R: LE STORIE D’AUTORE

La libreria indipendente Le Storie prosegue la sua rubrica letteraria in collaborazione con fiorivivi.com dedicando ottobre a Samhain

(a cura di Gilda Diotallevi)

Samhain

La ruota dell’anno rappresenta il ciclo annuale di festività stagionali adottato dalle religioni neopagane. Nello specifico l’anno celtico, basato sul calendario lunare invece che su quello solare, era diviso in due metà, a seconda del prevalere o meno della luce diurna. Quattro momenti erano quindi scanditi dagli equinozi (Mabon equinozio d’autunno; Ostara equinozio di primavera) e dai solstizi (Yule solstizio d’inverno; Litha solstizio d’estate), mentre quattro Sabbat erano associati ai cicli della natura (Imbolc, Beltrane, Lughnasadh, Samhain).

Tra tutti il momento sacro più significativo era proprio Samhain [‘Sa:win], celebrato tra il 31 ottobre e i primi giorni di novembre, corrispondente al capodanno celtico.

Esso rappresentava la fine di un ciclo naturale, in cui il raccolto e il bestiame vengono deposti in attesa di un nuovo inizio.

Secondo l’ordine cosmico il sorgere delle pleiadi, le stelle dell’inverno, segnava la supremazia della notte sul giorno, tanto che proprio in irlandese antico il termine Samhain si riferirebbe alla fine dell’estate. A favore di questa interpretazione la presenza del suo contraltare sacro. Nell’emisfero australe infatti il Samhain si celebra tra il 30 aprile e il 1 maggio, data che corrisponde, nell’emisfero boreale, alla notte di Valpurga.

In gaelico Samhain indica la fine del raccolto e l’inizio della parte invernale dell’anno. A fine ottobre infatti il lavoro nei campi era concluso e i contadini si riposavano. Ma era un momento centrale soprattutto per i pastori che praticano la transumanza (J.G.Frazer, The Golden Bough: A Study in Magic and Religion) i cui animali al pascolo nel periodo estivo dovevano essere ricondotti a valle. A differenza delle altre culture europee, come quelle mediterranee, i celti erano un popolo di pastori, la cui vita era quindi scandita dai tempi imposti dall’allevamento del bestiame. Con la stagione crepuscolare del freddo e delle tenebre, iniziava il tempo di maggiore sacrificio in cui le comunità dovevano prepararsi a sopravvivere all’inverno (N. Rogers, Halloween: From Pagan Ritual to Party Night).

Samhain era perciò un rito di passaggio che serviva non solo per propiziarsi le divinità, ma anche per esorcizzare l’arrivo delle tenebre, del freddo e del pericolo. Per comprendere quindi la natura e il senso di una tale ricorrenza si dovrà far riferimento proprio alla tradizione nord europea, in particolare al paganesimo celtico, alle leggende e al folklore popolare. Samhain risale infatti già al VI sec. a.C., se non prima, mentre dal X sec. compare nella letteratura irlandese. Come molti altri riti antichi, segna il corso della natura e si basa su una serie di pratiche che trascendono la singola origine geografica, per riscontrarsi, anche se in forme e momenti differenti, in moltissime culture.

Celebrandosi proprio a metà tra l’equinozio d’autunno e il solstizio d’inverno, Samhain era considerato un periodo liminare, in cui la notte avrebbe cominciato a vincere sul giorno, l’oscurità sulla luce, la stagione fredda sul periodo più caldo. Tale rinnovamento dell’anno a confine tra inizio e fine, la transizione quindi tra due realtà capace di annullare in un certo senso la dimensione del tempo e dello spazio, si pensava potesse facilitare ogni rito di passaggio.

L’aldilà celtico non è considerato completamente separato dal nostro e in questo momento poteva essere visibile la convergenza degli opposti, della vita e della morte, della conclusione e della sua rinascita. Secondo la mitologia irlandese Samhain era infatti il periodo in cui le porte dell’Altro mondo si aprivano, permettendo agli esseri soprannaturali e alle anime dei morti di entrare nel nostro. Mentre Beltrane era una festività simile ma per i vivi (apriva il regni delle fate, di quegli esseri ostili che provavano risentimento nel dover dividere la terra con gli uomini), Samhain era per i morti. Apriva infatti le porte del Annwn, ovvero il regno degli spiriti, l’oltretomba nella mitologia gallese, legato al ciclo delle stagioni. Molti racconti popolari si basano su questo, sull’oltrepassare tra un mondo e l’altro, tra il regno dei vivi e quello dei morti. Nella idealità nordica pagana la Natura stessa era vista infatti come il risultato di forze antagoniste.

Se il sabbath di passaggio poteva togliere il velo alla realtà permettendo così di scoprire l’Oltre e facilitava ogni genere di divinazione, dall’altra aumentava anche il pericolo che spiriti malvagi e ostili potessero far visita ai vivi.

I celti credevano che proprio alla vigilia del nuovo anno Samhain, considerato il Signore della morte e il Principe delle tenebre, chiamasse a sé gli spiriti dei morti che vivevano in una landa eterna (Tir nan Oge) e che questi potessero unirsi al mondo dei viventi.

«Forse era un pensiero naturale che l’avvicinarsi dell’inverno avrebbe portato i poveri, tremanti, affamati fantasmi dai campi spogli e dai boschi spogli al riparo dei cottage» (J. Frazer), ma la paura che i morti potessero far visita ai vivi, che spiriti e non morti potessero infestare le loro case, è presente in molte culture, così come altrettanti sono i riti atti a esorcizzarla. Questi ultimi si basavano su tradizioni pagane ancora precedenti, in cui gli spiriti della natura dovevano essere propiziati per il raccolto e il bestiame. (Si pensi che una parte del raccolto veniva lasciata a terra in Loro onore o bruciata in un fuoco sacro o che dopo Samhain non era più possibile raccogliere nulla in quanto appartenente esclusivamente agli spiriti della Natura).

Per impedire agli spiriti, ai morti, agli spettri di soggiornare nelle loro case i Celti spegnevano ogni fuoco in casa. Contemporaneamente i Druidi, la casta dei sacerdoti, accendeva un fuoco nei boschi, in cui venivano lanciate ossa di animali macellati in sacrificio per l’occasione. Terminato il rito, che doveva consistere anche in danze, tornavano mascherati con le pelli degli animali sacrificati nel villaggio per terrorizzare e mettere in fuga le entità soprannaturali. Poi dopo le prime ore del mattino, il fuoco sacro, trasportato in alcune rape intagliate, veniva usato per riaccendere le abitazioni (Geoffrey Keating, nel suo Storia d’Irlanda svela infatti il senso del temine falò, bonefire, indicante le ossa gettate nel fuoco).

Sempre durante Samhain i sìdhe (popolo dei tumuli/colline, esseri magici descritti come fate Tùatha Dé Danann confinati sotto terra, o abitanti pre-celtici d’Irlanda) passavano dalle loro dimore oltretombali al regno dei vivi. I sìdhe (pronunciati scii) non solo altro che antichi tumuli funerari che costituiscono porte d’accesso all’oltretomba. Una volta all’anno, proprio durante Samhain questi si aprono e si possono osservare i fuochi ai loro interni.

Collina di Tara. Tomba di passaggio tra il mondo dei vivi e quello dei morti.

Le derivazioni: da Samhain a Halloween

Francia, Irlanda, Scozia e Inghilterra, di chiara derivazione culturale celtica, finirono per essere dominio di Roma che tentò in ogni modo di far scomparire ogni influsso pagano. I primi cristiani ritenevano che a Samhain i Celti evocassero gli spiriti maligni, ma non riuscendo a eliminare certe usanze così radicate, cercarono di assimilarle. «[…] molti rituali e tradizioni celtiche sono stato riformulate, nel tentativo di capitalizzare popolarità delle pratiche pagane durante la diffusione della nuova religione (J. Santino, Halloween in America: Contemporary Customs and Performances). Così papa Gregorio III sposta la celebrazione di Ognissanti, istituita da papa Bonificiaco IV nel 609 per onorare santi e martiri, dal 13 maggio allo stesso giorno in cui si sarebbe festeggiato Samhain e più avanti furono costretti a dedicare un giorno alla memoria dei morti. (Odilone di Cluny nel 998 d.C. impose la celebrazione del rito dei defunti dal vespro del 1 novembre. Il giorno seguente sarebbe stata offerta una Eucarestia al Signore pro requie omnium defunctorum).

Durante la grande carestia irlandese del XIX sec. molti abitanti del nord Europa si trasferirono in America, perpetuando le loro tradizioni e trasportando così alcuni elementi della festività di Samhain nel moderno Halloween. (Ognissanti, All Hallow’s day. All hallow’Eve diventa poi Hallows’even, ovvero Halloween).

Non meraviglia perciò la definizione che troviamo oggi sulle Enciclopedie di Halloween come di una serie di tradizioni pre-scristiane dell’Europa celtica, in particolare da quelle delle isole Britanniche dove il 31 ottobre era il giorno della fine dell’estate ma anche, secondo le credenze popolari, il momento in cui dalla sera per tutta la notte le anime dei morti tornano sulla terra accompagnandosi a Streghe, demoni e fantasmi.

Pur se esso ha perso ogni profondo significato originale, mantiene alcuni elementi come il presagio della trasformazione, il desiderio di invocare il soprannaturale, la paura degli spiriti, il culto dei defunti, il bisogno di esorcizzare la morte: tutti riconducibili all’animo umano e presenti perciò in molte culture anche tra loro lontane.

Similitudini possono infatti trovarsi nel Mundus patet, l’oscura tradizione della Roma arcaica, anche se si pensa in realtà di derivazione etrusca, che consisteva nella creazione di una fossa chiusa situata nel santuario di Cerere (divinità legata alla natura e alla fertilità), consacrata alle anime dei defunti e alle divinità dell’oltretomba. Essa rimaneva chiusa tutto l’anno tranne tre giorni in cui appunto il Mundus patet, il mondo è aperto e la comunicazione tra l’esterno della terra con il mondo sotterraneo e chi lo abita era possibile.

Così come nella cultura dei morti dei popoli messicani che celebrano tra metà Ottobre fino alla fine di Novembre il Dias de los muertos. Festa di origine ancora più antica, precolombiana, in cuii defunti sono accolti con altarini pieni di colori, fiori cempasùchil e bottiglie di mescal (ad Aguascalientes in particolare si tiene il festival de las calaveras).

Anche in Sardegna, in particolare nelle zona nuorese, intorno ai primi giorni di Novembre si celebra Su mortu mortu. Come ci spiega Giovanni Corrasi «Per i più giovani, la festa consiste nel bussare ai portoni delle case del vicinato e pronunciare, tra le tante possibili, la formula ‘seu su mortu mortu’ per ricevere in dono principalmente frutta secca, frutta di stagione, mandorle e dolci. L’offerta, così come la festa tutta, intendono ricordare i defunti, le cui anime, durante quella giornata, possono tornare nelle proprie case e godere di un banchetto imbandito dai più anziani ‘pro sas animas’». 

Altra similitudine è riscontrabile con la Notte di Valpurga. Tipica della tradizione dell’Europa centro settentrionale, praticata dai popoli germanici (Valpurga di Heidenheim), riunisce in sé due differenti cerimonie: quella germanica del culto di Ostara (riti primeverili) e quella celtica di propiziazione stagionale (Beltrame). Sovrapposta a sua volta alla ricorrenza cattolica di Santa Valpurga.

Diametralmente opposta nella ruota celtica a Samhain, condivide con essa molti elementi rituali.

Nel Faust Goethe dedica un’intera scena, intitolata appunto Walpurgisnacht, alla Notte di Valpurga. Qui Mefistofele conduce Faust sulla cima del monte Brocken per assistere alle danze infernali di demoni, streghe e stregoni a cui lo stesso Faust si unisce.

Testi :

G. Meyrink, La notte di Valpurga, 1917.

H.P. Lovecraft, I sogni nella casa stregata, 1933 incentrato su questa ricorrenza.

Le streghe son tornate

di Flavia Sorato

Roald Dahl è uno degli scrittori per l’infanzia più rinomati, grazie anche alle trasposizioni cinematografiche dei suoi romanzi, che hanno reso ancora più famosi racconti come La fabbrica di Cioccolato o Matilda.

Tra le narrazioni che lo hanno reso uno degli scrittori di libri per ragazzi più apprezzati c’è anche una storia che s’inserisce in pieno nella proposizione di una certa immagine fiabesca malvagia, una delle figure d’antagonista, potremmo dire, di maggior successo: la strega.

‘Le streghe’ di Dahl sono proprio l’incarnazione di quelle perfide e oscure maliarde, che preparano pozioni e architettano piani per catturare bambini, ma l’autore mette tutti in guardia a tal proposito.

Nelle fiabe le streghe portano sempre ridicoli cappelli neri e neri mantelli, e volano a cavallo delle scope. Ma questa non è una fiaba: è delle STREGHE VERE che parleremo. Ci sono alcune cose importanti che dovete sapere, sul loro conto; perciò aprite bene le orecchie e cercate di non dimenticare quel che vi dirò. Le vere streghe sembrano donne qualunque, vivono in case qualunque, indossano abiti qualunque e fanno mestieri qualunque. Per questo è così difficile scoprirle.

Quello a cui si riferisce Dahl è l’insieme di notissime fiabe che vengono tramandate di variante in variante, da tempi lontani: basti pensare a racconti della tradizione come ‘Hänsel e Gretel’ dei fratelli Grimm, con cui generazioni di piccoli sono stati spaventati e messi in allerta da offerte troppo “dolci”. Anche Hans Christian Andersen ci ha lasciato innumerevoli storie popolate da personaggi crudeli e si può annoverare tra le file di questi la terribile Strega del Mare de La Sirenetta, colei che per mezzo di una pozione ruba la voce della giovane e infelice innamorata che vuole essere tramutata in umana.

Nel libro suddetto di Dahl, invece, il bambino protagonista viene istruito dalla nonna sui sistemi grazie ai quali poter riconoscere una strega, che sa ben nascondersi e mascherarsi per non farsi scoprire (ad esempio, sono signore che indossano parrucche e quindi spesso si grattano la testa, hanno guanti per coprire gli artigli e scarpe a punta per camuffare orribili piedi).

Questi personaggi verranno poi descritti nella storia con toni spaventosi e quando il piccolo finirà nel mezzo di un intero gruppo di streghe, non potrà che essere terrorizzante per un giovane lettore avere a che fare con queste vere e proprie ‘autorità’ delle storie di paura. 

Narrativamente, della figura della strega si è quasi sempre fatto uso in senso negativo, al di là dei nomi e dei caratteri loro attribuiti. In alcuni racconti sono state presentate e descritte come ‘fate’ che compiono azioni malvagie: si veda ad esempio La bella addormentata, in cui la protagonista viene maledetta in fasce proprio da una fata offesa, quella che oggigiorno ben ricordiamo come la Malefica della versione Walt Disney.

Le immagini di queste creature magiche, quindi, sono quelle filtrate dagli adattamenti con cui siamo cresciuti, che spesso edulcorano la tradizione e si mischiano con i tristi e reali racconti di caccia alle streghe dei secoli passati. Ebbene, tutte queste versioni hanno dato vita ad una certa iconografia della strega. Spesso la si associa ad un tipico modo di vestire – compreso il cappello a punta – ai gatti neri, sempre dedita a sabba e riti di magia oscura, o impegnata a volare su una scopa alla ricerca di giovani prede da rapire e poi divorare. Anche in opere classiche come il Macbeth di Shakespeare assistiamo a rappresentazioni del genere. Nella prima scena dell’atto IV, ambientata in un’oscura caverna, le streghe preparano un incantesimo:

1a Strega. Tre volte il gatto-tigre ha miagolato.

2a Strega. Tre volte ha gemuto la nottola dei sepolcri

3a Strega. Una musica surge dalle viscere della terra, e ci dice: È tempo, è tempo.

1a Strega. Giriamo intorno alla caldaia, e gittiamo i sortilegii.

1a Strega. Rospo, che per un mese stridesti ai ghiacci e al sole, e turgido ti facesti d’un veleno mortale, vanne ora primo nella misteriosa caldaia.

Tutte. Raddoppiamo, raddoppiamo cure e travagli; brilli il fuoco, e la caldaia bolla.

2a Strega. Aggiungiamo anche il tronco d’un serpe di palude, e l’occhio d’una lucertola, e il piede d’una rana, e l’ala d’un pipistrello, e il pelo d’una nottola, e il dardo d’una vipera: e da tutto ciò si distilli quel veleno infernale, che n’occorre onde gettare il sortilegio più potente.

Tutte. Raddoppiamo, raddoppiamo cure e travagli; e brilli il fuoco, e la caldaia bolla.

Ogni storia propone una propria versione di queste figure, ma comunque sono presentate e caratterizzate da aspetti più o meno spaventosi e malefici.

Una delle immagini forse più popolari in questo senso è quella che viene dal romanzo de Il meraviglioso Mago di Oz, di Frank Baum.

Qui di streghe se ne hanno in abbondanza, perché il mondo fantastico in cui finisce Dorothy è popolato da personaggi variegati, tra i quali, appunto, vi sono anche due streghe buone e due cattive, rispettivamente quella del Nord e del Sud e quelle dell’Est e dell’Ovest. Proprio quest’ultima è la cattiva della storia, iconica per la sua perfidia e per l’aspetto: vive in un castello, comandando eserciti di animali-mostri (tra cui le scimmie volanti che appaiono anche nel celebre film), possiede un cappello magico e si aggira inquietante con un solo occhio.

La pellicola a cui si è fatto accenno poco sopra è Il mago di Oz di Victor Fleming (1939), in cui Judy Garland recita il ruolo della protagonista con le famose scarpette rosse. In questo film la Strega dell’Ovest appare sempre come acerrima nemica ed indossa i panni del personaggio per come oggi lo immaginiamo, con quelle sembianze che vengono riproposte anche nei mascheramenti della notte di Halloween.

Mostri e Giappone

di Giada Zaccardi

Halloween (in giapponese ハロウィン harouin) si festeggia anche in Giappone.

In Giappone, il famosissimo negozio Kiddyland di Harajuku (Quartiere di Tokyo molto vivace pieno di negozi di giochi, videogiochi e maschere) ha iniziato a vendere prodotti legati ad Halloween negli anni Settanta.

Sembra che il primo evento di Halloween fu la Hello Halloween Pumpkin Parade organizzata dallo stesso Kiddyland nel 1983, anche come strategia pubblicitaria. In quell’occasione, circa 100 partecipanti hanno sfilato mascherati.

All’epoca del primo evento, Halloween non era ancora molto conosciuto se non da forestieri, ma gradualmente all’aumentare della celebrità della festa, sono aumentati anche i partecipanti e l’evento continua ancora oggi.

Sembra però che la popolarità di Halloween sia da attribuire alla costruzione di due importantissimi parchi a tema giapponesi che hanno puntato proprio su tale ricorrenza. Nel 1997 il Tokyo Disneylande nel 2002 gli Universal Studios Japan hanno, infatti, ospitato due eventi di considerevole rilevanza, portando questa festa a conoscenza della maggior parte dei giapponesi.

Come nel caso dell’Italia, per il Giappone Halloween è soprattutto una trovata commerciale e ha poco a che fare con la festa tradizionale.

Tuttavia, in Giappone i mostri hanno una storia ben più antica, appaiono infatti sin dai primi libri giapponesi.

Per riassumere, potremmo dire che esistono due diverse categorie principali di ‘mostri’ giapponesi, gli yōkai e gli yūrei.

Per renderli in italiano, potremmo tradurre yōkai con la parola ‘mostri’, mentre yūrei con ‘spettri’, per poter distinguere le due categorie.

Nella tradizione occidentale sia i mostri sia i fantasmi sono figure spaventose e legate a eventi negativi, ma non sempre questo vale per mostri o spettri giapponesi.

Vediamo, intanto, qual è la differenza.

Lo yūrei è ‘lo spirito di una persona morta’ o ‘la forma di un’anima che non è riuscita a raggiungere la Buddità’ (quindi che è rimasta incompleta, non si è purificata).

Lo yōkai è un mostro con poteri misteriosi che può causare eventi soprannaturali.

Sono noti anche con i nomi ayashi o mononoke.

Pare nascano dall’antica convinzione secondo la quale ogni elemento naturale si riteneva dotato di uno spirito e si è finito per attribuire, a uno o più di questi, la responsabilità per calamità naturali che non si era in grado di spiegare.

Rispetto alle forme carine e umoristiche degli yōkai, i fantasmi giapponesi sono sempre stati ritratti come spaventosi e inquietanti.

Questo probabilmente perché i fantasmi sono stati definiti come coloro che appaiono per vendicare le loro disgrazie passate in vita e che quindi sono figli di vendetta, attaccamento o rancore.

Quindi, mentre molti yōkai hanno storie bizzarre (magari anche inquietanti), ma non si trovano in un posto per fare del male a qualcuno, gli yūrei cercano pace e vendetta e possono tormentare i vivi.

Titoli consigliati per conoscere meglio i mostri giapponesi (in italiano).

S. Mizuki, Enciclopedia dei Mostri Giapponesi, Kappalab, Bologna 1991.

S. Mizuki, Enciclopedia degli Spiriti Giapponesi, Kappalab, Bologna 2010.

M. Meyer, Il libro dello Hakutaku. Storie di mostri giapponesi, Nuinui, Vercelli 2020.

Libri e racconti ambientati ad Halloween

La strage degli innocenti di Agatha Cristie, 1969. Una bambina che ha assistito a un omicidio viene trovata uccisa durante il bobbing for apple. Gioco tipico di Halloween che però faceva parte degli antichi riti celebrati per Samhain dai celti in cui le mele avevano un significato simbolico, frutti dell’albero Cosmico, mettevano in comunicazioni due mondi.

La leggenda di Sleepy Hollow, di Irving Washington, 1820. Non solo la festa da cui tutto prende l’avvio è proprio quella di Halloween, ma si basa sul racconto di una leggenda paurosa e a essere coinvolta è proprio una zucca.

22/11/63 di Stephen King del 2011, in cui si analizza un omicidio avvenuto in una notte di Halloween di molti anni prima

Brutti scherzi per l’87°distertto di Ed McBain del 1988, in cui in una folle notte di Halloween i poliziotti del distretto 87 sono alle prese con uccisioni e crimini

Racconti di Halloween, AA.VV. una bellissima raccolta Einaudi del 2006 in cui i temi principali sono mostri, streghe, fantasmi, vampiri e zombie.

Halloween. La festa del terrore; La maschera infernale; Full moon Halloween, 2001; Zobie halloween 2014; Halloween night 2, 1994 di R. L. Stine (creatore delle collane ‘Piccoli brividi’ e ‘La strada della paura’)

Il popolo dell’autunno, di Ray Bradbury del 1962, in cui manca una settimana alla notte di Halloween, ma soprattutto il suo l’Albero di Halloween.

Halloween con Bradbury

di Flavia Sorato

Ray Bradbury, il noto autore di Cronache marziane e Fahrenheit 451, e di altre storie che hanno dato un gran contributo all’ambito della fantascienza, ha scritto anche un’opera dedicata alla famosa notte del 31 Ottobre, L’albero di Halloween. Si tratta di un racconto per ragazzi di genere tra il fantastico e l’orrore, e s’incentra proprio sulle vicende che occorrono ad un gruppo di giovani, che di episodio in episodio, scopriranno le tradizioni legate alla festività e si troveranno a confronto con il tema della morte.

