenuti, per cui un racconto seppur superficiale lo aveva. Ma lui pretendeva che in quel libro ci fosse il punto di vista del massacratore. E riesce a ottenerlo come dicevi tu Marco, con la metafora della casetta sull’albero. È stato anche accusato di aver avuto rapporti sessuali in carcere con loro, ma quando riesce a strappare anche questo punto di vista del massacratore, sa di essere pronto e di poter intitolare il testo A sangue freddo: a sangue freddo hanno ucciso i due delinquenti, altrettanto però lo Stato, per compensazione, li impiccherà. Non c’è poi tanta differenza, se non temporale del prima e del dopo.

E lui in un certo senso si impicca con loro due, finisce con questo libro. È tanta l’attesa successiva di un altro capolavoro che Capote non ha, che poi scriverà i gossip che ha raccolto nei salotti. Perché lui è diventato il grande confidente di tutti, da Jack Kennedy in giù, sa tutto di tutti e scrive questi primi reportage che poi diventeranno un libro scandalo sulle corruzioni, le tangenti, i figli illegittimi, gli aborti, le amanti. Risultato: viene rovinato dalle cause giudiziarie ed espulso da questi salotti. Farà un cameo in un film tratto da un romanzo di Agatha Christie, in cui davvero sembra un lupo mannaro di quelli di Taormina. È diventato enorme, tossicodipendente, alcolista, completamente rovinato e morirà in questo modo. Sono interessanti i suoi ultimi anni di vita, è come se non riuscisse a elaborare ciò che gli era successo per scrivere A sangue freddo. Oggi ne parliamo come uno dei capolavori del ‘900 che ha inventato un genere nuovo, in cui sono presenti i punti di vista di tutti in quella storia, ma ci dimentichiamo che gli è quasi costato la vita, si è rovinato per quel successo. Probabilmente è uno di quei ‘terribili insegnamenti’, negli ultimi anni della sua vita fa risuonare spesso questa storia dei terribili insegnamenti, dice che le peggiori preghiere sono quelle esaudite. Gli rimane quest’eco, però ha avuto il coraggio di essere andato a vedere più da vicino quelle cose che nell’infanzia l’avevano tormentato, per cui lui aveva scritto dei racconti gotici che di recente hanno riscoperto e pubblicato. Sembrano qualcosa di Wes Craven, Stephen King, Henry James in Giro di vite e non è stato biograficamente sottolineato questo suo lato. Lui, in qualche modo, si è sporto.

Ma vorrei terminare avvertendo che la storia di Truman Capote di cui oggi vi ho parlato è possibile che invece finisca bene. Ho trovato un testimone oculare…cosa può avere combinato a Taormina con i lupi mannari non so dire!»

Fiori vivi ringrazia:

Piero Melati giornalista, per molti anni vicedirettore capo del Venerdì di Repubblica, ha seguito la guerra di Mafia e il primo maxiprocesso a Cosa Nostra e scrittore. Tra i suoi lavori: Giorni di mafia. Dal 1950 a oggi: quando, chi, come, Laterza 2017; La notte della civetta. Storie eretiche di mafia, di Sicilia, d’Italia, Zolfo 2020; Paolo Borsellino. Per amore della verità. Con le parole di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino, Sperling & Kupfer 2022; Il viaggio del camaleonte, LeStorie 2023.

Marco Steiner scrittore, narratore, viaggiatore. Per la sua preziosa produzione, non solo letteraria, rimandiamo al suo sito http://www.marcosteiner.it/

Le Storie editore https://www.lestorie.it/le-storie-editore/, Gilda Yoko Diotallevi.

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