La storia ha inizio proprio durante la sera che precede Halloween, quando un gruppo di amici mascherati s’incontra per i tipici festeggiamenti, tra un ‘dolcetto o scherzetto’ ed uno spavento qui e là. Ma tutti si accorgono subito che all’appello manca uno di loro, Joe Pipkin, e data la stranezza di quell’assenza, lo vanno a cercare a casa dove, però, trovano l’amico in condizioni alquanto strambe. È pallido, pare non star bene, ma invita comunque i suoi compagni ad avviarsi prima di lui… I ragazzi, un po’ straniti ma anche impazienti nel dare avvio al divertimento, si lanciano all’avventura secondo le indicazioni del capo-gruppo, fino ad arrivare ad una cava, da cui passano per giungere ad una casa misteriosa. Proprio lì, nel retro dell’abitazione, s’imbattono in una cosa inaspettata.

Un albero così non l’avevano mai visto. Sorgeva in mezzo ad un grande cortile dietro quella dimora misteriosa. Era più alto di trenta metri, più dei comignoli più alti, era ben sviluppato nei rami e aveva un’abbondante chioma di foglie autunnali rosse, gialle e marrone. […] Dall’albero pendevano migliaia di zucche di ogni forma e grossezza, in mille sfumature di giallo e arancione.  

[…] Le zucche sull’albero non erano semplici zucche, su ognuna era tagliata una faccia differente, ogni occhio era quello di uno sconosciuto, ogni naso era più strano dell’altro, ogni bocca sogghignava in modo diverso.

È l’albero di Halloween.

Improvvisamente i ragazzi si trovano così ad avere a che fare con una sorta di magia e a guidarli in un viaggio tra spazio e tempo sarà uno strano e lugubre personaggio, Mr. Moundshround, uno scheletro che ha il ruolo di accompagnare quel gruppo di amici alla scoperta della vera storia di Halloween, viaggiando di epoca in epoca.

  • Laggiù. La vedete, ragazzi?
  • Cosa?
  • La Contrada dell’Ignoto mai scoperta. Laggiù. Guardate, guardate bene. È il Passato, ragazzi, il Passato. È oscuro, pieno di incubi. La storia di Halloween è sepolta laggiù. Volete dissotterrarla? Avrete il coraggio?

Li fissò con pupille brucianti.

  • Che cosa è veramente Halloween? Come è cominciata? Dove? Perché? Streghe, gatti, polveri di mummia, incantesimi. È tutto laggiù, in quella contrada dalla quale non si ritorna. Volete tuffarvi in quel mare buio, ragazzi? Volete volare in quel cielo nero?

Sul punto di lanciarsi in questa imprevista e spaventosa spedizione, rifà la sua comparsa Pipkin che, però, proprio prima di unirsi al gruppo viene rapito…

Da qui si avvia lo sviluppo di tutta la storia che tra secoli e popoli conduce i protagonisti a scoperte e riflessioni, consegnando nelle mani del lettore un’insolita narrazione di tradizioni e credenze.

Testi per approfondire la matrice storico-folcloristica di Halloween

J. Markale, Halloween. Storia e tradizioni, L’età dell’Acqua, 2005.

E. Baldini e G. Bellosi Halloween. Nei giorni che i morti ritornano, Einaudi, 2006.

P. Gulisano, B. O’Neil La notte delle zucche, 2016. Attenta ricostruzione storica dei significati di Halloween.

Segnaliamo inoltre

Sheridan Le Fanu, sia con The Ghost and the Bone-Setter del 1838 in cui gli antichi dei ancora sopravvivono. Nell’Irlanda magica da lui descritta, il fantastico si intreccia direttamente con il reale, perché egli immagina che i personaggi delle antiche fole, le fate dei boschi, gli gnomi che vivono sottoterra, le bestie incantate non sono scomparsi col volgere dei secoli, ma vivono ancora, e ancora si intromettono nella vita degli uomini.

Ma anche con la creazione del dottor Martin Hesselius che, sulla scia della corrente dello spiritualismo, incarna l’indagatore dell’incubo, il cacciatore di spettri. Il medico dell’anima e del corpo lo troviamo ne the Strange Case Happened in Augier street; The fortunes of Robert Ardagh; the Familiar.

«Storie a metà tra paganesimo sopravvivente e consapevolezza cristiana, interpretazione razionalistica della natura e ansia verso il Soprannaturale. Lovecraft, in seguito, dilatò questo senso di incertezza tra immanente e trascendente nell’analisi delle manifestazioni del Soprannaturale, fino a portare a proporzioni cosmiche il senso di dispossessamento che ne deriva» (G. Pilo, S. Fusco).

E.T.A. Hoffmann e Gustav Meyrink con le loro storie di fantasmi. Sulla base dei miti nordici nasce, nella letteratura tedesca, il concetto di fantasma vendicatore che ritorna dal mondo dei morti per ristabilire un ordine naturale.

Seabury Quinn, con il suo Jues de Grandin. Incontra mummie redivive, vampiri, licantropi, morti viventi, spettri, strigi, lamie, gorgoni, ghoul. Proprio questi ultimi sono presenti in alcuni racconti di Lovecraft, membri di una razza notturna sotterranea che si cibano di cadaveri.

Interessante citare anche un altro testo, the Graveyard Book di Neil Gaiman, (in it. Il figlio del cimitero) in cui i ghoul si radunano in una città sotterranea ma accedono al mondo dei viventi attraverso un portale, in un cimitero. Molti capitoli hanno analogie con l’opera di Rudyard Kipling del 1894, da cui prende il nome.

R: LE STORIE D’AUTORE

La libreria indipendente Le Storie prosegue la sua rubrica letteraria in collaborazione con fiorivivi.com dedicando settembre ai PIRATI

a cura di Gilda Diotallevi

I Pirati

La pirateria esiste da migliaia di anni, anche prima che fosse chiamata così. La storia è piena di episodi di banditismo marittimo, di navigatori che assaltano, molestano e saccheggiano barche e navi, mercantili o non, in mare aperto. Non è un caso che il termine pirata (dal greco antico pειράω) abbia come significato, oltre che tentare, prendere d’assalto.

Notizie su tale fenomeno giungono a noi dall’antica Grecia, dai romani (Cesare fu rapito da essi e nel 67 a.C., Pompeo organizzò una campagna militare contro i pirati definiti hostes gentium, nemici dell’umanità) dalle popolazioni scandinave, flagello dei mari nel V sec., dai vichinghi, eccellenti nella costruzione di navi che dal 700 al 1500 contribuirono a creare la struttura portante del fenomeno. Eppure è solo tra la fine del XVII sec. e l’inizio del XVIII che la pirateria vivrà il suo periodo d’oro.

Le gesta dei corsari durante il periodo elisabettiano, le avventure dei bucanieri nel mar dei Caraibi e le vicende degli scorridori inglesi del XVII sec.: queste le basi su cui una lunga e variegata letteratura ha attinto e di cui si è nutrita per la creazione di personaggi e trame picaresche, piene di misteri e maledizioni. Partendo dalle cronache del tempo, vennero eliminati gli elementi più biechi, crudeli e di sofferenza, per accentuare invece il carattere fascinoso dell’avventura, dell’esotico e della possibilità di scegliere una esistenza libera da legge e costrizioni.

Ma la realtà aveva tutta un’altra allure. Più che da sete d’avventura «A determinare la decisione di diventare pirata erano in genere le due ragione seguenti: da un lato il malessere dovuto a miseria, disoccupazione, condizioni di vita troppo dure e mancanza di prospettive per il futuro; dall’altro sete di guadagno e richiamo dei soldi facili. Un’altra forte spinta veniva dalla necessità di sottrarsi alla giustizia» (P. Lehr, I Pirati. Un ritratto dei predoni del mare dall’antichità ai nostri giorni, p. 13-14). La pirateria cresce in concomitanza dell’ascesa delle potenze marittime, sviluppandosi lungo le rotte commerciali e nelle città portuali, lì dove circolavano «Merci di alto valore, come la sete, le spezie, la porcellana, le pietre preziose, l’oro, l’argento, le pellicce, gli schiavi».

Dalle cronache alla letteratura

In una combinazione perfetta tra storia e leggenda, una certa parte della letteratura è stata, ed è tuttora, ispirata da pirati leggendari e dalle loro incredibili avventure che svelano il lato più audace e selvaggio dell’essere umano. Non essendo possibile elencare tutti i libri che trattano questo tema, ci limiteremo ai classici, provenienti dall’universo narrativo degli autori dei secoli XVIII e XIX e a quelli che più hanno plasmato la percezione popolare sulla pirateria.

Alexander Olivier Exquemelin, nel 1678 pubblicò The Buccanneers of America, uno dei testi più importanti sulla pirateria del XVII sec., in cui vengono narrate le vite, i comportamenti e le incursioni di avventurieri astuti e avidi, capaci di commettere atrocità anche senza motivo. Il libro ebbe un enorme successo, tradotto in diverse lingue, anche se le diverse edizioni differivano non solo per le ulteriori avventure compiute dall’autore, corsaro per la Francia prima e imbarcatosi in navi mercantili poi, ma soprattutto per via delle continue aggiunte degli editori al fine di rendere il libro sempre più avvincente.

Al di là della verità storica, la popolarità di Exquemelin è da attribuirsi ai racconti tra il 1660 e il 1720 in cui le vite dei pirati e dei corsari, che ben conosceva, si intrecciano a quelle di marinai, coloni inglesi, francesi e spagnoli lungo le rotte commerciali, descritti tutti come fossero eroi. Da quanto narrato, seppur impreziosito da elementi romanzati, si percepisce chiaramente come marinai provetti di nave governative si siano trovati costretti, per necessità, a darsi alla pirateria.

Abbiamo già sostenuto come l’immaginario piratesco si muova tra stereotipi, leggende e fatti realmente accaduti. A metà strada tra cronache di vita e letteratura romanzata Daniel Defoe, con il suo Avventure e Piraterie del Capitano Singleton del 1720, prepara il terreno a tutto ciò che sarà poi prodotto su questo mondo. Il suo antieroe Capitano Singleton, nato ai tempi di Drake e allevato dai gitani sull’Oceano Indiano, pratica più mercantilismo che violenta pirateria.

La stessa sorte di influenzare altri scrittori spetta al capitano Charles Johnson che, nel 1724, pubblica History of the Pyrates, il primo libro interamente dedicato al mondo dei pirati. Non meraviglia così che a quasi cento anni di distanza, Walter Scott scrisse il romanzo storico Il Pirata. Il Bucaniere Clement Cleveland, basato sulla figura di John Gow, pirata realmente esistito nel XVIII secolo, di cui le gesta sono narrate proprio nel libro sopra citato di Johnson. (Nonché a lasciarci una biografia di Daniel Defoe, nel Biographical memoir of eminent novelist del 1719). Anche un autore di tutt’altro genere come William S. Burroghs, nel romanzo La febbre del ragno rosso, riprende la leggenda del capitano Mission, descritta da Johnson nel secondo volume di The History of the Pyrates e della sua inclinazione anarchica.

Chi erano davvero i pirati? Johnson descrive ciurme formate da delinquenti, evasi, perseguitati, disertori e contrabbandieri. Ma anche ex capitani di navi mercantili, ex corsari, o nobili mossi da sete di avventura. Loro si ritenevano ribelli contro la corruzione dei governanti del Nuovo mondo (con cui però facevano affari di continuo). Nel libro si trovano anche descritti alcuni aspetti della loro organizzazione e alcune leggi alla base della pirateria come, per esempio la semidemocrazia, in cui il capitano era scelto dalla ciurma ed era prevista la presenza di un quartiermastro per giudicarne l’operato. Un capitolo è dedicato alla Repubblica di Libertalia, già citata in un altro testo dello stesso autore, A General History of The most Notorius pirates, ovvero a una leggendaria colonia anarchica fondata alla fine del seicento al nord del Madacascar, dove vigeva una sorta di democrazia parlamentare interraziale. «[…] i pirati dividevano tra loro donne, tesori e bestiami in maniera assolutamente equa».

Edgar Allan Poe nel suo Lo scarabeo d’orodel 1843 descrive il ritrovamento del tesoro del pirata William Kidd (1645-1701), personaggio storico realmente vissuto, a cui lo stesso Daniel Defoe dedicò un intero capitolo della sua opera (nel secondo volume della Storia generale dei Pirati).

«Dopo la fine della guerra di Successione spagnola, i corsari si trovarono disoccupati. I più spregiudicati issarono la bandiera nera sull’albero di mezzana e quella rossa sull’albero di maestra e dichiararono una guerra personale a tutto il genere umano». Così leggiamo in Storie di pirati del 1922, il sorprendente libro di Sir Conan Doyle ambientato nel XVII sec., la cui trama avventurosa si intreccia a misteri e leggende. Doyle crea il suo capitano Sharkey, uomo affascinante, crudele e astuto, che naviga con la sua Happy Delivery, sulle coste atlantiche dell’Africa.

Persino John Steinbeck, nel suo unico romanzo storico La Santa Rossa del 1929, cede al fascino dei pirati, pur donandoci un testo che travalica lo scenario topico dell’epoca. Protagonista di questa storia ricca di battaglie per la supremazia dei mari è Henry Morgan, pirata realmente esistito, che da giovane garzone del Galles, dopo aver ricevuto una profezia, parte per le Indie Occidentali nella speranza di diventare un bucaniere e conquistare una bellissima donna chiamata ‘la Santa Rossa’.

Anche l’Italia annovera un grande scrittore di storie di pirati. Emilio Salgari, con il suo primo romanzo Le tigri di Mompracem, ma anche con l’Isola di Tortuga e i Pirati della Malesia, crea una figura leggendaria: Sandokan, da cui elimina la radice più gratuitamente malvagia, restituendogli un aspetto più umano. Sandokan è sì un pirata ma un gentiluomo, è affascinante e fedele ai suoi, combatte il colonialismo britannico e si vendica solo verso chi ha ucciso la sua famiglia.

Dalla penna di Barrie prende vita un personaggio incredibile: Captain James Hook, ovvero Capitan Uncino. Sia nell’opera teatrale, portata in scena nel 1904, sia nel romanzo Peter e Wendy del 1911 troviamo una figura lontana da come spesso viene rappresentato nei film. La sua iconografia è magnifica, con un uncino di ferro al posto della mano destra (un coccodrillo pare avergliela mangiata), in Peter e Wendy, è descritto come un uomo alto, ‘cadaverico’, con occhi blu e riccioli lunghi e scuri che sembrano ‘candele nere’ se visti da lontano. Ha un’aria elegante, una buona dizione e «Nel vestirsi imita molto Carlo II». «In una parola, il più bell’uomo che abbia mai visto, sebbene, allo stesso tempo, leggermente disgustoso», ammetterà lo stesso Barrie (J. M. Barrie, Capitan Hook at Eton, in Mconnachie & JMB Speeches By J M Barrie). Capitano di una nave di malvagi e cruenti pirati, in passato si dice sia stato il nostromo di Barbanera e l’unico uomo che il pirata Long John Silver abbia mai temuto. Il fascino di questo pirata fuori dal comune è attribuibile alla sua ambiguità. Spietato a volte e compassionevole altre. Freddo e crudele ma al contempo gentile ed educato. Di carattere malinconico, amante della poesia e dei fiori, è anche un detestabile e solitario individuo.

Abbiamo poc’anzi nominato Long John Silver, il leggendario pirata con una gamba di legno, imprevedibile e crudele. Ad aver creato forse l’immagine più emblematica del pirata è stato Stevenson che, con la sua L’isola del tesoro ci regala il vero archetipo delle avventure marinaresche. Tale sarà la forza di questo personaggio che molti anni dopo Björn Larson pubblicherà La vera storia del pirata Long John Silver. Una biografia del pirata che riappare, dopo essere sparito nel nulla nel romanzo di Stevenson, vivo e ricco nel 1742 nel Madagascar, intendo a scrivere le sue memorie.

Quella di Stevenson è una storia eterna, con tutti gli elementi dell’avventura e del mistero, scritta in maniera sapiente, con l’utilizzo del gergo dei marinai e un ampio e colorito uso delle metafore. L’ispirazione, contrariamente a quanto ci si immagini, viene a Stevenson quando è in vacanza in Scozia con il figlio e si ritrovò a dipingere un’isola, elemento di partenza e fulcro del suo lavoro. Dell’isola, una fitta giungla di giorno e sommersa nella nebbia al mattino presto, c’è una mappa, nell’isola esiste un tesoro. E poi c’è lui, Long John Silver che con la sua potente descrizione ha segnato la nostra immaginazione riguardo i pirati. Alto, con una gamba di legno e l’immancabile pappagallo sulla spalla. Ma anche altri pirati, i cui nomi risuonano nel tempo. Pensiamo a Israel Hands (che fece realmente parte della ciurma di Barbanera), Billy Bones, Black Dog. La capacità di Stevenson è senza dubbio quella di aver attinto dalla realtà molti aspetti e particolari ma di averli modellati in modo tale da creare figure mitiche, brutali ma al tempo stesso romantiche.

Vale la pena citare un altro romanzo, molto più recente, L’isola dei pirati di Michael Crichton del 2009, fosse solo perché rielabora alcuni temi tipici del mondo piratesco: un vascello spagnolo carico d’oro, un piano diabolico ideato dal capitano Hunter e l’ambientazione caraibica. Centrale diviene Port Royal, tra i più famosi porti dei pirati, i cui vicoli nascondono taverne in cui si tessono intrighi e sono popolati di avventurieri, tagliagole e donne di malaffare, tutti in cerca di fortuna.

Degno di nota, fosse solo perché da questo romanzo viene tratta la trama del film Disney del 2011 Pirates of the Caribbean: On Stranger Tides (alcuni ulteriori passaggi vengono utilizzati per il sequel La vendetta di Salazar del 2017) oltre che l’ispirazione per la serie di avventure grafiche Monkey Island della società di George Lucas, Mari stregati di Tim Powers è un romanzo davvero sui generis. La sua particolarità è dovuta al fatto che l’opera, pur ambientata nella Giamaica del 1718 con chiari richiami al reale mondo piratesco (pensiamo ai mari Caraibici, alle ciurme feroci, alla presenza di pirati realmente esisti come Barbanera, a riti voodoo e superstizioni su navi e mari), è contaminata da elementi puramente fantasy. In particolare si parla di voodoo, una pratica sviluppata fra gli schiavi neri di Hispaniola deportati, frutto di una mescolanza di credenze di culti religiosi dell’Africa Occidentale, del Cattolicesimo e del cerimoniale magico dei Grimoires, (testi di stregoneria francese), seguita da molti pirati che si diceva stringessero patti con le forze oscure. Se tutto questo fosse vero o meno, certo è che questo elemento magico ha da sempre caratterizzato il mondo dei pirati e i testi da questi ispirati.

Concludiamo questa breve rassegna con il manga One Piece (ワンピース), scritto e disegnato da Eiichirō Oda. Gli elementi topici ci sono tutti. È la storia del giovane Monkey D.Rufy che, insieme alla sua ciurma, va alla ricerca del leggendario tesoro One Piece (chiara la citazione a Capitan Kidd e al suo tesoro narrati da Poe), inseguendo nel frattempo il sogno di diventare il nuovo Re dei pirati. L’antagonista questa volta è una donna, la piratessa Albida, la cui storia si ispira alla vera vita di Awilda, figlia del re scandinavo e grandissima piratessa del V sec. In quel periodo gli scandinavi erano un vero flagello per i mari del Nord e l’abilità di Awilda era insuperabile. Una volta che scoprì il suo imminente matrimonio combinato con il principe ereditario di Danimarca Alf, la donna si ribellò e, insieme ad altre donne, si travestì da marinaio e partì con una nave lungo le rotte del Mar Baltico. Toccò al suo promesso sposo combatterla in mare e solo dopo averne riconosciuto il valore in battaglia, decise di sposarlo, ponendo fine alla sua vita avventurosa.

Ma Alwida non è la sola donna pirata a essere considerata leggendaria. Forse la più famosa di tutte fu Ching Shih (1775), meglio conosciuta come la vedova Ching. La sua incredibile storia ispirò Jorge Luis Borges che la inserì nel suo Storia universale dell’infamia 1935(Un pirata: la vedova Ching è il capitolo che le dedica).

Dalla letteratura al mito

Esistono alcuni elementi che dal mondo reale della pirateria sono confluiti nella letteratura per rimanere, a loro volta, impressi nella nostra mente come qualcosa di leggendario, di mitico, di imprescindibilmente connesso alla pirateria stessa.

Il Rhum

Fifteen men on a dead man’s chest. Yo-ho-ho and a bottle of rhum. Drink and the devil had done for the rest.

(Stevenson, l’Isola del Tesoro)

La vita in mare era per i pirati tutt’altro che facile, non solo psicologicamente ma soprattutto fisicamente. Dovendo poi affrontare lunghi mesi in mare senza scali, il problema principale consisteva nell’approvvigionamento di cibo e acqua dolce. Non potendo infatti bere acqua salata e non potendo desalinizzarla, erano soliti imbarcarla in grosse botti che però, dopo poco si ricoprivano di alghe, rendendo l’acqua impura. Ma i Pirati scoprirono che era possibile salvare l’acqua aggiungendo dell’alcool al suo interno. Così prima la allungarono con la birra, con l’inconveniente però, una volta aperta, di doverla in bere in breve tempo. Poi verso la metà del 1600 aggiunsero Rhum. La scoperta fu sorprendente perché in tal modo l’acqua si preservava a lungo dalla proliferazione di batteri, risultando anche gradevole da bere. Con l’aggiunta poi di limetta o succo di limone, ovvero con l’assunzione di vitamina c, potevano prevenire lo scorbuto, la malattia più comune sulle navi, le influenze e lo stress. Leggenda vuole che i pirati miscelassero rhum con polvere da sparo, per darsi carica prima degli assalti alle navi.

Negli anni d’oro della pirateria il Rhum divenne un elemento imprescindibile, facilmente reperibile nei porti caraibici e poco costoso, utile e soprattutto piacevole. Stevenson, nel suo L’Isola dei Pirati, cita proprio il rhum allungato con l’acqua, il grog, come bevanda offerta ai marinai della Hispagnola. Nel 1756 l’assunzione giornaliera di rhum entra addirittura nel regolamento della Royal Navy che ne prescrive l’assunzione due volte al giorno per ragioni mediche (non scordiamo che anche l’Angostura nel XVIII secolo veniva usata dai missionari in Bolivia per curare le febbri tropicali), ma soprattutto per rendere più audaci gli uomini, fossero al servizio dell’Inghilterra o semplici pirati. Sempre Stevenson narra di come, prima di essere scoperto dal giovane Jim Hawkins, Long John Silver e il suo compagno Israel Hands, convincono l’equipaggio all’ammutinamento proprio persuadendoli con l’alcool. L’uso smodato però, tipico dei pirati, ne accentuava l’aggressività, la rissosità sulle navi e divenne centrale nei giochi di forza tra comandati e marinai. Una delle prime punizioni da infliggere alla ciurma era infatti la sottrazione dell’alcool, così come un regalo era proprio lasciarsi andare in libagioni selvagge. Nei diari di bordo di Edward Teach (Barbanera) si legge come, insieme ai forzieri d’oro, era considerato un tesoro scovare idromele, brandy e vino rosso, così come fosse normale distillarlo da loro stessi.

Non è perciò un caso che uno dei cocktail più famosi al mondo fosse stato inventato da un pirata e che fosse soprannominato coraggio liquido. Il diabolico antesignano del Mojito era proprio el Draque. Creato da Sir Francis Drake quando scoprì che l’herba buena (ovvero la menta selvatica cubana) poteva essere usata come rimedio alla dissenteria, la aggiunse alla sua bevanda. Essa consisteva in Ruhm fresco (o aguardiente de cana, l’acquavite distillata dallo zucchero di canna), acqua, zucchero, lime, e infine menta.

La cucina creola

Le difficoltà sull’approvvigionamento non si limitavano all’acqua ma anche al cibo. Gli alimenti a lunga conservazione erano pochi e le razioni scarse. Ma forse proprio per questo il contributo dei pirati all’arte culinaria è indubbio. Oltre ad una sapiente capacità di adattarsi con i pochi elementi a disposizione, la loro cucina era basata sulle contaminazioni tra diverse culture. Di necessità virtù e così oltre alle famose gallette, composte di acqua e farina e di ricette a base di pesce, troviamo un sapientissimo uso di aromi e spezie. Dall’aglio che oltre le sue capacità antibatteriche eliminava l’odore di putrido a bordo, al limone, con le sue proprietà benefiche, alla cipolla, al timo per macerare e rendere più gradevole la carne di squalo. Fino alla creazione di piatti tipici, come la turtle soupe, uno stufato di tartarughe verdi che venivano catturate e conservate in stiva vive ma capovolte per evitare che vagassero per la nave.

Interessantissimo un volume, pubblicato da Elèuthera, La cucina della filibusta, a metà tra ricettario e libro storico «in cui le ricette si alternano alla narrazione in un’armonica composizione di sapori e vicende». L’autrice è Melani Le Bris, figlia del più noto storico francese della pirateria Michel Le Bris che, nel tempo, ha ripubblicato anche alcuni scritti inediti di Stevenson.

La mappa del tesoro

di Flavia Sorato

A rendere famose ed eternamente avventurose le storie di pirati è da sempre una certa immagine, iconica, che nel tempo, costituendosi come genere, ha contribuito nel dare vita ad una vera arte, la cartografia letteraria, un mondo immaginifico che ci porta lontano, su isole e terre alla scoperta o alla ricerca di qualcosa.

La mappa del tesoro è ciò che ci viene mostrato da piccoli, mentre ascoltiamo o leggiamo racconti di mare e d’avventura, e che ci consegna quella magia dell’altrove, potente e ammaliatrice, senza cui non potremmo pensare un certo tipo di storia.

La più rinomata è probabilmente quella de L’Isola del tesoro, di Louis Stevenson, la più conosciuta, forse, tra le tante che popolano diversi altri libri e che potremmo collezionare visivamente, come ad esempio nel caso del racconto di Edgar Allan Poe Lo scarabeo d’oro (The Gold-bug). Qui assistiamo ad una sempreverde caccia al tesoro, basata su un messaggio cifrato e su un mappa ad esso collegata, e la cui narrazione, oltretutto, fa riferimento proprio al tesoro di un vero pirata, forse uno dei corsari più famosi della storia, William Kidd.

La mappa di Stevenson è, però, il disegno piratesco per eccellenza. In una bella raccolta di saggi che compongono un atlante di viaggi letterari Le terre immaginate, di Huw Lewis-Jones, vi è uno scritto dedicato proprio alla mappa in questione. Robert Macfarlane racconta della sua passione per lo scrittore scozzese e di come quel disegno in particolare abbia fatto sorgere in lui la passione per un certo mondo fantastico, d’isole e carte misteriose.

L’isola del tesoro nasce, dunque, proprio dalla mappa creata da Stevenson. Il tutto accadde, poi, in modo inaspettato perché lui la disegnò la prima volta per intrattenere un bambino, il suo figlioccio, e da quella suggestione poi presero mano a mano vita i personaggi, la trama e tutta la storia. «Da quel pezzo di carta piatta scaturì uno dei luoghi immaginari meglio convincenti e
compiuti di sempre».

Nel nostro immaginario questa cartina è una chiave d’accesso, per l’avventura, il mistero, il viaggio. Ci educa a pensare ad un altrove non vago, ma preciso, popolato da dettagli e particolari. “Mostra un’isola dalle coste frastagliate con boschi, vette, paludi e insenature. Ci sono segnati solo pochi nomi e parlano di avventure e disastri: La Collina del Cannocchiale, Le Tombe, L’Isola dello Scheletro. La calligrafia è abile, sicura; alla punta sudorientale dell’isola c’è una rosa dei
venti e uno schizzo di un galeone a vele spiegate. Alcune cifre segnano la profondità del mare circostante e ci sono avvisi ai naviganti Mare forte, Secche.

E nel cuore dell’isola c’è una croce rossa come il sangue accanto alla quale è vergata la scritta Qui c’è la cassa del tesoro (Bulk of treasure here).

In una sola mappa è racchiuso un mondo, c’è un dentro e un fuori, e la storia che su di essa si fonda o che ad essa porta è definita visivamente dall’includere dettagli, simboli, segni. La X, come certe scritte, fanno parte di un linguaggio eterno, mentre altri aspetti si trasformano e portano a innumerevoli rielaborazioni (come quella di Monro Orr del 1934)

Se Jim Hawkins e una figura come quella di Long John Silver ci accompagnano tutt’oggi ne La più nota storia di pirati è grazie ad una mappa, ad una geografia fantastica che è diventata reale, e come diceva lo stesso Stevenson:

«Ci sono persone a cui non interessano le mappe, ma trovo difficile crederlo».

I porti (covi pirata)

[…] quando si procuravano del bottino immediatamente lo sperperavano, e se avevano denaro o liquore giocavano il primo e bevevano il secondo finché non ne rimanevano privi; e durante siffatta baldoria non vi era distinzione tra capitano e ciurma.

 (Woodes Rogers).

Tra una scorreria e l’altra, anche solo come sosta dopo lunghissimi giorni di navigazione, i pirati solevano rifugiarsi in alcune isole per fare rifornimento di vettovaglie, in alcuni casi per nascondere tesori, in altri per dissiparli completamente in vino, divertimenti e donne. «Il vino e le donne prosciugano i loro averi» (Charles Leslie, History of Jamaica).

Tra queste le più rinomate Port Royal, il più ricco porto dell’era coloniale, ubicato in una posizione strategica atra le rotte del commercio spagnolo a metà strada proprio tra la Spagna e Panama, fondato nel 1655. Soprannominato dai pirati stessi il porto delle orge, la sua città, la «più peccaminosa e sediziosa del mondo», era abitata da pirati, tagliagole e prostitute. Non meraviglia perciò che nel momento in cui un terribile terremoto del 1692 la distrusse inabissando due terzi della città, in molti attribuirono l’evento alla punizione divina per quella Sodoma del Nuovo Mondo. La violenza del maremoto fu tale che la penisola di Palisadoes, dove sorgeva l’antico cimitero in cui, nel 1688, era stato sepolto il corsaro Henry Morgan, si frantumò e divenne un’isola.Oltre Cartagena, Portobello, l’altro luogo entrato nella nostra immaginazione è senza dubbio Tortuga. Piccola isola a forma di tartaruga scoperta da Colombo, era il covo dei bucanieri, frequentata quindi da francesi prima e da olandesi e inglesi poi. Resa famosa da Salgari e dal suo Corsaro nero, la sua nomea torna alla ribalta grazie al famoso film della Walt Disney i Pirati dei Caraibi.

Il ritorno dei pirati

Flavio Carlini

La pirateria nel tempo ha cambiato forma, eppure «Ancora oggi…gli oceani sono un’area grigia priva di normative condivise, perché per i paesi sviluppati la fluidità dei trasporti marittimi è più vitale di qualsiasi regolamento internazionale» Leher (op.cit). Così come invariato rimane il fascino che quel mondo evoca e che, ancora, ispira pellicole cinematografiche, ricerche storiche e nuovi romanzi. Esiste anche chi, per buona sorte di tutti noi, decide di restituire qualche classico sui pirati a nuovi lettori: è questa l’operazione compiuta dalle  Edizioni Haiku.

Abbiamo parlato con Flavio Carlini, curatore, per la medesima casa editrice, della collana Settemari.

Il mondo dei pirati è sempre affascinante e ha spesso il potere di trasformarsi in attualità, prestando simboli e idee a noi contemporanei. Nel corso della storia, infatti, la figura del pirata si è sempre più sovrapposta a quella dell’eretico, del ribelle, di colui che ‘lotta contro tutte le bandiere’ in nome di una anarchia fatta di giustizia opposta alle prevaricazioni della classe dominante.
Celebre è la citazione che fece Fabrizio de André nell’album ‘Le nuvole’ del pirata Samuel Bellamy, che incontrando un ufficiale della marina britannica, disse «Io sono un principe libero e ho altrettanta autorità di fare guerra al mondo intero quanto colui che ha cento navi in mare».
Bellamy era certamente un pirata molto politicizzato, ma nella storia vera e spogliata dalle vesti del romanticismo, la figura del pirata offriva una moltitudine di istanze culturali e caratteriali. I pirati della cosiddetta ‘Golden Age’ si discostavano con prepotenza dalla norma, nel bene e nel male, nella criminalità e nell’idealismo. Creavano società democratiche in un’epoca segnata dall’aristocrazia; si mescolavano tra europei, africani e nativi americani in una cultura comune, quando l’Africa era la miniera d’oro degli schiavisti, i nativi erano considerati dei fastidiosi selvaggi e l’Europa era dilaniata dalle guerre di religione.

Si tratta di un periodo storico saccheggiato dalla fiction ma stranamente sottovalutato dalla ricerca storica. Da qui l’idea di pubblicare per la prima volta in maniera integrale la celebre Storia generale dei pirati scritta dal fantomatico Capitan Charles Johnson, forse pseudonimo di Daniel Defoe, in una serie antologica capace di offrire – oltre al testo originale in una nuova traduzione – approfondimenti e divulgazione storica sui pirati citati, in modo da far emergere la realtà dei personaggi spesso romanzati in maniera eccessiva dall’autore del testo. Il progetto è partito come una scommessa e si è rivelato un bel successo, tanto da aver dato il via anche a un podcast che approfondisce molti altri aspetti e personaggi legati al mondo della pirateria ‘Radio Pirata’ che ha già raggiunto la quarta stagione.

Dizionario Essenziale

BUCANIERE: pirata, in particolare predone che depredava le navi spagnole nelle Indie Occidentali durante il XVII sec. Da cui anche spietato speculatore o avventuriero. Il termine bucaniere, deriva dal francese boucanier (chi usa il boucan, ovvero l’intelaiatura di legno per essiccare la carne e conservarla. Metodo insegnato dalle tribù locali Arawak di Santo Domingo, che chiamarono il metodo Barbicoa, da cui prende origine la parola e il metodo Barbecue). Il termine sta a indicare pirati e corsari francesi, inglesi e olandesi del XVII e XVIII sec. attivi nei Caraibi, che colpivano le navi spagnole e gli insediamenti costieri spagnoli. CORSARO: dal francese corsair, a indicare un predatore di mercantili che prende parte alla guerre de course (‘guerre di incrociatori’, l’attacco appunto a navi mercantili). In inglese il termine corsair è usato perlopiù per designare i corsari attivi nel Mediterraneo; il termine generico è invece privateer.

FILIBUSTIERE: dall’olandese virijbutier (in inglese freebooter) indica una persona che pratica la pirateria. Il termine è quindi sinonimo di pirata.

JOLLY ROGERS: bandiera nera raffigurante un teschio e delle ossa incrociate (skull and crossbones) apparsa nel XVIII sec. Precedentemente i vessilli dei pirati erano di diversa foggia, rappresentando spade, diavoli, macabri motti, e colore. Dalla versione precedente di colore rosso, tipica della guerra di Successione spagnola e poi mantenuta come simbolo del sangue da quei corsari che finirono nella pirateria e chiamata appunto Jolie Rouge, si dice abbia preso il nome.

PIRATA: colui che pratica pirateria, ovvero compie rapine, rapimenti o violenze in mare o dal mare per guadagno personale e senza il mandato di un’autorità legittima.

PRIVATEER: termine inglese, derivante dalla combinazione tra private e volunteer, impiegato per indicare una nave da guerra gestita in proprio o una persona con l’incarico di attaccare navi mercantili, vale a dire un pirata su licenza (ovvero corsaro).

LETTERA DI CORSA: anche detta lettera di marca era un documento emesso da un governo di uno Stato che autorizzava il titolare di essa ad attaccare e catturare vascelli di uno Stato nemico. Per lettera di marca si intende anche il permesso concesso dai sovrani ai gentiluomini e ai borghesi ad armare in corsa.

7 MARI: modo per indicare tutti i mari conosciuti. Fu Rudyard Kipling a rendere nota tale espressione figurativa, seven seas, che indicava i mari, tutti, e gli oceani del mondo (Indiano, Artico, Antartico, Nord e Sud Pacifico, NS Atlantico). Nella antica letteratura delle origini indicava sia i mari reali che le distese provenienti dal mito. Sette inoltre era il numero che rappresentava il compimento di un ciclo.

Emilia Lodigiani e Arto Paasilinna

di Camilla Lo Schiavo

In questa vita la cosa più seria è la morte; ma neanche quella più di tanto.
(A. Paasilinna, Piccoli omicidi tra amici)

Intervista a Emilia Lodigiani

Prima guardaboschi, poi giornalista, poi poeta. Arto Paasilinna (1942-2018) è un autore di culto in Finlandia. Amato per suo il travolgente humour, le sue storie sollazzevoli e surrealiste hanno conquistato un vasto e variegato pubblico. Tradotto in oltre 45 lingue, in Italia è edito presso Iperborea. A parlarcene sarà Emilia Lodigiani, fondatrice della casa editrice.

Iperborea è una casa editrice milanese fondata nel 1987, specializzata in letteratura nordica. Da dove nasce tale interesse?

Nel mio periodo di permanenza parigino frequentavo la biblioteca di Sainte-Geneviève, che possedeva un reparto molto ricco di letteratura nordica; aimè ignoravo queste lingue, ma grazie alle traduzioni iniziai ad approcciarmi ad alcuni classici. In Francia era ben sviluppato l’interesse per questo tipo di letteratura, pubblicando oltre ai classici fondamentali anche gli scrittori contemporanei. Incuriosita da tale filone lo approfondii, e cominciai a scrivere un libro su Karen Blixen.

Nel ’86 tornai in Italia: non trovai nessuna traduzione, né pubblicazione. Da parte mia era quasi doveroso far conoscere il mondo nordico. Proprio in quell’epoca, ci fu il primo boom dei piccoli editori. Andai nella Libreria Isola di Milano, dove si riunivano E/O, La Tartaruga e Marcos y Marcos. Con un po’ di incoscienza domandai se un editore poteva essere così concentrato su un’unica area geografica. La risposta fu affermativa. La specializzazione poteva essere un vantaggio: più sei piccolo, più sei facilmente comunicabile. Anche gli altri editori partivano da una propria passione (i coniugi E/O dalla letteratura russa, Marcos y Marcos dalla poesia tedesca, La Tartaruga con firme prettamente al femminile) e oltre a trovare una rete di colleghi trovai un gruppo di amici e sostenitori (con E/O siamo soci all’estero). L’idea infine di diventare editrice me la diede mio fratello. Non avrei mai pensato che Iperborea potesse sopravvivere. Mi sono lanciata in un’avventura che non sapevo come potesse andare a finire.

Ha riscontrato delle difficoltà nel suo essere un’editrice donna?

No, tutt’altro. Non ero l’unica e all’epoca le donne imprenditrici erano sottovalutate e quindi non ostacolate. Ho trovato molte persone che mi hanno aiutato, che mi affidavano i loro grandi autori. Dovevano avere fiducia in me.

Mi sono formata leggendo autori alti: era chiaro che lo facevo con passione, con cognizione di causa. Come chi mangia bene e sa riconoscere un risotto buono da uno cattivo.

Che rapporto si va creare tra traduttore e testo? Come vi arriva lo scritto originale?

Per quindici anni siamo stati gli unici italiani a pubblicare autori nordici: ci arrivavano un centinaio di titoli all’anno e ne scartavamo i nove decimi. Oggi vi è una maggior concorrenza. Oltre ai pochissimi rapporti diretti con alcuni scrittori, ci affidiamo ai suggerimenti degli editori e degli agenti; questi ci mandano il libro con una scheda e la loro opinione. Inoltre, da oltre 50 anni tutti i paesi del Nord hanno ottimi istituti per la promozione della loro letteratura e gli agenti ci mandano una trentina di pagine tradotte: ogni informazione in più che abbiamo ci è utile.

Si ricorda l’arrivo di Paasilinna?

Sì, fu un vero e proprio colpo di fortuna: allora ero in Francia e avevano appena pubblicato L’anno della lepre. Evidentemente lo lessi nel momento sbagliato: non lo apprezzai. Mi pareva troppo ironico. Lo feci leggere a un mio amico, un consulente sui genereis: un banchiere ottantenne con uno stravagante senso dell’humor (pubblicò un libro dal titolo L’umorismo di Kafka); mi chiamò poco dopo, dicendomi che era un capolavoro. Incredula chiesi conferma alla moglie, che mi ribadì l’opinione del coniuge. Ripresi L’anno della lepre in mano. Lo devo davvero ringraziare: capii solo allora la comicità di Arto, oggi uno dei nostri autori simbolo.

Secondo lei perché ha avuto e sta avendo un così grande successo?

Paasilinna narra la realtà partendo sempre da un tema o da un problema reale e specifico. Descrive la natura, il mondo umano e animale, iniziando dalle ‘domande importanti’. Se si facessero dei riassunti dei suoi libri i toni parrebbero estremamente seri. E’ molto critico nei confronti della società, ma la sua non è un’inchiesta, bensì una visione anarchica e solitaria raccontata con sottile humor. L’attacco paasiliniano è tragico, folgorante, rapido e conciso: in Piccoli suicidi fra amici l’incipit è dato da due diversi personaggi che si ritrovano per caso nello stesso posto per suicidarsi; nel L’anno della lepre due uomini depressi che stanno guidando un’auto diretta a Helsinki. Paasilinna mina la sicurezza di chi sta leggendo, cogliendo le debolezze delle tradizioni, delle istituzioni, inserendoci quel paradosso che fa diventare il tutto estremamente divertente. Questa è la sua peculiarità: i suoi non sono libri di evasione, perché partono sempre da un fatto vero. Per quello non stufano mai.

In quale dei suoi libri emerge maggiormente questo paradosso?

Sicuramente su Il figlio del dio tuono, ma anche su Il bosco delle volpi impiccate: si parte dall’analisi ironica di un fatto storico, come l’arrivo dei tedeschi a Oslo per la conquista della Norvegia. In questa scenografia, Paasilinna pone però l’attenzione sulla vecchiaia e sulla marginalità mediante il protagonista, Oiva Juntunen, gangster di professione preoccupato esclusivamente per i suoi quattro lingotti d’oro.

Quale libro rappresenta meglio lo scrittore?

L’anno delle lepre e Piccoli suicidi tra amici. I più divertenti e insieme profondi. Ha scritto anche romanzi seri, come Sangue caldo e nervi d’acciaio, uno spaccato della Finlandia del ventesimo secolo, con un’accesa vena malinconica.

Si è detto che Paasilinna parte sempre da temi veri: le sue vicende sono così ben descritte che sembra quasi che le abbia vissute, fatte in qualche modo sue.

Arto è nato nell’estremo nord della Lapponia, cresciuto in una famiglia numerosa, con fratelli tutti un po’ speciali (uno è anche scrittore). Ha conservato uno spirito libero, quello di chi è nato in mezzo al nulla della natura. Chi vive quella natura, quella nordica, vive la società come spettatore esterno. Ha iniziato come giornalista, ma non potendo essere ‘troppo’ schietto decise di optare per la libera scrittura. Assomigliava tantissimo ai suoi personaggi, capace di sbornie colossali e di combinarne di tutti i colori.

Si è stupito del successo che ha avuto?

In Finlandia fin da subito è stato un autore di punta. Il suo editore (uno dei suoi migliori amici) mi raccontava che scriveva spesso d’estate, nella sua casa in Portogallo. Consegnava a settembre i titoli e a marzo pubblicava il libro. I giornalisti domandavano ad Arto come potesse avere così tanta fantasia e lui controbatteva « Potrò vivere così a lungo per scrivere tutte le storie che ho in testa?».

Si stupì però del successo in Italia. Raccontava spesso di una delle sue accoglienze più belle, a Roma, per il festival I Boreali all’Auditorium. Arrivato in hotel, il receptionist gli fece compilare dei documenti. «Firmi qui, ecco qui.. e ora gentilmente qui», tirando fuori due dei suoi libri. Non se lo aspettava! Fu un gran piacere.

Ricordo anche le code della Fiera di Torino, dai ragazzini alle signore più anziane. Paasilinna coinvolge tutti, bambini, adulti, i meno acculturati (abbiamo ricevuto una lettera di ringraziamento da parte di un meccanico!) e gli intellettuali. Dopo la sua morte, nel 2018, questo coinvolgimento è stato ben documentato da Valerio Millefoglie, che ha svolto un tour in Italia (senza il covid altra tappa era la Finlandia) raccogliendo alcune testimonianze per la sindrome dell’Arto mancante: chiedeva ai lettori paasiliniani perché Arto gli avesse cambiato la vita. Il risultato è commovente.   

Su un encomio di Le monde Paasilinna viene paragonato al premio Nobel Marcia Marquez. Vi trova delle analogie?

Nell’uso del paradosso e di un modo immaginario sì. Entrambi fermano un riflesso del mondo per reiventarlo. Quello di Paasilinna è però molto più vicino al nostro. (https://www.lemonde.fr/disparitions/article/2018/10/16/l-ecrivain-finlandais-arto-paasilinna-est-mort_53702 19_3382.html)

Durante il sopra citato Memorial Tour, in occasione della scomparsa di Paasilinna il 15 ottobre del 2018, Valerio Millefoglie ricostruisce un mondo composto da letture, voci, frammenti musicali e ricordi. Tra questi ultimi riportiamo un aneddoto speciale di Emilia Lodigiani.

https://fb.watch/6skcZK-LBo/

R: LE STORIE D’AUTORE

La libreria indipendente Le Storie prosegue la sua rubrica letteraria in collaborazione con fiorivivi.com dedicando maggio a KNUT HAMSUN. 

A cura di Gilda Diotallevi

Knut Hamsun (Vågå, 4 agosto 1859 – Nørholm, 19 febbraio 1952) è stato uno scrittore norvegese, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1920 con il capolavoro Markens Grøde del 1917 (tr.it Il risveglio della Terra, 1945).

Il primo libro Den gaadefulde (1877), pubblicato all’età di diciotto anni, riporta il suo vero nome Knut Pedersen Hamsund. Nel 1884, dopo aver incontrato Mark Twain e aver scritto un articolo su di lui, per un errore di stampa uscì con il nome di Hamsun, senza la d finale. Da quel momento questo sarà il nome con cui firmerà tutte le sue opere.

Personaggio controverso, le cui dichiarazioni politiche obbligano il lettore a riflettere sulla distanza tra opera e autore. Senza la presa in carica di tale scarto si rischia di fermarsi alla soglia del giudizio e di non abbracciare la bellezza del linguaggio, dei temi, così come la grandezza dei suoi testi.

Fulminante è l’esordio della biografia (Enigma: the life of Knut Hamsun) che Robert Ferguson pubblicò nel 2011,

«Se ne hanno mai sentito parlare, le persone tendono a sapere due cose su Knut Hamsun: che ha scritto Hunger e che ha incontrato Hitler. Chi ne sa un po’ di più sa che con Hunger, Mysteries  e Pan ha prodotto romanzi che hanno avuto un effetto decisivo sulla letteratura europea e americana del XX secolo».

Il critico letterario Carlo Bo negli anni Ottanta scrisse:

«Hamsun conobbe la fame e ne fece un romanzo. La fame, le carestie, i flagelli dell’umanità hanno da sempre costituito materia per gli scrittori ma diverso è stato il modo delle loro restituzioni. Per esempio, chi ricorda Fame, il libro famoso di Hamsun capisce subito ciò che vogliamo dire. È un libro che ha quasi un secolo e ha dato la gloria al suo autore. Hamsun era nato nel 1859 da una famiglia di contadini norvegesi e aveva avuto una educazione molto dura e severa, soprattutto per opera di uno zio pietista. È stato questo inizio contrastato e difficile a segnare per il resto della sua vita lo scrittore che ha dovuto esaltare lo spirito libertario e condannare i vincoli e le regole della società borghese. Per certi aspetti Hamsun assomiglia a molti scrittori americani che hanno fatto della loro vita il primo mondo di letterati: avventure, lavori di tutti i generi e una grande miseria. Hamsun ha fatto due grandi soggiorni negli Stati Uniti fra il 1882 e il 1887, sempre alla ricerca della fortuna e con il premio della miseria. Fame nasce direttamente da queste sue prime esperienze ed è nello stesso tempo invenzione e restituzione, creazione e memoria»
Sult (1890, The Hunger)

Su di lui

I primi a comprendere la grandiosità di Hamsun sono stati proprio gli scrittori che in lui hanno trovato un riferimento, il precursore di tutta la letteratura del secolo scorso o, per usare le parole di Isaac Bashevis Singer, «il padre della moderna scuola di letteratura in ogni suo aspetto: la sua soggettività, la sua frammentarietà, il suo uso di flashback, il suo lirismo». I suoi romanzi fondamentali rappresentano un ceppo di radici dell’albero genealogico letterario più ribelle e controverso. 

Thomas Mann nel 1929 scrisse che il premio Nobel per la letteratura non fosse mai stato assegnato a uno più degno.

Henry Miller lo definì «il Dickens della mia generazione»,mentreHermann Hesse «il mio autore preferito».

Lo leggono tutti, dagli scrittori russi come André Bely a Kafka, Brecht, Gorky, Wells, Musil, fino ad Andrè Gide che lo riteneva superiore addirittura a Dostoevskij.

Ernest Hemingway sosteneva che «Knut Hamsun mi ha insegnato a scrivere».

Addirittura John Fante, che non aveva mai fatto mistero di come il libro Pan fosse per lui l’inizio di tutto, nel capitolo 22 del suo capolavoro Ask the dust , scrive

«Aprii una valigia e tirai fuori una copia di Fame di Knut Hamsun. Era un oggetto conservato gelosamente, sempre con me dal giorno che lo avevo rubato alla biblioteca di Boulder. Lo avevo letto tante di quelle volte, che potevo recitarlo… mi sedetti davanti alla macchina da scrivere e mi soffiai sulle dita. Per favore, Dio, non abbandonarmi, per favore, Knut Hamsun, non abbandonarmi».

Lo stesso titolo del libro trova ispirazione da ciò che Hamsun scrisse quarantacinque anni prima:

«Chiedilo al vento e alle stelle, chiedilo al Dio della vita […] Chiedilo alla polvere della strada e alle foglie che cadono, chiedilo all’enigmatico Dio della vita, perché nessun altro può saperlo».

Anche Bukowski lo inserì in un suo testo:

«Le dissi che Knut Hamsun era il più grande scrittore del mondo. Lei mi guardò, stupefatta che avessi sentito parlare di lui, poi si dichiarò d’accordo. Ci baciammo lì sulla veranda».

Eppure ancora oggi è un autore poco citato, il cui contributo nella letteratura del xx secolo fu sicuramente oscurato dalle sue idee politiche, da quella prigione in cui, intellettualmente, fu relegato.

Scrivere

La lingua deve risuonare con tutte le armonie della musica. Lo scrittore deve sempre, in ogni occasione, trovare la parola palpitante che cattura la cosa e che è capace di ferire la sua anima fino alle lacrime per la sua esattezza. La parola può essere trasformata in un colore, in un suono, in un odore. É compito dello scrittore usarla in modo tale affinché la parola sia efficace, mai errata, e non rimbalzi. Lo scrittore deve essere capace di divertirsi e di inebriarsi nell’abbondanza delle parole. Deve conoscere non solo la forza diretta della parola ma anche quella segreta. Vi sono ipertoni e sottotoni in una parola ed anche echi laterali.
(K. Hamsun, 1888).

Fin da subito Hamsun dimostra una passione per la lingua, per la vita segreta delle parole, tanto che Kristofer Janson (scrittore e predicatore che lo aveva conosciuto da giovanissimo) riportò la «passione patologica per la bellezza estetica» di cui sempre parlava Hamsun.

«Poteva fare salti di gioia ed entusiasmarsi per un giorno intero per un aggettivo originale, particolarmente espressivo, che aveva trovato in un libro o aveva creato lui stesso».

La stessa Marie, la moglie, testimonia il dolore e la gioia che lo scrivere procurava a Hamsun. Adesso vedremo di che cosa sono capace: la vita, la morte o la putrefazione, scrisse in una lettera a Marie che di contro era certa che il suo amore per lui non fosse la vera felicità per Knut.

«Il mio amore era senz’altro un ingrediente dell’atmosfera di cui aveva bisogno per arrivare alla vera felicità. Ma capivo che quando lui, come ora, non poteva iniziare il suo lavoro, non c’era niente che potesse controbilanciare la situazione».

E così era sempre stato, perché scrivere era la risposta spirituale al mondo ostile e materialistico in cui era immerso. Nella sua lunga vita svolse lavori diversi, come sterratore, come commesso in un negozio, come autista di tram a Chicago e perfino conferenze, con il solo scopo di poter scrivere.

Leggere

Fin da piccolo Hamsun fu sottratto alla sua stessa infanzia e costretto a lavorare, trovando nei libri l’unico modo per alleviare la sua profonda solitudine. A parte la frequenza occasionale a una scuola itinerante, non aveva ricevuto nessun altra istruzione formale. Nel 1927 in una intervista Knut interrogato su quale fosse il suo libro preferito rispose Non mi piacciono i libri, sostenendo, seppur provocatoriamente, che a tutta la letteratura e il teatro preferiva senza dubbio i diari di viaggio, i racconti di caccia, le memorie, le corrispondenza e i libri di storia. In una lettera al suo amico Albert Engström, Hamsun scrisse:

Presto inizierò il libro tibetano di Hedin, queste cose sono una lettura meravigliosa; ma i romanzi e le opere teatrali mi nauseano.
(Lettera 980).

L’unico scrittore verso cui si sente riconoscente è Dostoevskij che considera il giudice della mente umana per eccellenza.

Dostoevskij è l’unico poeta da cui ho imparato qualcosa, è il più potente dei giganti russi
(Lettera 1051 a Marie Hamsun, 1910).

Ancora nel 1895, mentre era a Parigi, nella corrispondenza con i suoi amici Bolette e Ole Johan Larsen, troviamo:

Se solo potessi mandarmi un libro di storia, Bolette. Dovrebbe essere un libro di storia, non romanzi, per l’amor di Dio. Ma un libro di storia, sai, su cose e tempi lontani. O un libro di viaggio su paesi lontani
(Lettera 359). 

Ma a interessarlo particolarmente erano i diari di viaggio.

Diari di viaggio e libri di esploratori (sono) la mia lettura più preziosa
(Lettera 886).

Sono le persone con una buona testa che fanno queste cose. Non conosco un solo grande scrittore che non abbia: Goethe, Hugo, Bjørnson … Heine
(Lettera 1228).

Il suo diario di viaggio: In Wonderland

Nel 1903 Hamsun stesso scrive il diario di un viaggio che aveva intrapreso qualche anno prima, nel 1899, dopo una serie di rinunce e rimandi dovuti a problemi economici. Meraviglia come In Wonderland (I Æventyrland), nonostante sia stato tradotto in inglese, risulti uno dei libri meno conosciuti di Hamsun. Eppure in esso vi sono le grandi passioni del nostro, la Russia, la fuga dall’Occidente, dall’America caotica e materialista, il viaggio e la riscoperta di quel legame mistico, primitivo, essenziale che unisce l’uomo alla natura, tutti temi che troveranno poi forma nel suo scrivere di terre e viandanti. Perfino la radice della letteratura americana, incentrata sul desiderio di mettersi “on the road”, è da rintracciarsi in Hamsun e nella sua elaborazione del vagabondo, di un uomo alla ricerca di qualcosa che non troverà. Prendono vita nelle sue pagine personaggi che non sono radicati nella terra in cui nascono ma che si spostano di luogo in luogo compiendo un viaggio che ha come fine la trasformazione interiore. Esiste un filo conduttore che lega testi come Sotto la stella d’autunno del 1906, Vagabondi del 1927, Ultima gioia del 1912, l’ idea cioè di un viaggio che, nella sua più intima e dolorosa declinazione ricorre, seppur in forma metaforica, anche nel suo ultimo testo Paa gjengrödde stier  (tr.it. Per i sentieri dove cresce l’erba) del 1962.

La direzione in cui si muove In Wonderland è controcorrente. Mentre in quel tempo è di gran voga il grand tour, come esercizio di crescita in avanti dell’uomo, Hamsun si muove a ritroso nel tempo, in linea con il culto dell’anti-intellettualismo e del primitivismo di fine Ottocento (si pensi a Gauguin alla ricerca della dimensione arcaica dell’esistenza). Il testo è pervaso da una atmosfera intima che travalica il puro spostamento territoriale e si concentra sulla promessa dell’Oriente, quella di poter fuggire dal caos e dal materialismo dell’Occidente, di poter mettere al bando intellettuali e artisti, alla riscoperta dell’essenziale, dei sapori più semplici, della vita di ogni giorno. Non meraviglia quindi che, nonostante Hamsun avesse viaggiato molto, era anche emigrato per due volte negli Stati Uniti d’America – nel 1882-84 e nel 1886-88, considerasse quello descritto nel suo diario, l’unico viaggio mai compiuto. La delusione che gli altri gli avevno procurato, disvelandogli un urbanesimo selvaggio e forme di democrazia come paravento della plutocrazia capitalista, (il suo sentimento per la modernità trova sfogo nel saggio La vita culturale dell’America moderna), lo spinsero nella direzione dell’inconscio, del mistero, del panismo.

Marie Hamsun

Marie Hamsun (1881-1969), seconda moglie di Knut, lo incontrò nel 1908 e da quel momento lasciò la sua carriera di attrice e si dedicò al marito per quarant’anni. Nei due memoires che scrisse, che al tempo furono veri bestsellers, sembra una donna controllata, adorante il marito.

Il primo, Regnbuen (The Rainbow, 1953) di quasi 400 pagine, parte dall’infanzia di Marie, proseguendo per la sua vita con Hamsun e finendo con la morte di lui avvenuta nel 1952. All’inizio del testo compare una commovente dedica a Knut:

«E quando si invecchia, il vagabondo si stanca, non alza la testa verso un nuovo giorno, il sentiero è diventato polveroso e pietroso. Ma per il mio sguardo velato, tutti i colori spezzati della vita raccogliersi come un arcobaleno su un unico nome: Knut Hamsun».

Il secondo Under gullregnen (Under the Laburnum Tree, 1959) è più breve e copre principalmente gli anni del dopoguerra, anche se include una serie di flashback. Anche questo secondo testo di memorie si chiude con un’altra espressione di devozione verso il marito

«‘Dio legge sulla mia spalla’, scrive Victoria. Knut legge sula mia, non ci sarà nulla sulla carta che posso immaginare mi avrebbe chiesto di cancellare».
[‘Gud leser det over min aksel’, skriver Victoria. / Det er Knut som leser over min, su papiret blir intet stående, som jeg kan tenke meg at han ville ha bedt meg stryke.]

Entrambe queste testimonianze, nonostante fossero ben scritte e lodevole fosse soprattutto lo stile della seconda biografia, non possono considerarsi molto affidabili nella ricostruzione della vita del nostro. Esse infatti tacciono volontariamente su alcuni eventi centrali, scomodi, distorcendone notevolmente altri.

Ragiona in tal senso anche Ferguson che, nella sua biografia di Hamsun, mette in dubbio la veridicità delle affermazioni di Marie, sempre incentrate a presentare il suo matrimonio idilliaco, incrinato solo nell’ultima parte della loro vita. A sostegno di ciò riporta l’intervista che il prof. Gabriel Langfeldt fece a Marie nel dicembre del 1945 in occasione del rapporto psichiatrico da stilare su Hamsun, al fine di stabilire l’idoneità o meno di quest’ultimo a prendere parte in Tribunale al processo per collaborazionismo.

Nonostante nelle poche pagine che testimoniano questa sua confessione Marie non disse nulla di così scabroso, e comunque circoscritto agli ultimi anni a ridosso del 1945, si intuisce che i problemi del loro matrimonio risalivano a molto tempo prima e che le tensioni e gli scontri avevano reso logorante il loro rapporto, soprattutto a causa della gelosia di Knut.

In sostanza Marie dichiarava che il comportamento di Knut dopo l’emorragia celebrale avvenuta all’età di 78 anni lo avesse cambiato, rendendolo aggressivo e denigrante nei suoi confronti. Dopo che Knut si era trasferito a Oslo, non c’era stata più fiducia tra loro. Lui la incolpava per ogni cosa, continuamente le ricordava quanto fosse deludente come persona, ma appena lei minacciava di divorziare lui la andava a ricercare.

Lei sperava che queste sue affermazioni non sarebbero state ascoltate dal marito, «se mio marito viene a sapere…non sarei in grado di vivere sotto lo stesso tetto con lui ancora!» ma, essendo diventate parte di un rapporto ufficiale, Knut aveva il diritto di prenderne visione. Come aveva giustamente predetto Marie, la reazione di lui fu violenta e rabbiosa. Anche in forza della estrema riservatezza di Knut che avvertiva oltraggiata, egli si sentì tradito e da quel momento si rifiutò di parlarle o di scriverle, la bandì dalla sua vita e la punì privandola anche di qualsiasi bene economico. Quando infatti anche Marie nell’autunno del 1948 finì di scontare la sua pena detentiva non si trovò più nulla e andò a vivere prima con il figlio, poi con la figlia fino a quando Knut, impietositosi, nel 1950 la fece tornare a Nørholm.

La discrepanza tra le memorie di Marie e la sua confessione circa la vera natura del matrimonio sembra trovare un bagliore di verità nell’ultimo atto della loro vita insieme: si fecero seppellire separatamente, cosa molto insolita per quei tempi. Quando chiesero a Marie la scelta della tomba lei risponde

«No, quello è il posto di Knut. Dovrebbe essere solo suo. […] Ho sempre desiderato che si riposasse a Nørholm. Il posto che mi aspetta è accanto al muro della chiesa» (Gjernes 183), come se fosse un desiderio di lei e non una richiesta di lui, come se, sottolinea Ferguson, alla fine avesse voluto affermare un certo controllo sulla propria vita e creare una distanza fisica tra di loro.

Appunti

  • Suggeriamo inoltre la bellissima biografia Enigma: The Life of Knut Hamsun, dello scrittore Robert Ferguson del 1987.
  • Per fare luce sulla questione politica legata a Hamsun ricordiamo Processo a Hamsun di Olov Enquist, pubblicato con Iperborea nel 1996, a quasi cinquant’anni di distanza dal processo, i cui passaggi e incartamenti venivano raccolti dal testo di Thorkild Hansen del 1978.
  • Esistono diversi adattamenti cinematografici dei libri di Hamsun, ma consigliamo la visione di Hamsun (1996), diretto da Jan Troell, (con Max von Sydow, Ghita Norby, Anette Hoff), basato proprio sul testo di Thorkild Hansen. 

Scoglio (Knut Hamsun)

La barca scivola leggera
Verso lo scoglio,
un’isola di mare
di rive listate di verde.
Fiori selvatici crescono qui per
Nessuno in particolare
Si levano sconosciuti
e mi guardano approdare.

Il mio cuore diventa come
un giardino favoloso
con fiori simili a
quelli che saluto.
Si parlano,
e sussurrano stranamente,
con cenni e sorrisi
come in un incontro di bambini.

Serro le palpebre,
un lontano ricordo
verso di me
la mente attira.
La notte s’abbuia
Sull’isola
Solo il mare muggisce –
Il paradiso ruggisce.

Markens Grøde 

Il lungo, lunghissimo sentiero fra gli acquitrini e le foreste, chi l’ha tracciato, se non l’uomo? Prima di lui, niente sentiero; dopo, di quando in quando, sulla landa e per le paludi, un animale seguì la via appena percettibile e la marcò con un’impronta più netta. Alcuni Lapponi, fiutata la pista della renna, cominciarono poi a servirsi del sentiero nelle loro corse di fjeld in fjeld. Così nacque il sentiero nell’Almenning, il vasto territorio senza padrone, la terra di nessuno.

L’uomo arriva, diretto verso il Nord. Ha con sé un sacco, il suo primo sacco, carico di viveri e di alcuni arnesi. E’ robusto e rude; ha la barba rossa e incolta; cicatrici sul viso e sulle mani testimoniano il lavoro o la guerra. Forse, fuggendo il castigo, cerca di nascondersi qui; oppure, forse è un filosofo che aspira alla pace: così è venuto, l’essere umano, in mezzo a questa spaventosa solitudine. Egli va e va. Attorno a lui, gli uccelli e gli altri animali che camminano o strisciano sulla terra. Talvolta, pronuncia alcune parole, come a se stesso: «Eh, mio Dio!». Quando ha varcato le paludi e giunge a una località più accogliente, in una piana aperta frammezzo i boschi, posa a terra il sacco e inizia l’esplorazione del luogo. Guarda, esamina; e in capo a un’ora, torna, rimette il sacco in ispalla e riprende il cammino. Così per tutta la giornata. Vede declinare il sole, la notte cadere. Si getta allora nella brughiera, e dorme, il viso protetto dal braccio piegato. Qualche ora ancora, poi riparte, «eh, mio Dio!», puntando sempre diritto al Nord; e vede di nuovo lo spuntar del sole. Si nutre di galletta e di formaggio di capra, si disseta al ruscello, e riprende la marcia.

Incipit tratto da Markens Grøde (tr.it. I frutti della terra o Il risveglio della terra)

R: LE STORIE D’AUTORE

La libreria indipendente Le Storie inaugura la sua rubrica letteraria in collaborazione con fiorivivi.com 7 giorni al mese dedicati a un autore o a un tema. Aprile lo dedichiamo a DAVID FOSTER WALLACE.

A cura di Gilda Diotallevi

David Foster Wallace (1962-2008) è stato uno scrittore, un saggista, un accademico ma soprattutto un pensatore. Finalista del premio Pulitzer per la narrativa, ci ha regalato pagine ironiche, sarcastiche, dissacranti e dolorose, influenzando la letteratura americana a lui successiva. In Italia, il suo Infinite Jest fu lanciato da Fandango e tradotto da Edoardo Nesi, resta un manifesto, difficile, ma ancora capace di stupire.

Gli scrittori tendono a essere una razza di guardoni. Tendono ad appostarsi e a spiare. Sono osservatori nati. Sono spettatori. Sono quelli sulla metropolitana il cui sguardo indifferente ha qualcosa dentro che in un certo senso mette i brividi. Qualcosa di rapace. Questo è perché gli scrittori si nutrono delle situazioni della vita. Gli scrittori guardano gli altri esseri umani un po’ come gli automobilisti che rallentano e restano a bocca aperta se vedono un incidente stradale: ci tengono molto a una concezione di se stessi come testimoni.
Ma allo stesso tempo gli scrittori tendono ad avere un’ossessiva consapevolezza di sé. Dal momento che dedicano molto del loro tempo produttivo a studiare attentamente le impressioni che ricavano dalle persone, gli scrittori passano anche un sacco di tempo, meno produttivo, a chiedersi nervosamente che impressione fanno loro agli altri.

D. Foster Wallace, Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più).

Quando Steinbeck parla dell’uomo come di un animale incline alle abitudini, non si allontana da ciò che Wallace rivela nella società americana. Avvezza al consumismo, alla autoreferenzialità, all’automatismo, non ha più le forze per guardare con lucidità la follia in cui vive, la mancanza di libertà in cui si ritrova a respirare. In ogni testo l’autore cerca di mostrarci, anche se per vie differenti, come il capitalismo abbia distrutto internamente l’essere umano. Ciò che Pasolini aveva profetizzato, DFW lo incarna pienamente. Non meraviglia che si voglia trovare un parallelo tra le sue strutture narrative e le categorie heideggeriane (Cfr. C. Scarlato, David Foster Wallace e Martin Heidegger. A Heideggerian perspective of Infinity Jest). In fondo l’uomo potrà tornare a essere libero, o almeno consapevole, solo nel momento in cui osserverà l’im-posizione, das-Gestell direbbe Heidegger, la modalità finale dell’auto-occultamente converrebbe Nietzsche, con occhi nuovi. Ma il disvelamento della realtà, per quanto necessario, non rende più facile sopravvivere e fa pagare all’uomo a caro prezzo la propria liberazione, lasciandolo disorientato, in bilico tra fatalismo e sfiducia. Non resterà che trovare la propria via, il proprio personalissimo modo di reagire che, per DFW, è sicuramente l’ironia, la messa a nudo della follia dell’esistenza.

Ormai è quasi un anno che non sto sulla Terra, perché sulla Terra non me la cavavo troppo bene. Diciamo che me la cavo un po’ meglio dove mi trovo adesso, sul pianeta Trillafon, con grande piacere, credo, di tutti gli interessati. A prescrivermi gli antidepressivi è stato un dottore molto simpatico che si chiama dottor Kablumbus in un ospedale dove mi hanno portato per pochissimo tempo dopo un incidente davvero ridicolo con certe apparecchiature elettriche dentro la vasca da bagno del quale non ho davvero voglia di dire granché. Sono dovuto andare in ospedale per le cure mediche in seguito a quello stupidissimo incidente, e due giorni dopo mi hanno trasferito a un altro piano dell’ospedale, un piano più alto, più bianco, dove c’erano il dottor Kablumbus e i suoi colleghi. Hanno discusso un bel po’ dell’eventualità di sottopormi alla TEC, che poi sarebbe l’abbreviazione di «Terapia Elettroconvulsivante», solo che la TEC a volte cancella pezzi di memoria – piccoli particolari trascurabili tipo come ti chiami, dove abiti, ecc. – ed è terrificante anche sotto certi altri aspetti, perciò noi – io e i miei genitori – abbiamo deciso di non farla. Una legge del New Hampshire, che poi sarebbe lo Stato dove vivo, stabilisce che la TEC non può essere praticata senza il consenso dei genitori. A me sembra una gran bella legge. Così il dottor Kablumbus, che ha davvero a cuore unicamente il mio interesse, mi ha prescritto invece gli antidepressivi. 

D. Foster Wallace, Il pianeta Trillafon in relazione alla Cosa Brutta in questa è l’acqua.

È possibile avvicinarsi al lavoro di Wallace in molti modi, ma può essere interessante procedere attraverso due particolari codici a cui, lo stesso autore teneva molto. La matematica e la filosofia nello specifico fanno parte del suo mondo e si intrecciano al suo inconfondibile stile di scrittura.

  • Infinite Jest  possiede, a detta dello stesso autore, un’impronta narrativa simile a un frattale, a un oggetto matematico che presenta la stessa struttura su scale diverse (in particolare si riferisce al triangolo di Sierpinski). Inoltre sempre in tale romanzo viene citata La Heideggerian Perspective da anonimi interlocutori durante un party, i quali suggeriscono che soltanto attraverso questa lente è possibile oggi racchiudere e inquadrare il mondo.
  • Fate, Time and Language, pubblicato dalla Columbia University Press nel 2010, riprende la sua tesi di filosofia su Richard Taylor (autore di Fatalism) e il rapporto tra logica modale e matematica, dal titolo Richard Taylor’s Fatalism and the Semantics of Physical ModalityVerso Occidente l’impero dirige il suo corso, ripropone l’idea del movimento simile a quello immaginato da Zenone.
  • E Unibus pluram, saggio in cui si mostra come il concetto di verità e di etica della parola pubblica sia stato trasfigurato dal linguaggio pubblicitario.
  • La scopa del sistema, in cui l’autore, espressamente, ammette di essere stato influenzato dalla filosofia di Wittgenstein e Derrida.

Se quindi si volesse approfondire Wallace attraverso queste sottotracce consigliamo:

  1. per la relazione tra la matematica e Wallace il saggio di Roberto Natalini DFW and the Matematics of Infinity.
  2. per la relazione con la filosofia invece proponiamo Chiara Scarlato Attraverso il corpo. Filosofia e letteratura in David Foster Wallace, Mimesis, 2020 in cui l’autrice definisce la nozione di ‘corpo’ in Wallace attraverso un’analisi sistematica dell’intera opera (fiction, non fiction, interviste, materiali didattici, scritti inediti e appunti consultati presso l’Harry Ransom Center di Austin) in prospettiva filosofico-letteraria.
  3. non da ultimo il brillante testo di Michele Ragno David Foster Wallace come esperienza filosofica,  Am, 2020, in cui l’opera di Wallace viene indagata da un inedito punto di vista filosofico. A detta dell’autore infatti senza comprendere il confronto giovanile con le posizioni deterministe di certa filosofia analitica non si capirebbero le critiche alla spersonalizzazione e disumanizzazione delle società contemporanee, onnipresenti nei reportage, nei racconti e nei romanzi di Wallace.

Inoltre, come guida per affrontare l’intera opera:

  • il saggio di Emiliano Ventura, David Foster Wallace. La cometa che passa rasoterra, Elemento 115, Roma 2019. Una guida, una proposta di lettura, un omaggio a Wallace e alla sua straordinaria capacità di comprendere l’essere umano. Tutta la sua opera, secondo Ventura, «deve essere vista come il tentativo di uscire dagli aspetti più distruttivi, nichilistici appunto, della postmodernità».
  • la biografia dell’autore, Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi. Vita di David Foster Wallace, di D.T. Max che, attingendo ai materiali conservati presso l’università di Austin e a testimonianze dirette di amici, parenti e colleghi scrittori, ricostruisce il percorso intellettuale e umano di Wallace, i rapporti con i padri letterari, la vicenda clinica e la dimensione pubblica.
  • il libro intervista di David Lipsky, edito dalla Minimum fax, Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta del 2017, scritto a tre anni di distanza dalla tragica morte.
  • Zadie Smith, Brief Interviews with Hideous Men: The Difficult Gifts of David Foster Wallace, in Changing My Mind: Occasional Essays  (London: Penguin, 2009).

Vogliamo inoltre segnalarvi un luogo particolare, un archivio, l’unico in Italia, dedicato allo scrittore in cui scovare informazioni, lettura di estratti e altro: https://archivio-dfw.tumblr.com/incipit_estratti

La lezione di David Foster Wallace

di Emiliano Ventura

E questa è anche la ragione per cui chi vuole fare narrativa nella nostra cultura televisiva sta proprio nella merda. Che devi fare quando la rivolta postmoderna diventa un’istituzione della cultura pop?.

(D.F.Wallace, E Unibus Pluram: gli scrittori americani e la televisione in Tennis, tv, trigonometria, tornado e altre cose divertenti che non farò mai più, Minimum fax, Roma, 2001, p. 107)

Sono parole dello scrittore di culto David Foster Wallace, quando apparvero in Italia fecero un enorme effetto sulla generazione di laureandi in Lettere (lui avrebbe detto “damerini dell’estetica”), tra la fine dei ’90 e i primi del 2000. Nel 1999 la casa editrice Minimum fax pubblica Tennis, tv, trigonometria, tornado e altre cose divertenti che non farò mai più, e per noi fu come mettere gli occhiali da vista dopo una prolungata miopia. Quindi si poteva parlare di Tennis (o genericamente di sport) e di Televisione anche in un saggio letterario; per noi, filologicamente educati, era una novità assoluta. Per pubblicare e tradurre il suo romanzo capolavoro Infinite Jest, Sandro Veronesi, Edoardo Nesi e Domenico Procacci fondarono una nuova casa editrice, la Fandango, solo per pubblicare il capolavoro di Wallace.

È con queste credenziali che Wallace si presentò ai lettori italiani alla fine del millennio; solo più avanti avrei scoperto una sua dichiarazione in cui affermava che Infinite Jest era un lungo tentativo per rispondere alla domanda: «perché sto guardando tanta di questa merda? [la tv]».

Impossibile riassumere in pochi righe l’opera o la complessità del suo pensiero. Sostanzialmente però sentiva il problema di come uno scrittore dovesse affrontare l’intrattenimento di massa (serie tv, cinema). Nel lavoro di ricerca e di studio per la mia monografia su Wallace mi resi conto, e compresi, la sua strategia.

David Foster Wallace usa proprio una strategia, fin da quando giocava a tennis, questa viene espressa nel saggio che ricorda proprio il tennis e i tornado in Illinois. Afferma di essere stato un tennista bravino, non molto forte atleticamente, i suoi punti di forza erano l’uso della geometria unitamente a saper sfruttare i venti (tornado) nei tornei giocati in casa. In questo modo, con la geometria e il vento riusciva a supplire alle carenze atletiche che lo avrebbero sempre portato alla sconfitta.

Ecco la strategia diversa con cui lo scrittore Wallace affronta l’intrattenimento (tv).

Il suo romanzo più noto è Infinite Jest (1996), qui è esposta l’idea di base sull’intrattenimento “perché continuo a guardare tutta questa merda?”, si riferisce alla televisione e ai più svariati programmi. Come può un giovane scrittore, che voglia fare letteratura, competere con il mondo dell’intrattenimento? Tra gli anni ’80 e i ’90 aveva due possibilità: uniformarsi  all’intrattenimento e quindi fare un genere di narrativa specifico e collaudato, oppure tendere verso l’avanguardia e proporre una sperimentazione autoreferenziale.

Wallace risponde con una strategia diversa,  esprime, pensa e scrive la miglior Letteratura possibile, cura ogni singola pagina con attenzione, sente il senso di responsabilità di tentare di capire cosa sia un «fottuto essere umano». Sa che se si mette sul piano dell’intrattenimento non ha possibilità, esattamente come la strategia che usava da ragazzo con il tennis. Usa al meglio le sue doti, lì la geometria e il fattore campo, qui la migliore Letteratura possibile. E crea un capolavoro.

Un proverbio statunitense recita «The nice guy fineshed last», il bravo ragazzo finisce sempre ultimo,  Kenneth Blanchard, lo interpreta affermando che «i bravi ragazzi giocano un’altra partita», sono altro dal comune sentire, dalla dinamica fallimento riuscita. David Foster Wallace, con Infinite Jest e non solo, gioca un’altra partita, usa una strategia massimalista.

E la letteratura italiana?

Affronta l’intrattenimento seriale della tv sul suo terreno, uniformandosi alla narrativa di genere già pronta per essere trasposta in sceneggiatura televisiva. La letteratura italiana recita il proverbio di Gatto Silvestro «Se non puoi batterli unisciti a loro». Solo che questa è una strategia perdente.

Mentre alzare l’asta della propria professionalità, nello sport, in filosofia o in letteratura, è l’unica strategia per non soccombere all’Infinite Jest, il film che non puoi smettere di vedere e rivedere, tanto dolce e seducente è il suo intrattenimento. Questa è stata la grande lezione di David Foster Wallace.

La filosofia in Wallace

di Michele Ragno

L’interesse a Wallace è essenzialmente dovuto alla sua capacità di fare i conti, nella scrittura sia saggistica che narrativa, con i grandi problemi del nostro tempo. Da un punto di vista prettamente stilistico, la scrittura di Wallace è inquadrabile nel postmodernismo americano (con autori come De Lillo, Pynchon), ma le tecniche di scrittura avanguardistiche che egli usa non “decostruiscono”, non distruggono, ma anzi sostengono quelli che egli definisce i “vecchi e tradizionali valori umani che hanno a che fare con la spiritualità, le emozioni, la comunità”.

Il postmoderno nichilista ha svolto infatti una funzione parricida importante, liberandoci dalla zavorra conformistica dei decenni precedenti, ma non è stato poi capace – questa la critica di Wallace – di sviluppare nuove forme etiche e valoriali che ci guidassero nel rapporto con l’alterità, lasciando spazio ad un caos anarchico nel quale ognuno, per dirla con il lessico di Nietzsche, da libero sfogo alla “volontà di potenza”. 

La risposta filosofica di Wallace è probabilmente riassunta in Questa è l’acqua, un testo che va inteso come il manifesto etico-esistenziale con il quale interpretare gli altri scritti. Wallace infatti insiste, in questo discorso durante una cerimonia di laurea, su concetti come ‘libertà’ e ‘scelta’: perché la scelta, che è tale solo quando scopriamo la nostra libertà, può essere una strategia di fuga dal postmoderno, una via per eliminare l’ossessionante solipsismo (dove la realtà è sempre percepita in relazione al nostro io, e così per ogni relazione) incoraggiato dalla nostra società, per responsabilizzare eticamente l’individuo nel rapporto con l’alterità e salvaguardare questo stesso rapporto.

Chiamatemi Dave

di Flavia Sorato

David Foster Wallace era e rimane uno scrittore, ma soprattutto un uomo, di rara ed originale intelligenza, preziosamente curioso e schietto.

Tra i racconti di valore sulla persona di D.F Wallace c’è sicuramente quello scritto dal narratore e giornalista David Lipsky, che ha avuto l’occasione di trascorrere del tempo impagabile insieme all’autore. Come inviato della rivista “Rolling Stone”, infatti, ha potuto accompagnarlo per cinque giorni nel tour di presentazioni del libro Infinite Jest. L’esperienza ha preso la forma di un viaggio particolare, fatto di momenti e conversazioni intense, che è ora testimonianza di alcuni aspetti e sfaccettature dello scrittore e di quale potesse essere «l’effetto che faceva sentir parlare Wallace».

Lipsky così lo descrive: «David era alto quasi un metro e novanta, e quando era in forma pesava novanta chili. Aveva gli occhi scuri, la voce dolce, un mento da cavernicolo, una bocca adorabile, con le labbra a punta, che era il suo tratto migliore. Camminava con l’andatura molleggiata dell’ex atleta: un movimento ondulatorio che partiva dai talloni, come se ogni cosa fisica fosse un piacere. Scriveva con degli occhi e con una voce che parevano una forma condensata della vita di chiunque: erano i pensieri che pensavi a metà, le scene di sfondo che vedevi con la coda dell’occhio al supermercato e facendo avanti e indietro dal lavoro. […] Promosso per tutte le superiori con il massimo dei voti, ha giocato a football, ha giocato a tennis, ha scritto una tesi in filosofia e un romanzo ancora prima di laurearsi a Amherst, ha seguito un corso di specializzazione di scrittura creativa, ha pubblicato il romanzo, ha fatto sì che un’intera città di editor e scrittori bercianti, sgomitanti e pronti a gambizzare chiunque si innamorasse di lui perdutamente. Ha pubblicato un romanzo di mille pagine, ha ricevuto l’unico premio del paese che si assegna a chi viene riconosciuto un genio, ha scritto articoli che restituiscono meglio di qualunque altra cosa la sensazione di ciò che significa essere vivi al giorno d’oggi, ha accettato una cattedra speciale di scrittura creativa presso un’università californiana, si è sposato, ha pubblicato un altro libro e si è impiccato all’età di quarantasei anni».

D.F. Wallace si è tolto la vita a causa di uno stato depressivo, aggravatosi con la sospensione e poi la ripresa del Nardil, un medicinale assunto a lungo e in dosi massicce. Eppure, quello che riporta anche Lipsky è il pensiero diffuso e confuso delle persone, disorientate da quel gesto, «Una cosa di cui nessuno riusciva a farsi una ragione era quanto potesse sembrare vitale e simpatico David».

Di ricordi profondamente belli se ne rintracciano in quantità, tra le persone vicine allo scrittore.

Tra gli amici più stretti di Foster Wallace c’è stato Mark Costello, suo collega scrittore, insieme al quale ha lavorato alla monografia Il rap spiegato ai bianchi. Lipsky, nel ricordare una sua testimonianza, scrive ironicamente questo passo:

«Gli scrittori tendono ad avere due grandi argomenti in rotazione intera costante, una playlist molto breve. La loro carriera e i mali che li affliggono. C’è un famoso aneddoto sulla festa in cui James Joyce incontrò Marcel Proust. Uno si aspetterebbe chissà quali discussioni da pesi massimi della letteratura. Joyce disse: “Ho gli occhi ridotti malissimo”. E Proust: “Il mio povero stomaco, non so che fare! Anzi devo andarmene subito”. (Joyce lo superò: “Io seguirei il tuo esempio, se solo trovassi qualcuno che mi tiene sottobraccio”).

David non era così.

Tanto per cominciare, non ha mai detto a nessuno, se non a una cerchia molto ristretta, che soffriva di depressione. E poi non aveva molto il look che ci si aspetta da uno scrittore […] David aveva l’aria di uno che, dopo aver praticato un po’ di sport agonistico all’università, aveva lasciato la squadra sentendosi troppo fico. Un tipo grande e grosso, con la bandana e la zazzera, uno che stava per invitarti a giocare a palla e se dicevi di no era capace di darti un sacco di botte.

E la cosa era voluta. All’università David era rimasto disgustato dal look dei coetanei che si atteggiavano a scrittori: occhi vellutati, suscettibilità sulla politica: li chiamava “gli intellettuali con il baschetto. Guarda, me lo ricordo bene, un motivo per cui a tutt’oggi non mi piace definirmi uno scrittore è che non vorrei mai essere confuso con una persona del genere”, ammette Costello.

«Ma tutto questo non ti preparava alla sua compagnia: che era incredibilmente aperta, delicata, spiritosa, straripante».

Mark Costello prosegue nel ricordare come D.F. Wallace avesse la rara facoltà di immedesimarsi nelle altre persone: «Dave aveva proprio la capacità di entrare nei panni di un altro». Un’abilità che si presentava «con una rapidità e un umorismo incredibili».

All’inizio degli anni Novanta, Foster Wallace ha avuto una relazione con la scrittrice Mary Karr ed anche lei ne ricorda la perspicacia, l’intuito e la fine attenzione dello sguardo. Aveva «un interesse e una curiosità enorme sul proprio posto nel mondo. Vedeva più fotogrammi per secondo di tutti noialtri, non si fermava mai. Divorava costantemente l’universo».

A questo si può aggiungere un altro elemento umano distintivo: essere al/nel mondo con speciale sincerità.

Racconta Jonathan Franzen, migliore amico di Foster Wallace per la seconda metà della sua vita adulta, che nell’ultimo triste anno trascorso prima del suicidio, alla banale domanda “Come stai?” lo scrittore continuava a replicare con franchezza. Dice Franzen: «Lui era molto onesto. Rispondeva: Non sto bene. Ci sto provando a stare bene, ma non sto bene».

Tuttavia, quello che rimane impresso è lo stile dei suoi libri e certi capolavori di comicità.

“Una cosa divertente che non farò mai più” è un reportage narrativo pubblicato nel 1996 sulla rivista ‘Harper’s Magazine’ che aveva commissionato allo scrittore un articolo con un particolare tema, “una settimana in crociera”.

Dall’11 al 18 marzo 1995 io, volontariamente e dietro compenso, mi sono sottoposto alla crociera “7 Notti ai Caraibi” (7NC) a bordo della m. n. Zenith, una nave da 47.255 tonnellate, di proprietà della Celebrity Crociere, una delle oltre venti compagnie di crociera che attualmente operano fra la Florida e i Caraibi.

Foster Wallace trascorre così dei giorni a bordo della “Zenith” (soprannominata da lui “Nadir”), per documentare la vita a bordo della nave e tutti i suoi fasti, mischiandosi tra i passeggeri/turisti e vivendo le esperienze “da sogno” proposte dalla compagnia. Tra riflessioni e spunti umoristici, quella che ne esce è una lucida satira sul consumo di massa.

La “Crociera Extralusso 7NC” costituisce un genere uniforme. Tutte le megacompagnie offrono lo stesso prodotto di base. Questo prodotto non consiste in un servizio o in una serie di servizi. Non è neanche tanto il divertimento (anche se si capisce subito che uno dei grandi compiti del direttore di crociera e del suo staff è di continuare a rassicurare tutti che tutti si stanno divertendo): è più, come dire, una sensazione. Ma rimane un prodotto basato sulla buona fede – cioè cercavano davvero di produrla in te, questa sensazione: una miscela di relax ed eccitazione, di appagamento senza stress e turismo frenetico, quella fusione particolare di servilismo e condiscendenza che viene propagandata attraverso tutte le forme del verbo viziare.

E poi prosegue qualche pagina più avanti:

Una vacanza è una tregua dalle cose sgradevoli, e poiché la coscienza della morte e della decadenza è sgradevole, può sembrare strano che la più sfrenata fantasia americana in fatto di vacanze preveda che si venga schiaffati in mezzo a una gigantesca e primordiale macchina di morte e decadenza. Eppure, sulla crociera extralusso 7NC, veniamo coinvolti con abilità proprio nella costruzione di svariate fantasie di trionfo sulla morte e sulla decadenza. Un modo di mettere in atto questo “trionfo” è la disciplina del miglioramento di se stessi; e la manutenzione anfetaminica della Nadir da parte dell’equipaggio è sfacciatamente analoga alla cura ossessiva dell’organismo: dieta, ginnastica, integratori ipervitaminici, chirurgia cosmetica, seminari sul time-management e tutto il resto. C’è anche un’altra strada per il trionfo sulla morte. […] Dalla fatica del lavoro, alla fatica del divertimento.

Poco dopo si sofferma ad analizzare la brochure di presentazione della crociera:

Certo non è Dante, ma la brochure “Crociere 7NC” della Celebrity è comunque un esempio estremamente efficace ed ingegnoso di comunicazione pubblicitaria. La brochure ha il formato di un settimanale, è pesante e patinata, con una bella grafica, con il testo corredato dai primi piani artistici di coppie benestanti abbronzate e bloccate in una paresi di piacere.

Il tono sagace si estende a tutto l’articolo. Comprese le note.

A circa metà dello scritto c’è un passo che riportiamo a chiusura di questa finestra su “una cosa divertente che non farò mai più”.

Non so come si troverebbe un claustrofobico, ma per un agorafobico una nave da crociera extralusso 7NC presenta un’intera gamma di attraenti opzioni di ambienti chiusi. L’agorafobico può scegliere di non scendere mai dalla nave (riporta la nota: in mare aperto è un agorabazzecola, ma sul molo, quando si aprono le porte e si abbassa la scala, diventa una scelta vera e propria ed è dunque agorafobicamente valida). […] Io – che pure non sono proprio uno di quegli agorafobici del tipo “non vado neanche al supermercato”, ma piuttosto un agorafobico “borderline” o un “semiagorafobico” – ho comunque imparato ad amare profondamente la cabina 1009, corridoio sinistro esterno.

L’augurio di Wallace

Wallace era prima di tutto un gran lettore e sorprende scoprire la classifica che l’autore stesso fece dei suoi dieci libri preferiti.

1. The Screwtape Letters, (trad.it: Le lettere di Berlicche), C.S. Lewis
2. The Stand, (trad.it: L’ombra dello scorpione), Stephen King
3. Red Dragon, Thomas Harris
4. The Thin Red Line, (trad.it: La sottile linea rossa), James Jones
5. Fear of Flying, (trad.it: Paura di volare), Erica Jong
6. The Silence of the Lambs, (trad.it: Il silenzio degli innocenti),Thomas Harris
7. Stranger in a Strange Land, (trad.it: Straniero in terra straniera),Robert A. Heinlein
8. Fuzz, (trad. it: Allarme: arriva la “Madama” ), Ed McBain
9. Alligator, Shelley Katz
10. The Sum of All Fears, (trad. it: Paura senza limite), Tom Clancy

Leggere, studiare, osservare e conoscere erano attività centrali nella formazione di Wallace e il suo augurio era quello che lo diventassero per ognuno di noi, con l’unico scopo di riconquistare quote di libertà perduta. Il suo pensiero traspare da ogni pagina, da ogni intervista, ma si fa manifesto nel famoso discorso di incoraggiamento che Wallacepronunciò alla cerimonia di laurea dell’anno 2005 al Kenyon College e di cui riproponiamo un breve estratto.

[…]La libertà del tipo più importante richiede attenzione e consapevolezza e disciplina, e di essere veramente capaci di interessarsi ad altre persone e a sacrificarsi per loro più e più volte ogni giorno in una miriade di modi insignificani e poco attraenti.

Questa è la vera libertà. Questo è essere istruiti e capire come si pensa. L’alternativa è l’incoscienza, la configurazione di base, la corsa al successo, il senso costante e lancinante di aver avuto, e perso, qualcosa di infinito.

[…]La Verità con la V maiuscola è sulla vita PRIMA della morte. È sul valore reale di una vera istruzione, che non ha quasi nulla a che spartire con la conoscenza e molto a che fare con la semplice consapevolezza, consapevolezza di cosa è reale ed essenziale, ben nascosto, ma in piena vista davanti a noi, in ogni momento, per cui non dobbiamo smettere di ricordarci più e più volte: “Questa è acqua, questa è acqua.”

È straordinariamente difficile da fare, rimanere coscienti e consapevoli nel mondo adulto, in ogni momento. Questo vuol dire che anche un altro dei grandi luoghi comuni finisce per rivelarsi vero: la vostra educazione è realmente un lavoro che dura tutta la vita. E comincia ora.

Auguro a tutti una grossa dose di fortuna.

À la recherche de Madeleine Bourdouxhe

di Camilla Gazzaniga

À la recherche de Madeleine vuole essere uno studio letterario e filosofico dell’autrice Madeleine Bourdouxhe (1906-1996) che, con un chiaro rimando proustiano, intitola il suo romanzo più conosciuto proprio À la recherche de Marie. Per farlo, ci si concentrerà sui romanzi La femme de Gilles (1937) e À la recherche de Marie (1943), e sul fil rouge che unisce le due protagoniste femminili, rispettivamente, Elisa e Marie. Leggendo di loro sembra quasi che siano una il proseguo naturale dell’altra, in un senso sempre più libero e consapevole di sé.

Quello di Bourdouxhe è un linguaggio «degli oggetti immobili», citando un’espressione dell’autrice stessa, perché capace di suggerire la materialità, la ruvidezza, e il peso del vivere domestico per una moglie, una madre, una donna. Ma, al contempo, il suo è anche il linguaggio muto dei corpi, capace di intrecciare storie familiari e speculazioni filosofiche tipiche di Luce Irigaray e Simone de Beauvoir.

Madeleine Bourdouxhe e Simone de Beauvoir non si conoscevano quando nel 1949 la de Beauvoir menziona nella sua opera, Il secondo sesso, proprio la Bourdouxhe che, con la sua scrittura sobria e curata, era riuscita a esprimere nel linguaggio delle cose del mondo quello che la filosofia stava ancora accennando. A quel tempo, la Bourdouxhe aveva conosciuto solo Jean-Paul Sartre in occasione della pubblicazione di un proprio racconto su Les Temps modernes, la rivista fondata con Maurice Merleau-Ponty. Incontrerà invece la Beauvoir, dopo averla cercata e aspettata, a Les Deux Magots, il café dove la de Beauvoir legge, scrive, discute e  dove si ritroveranno ogni volta che Madeleine dalla sua Liegi visiterà Parigi.

Élisa e Marie

Due personaggi femminili, Élisa e Marie, due storie, e dietro di loro Madeleine Bourdouxhe, che nelle sue protagoniste ha messo tutte le donne che vedeva intorno a lei. A guardarle rimaneva sempre impresso uno sguardo, un’espressione, il sorriso di un istante; qualcosa che dal di fuori moriva con il gesto, ma continuava a vivere dentro di loro e faceva di esse ciò che erano (M. Bourdouxhe, Nouvelle Revue Française, ottobre 1937). Le due donne non dicono molto, non dicono pressoché nulla, le loro lotte da fuori sono quasi impercettibili. Eppure, nella loro interiorità la lotta è cosa viva: soppesata e mutevole per Marie, sorda e disturbata per Élisa, al punto di arrivare al limite della sopportazione.

Élisa è istintiva, intuitiva, non è una donna intellettuale; la sua vita interiore è di quelle che si destano al primo sospetto, che si fermano su un dettaglio. Spesso non riesce a spiegarsi e ne è imbarazzata, ma lei stessa è consapevole del fatto che non servono grandi parole se manca quell’intesa immediata con il mondo. Élisa può dirsi felice, perché non conosce altra felicità se non quella di essere la moglie di Gilles e la madre delle sue bambine.

Ma il desiderio è fulmineo, può nascere dal niente, da una piccola bocca rossa; Élisa ha davanti agli occhi la stessa scena di sempre, il marito Gilles parla del più e del meno con Victorine, sua sorella, ed è miracoloso quanto il corpo talvolta sia più accorto, più riflessivo, del raziocinio stesso. Sola nella stanza accanto, prima un brivido, poi una morsa d’ansia ben definita fanno tremare Élisa; ancora prima di notare due ombre distinte, sulle assi del pavimento, mescolarsi in una sola, unica figura tremolante, ancora prima Élisa lo sente ed è certa di non sbagliare: non è più la donna di Gilles.

Per Élisa il ricordo è un espediente per sottrarsi al dolore del reale, guarda all’infanzia o all’adolescenza come per cercare una soluzione a quello che sta vivendo. Si ricorda che sistemava i capelli a Victorine da piccole, i momenti frivoli per boschi con Gilles prima di sposarlo, e allontana così l’ipotesi che possano davvero tradirla; quando anche il ricordare si fa troppo doloroso è costretta a bloccarlo, riportandosi prepotentemente alla realtà (F. Evans, Madeleine Bourdouxhe, o l’intransigenza del desiderio, 1997). Se il tempo della storia viene scandito dal lavoro alla fabbrica e dal ritmo delle stagioni, Élisa segue un suo tempo interiore, dove non accade nulla se non lo stesso, identico dolore. Trascorre un intero anno, ma per lei è come se si fosse trattato di un unico giorno senza fine in cui è restata ad aspettare Gilles.

La storia di Marie, invece, è quella di una donna colma d’amore, che viene riversato sulle cose vive fino all’oggetto più semplice: una barca abbandonata al lago, uno sgabello in cucina e i libri che vi legge appoggiata, il vizio di un caffè e di una sigaretta. Marie non è solo la moglie di Jean, ma impartisce lezioni private con scrupolo e disinvoltura, ancora deve scegliere se avere dei figli oppure no, se assecondare l’occasione di una propria rubrica su una rivista. La componente intellettuale è molto sviluppata in Marie, e lo stesso si può dire per la sua vita emotiva, che in un primo momento, tuttavia, trova sfogo solo nelle fantasie, costretta a correggere con l’immaginazione ciò che Jean le nega sentimentalmente. L’intimità di gesti e parole è per Marie un fine irrinunciabile, e per questo si perde a immaginarsi altrove, con Jean presente fino in fondo; ma di questo lui è cosciente solo a metà. Come osserva Faith Evans (1997) Marie è data anche nel suo lato più schietto, insolente: verso la fine del romanzo, in seguito a tante piccole libertà guadagnate, Marie schernisce un donnaiolo che le fa la corte; aspetta compiaciuta una sua replica, ma egli ammutolisce. Come niente fosse subito dopo, Marie, in abito elegante, celebra la ‘punizione’ inflitta all’uomo su una giostra del lunapark.

Già il titolo, À la recherche de Marie, promette un viaggio proustiano nella memoria, lasciando capire quanto sia elaborata l’impostazione temporale che Bourdouxhe dà ai suoi romanzi. Talvolta i ricordi riemergono da un piccolo segno che colpisce Marie, altre volte è la situazione che predispone la memoria: nella scena in cui Marie insegna il latino a un ragazzo, rileggendo versi che recitano l’amore tenero, le tornano in mente gli anni da studentessa alla Sorbonne, lo studio appassionato, gli antichi sentimenti; ma poi subentra una memoria più recente, il suo matrimonio precoce, la gioventù perduta. Faith Evans riporta il momento in cui Marie beve una cioccolata calda nella casa dei suoi genitori, un ambiente che già di per sé custodisce i sogni del passato. Come la madeleine imbevuta nel tè nella Recherche, «Marie assapora con piacere quel liquido un po’ ispido che ha il gusto penetrante del ricordo» (M. Bourdouxhe, Marie aspetta Marie, p. 68). Osserva ogni gesto, ogni oggetto lì fin dall’infanzia, indugia su alcuni aneddoti da ragazza e altri li accenna alla madre, perché sia lei a raccontarli: quella memoria ritrovata la rende felice.

Lo sguardo

Marie scopre gli altri guardandoli e venendo guardata; è chiaro il contrasto con Jean, di cui invece si dice che la guarda, senza vederla (Marie aspetta Marie, p. 12). Gli occhi di un altro Lui, però, la guardano, e la vedono per davvero. Marie seduta sulle rocce, lui appena riemerso dal mare, lo guarda e da lui viene guardata, si scoprono a vicenda.

Sempre con lo sguardo, Élisa coglie attraverso una finestra, fessura della vita altrui, una donna china sul tavolo spezzata dalla fatica, i lavori casalinghi interrotti; poi guarda se stessa, e si rivede in lei (La donna di Gilles, p. 23). Possono esservi letti rimandi alla fenomenologia e all’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre, che Bourdouxhe certamente conosceva, ma non se ne può dire la reale influenza dal momento che Sarte, così come Merleau-Ponty se si pensa al ruolo del corpo nella dimensione intersoggettiva, stavano scrivendo negli stessi anni. Leggendo i romanzi a posteriori, si pensa al concetto di alterità, all’Altro, soggetto diverso dalla mia identità, che si presenta con uno sguardo su di me, ed è una relazione quotidiana e concreta, sperimentata ogni volta che vengo guardato (J-P. Sartre, L’essere e il nulla, p. 310). Lo sguardo d’altri diventa l’espediente per riconoscermi nella mia identità, e Marie, dall’evento di quello sguardo reciproco con il giovane, non può tornare più indietro. Il desiderio che ne nasce la porterà a sondare la sua psiche, a chiedere per sé una nuova indipendenza; sarà la presa di coscienza della caducità del suo quotidiano, la nostalgia di ciò che è stata e potrebbe ritornare a essere. Si sente «sgomenta, fra due mondi a pezzi» (Marie aspetta Marie, p. 25), l’uno sempre più stretto, l’altro che ha l’eccitazione del possibile, di ciò che potrebbe accadere di nuovo e vivo per lei.

Il secondo sesso

Di Marie risalta l’attaccamento ai ‘materiali più semplici’ che adopera in cucina e nei lavori casalinghi. Senza esitazione, le sue mani si immergono nell’acqua insaponata, lucidano il ferro arrugginito, sparecchiano la tavola con un unico, sapiente gesto. Ne apprezza anche la ruvidezza, l’odore ispido, e si crea un’intesa ancestrale tra le sue mani e gli oggetti che toccano, come se essi fossero una continuazione del sé. Ne Il secondo sesso Simone de Beauvoir riporta il piacere di Marie nello strofinare i fornelli fino a farli brillare: in una sorta di movimento dialettico, il negativo, ciò che è sporco, viene trasformato nel suo positivo, il pulito. Per giungervi è necessaria l’azione negativa, la pulizia, che è uno sforzo soprattutto fisico. Quando il lavoro è finito, la donna conosce la gioia della contemplazione (p. 436), e Marie, che vede il suo riflesso nell’acciaio smacchiato, assapora questo piacere, lei e l’oggetto diventano una speculare dell’altro.

L’uomo non si interessa più di tanto alla casa perché il lavoro lo proietta al di fuori; per la donna invece il lavoro è domestico, ciò che rende «la sua prigione un regno […] Rinunciando a un mondo vuol conquistare un mondo» (p. 434). Lo si vede ne La donna di Gilles: Gilles ha un lavoro estenuante agli altiforni, e anche il tempo che trascorre in casa non sembra che una continua preparazione al lavoro che verrà – riposarsi, riempire lo stomaco prima del turno. Élisa passa l’intera giornata a lustrare, lavare, cucinare, tanto che la sera le braccia le ricadono intorpidite lungo il corpo; «ogni giorno è così», scrive Bourdouxhe all’esordio del romanzo. Significativa è la scena in cui Élisa, in seguito alla nascita del bambino, può ritornare a occuparsi da sola delle faccende casalinghe, «ne aveva abbastanza di quelle mani estranee che accudivano la sua casa» (p. 63). Prova una viva soddisfazione nel contemplare la stanza meno vissuta della casa, che tiene ugualmente curata, dà la cera al legno, lustra i vetri e i pavimenti: è un grande vanto per lei questo locale più lussuoso degli altri, sempre pulito, dove condurre gli ospiti.

De Beauvoir riporta anche come Bourdouxhe abbia saputo cogliere l’afflizione che colpisce la donna nel momento della separazione dall’uomo, dopo l’amore. La donna non ripone la finalità dell’atto nell’appagamento fisico, e si lascia andare a un totale abbandono nel desiderio, rimane soggetto soltanto nell’unione con l’altro (Il secondo sesso, p. 381). Per entrambi dovrebbe essere questione di dare e di ricevere, tuttavia in ciascun romanzo emerge un uomo che prende senza dare, e in tal caso il momento del distacco sarà privativo per la donna. Bourdouxhe lo descrive con la tristezza che invade Marie nel momento della separazione: Jean le chiede di dormire e si volta, e «Marie vorrebbe morire. Tutti gli uomini si voltano e si addormentano allo stesso modo, dopo l’amore?» si chiede (p. 21), colma di un piacere mentale più che fisico, ma con un desiderio rimasto intatto. Ne La donna di Gilles, Gilles, dopo aver «soddisfatto il suo innato orgoglio di maschio» (p. 13), chiede a Élisa se ha provato piacere e lei è quasi incredula, perché non concepisce altro piacere se non quello di averne procurato a lui. Citando questo frammento, de Beauvoir scrive che il fatto stesso di porre la domanda indica che per l’uomo l’atto, più che un momento di reciprocità, è un’operazione meccanica di cui ha assunto il controllo. Egli si afferma come unico soggetto – avviene la separazione, ritorna ‘integro’ – e intende saperne l’esito (Il secondo sesso, p. 382). Laddove ci sarà amore e generosità anche in lui, allora saprà rinunciare a questo dominio.

Il corpo d’altri

Le due storie sono abitate da attese, non detti, attimi in cui le parole non affiorano o sono superflue; lì sono i corpi a parlare. Tra Marie e il suo giovane amante i dialoghi sono sbrigativi, essenziali, spesso rimangono incompleti. Per strada i due si danno del lei, ma da soli sono i corpi a riconoscersi, a colmare gli spazi vuoti di quel rapporto senza domande e poche risposte. Marie, senza conoscerlo, si innamora delle sue spalle affilate, delle mani, degli occhi teneri che lasciano presumere i suoi gesti. All’opposto, Jean ha un viso irritato, né stanco né vecchio, l’ombra ‘sporca’ della barba che ne scurisce i tratti, e tutto questo traccia un netto contrasto tra ciò che Marie ha e quello che potrebbe avere. Saliente il frammento in cui Marie, nel viaggio in treno che la porta via da Parigi, si volta verso il viso di Jean e lo sente estraneo, tanto che ha bisogno di ricordare che si tratta di suo marito. La sorella Claude, invece, viene descritta da un volto appuntito e troppo magro, la pelle non abbellita ma invecchiata dall’abbronzatura, il corpo immondo, i suoi sguardi senza via d’uscita che sembrano – e saranno – un presagio.

Con la stessa formula, la prima descrizione di Élisa è resa dal corpopieno e semplice, il viso allungato ma senza spigoli, capelli scuri e lucenti. Le mani e i gomiti segnati dall’acqua calda, dal fuoco dei fornelli e tutti i lavori casalinghi. La confessione del tradimento di Gilles tarderà ad arrivare, ma quella di Élisa è una consapevolezza intuitiva che viene da dentro e le consuma le membra; il suo corpo man mano si fa esausto, il male si concentra tra le arcate sopraccigliari e sulla bocca viene descritto il sapore del pianto. In più, sopraggiunge quel peso nel ventre che viene dal corpo dell’uomo, la nuova gravidanza, che deve portare sola – non solo fisicamente parlando, perché si occupa da sola dei bambini. Distrutta dal non poter confidare a nessuno il male inflitto dal tradimento, riconosce la sua tragedia nel corpo martoriato della statua di San Sebastiano, che contempla in chiesa, trafitto da tredici frecce, eppure così composto a vederlo da fuori; l’identificazione con lui è totale.

Non fatta per parole o gesti avventati, Élisa se ne va allo stesso modo, senza far rumore, con un solo tonfo del suo corpo che si schianta a terra. È la prova più drammatica dell’annientamento nell’amore, amore di cui gli stessi figli sono solo un’estensione: Élisa ha perso l’amore di Gilles ma quando comprende di aver preso anche il suo amore per lui non pensa a niente, nemmeno ai suoi bambini; ha già smesso di vivere.

Essere madri

Marie deve ancora scegliere se avere un figlio oppure no, e se lo avesse lo amerebbe con tutto il cuore e non come uno scopo dato alla sua esistenza. La felicità per lei non ha una forma precisa, non coincide con la sua casa e neppure necessariamente con suo marito. In questo sembra il naturale proseguo di Élisa, in una forma più consapevole, che invece ama Gilles di un amore che vivrà più di lei. Nel suo tormento, il legame matrimoniale rimane l’unico appiglio, la conferma che lui tornerà sempre, quanto meno come padre dei suoi bambini. Il titolo francese non suona l’épouse, bensì La femme de Gilles, un termine che significa donna, ma anche moglie, e del resto Élisa è stata sia la moglie, che la donna di Gilles; dopo il tradimento è sua moglie solo di nome e lotta per rimanere la sua donna, ma non lo sarà più (F. Evans, 1992).

La Irigaray ha trattato questa dinamica guardando al pensiero di Hegel, all’amore che necessariamente viene posto all’interno della famiglia per risolverne l’immediatezza naturale. In questo quadro, però, il desiderio della donna è unicamente un «diritto famigliare», osserva Irigaray, e non si tratta più di questa donna, nella sua singolarità irriducibile, che ama questo uomo, che è irriducibile a sua volta. In una prospettiva così delineata, infatti, l’amore e il desiderio femminile sono legittimi soltanto se si attuano all’interno della famiglia, ed essere sposa, e poi madre, sono i compiti della donna nei confronti dell’universale; compiti ai quali può adempiere rinunciando al suo desiderio singolare, così come all’amore per lei stessa. «[La donna] deve amarli come coloro i quali sono in grado di realizzare l’infinito del genere umano, inconsciamente assimilato al maschile nello spregio del suo genere e del suo rapporto con l’infinito» (L. Irigaray, Amo a te, p. 29). Per l’uomo, invece, l’amore equivale al riposo dal suo lavoro di cittadino, e pertanto può ricondurre l’atto amoroso all’immediatezza naturale – il ruolo che Bourdouxhe fa assumere a Gilles, che si aspetta di trovare Élisa una volta a casa, dopo il turno, o la domenica – amando questa donna o un’altra, perché in ogni caso rimarrà fedele al suo rapporto con l’universale.

Irigaray scrive che la donna non è nemmeno madre di questo bambino o questi bambini, perché non può amare in senso materno, ma è un amore sottomesso alla procreazione. E Bourdouxhe lo mostra con Élisa, che ama i figli con tutta se stessa, ma non fino in fondo come madre. I figli sono per lei la prosecuzione vivente di un amore, la traccia visibile e tangibile di esso nel mondo: «dunque una donna che è unicamente moglie? Predestinata alla creazione e alla cura di una famiglia? Ma perché tu, ora ansiosa e intirizzita, perché saresti stata creata per realizzarti secondo un modello unico?» (La donna di Gilles, p. 37). Lasciandosi alle spalle questo tipo di cultura, la donna, scrive Irigaray, deve raccogliersi in sé, ascoltare il suo desiderio e assecondarlo, che non significa ridurlo alla sola impulsività, tornare a un’immediatezza naturale (Amo a te, p. 36); al contrario, questa nuova forma amorosa potrà tutelare l’interiorità femminile, per amare se stessa e l’altro, sia nella carne che nella parola – a un livello corporeo e spirituale.

Essere sorelle

In entrambe le storie, la figura della sorella è lo specchio irriflesso, l’immagine incongrua e antitetica rispetto alla protagonista. Due antieroine che hanno vite irresponsabili, anzi la vita stessa le tocca appena, in un caso per troppa debolezza, nell’altro per troppa malizia. Quello che sconcerta Élisa, di Victorine, non è il suo fare del male, ma è il farlo mantenendo un’aria innocente, inconsapevole, che proprio per questo non risparmia nessuno. E poi Claude, l’affetto viscerale di Marie per quella sorella così affine, eppure completamente altra rispetto a lei. Claude e Marie, mosse dalle stesse rabbie, dagli stessi sentimenti, ma in Claude così passeggeri, destinati a morire l’indomani; in Marie radicati nel profondo.

La dimensione psicologica di Élisa non è sviluppata quanto quella di Marie, eppure in lei risalta la capacità immediata di capire a fondo le situazioni e le persone; sarà per questo che preferirà sempre scegliere le parole da non dire, piuttosto che svelare il punto fin dove sa. Soprattutto con Victorine, perché sarebbe inutile rivolgere emozioni forti a chi non può comprenderle – a dimostrarlo la risposta di Victorine, quando Élisa le dice di sapere tutto fin dall’inizio: «Allora, mia cara, se sapevi che cosa stava succedendo, avresti potuto tenertelo stretto tuo marito!» (La donna di Gilles, p. 118). In occasione di questo confronto è la stessa Bourdouxhe a prendere la parola: è la voce della narratrice, infatti,che condanna Victorine al posto di Élisa, passando alla seconda persona singolare per rivolgersi direttamente a lei: «non si può far niente per te – né contro di te» la compatisce Bourdouxhe (p. 99). La sua sessualità risulta disgustosa perché inconscia della gioia o della sofferenza che provoca a quest’uomo o a qualsiasi altro, come a mostrare entrambi i volti dell’immediatezza naturale di cui si parlava con Irigaray – ugualmente erronei.

Infine, entrambi i romanzi sono toccati da una riflessione sul suicidio, e se nel primo libro se ne prende atto, non si può che accettarlo, nel secondo è la stessa Marie, autoritaria e severa, che lo denuncia come un rifiuto della lotta pur nella paura di perdere la sorella: «possibile che non ci sia in loro niente che le trattenga! Qualcosa che non dipenda da tutto il resto, che le faccia essere se stesse. E che dovrebbe sempre impedire di uccidersi… Quella cosa preziosa che bisogna portare avanti come un ostensorio» (Marie aspetta Marie, p. 95). Marie comprende la resa della sorella ma non la giustifica, né è disposta ad accettarla: strattona il corpo di Claude, svestito, schiaffeggiato, violaceo, «impregnato di due veleni contrari» perché il secondo annulli l’azione del primo. Forte anche di questa lezione, l’ultima parola spetta a Marie, ancora una volta sola, ancora parla a se stessa, nell’angolo di una via di Parigi, ma con una nuova consapevolezza: si resta ad aspettare che qualcosa accada così, all’improvviso, e se nulla accade si conosce la disperazione, ci si arrende o si aspetta di nuovo. Ma occorre darsi, amare, esigere solo se si è fatto il buono, noi anzitutto.

Allora si potrà aspettare qualcosa in cambio. 

Bibliografia di riferimento

M. BOURDOUXHE, La donna di Gilles (1937), Adelphi, Milano 2007.
M. BOURDOUXHE, Marie aspetta Marie (1943), Adelphi, Milano 2018.
S. DE BEAUVOIR, Il secondo sesso (1949), Il Saggiatore, Milano 2016.
F. EVANS, Madeleine Bourdouxhe, o l’intransigenza del desiderio (1997), in Marie aspetta Marie, Adelphi, Milano 2018.
L. IRIGARAY, Speculum. L’altra donna (1974), Feltrinelli, Milano 2010.
L. IRIGARAY, Amo a te. Verso una felicità nella Storia (1993), Bollati Boringhieri, Torino 2020.
M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione (1945), Bompiani, Milano 2018.
J-P. SARTRE, L’essere e il nulla (1943), Il Saggiatore, Milano 2014.

Vincent Van Gogh e Paul Gauguin: La casa gialla

di Gilda Diotallevi

Incipit

Esiste una forte connessione tra scrittura, pittura e vita in Van Gogh. «[…]ogni pennellata aveva, dentro di sé, il sostegno di un linguaggio» (J. van Gogh-Borger, La vedova Van Gogh, p.164). Egli infatti «scrive come dipinge[…]crea, quasi senza rendersene conto, testi di immenso valore poetico (Ivi, p.112). In particolare padroneggia l’arte di scrivere lettere, a cui affida il segreto della sua ricerca artistica e

le confessioni di un uomo alle prese con il suo cammino interiore, diviso tra le difficoltà del quotidiano e le più alte aspirazioni spirituali.

Vincent Van Gogh è la sua scissione, il desiderio di condivisione e di luce da un lato, la solitudine e la delusione di una realtà a cui non riesce ad adattarsi dall’altro. Respinto e incompreso, viene profondamente segnato dai suoi diversi incontri di vita, verso cui si getta donando tutto se stesso, perché per lui da sempre, ogni attività era un problema intimo e vitale (K. Jasper, p. 8). Eppure continua a sognare, a parlare di arte e progetti, a credere negli altri fino all’ultimo, fino al suo epilogo. È su questa base che andrebbe letta la storia della casa gialla, uno dei luoghi più famosi della narrazione artistica, in cui le personalità di due giganti dell’arte, Vincent Van Gogh e Paul Gauguin, convissero per un breve periodo, ispirandosi e condizionandosi a vicenda.

Il primo incontro

Il primo incontro tra Vincent Van Gogh e Paul Gauguin risale all’inverno del 1886. Paul è appena arrivato a Parigi a seguito della sua esperienza nella città bretone di Pont-Avene, Vincent è impegnato con il fratello Theodorus e il lavoro di quest’ultimo come gallerista e mercante d’arte. Si narra che i due fecero conoscenza proprio in una piccola esposizione organizzata da Theo per un gruppo di amici, i pittori del petit Boulevard (di cui facevano parte Anquetin, Bernard, Koning, Toulouse- Lutrec, in contrasto con quelli del grand Boulevard: Degas, Monet, Renoir, Sisley, Pissaro). Dal primo istante si stabilì uno strano equilibrio tra le loro personalità che, come una profezia, segnerà la storia successiva. Diversi artisticamente, ma soprattutto caratterialmente, Gauguin è un uomo sicuro di sé e di ciò che vuole ottenere nella vita. È già conosciuto, apprezzato e non fatica a guadagnare dai suoi quadri al contrario di Van Gogh che, anche quando nel 1887 riesce a venderne uno, regala l’esiguo compenso ottenuto a una donna appena uscita dal carcere femminile di Saint-Lazarin. Ancora incompreso come pittore, i quadri Vincent preferisce comprarli, o meglio farli acquistare al fratello per una loro collezione privata. I suoi invece è solito scambiarli e si comporta così anche con Gauguin che decide di prendere due versioni dei girasoli (lettera 576 n. 2), quelli con fondo blu e quelli con le spighe, per poi consegnarne in cambio a Vincent uno solo e senza permettere che questi possa sceglierlo. È con sufficienza che Paul si approccia a Vincent che, al contrario, sente da subito vicino quel modo di dipingere ricercando la trascendenza.

Ma la vera scintilla tra questi due grandi artisti avverrà nel periodo in cui dipinsero uno accanto all’altro, producendo capolavori in un clima tutt’altro che sereno.

La casa Gialla

La ricostruzione di questa storia di incontro-scontro tra Van Gogh e Gauguin è affidata alla scrittura, ovvero alla missive che nel tempo, come un segno del destino, cominciarono a scrivere e scambiarsi e a quelle che, di volta in volta, entrambi inviarono ai rispettivi confidenti.

Siamo nella primavera del 1888, Vincent è ad Arles per dedicarsi completamente alla pittura, mentre Paul il 22 marzo dalla Bretagna si vede costretto a scrivere a Theo, in quel periodo suo mercante, per via dei troppi debiti contratti. I soldi che aveva ricevuto per la vendita di suoi tre quadri erano terminati e da due mesi viveva a credito in una locanda di Pont-Aven. Alla ricerca di una soluzione scrive anche a Vincent, nella speranza che interceda con Theo. Il desiderio di Gauguin è quello di poter tornare in Martinica alla ricerca della spiritualità primitiva e della vita del “buon selvaggio” alla Rousseau, ma la sua posizione economica rende tutto irrealizzabile. Nel frattempo Vincent il primo maggio dello stesso anno, con l’aiuto del fratello, affitta l’ala destra di una casa di Place Lamartine 2, che nel tempo sarà conosciuta solo come la Casa Gialla.

Nella prima lettera che Vincent invierà al fratello per parlare di Paul e del modo di aiutarsi a vicenda si delinea il suo sogno, inseguito da tempo ma che non aveva mai assunto una forma concreta, quello di voler formare una scuola di pittori, una comunità di artisti in grado di autosostentarsi e di combattere le regole e i diktat delle accademie.

Mio caro Theo,

 ho pensato a Gauguin[…]se vuol venire qui[…]con lo stesso denaro che spendo per me solo, vivremo in due. Sai che mi è sempre sembrato idiota che i pittori vivano soli, ecc. Si perde sempre quando si sta isolati.

E poi è una soluzione al tuo desiderio di tirarlo via di lì. Non puoi mandare di che vivere a lui in Bretagna e a me in Provenza. Ma puoi trovare conveniente che si divida fra di noi, e fissare una somma diciamo di 250 franchi al mese, e inoltre e al di fuori del mio lavoro avere un quadro di Gauguin.[…]È d’altronde  mia  intenzione  mettermi  insieme  con altri.[…]e che Gauguin diventi socio con me.

Ecco come sarebbe l’inizio della società. Bernard, che pure va nel sud, ci raggiungerà e, sappilo bene, io ti vedo sempre e solo in Francia a capo di una associazione di impressionisti. (Arles, primi di giugno 1888)

Vincent infatti sa bene che «la maggior parte delle persone abbastanza intelligenti per amare e capire i quadri impressionisti sono e restano troppo povere per comprarli», che per procedere e dare nuova linfa all’arte non basta la buona volontà di un solo pittore, ma sarebbe necessario creare un vero e proprio movimento. Per questo sogna di fondare l’Atelier du Midi, una comunità solidale di artisti che, come lui, condividono l’insofferenza per l’accademia e gli schemi pittorici ormai superati, che possano, col sostegno reciproco, divincolarsi dai problemi economici e puntare alla realizzazione di una pittura e di un mondo diverso e migliore. «[…]bisogna mettersi insieme, come facevano gli antichi monaci, fratelli della vita in comune nelle nostre brughiere olandesi. […]ma poiché si tratta della vita in comune di diversi pittori, io dichiaro che anzitutto ci vorrebbe un abate per mantenere l’ordine e che naturalmente questi dovrebbe essere Gauguin».

A fronte dei sogni romantici di Vincent, Paul è molto più prosaico, non è attratto dalla visione di Vincent quanto invece dalla proposta economica di Theo. 250 franchi al mese da dividere, in cambio di un quadro ogni 30 giorni. Così quando gli arrivano i «4 fogli, con quella calligrafia ordinata, un po’ ondeggiante e solo qualche rarissima cancellatura» (M. Goldin, I colori delle stelle, p.54) con cui Vincent lo invita a raggiungerlo ad Arles non sa che decisione prendere. Vincent dal canto suo è già proiettato in avanti, in una dimensione di logorante attesa dell’amico che durerà ancora qualche mese e che lo renderà inquieto.

[…]La natura, il bel tempo di qui, ecco il vantaggio del sud. Ma credo che Gauguin non rinuncerà mai alla sua battaglia parigina, ci tiene troppo, e crede più di me nel successo duraturo. Non mi dispiace, al contrario; forse sono io che mi dispero troppo[…]. Mi accorgo già che Gauguin spera nel successo, che non potrebbe fare a meno di Parigi, non prevede che i fastidi possono durare sempre. (Agosto 1888)

Solo credo che non bisogna dire niente di spiacevole a Gauguin se cambiasse parere e prendere la cosa dal lato migliore. Se si mette insieme a Laval, è più che giusto, perché Laval è suo allievo e hanno già fatto vita in comune. A rigor di logica potrebbero venire qui tutte e due, si troverebbe il modo di sistemarli. Per il mobilio, se avessi saputo prima che Gauguin non veniva, avrei voluto avere lo stesso due letti, prevedendo il caso di dover ospitare qualcuno. (Arles, 22 settembre 1888)

Sono fin dall’inizio su due binari diversi.

Vincent è già proiettato in avanti, Penso molto a Gauguin, e avrei molte idee per i quadri e per il lavoro in generale, (Arles, seconda metà di luglio 1888). Comincia a dipingere qualcosa che sa potrebbe piacere a Paul e si impegna nell’arredare la Casa Gialla. Ne voglio veramente fare una casa di artista, […]niente di prezioso, ma che tutto, dalla sedia al quadro, abbia un carattere. (10 settembre 1888) Compra i letti, appende i quadri e pulisce casa. Vuole che Paul abbia la stanza più bella, quella con la vista migliore. In fondo Vincent era fatto così, si gettava a capofitto sulle cose e tutto per lui era questione personale, tutto aveva un valore sentimentale. Comincia a sperare che il suo sogno si possa realizzare, che quella casa, oggi non più esistente, si possa animare, lasciandocene una preziosa descrizione proprio nelle sue missive.

I muri sono lilla pallido. Il pavimento è a mattoni quadrati rossi. Il legno del letto e le sedie sono giallo burro chiaro, il lenzuolo e i cuscini verde limone molto chiaro. La coperta rosso scarlatta. La finestra verde. La tavola di toilette arancione, il bacile blu. Le porte sono lilla. E non c’è altro – nient’altro in questa stanza con le persiane chiuse. La quadratura dei mobili deve rafforzare l’idea di un riposo inalterabile. Sul muro di entrata, uno specchio, un asciugamano e alcuni vestiti. La cornice – dato che non c’è niente di bianco nel quadro – sarà bianca. (metà ottobre 1888)

Paul, al contrario, sa di dover porre se stesso e i suoi progetti al primo posto. Si conosce bene e temendo che la vita con Van Gogh sia troppo limitante, continua a indugiare.

La vita con-divisa

Dopo 10 lunghi mesi di lettere e trattative, sarà solo il 21 ottobre che Paul, ricevuti 330 franchi da Theo per la vendita di alcune ceramiche, prenderà il treno in direzione sud, animato più che altro dalla necessità di sopravvivere e procurarsi soldi per poi ripartire. Ma se Paul vede tutto come un passaggio forzato, come una soluzione temporanea, per Vincent invece in gioco c’è molto di più. Riponeva nella sua idea di un atelier di pittori la speranza di un riconoscimento artistico, il sogno di discutere e condividere fraternamente una spazio e, non ultimo, la possibilità di rendersi economicamente autosufficiente. Aspirazioni diverse e volontà taciute fanno così da sfondo al loro incontro ad Arles, di cui troviamo testimonianza nelle lettere che, entrambi, indirizzeranno a Theo.

V: Paul è in condizione di salute migliore di quanto lo sia io.[…]Come uomo è molto interessante, e ho la massima fiducia che insieme faremo molte cose. È provabile che qui produca molto, e spero di farlo anch’io. […]Per un momento ho avuto la sensazione che mi sarei ammalato, ma la venuta di Gauguin mi ha talmente distratto che sono sicuro mi passerà (24 Ottobre).

P: Vincent appare agitato, insicuro, teso.

Vincent nutre da subito una grande ammirazione verso Paul, «un essere puro, dagli istinti selvaggi», che lo affascina con i suoi racconti di vita e di mare. Sente che proprio Gauguin, figura romantica di un artista maledetto e vagabondo, potrebbe essere la persona giusta, il catalizzatore di quella nuova scuola. Il suo ancestrale bisogno di accettazione, sempre frustrato dagli accadimenti della vita, quel bisogno di riconoscimento artistico che da tempo inseguiva sembrano essere lì ad un passo. Ma Paul non è affatto convinto, non lo è fin dall’inizio. Teme che quello spazio sia troppo stretto per contenere entrambi, poco utile alla sua maturazione artistica.

Anche caratterialmente non potrebbero essere più diversi.

Vincent, definito da Paul «un cuore buono, ma malato», era sempre proiettato nel suo passato, lì dove poteva sentirsi al riparo dai quei mali e da quelle delusioni che ormai ne avevano forgiato il carattere. Era schivo, con un animo sensibile e buono ma profondamente ferito dalla vita. Ha un carattere generoso ma imprevedibile, a tratti collerico, che gli rende difficile instaurare rapporti d’amicizia. Non riesco a starmene tranquillo, le mie idee fanno talmente parte di me stesso che, talora, mi sembra che mi prendano alla gola.

Paul invece si autodefiniva aperto al vento e alle tempeste, pronto a navigare in direzione del futuro. Aveva un carattere forte, fiero e sicuro di sé. Disincantato dalla vita, brama a tal punto l’indipendenza e la fama di artista da essere pronto a sacrificare ogni cosa, anche la sua famiglia, anche lasciare la sua figlia più grande verso cui provava un affetto profondo e sincero.

I primi giorni di convivenza passano sereni. In una lettera a Bernard, Paul si vantò di aver riportato l’ordine in casa, di essere lui a cucinare e a farlo molto meglio di Vincent che invece nella vita domestica era un vero disastro. Pur nella differenza dei due temperamenti, sono entrambi presi dalla loro arte, dalla scoperta del colore e delle possibilità che la luce di Arles offre. Vincent porta Paul all’esterno,  gli mostra il proprio modo di lavorare in mezzo alla natura, mentre Paul cerca di educarlo alla riflessione, all’osservazione meditativa del proprio soggetto e alla realizzazione in studio.

Ma i germi della scottante delusione di Vincent ci sono già tutti. Quest’ultimo è entusiasta, sempre più coinvolto dal sogno di quella scuola del sud che avrebbe dato una nuova scossa all’arte. Paul invece non è del tutto sincero e, animato dal proprio senso di libertà e di ricerca, nasconde la sua vera intenzione. Non comunica a Vincent che si sarebbe trattenuto giusto il tempo di guadagnare il sufficiente per andarsene e, anzi, in qualche modo comincia a illuderlo, facendolo di nuovo sperare in un futuro fatto di amicizia e pittura.

Dopo la prima metà di novembre, nonostante le buone intenzioni, tra i due si crea un’atmosfera tesa, corredata da attriti e reciproci disagi. La distanza nel concepire l’arte rende ancora più difficile un rapporto già messo in crisi da personalità tanto complesse. Paul non sopportava la visione salvifica che Vincent attribuiva all’arte, «[…]consolazione, quello doveva essere il suo fine[…]il pittore essere un missionario, la sua parola il colore». Per Gauguin invece «la pittura era stile, costruzione della forma associata al colore, non poteva essere pagina di diario, consumarsi dell’anima, disperazione raccontata nei quadri». (I colori delle stelle, p.148-149). Ma anche l’approccio pratico al lavoro era differente.

L’arte di Vincent, quella in grado di guarirlo dal dolore, dagli stati di prostrazione e alcolismo, doveva realizzarsi all’aperto, sotto il sole, in mezzo a mosche e zanzare. La necessità di un tale contatto con la natura lo faceva trovare spesso travolto dal vento, tanto da essere costretto a legare dei pesi al cavalletto per evitare che volasse via. Partiva la mattina presto portandosi dietro le tele, la cassetta dei colori e una piccola sacca con pane e latte, suo unico alimento quotidiano. Una volta poi che apriva i suoi occhi sulla tela vuota, ci si gettava sopra, per «avvolgerla come fa l’edera, respirarci insieme, scuoterla, farne vela per il vento che spinge» (I colori delle stelle, p. 87). Aveva un «[…]modo quasi aggressivo di dipingere, da togliere il respiro e il cuore» (Ivi, p. 86).

Quando uscivano a dipingere insieme, spesso Paul si allontanava in solitudine. «Sapeva bene di essere diverso e così come era stato finora nella sua vita, aveva bisogno di immergersi a lungo nei luoghi che non conosceva. Entrandoci prima attraverso il disegno, così da coglierne lo spirito, lentamente, l’essenza più profonda, la verità» (Ivi, p.82). La pittura vera e propria era una fase successiva, prima «venivano giornate così, di nessuna pittura e invece di contemplazione». Era sua abitudine infatti concludere i suoi dipinti al chiuso ma, nonostante Vincent volesse venirgli incontro sistemandosi in cucina e lasciandogli lo studio, per Paul era impossibile lavorare nel disordine. La casa era troppo piccola e la sua volontà di mettere il quadro in tranquillità diveniva impossibile con la presenza continua di Vincent. Tutto ciò non faceva che creare ulteriori nervosismi.

Paul inoltre criticava spesso il lavoro di Vincent che ne rimaneva ferito perché, ancora una volta, ad essere messa in dubbio era la sua verità. «Sentiva che quando criticavano i suoi quadri, e anche Gauguin talvolta lo faceva, stavano mettendo in dubbio che avesse un corpo, e un’anima, e che si fosse dato completamente nell’atto del dipingere» (Ivi, p.111). Il senso di questa sua suscettibilità è rintracciabile anche in un’altra lettera che scrisse in riposta alle critiche del suo amico van Rappard

Anche se seguito a produrre opere nelle quali si potranno ritrovare difetti, volendole considerare con occhio critico, esse avranno una vita propria e una ragione d’essere che supereranno i loro difetti, soprattutto per coloro che sapranno apprezzarne il carattere e lo spirito. Non mi lascerò incantare facilmente, come si crede, nonostante tutti i miei errori. So perfettamente quale scopo perseguo; e sono fermamente convinto di essere, nonostante tutto, sulla buona strada, quando voglio dipingere ciò che sento e sento ciò che dipingo, per preoccuparmi di quello che gli altri dicono di me.  Tuttavia, a volte questo mi avvelena la vita, e credo che molto probabilmente più d’uno rimpiangerà un giorno quello che ha detto di me e di avermi ricoperto di ostilità e di indifferenza. Io paro i colpi isolandomi, al punto che non vedo letteralmente più nessuno.

Vincent dimostrava ammirazione verso il suo amico e sentiva sempre più forte il desiderio di coinvolgerlo nel suo sogno. Ma Paul non se ne curava, per lui l’esperienza della casa gialla era solo una parentesi, doveva resistere il minimo indispensabile per poter mettere da parte quanto necessario per andar via. Non meraviglia quindi che in una lettera di quel periodo, spedita a Bernard, palesi la propria disaffezione per Arles e per Van Gogh in particolare. Scrive poi anche una lettera a Schuffenecker in cui ribadisce la paura che la propria maturazione pittorica possa subire un arresto in quella situazione mortificante, accanto a uno strano personaggio come Vincent Ad Arles mi sento un estraneo, trovo tutto piccolo e povero, il posto e le persone. Vincent e io andiamo in genere poco d’accordo, soprattutto quando si tratta di pittura. […]io gli rispondo sissignore, avete ragione, per avere pace. Quest’ultimo lo percepiva e la freddezza dimostrata dall’amico lo rendeva scontroso, taciturno. Si confida a tal riguardo con il fratello scrivendogli,

Mio caro Theo, […]Credo che Gauguin si sia un po’ scoraggiato della piccola città di Arles, della piccola casa gialla nella quale lavoriamo, e soprattutto di me. Infatti ci sono per lui, come per me, molte difficoltà gravi da vincere. Ma queste difficoltà sono soprattutto in noi. Insomma credo che partirà decisamente oppure resterà definitivamente. Prima di agire gli ho detto di riflettere e di rifare i suoi calcoli. Gauguin è molto forte, è un grande creatore, ma proprio per questo gli occorre la pace. La troverà altrove se non la trova qui? Aspetto che prenda la sua decisione in assoluta serenità. (Arles, 23 dicembre 1888)

Ma da quanto invece evincerà dalla corrispondenza di Paul con Schuff e poi con lo stesso Theo, la decisione di abbandonare quel luogo era già chiara in lui.

Devo molto a Theo e Vincent e nonostante qualche disaccordo non posso nutrire rancore verso una persona di buon cuore, che è malata, che soffre e che mi cerca perché vuole stare con me. Rimango qui, in questa casa che a volte mi sembra una prigione, ma pronto ad andarmene in qualunque momento. (Lettera a Schuff 22 dic. in I colori delle stelle, p.150)

Si riconciliavano ma, non appena la vita di tutti i giorni riprendeva il suo corso, nuovi scontri e litigi si riaccendevano. «La discussione diventa di un’estrema elettricità e ne usciamo spesso con la testa stanca, come una batteria elettrica scarica» (K. Jasper, p. 8).

Van Gogh fin dall’inizio di questo sodalizio aveva manifestato una certa agitazione, ma ora questa era di una natura diversa. Aveva intuito che quel desiderio di rivalsa verso i suoi numerosi fallimenti artistici stava per infrangersi. Un misto di malinconia e sconfitta lo rendeva inquieto, irritato. Racconterà Gauguin più tardi: «Negli ultimi tempi del mio soggiorno, Vincent fu dapprima rumoroso, intrattabile, poi improvvisamente silenzioso. Lo sorpresi, alcune sere, in piedi vicino al mio letto. […]Comunque, bastava dirgli: ‘Cosa c’è Vincent?’ perché se ne tornasse a letto in silenzio e si addormentasse profondamente. […] Quella sera andammo al caffè. Ordinò un assenzio molto leggero. Improvvisamente mi rovesciò in faccia il bicchiere e il suo contenuto». (P. Gauguin, Scritti di un selvaggio, pp. 108-109). Secondo la ricostruzione di Paul, da molti non considerata veritiera, poco prima di Natale Vincent, nel caffè di Madame Ginoux (che divenne il soggetto del quadro l’Arlesiana), ubriaco, lanciò all’amico un bicchiere pieno di assenzio. Il mattino seguente poi, sentendosi tremendamente in colpa gli chiese scusa e Paul, pur perdonandolo, lo avvertì che se si fosse ripresentata una situazione simile, non potrei essere padrone di me e strangolarvi (Gauguin, Avant et Aprés, paris, 1923, p. 20), ma tornò comunque sui suoi passi, descrivendo l’accaduto solo un «brutto sogno». Rimandò ancora la sua partenza, confondendo di nuovo Vincent, ormai esausto.

La vigilia di natale

In un clima di calma apparente pronta a infrangersi, i nostri arrivarono fino alla vigilia di natale. È una data cruciale per i due artisti, perché da questo momento nulla sarà più recuperabile. In poco si compie l’inevitabile, segnando la fine di una collaborazione e di una amicizia che avrebbe potuto lasciarci molti altri capolavori.

Vincent, di domenica mattina presto, sente uscire Paul in silenzio. Avverte l’imminenza dell’addio e, turbato, compie un atto estremo. Quando la mattina seguente Paul torna a casa per prendere le sue cose e andare via, vede delle guardie nella piazzetta adiacente casa loro che gli riferiscono che Vincent si era tagliato un orecchio. Chiama perciò, nonostante la contrarietà di Vincent, Theo che si precipita ad Arles il giorno di natale.

Caro fratello, sono talmente desolato del tuo viaggio, avrei desiderato che ti fosse stato risparmiato. Perché  in definitiva non mi è successo niente, e non c’era ragione di disturbarsi.(1 gennaio 1889)

Sul retro di questa stessa lettera Van Gogh scrisse il seguente messaggio per Gauguin:

Mio caro amico Gauguin, approfitto della prima uscita dall’ospedale per mandarle due parole di amicizia sincera e  profonda. Ho pensato molto a lei quando ero all’ospedale, anche con la febbre alta e la debolezza relativa. Mi dica, amico mio, il viaggio di mio fratello Theo era proprio necessario? Per lo meno ora, lo rassicuri, completamente, e la prego di stare tranquillo, che´ in definitiva non esiste alcuna disgrazia in questo mondo, dove tutto va sempre per il meglio. Inoltre desidero che lei saluti tanto da parte mia il buon Schuffenecker, e che si astenga fino ad una più matura riflessione dal parlar male della nostra povera casetta gialla; la prego di salutare da parte mia i pittori che ho visto a Parigi. Le auguro buona fortuna a Parigi. Con una forte stretta di mano, suo Vincent.

Di colpo tutto prese una nuova piega e perfino Vincent, all’inizio restio a osservare l’intera faccenda, si rese conto di essere stato tradito e non solo circa il suo sogno artistico, ma anche sotto il profilo umano, riguardo quell’amicizia e solidarietà in cui tanto aveva confidato.

E ora occupiamoci delle spese causate da un telegramma di Gauguin che avevo formalmente rimproverato di averti spedito. Le spese fatte cos`ı extra sono forse inferiori a 200 fr.? E Gauguin crede di aver avuto delle iniziative geniali? Sentite, non insisto sull’assurdità di questo modo di procedere, supponiamo pure che io fossi del tutto fuori senno quanto volete, e allora forse che l’illustre collega era un po’ più calmo, lui? […]Non saprò lodarti mai abbastanza per aver pagato Gauguin in modo tale che egli non possa che avere da compiacersi per i rapporti avuti con noi. Non deve lui, o almeno non dovrebbe cominciare a capire che non eravamo i suoi sfruttatori, ma che al contrario ci premeva di salvaguardargli l’esistenza, la possibilità di un suo lavoro e… e… la sua onestà?  Se ciò è al di sotto dei suoi grandiosi progetti di associazione fra artisti che ci ha proposto e ai quali tiene sempre nel modo che sai, se ciò è al di sopra dei suoi castelli in aria – perché allora non considerare lui responsabile dei dolori e dei guai che inconsciamente avrebbe potuto procurare a te e a me con il suo accecamento? Se Gauguin fosse a Parigi per studiarsi un po’ o per farsi osservare da uno specialista, in fede mia non so proprio quale sarebbe il responso.[…]Ma lui…, in fede mia, che faccia tutto ciò che vuole, che abbia la sua indipendenza??? (in che modo considera il suo carattere indipendente), le sue opinioni, e che vada per la sua strada, dal momento che pare la conosca meglio di noi. (Arles, 17 gennaio 1889)

Cominciava a pensare che Paul, in fondo, si era approfittato di lui e del fratello e una malinconia senza soluzione adombrò il suo animo. Si chiuse in se stesso, timoroso di essere stato di nuovo frainteso e abbandonato, senza però smettere di pensare all’arte. È pur sempre però un peccato che Gauguin ed io abbiamo lasciato troppo presto il problema di Rembrandt e della luce, che avevamo cominciato a studiare. Il suo più grande dolore, l’ aver visto svanire la possibilità di una svolta nella sua posizione di artista, comincia a consumarlo. La società si è dispersa. Forse prendo tutte queste cose troppo a cuore e mi rattristo troppo.

Il 18 gennaio successivo infatti Van Gogh scrive ancora a Theo: La miglior cosa che egli potrebbe  fare, e che naturalmente non farà, sarebbe di tornare semplicemente qui… Oso credere che in fondo io e Gauguin, come natura, ci amiamo abbastanza per potere, in caso di necessita`, ricominciare ancora insieme.

Mentre Paul si esprime secondo tutt’altra intenzione. «Sono fuggito[…]dopo il morbo della civilizzazione, la vita in questo nuovo mondo è un ritorno alla salute». (P. Gauguin, Noa Noa, 1901)

Ci dice invece molto dell’animo di Vincent, della sua natura, il fatto che anche nella lettera in cui si sfoga circa il comportamento di Paul, finisca poi col tentare di comprendere il suo amico, di volerlo, in cuor suo, assolvere.

Fisicamente è più forte di noi, e le sue passioni devono essere ben più forti delle nostre. Inoltre è padre, ha sua moglie e i suoi bambini in Danimarca, e nello stesso tempo vuole andare nel punto opposto della terra, in Martinica. È spaventosa la contraddizione di desideri e di bisogni che tutto ciò deve causargli.(Arles, 23 gennaio 1889).

Hai ragione che la partenza di Gauguin è terribile […]E anche se oggi tutti  avranno paura di me, col tempo ciò scomparirà. Tutti siamo mortali e soggetti a tutte le malattie possibili. Che ci possiamo noi se queste ultime non sono sempre di tipo piacevole. La miglior cosa è cercare di guarirle. Io pure ho dei rimorsi pensando alla pena che da parte mia ho causato, seppure involontariamente, a Gauguin.

Ma prima degli ultimi giorni io non vedevo che un’unica cosa, cioè che lavorava col cuore diviso fra il desiderio di andare a Parigi per la realizzazione dei suoi programmi e la vita ad Arles. Che ne sarà di tutto questo per lui?

In una lucida autoanalisi, racconterà ai suoi dottori e al fratello che […]mi restano grandi rimorsi, difficili da definire. Credo sia stata questa la causa che mi ha fatto gridare tanto durante la crisi, perché volevo difendermi e non ci riuscivo.

Nonostante si rechi volontariamente in una casa di cura e che la sua intelligenza e lucidità di spirito lo rendano conscio dell’accaduto e delle motivazioni alla base dei suoi comportamenti, avverte di nuovo quella sottile paura che lo aveva da sempre frenato in ogni definitivo progresso di guarigione. «Eppure la malinconia mi riprende spesso con grande violenza: allora mi sento tanto triste». Decise così di fare l’unica cosa in grado di renderlo felice, riprendere a dipingere. Per lui l’arte non era una professione o un passatempo, ma la pura salvezza, la sopravvivenza, l’unica terapia in grado di farlo andare avanti nonostante l’alternanza di momenti di tristezza e di gioia.

L’epilogo

Ripensando a quel periodo nella casa gialla Vincent avrà un solo timore

[…]Forse potrai capire che quello che mi rassicurerà in qualche modo sul mio male e sulla eventualità di una ricaduta sarebbe constatare che Gauguin ed io non ci siamo esauriti il cervello per niente, ma che il risultato sono stati dei buoni quadri.

In realtà il periodo di Arles, seppur fatale per la sua salute mentale, rappresenta il momento migliore della sua produzione artistica, anche se il rispetto come artista, tanto inseguito in vita, lo guadagnerà solo dopo la sua morte. La ricerca del sacro, dello spirituale con cui Vincent si votava all’arte, a Dio e alla fede, appare per Paul impossibile da rintracciare nella società moderna. Dopo questa breve parentesi nel Midì, si dirigerà nelle isole del Pacifico, nella speranza di ritrovare luoghi e persone ancora in grado di vivere secondo il senso mitico-magico.

Vincent fino all’ultimo cercherà di sapere il giudizio di Gauguin su di lui, vorrà contattarlo e palerà di lui. In una lettera del 1890, un mese prima di togliersi la vita, Vincent, amareggiato e deluso, scrisse al fratello

Ho ricevuto una lettera di Gauguin piena di malinconia: parla vagamente di essere fermamente deciso ad andarsene nel Madacgascar.

Quest’ultimo invece, lontani ormai i giorni vissuti in comune, non avrà altro contatto con Van Gogh, anche se volle portare con sé i famosi girasoli che tanto amava. Persino nel suo viaggio a Tahiti del 1990 ordinò che dei semi di girasole gli fossero mandati da Parigi. Non è un caso che, con orgoglio, in una delle sue ultime lettere al fratello Vincent scrisse

Tu sai, d’altra parte, che Gauguin ama moltissimo quei quadri. Mi ha detto, fra le altre cose: «Questo… e`… il fiore». Sai che Jeannin ha la peonia, che Quost ha la rosa, ma io ho il girasole. (Arles, 23 gennaio 1889)

Bibliografia di riferimento:

K. JASPER, Strindberg und Van Gogh, 1922.
P. GAUGUIN, Avant et après, 1903.
P. GAUGUIN, Scritti di un selvaggio, Guanda, Parma 1983.
P. GAUGUIN, Noa Noa, Passigli, Firenze 2000.
P. GAUGUIN, Letters of Paul Gauguin à Emil Bernard 1888-1889, Genève 1954
J. van GOGH-BORGER, La vedova Van Gogh, Marcos y Marcos, Milano 2016.
V. van GOGH, Lettere a Theo, Guanda, Parma 2013.
V. van GOGH, The complete letters of Vincent Van Gogh, Thames & Hudson, London 1999.
M. GOLDIN, I colori delle stelle. L’avventura di Van Gogh e Gauguin, Solferino, Milano 2019.

Voliamo insieme, amore mio. La storia di Bella e Marc Chagall.

di Gilda Diotallevi

Esiste un sogno in cui un uomo passeggia libero, tenendo per mano una donna che vola. Con lei, pian piano, anche lui si solleva da terra. 

È la storia di Moishe Segal e Bella Rosenfeld, in cui il reale e l’onirico si intrecciano di continuo, in cui il confine tra fisica e metafisica è oltrepassato grazie a un amore invisibile ed eterno che si tinge di mercurio scintillante, di un anima blu. 

L’incontro tra la giovanissima Bella e il pittore Marc non è pura contingenza, è al contrario il segreto più intimo della loro arte. Essi condivisero il lampo dei reciproci sguardi e da quel momento in poi vita ed esperienza artistica divennero un tutt’uno. Il loro è un modo particolarissimo di esprimersi, è un vibrante coacervo di tradizione, cultura, religione e carattere.

Un tale amore è capace di situare l’altrove più vicino, di renderlo visibile ai nostri occhi, lì, impresso su tele e confuso in parole e confessioni. Esso diviene così il fulcro di tutta la loro arte, motore di una ricerca continua in cui i materiali, i colori e le parole stesse altro non furono che strumenti e fraseggi di un unico dialogo. Marc parla a Bella e la sospende nel cielo, la rende elemento centrale dei suoi paesaggi. Lei, nello splendore della sua tradizione ebraica, è presente tra le righe dei suoi scritti e parla di lui. Lei è la sposa, è il blu, perché «Tutti i colori, salvo il blu oltremare, si bruciano e si ribruciano». (M. Chagall, La mia vita p.154)

Vitebsk, 1909

La loro storia è vera, terrena, nonostante ciò che li legherà sembrerà trascendere il tempo. Si incontrano nel 1909 nella loro città natale di Vitebsk. Marc è un giovane di umilissime origini che non vuole accettare ciò che il destino sembra aver scritto per lui, quello di commerciare aringhe come il padre. Lui vuole altro, vuole dipingere e prova a farlo con la sua vena artistica, la sua inesperienza e un notevole talento naturale. Bella è ancora più giovane, proviene da una famiglia benestante ed è una brillante studentessa. Non sarebbero dovuti stare insieme, eppure da subito una forza magnetica e luminosa li unisce, abbattendo pregiudizi, divieti e ostracismi da parte soprattutto della famiglia di lei. 

Quel primo incontro fu così determinante per le loro vite da rimanere impresso nelle memorie di entrambi. Ed è interessante poter ricomporre quel singolo momento grazie alla descrizione che ognuno dei due amanti ne fa nelle rispettive autobiografie. Una rammemorazione che riaffiora con tonalità differenti ma che svela un destino predeterminato, una malia reciproca a cui non si sarebbero potuti opporre.

La versione di Moishe Segal

A farli conoscere è Thea, un’amica comune, compagna di giochi per Bella e modella per Marc.  Lui è a casa di Thea e sta riposando su un divano, quando suonano alla porta è infastidito, non vorrebbe essere disturbato. Ma all’improvviso arriva lei.

la visita di quella fanciulla sconosciuta e la sua voce musicale, si direbbero dell’altro mondo, mi sconvolgono. Chi è, ho paura. Non voglio conoscerla, avvicinarmi a lei[…] mi guarda appena e se ne va. Usciamo, Thea e io, a passeggio. Sul ponte la incontriamo di nuovo. È sola, completamente sola. Bruscamente sento che non è con Thea che dovrei essere, ma con lei!

Il suo silenzio è il mio. I suoi occhi, i miei. È come se mi conoscesse da sempre, come se sapesse tutto della mia infanzia, del mio presente, del mio avvenire; come se vegliasse su di me, mi capisse perfettamente, sebbene la veda per la prima volta. 

Sentii che era lei la mia donna. Il suo colorito pallido, i suoi occhi. Come sono grandi, tondi e neri! Sono i mei occhi, la  mia anima. Thea mi parve indifferente, straniera. Sono entrato in una casa nuova e non ne sono più uscito. (M.C.p. 81)

Da quel primo incontro passano quasi quattro anni prima che i due giovani possano rivedersi. Lui si trasferisce a Parigi e nonostante le difficoltà, e lo stato di povertà assoluta in cui vive, in quel periodo si forma come artista. «Mi sembrava di scoprire tutto. Ma non era solo nel mestiere che cercavo il senso dell’arte.[…] Altre forze erano in gioco. […] Nessuna accademia avrebbe potuto darmi tutto ciò che ho scoperto mordendo le mostre di Parigi, le sue vetrine, i suoi musei». (M.C.)

Nonostante la guerra imminente, lui vuole tornare in Russia, «Volevo rivedere lei. ..alla fine del mio soggiorno a Parigi non restava che un fascio di lettere. Ancora un anno e tutto, forse, sarebbe finito tra noi due». Ma lei è lì ad aspettarlo. La magia non è affatto sparita e così vogliono sposarsi nonostante la famiglia di Bella non approvi tale unione: lei benestante, lui figlio di un commesso, e per di più pittore. Marc fa spesso riferimento alle meravigliose tavole imbandite che trovava a casa della sua amata. Lì si preparavano torte enormi alle mele, al formaggio, al papavero alla cui sola vista Marc si sentiva svenire. «A casa nostra, invece, una semplice natura morta alla maniera di Chardin. Il loro padre si abbuffava di uva, il mio di cipolla;».(M.C.)

Fino all’ultimo la madre di Bella cerca di dissuaderla«Senti, mi sembra che si metta anche del rosso sulle guance. Che marito potrà mai essere questo ragazzo rosa come una fanciulla? non saprà mai guadagnarsi il pane-[…] perirai per nulla figlia mia, per di più è un artista. Che cos’è?»

Ma che farci se lei vuole così. Che farci se entrambi si erano scelti, se Marc per lei ha parole bellissime, se lei è capace di illuminare la vita di entrambi. 

Io aprivo soltanto la finestra della stanza e l’aria azzurra, l’amore e i fiori entravano con lei. Tutta vestita in bianco o in nero lei vola da molto tempo attraverso le mie tele, guidando la mia arte.(M.C. p. 125)

Così la loro unione a poco a poco, dall’essere motivo di ispirazione artistica, diviene essa stessa arte. Ricerca inquieta di un equilibrio ostacolato principalmente dal difficile momento storico che entrambi si trovano a vivere. Lui, ebreo russo, fin dalla giovinezza subisce le discriminazioni razziali degli zar, presagio di una più violenta persecuzione operata dal nazismo, che lo renderanno inquieto, «sento che tutto in me si torce, che io cammino in maniera strana sulla terra», «sono sempre inquieto e turbato da un nonnulla», «ne’ la Russia imperiale, ne’ la Russia dei soviet hanno bisogno di me. Io sono incomprensibile per loro». (M.C.) L’unico suo punto fermo è la sua anima, lì dove risiede Bella pronta a vegliare lui e le sue opere. 

Il segreto che si nasconde dietro la loro chimica relazionale è proprio questo, un connubio di amore, tradizione, cultura ebraica e ferrea volontà. Loro non solo si stimolano e si aiutano nei rispettivi lavori, «Non finisco quadro o incisione senza chiederle il suo si o no»scrive Chagall, ma trovano nel senso del loro amore la chiave per la propria direzione artistica.

«Avevo l’impressione che noi vagassimo ancora sulla superficie della materia, che avessimo paura di tuffarci nel caos, di spezzare, di rovesciare sotto i piedi la superficie usuale». (M.C.)

Potrebbe individuarsi proprio qui il punto da cui tutta l’arte e la vita di Chagall si muovono. Il vero arcano. Una rivolta silenziosa e politica contro il già costituito in arte e contro una situazione storica così drammatica. 

Fin da giovane subì e comprese il peso dell’antisemitismo, costretto a scappare da un paese all’altro, senza sentirsi mai a casa, se non vicino a Bella. Vietbesk, la città natale di entrambi fu a lungo scossa da rastrellamenti e incendi. Bruciarono le case dei loro vicini e perfino la sinagoga. La famiglia di lei subì furti e i cekisti, armati di fucili, continuarono a bucare pareti per cercare tesori. Ma anche fuori da Mosca la situazione non migliorò, i due dal giorno del loro matrimonio cambiarono infinite case. Vivevano in ripari umidi, con la neve che cadendo arrivava anche sul letto. E Bella, sempre abituata al benessere, non si lamentava. Per acquistare il latte per la sua piccola, la loro unica figlia, un giorno decise di portare i suoi gioielli al mercato e lì la milizia arrivò ad arrestarla. Anche Marc non si lamenta. Sapeva di stare bene e il resto a lui non interessava. Sapeva di poter ancora sollevarsi da tutto quel dolore, di poter uscire dalla finestra mano per la mano con Bella.

Nell’arte fu lo stesso, non comprendevano il suo modo di dipingere pur intuendone il talento. Chagall infatti si discosta dal cubismo, dal fauvismo, e, pur ispirandosene, non appartiene a nessun movimento artistico. Perché lui reagisce in modo differente, scompone e ricompone ogni accaduto secondo i propri sentimenti e ricordi. A quella dura realtà fatta di guerre, di persecuzioni e continue perquisizioni, all’affronto di vedersi a Mennheim bruciare le sue opere per mano dei nazisti, all’angoscia di non poter mai trovar rifugio, lui risponde con un nuovo linguaggio, si solleva da terra. A tanto dolore Chagall contrappone il sogno, l’amore, la spiritualità. 

«Chagall insegue la bellezza del sogno, la sua purezza. Nel sogno raggiunge ciò che è soprannaturale, magico, miracoloso», scriverà Adorno.

In altre parole rifiuta la distanza tra l’amore e il presente, tra la trascendenza e la carne e affida il suo animo a un volo. «Ho voluto collocare lassù in alto, come in un mazzo, i sogni e le creazioni degli interpreti e dei musicisti. Ho voluto cantare senza teoria, senza metodo, come un uccello». (M.C.). Così si esprimeva lo stesso Chagall a proposito della cupola de l’Operà di Parigi che aveva decorato. Il mutamento del proprio codice linguistico non provoca solo una conseguenza artistica, ma dà vita a una nuova visione del mondo. Il suo, in fondo, è un manifesto politico. «Che potevo farci se gli avvenimenti universali mi apparivano unicamente da dietro la tela, attraverso il colore, il materiale, che s’inspessisce e vibra, come i gas mefitici? L’Europa comincia la guerra. Picasso finisce il cubismo. Che cosa importa la Serbia! Attaccare tutti quei contadini scalzi! Incendiate la Russia e noi tutti con lei…». (M.C.)

La versione di Bella Rosenfeld

La vita, ma soprattutto lo spirito, di Bella ci sono narrati dalle sue stesse memorie. Nel 1939, sconvolta dall’odio antisemita che credeva svanito nella rivoluzione del 1917, vuole salvare i propri ricordi, scrivendo un testo bellissimo, intenso e pieno di riferimenti della tradizione ebraica. «Mio Dio, è così difficile estrarre dai ricordi inariditi un frammento di vita! E come lo si può fare se questi scarni ricordi si estinguono e finiscono con me? Vorrei salvarli». (B. Chagall, Come fiamma che brucia, p. 6)

Chagall teme, in qualche modo, di aver oscurato il talento della sua amata, costretta ad abbandonare il suo lavoro per il teatro e a seguirlo prima in Francia e poi in America. Lei, che era stata musa, protagonista di molte delle sue tele e consigliera di tutto il lavoro, non se ne cura. Dal loro primo incontro una strana alchimia prese forma e, su sua stessa ammissione, Marc la faceva volare, mentre lei lo teneva con i piedi per terra. Dotata di grazia, intelligenza e carattere, si laureò in letteratura all’Università di Mosca, di solito non accessibile ai figli di ebrei e seguì sempre i suoi sentimenti, anche a dispetto della sua stessa famiglia.

Come era accaduto per Marc Chagall, anche per lei il loro incontro segnò un punto di svolta, un cambiamento che avrebbe condizionato la sua esistenza, così come la reciproca produzione artistica. Con una scrittura potente, una prosa immaginifica e mistica, Bella lascia una piccola parte di sé, una ulteriore traccia di una vita in continuo dialogo con il suo amato. Ed è assecondando questa loro dimensione privata che lei inizia il suo memoriale, come fosse scritto solo per Marc, E mi sono ricordata che tu, amico mio devoto, spesso mi chiedevi di raccontarti della mia vita, del tempo in cui ancora non mi conoscevi.(B.C.)

Il primo incontro con Chagall è descritto con grande suggestione anche da Bella. Lei è di ritorno da un viaggio e vuole correre subito dalla sua più cara amica per raccontarle ciò che le è accaduto. Si precipita a casa di Thea parlando con foga e ridendo. Ma all’improvviso si accorge che non sono sole, qualcuno le sta ascoltando. 

Chi è laggiù…ho paura. […] La porta, senza fare rumore si apre. Mi brucia la schiena. Sono inchiodata al mio posto. Ho paura di girarmi. Una fiamma sembra inseguirmi. La vedo scivolare lungo i muri. Un viso di ragazzo prende forma. Un viso bianco quanto la parete. (B.C.)

Lei è meravigliata, sa di non averlo mai visto prima e quello strano ragazzo Gesticola come se temesse di tornare sulla terra.Ha i capelli ricci, spettinati. Ma quando gli occhi si aprono un varco blu, venuti dal cielo. Occhi stranieri, non come quelli di tutti, lunghi, a mandorla. […] simili a un fauno. Bocca spalancata, non so se intenda parlare o mordere con i suoi denti bianchi e taglienti. Tutto in lui è movimento, come un animale a riposo pronto a spiccare un balzo in qualunque istante. 

Nessuno di noi dice una parola. Ognuno di noi sente battere il cuore dell’altro. (B.C.)

Bella è sconvolta, vuole scappare via da quella situazione e nonostante faccia del tutto per non pensare a quell’incontro, come un doppio, il viso del ragazzo mi accompagna, respira, mi sussurra all’orecchio. Lo caccio via, torno da un altro lato. Questo artista la cui immagine mi insegue è come una stella cadente. Non la si può afferrare. Lui non si lasica portare via così facilmente. È sconcertante. (B.C.)

Lei non vuole che qualcuno legga i suoi pensieri, osservi il suo viso dopo aver incontrato quello strano ragazzo. Aveva già conosciuto altri artisti, ma nessuno l’aveva impressionata così. Corre via, non vuole vedere né lui né la sua amica. Sente che ridono di lei. Ma li ritrova su un ponte, poco dopo. Non oso alzare gli occhi e affrontare  lo sguardo del ragazzo. I suoi occhi sono ora grigio-verdi, cielo e acqua. Per caso è nei suoi occhi o nel fiume che sto nuotando? (B.C.)

Quando parla mi sconcerta. Ogni parola sembra provenire da un mondo diverso. 

Lui vuole che lei guardi una nuvola. Da subito le parla come se lei conoscesse il suo linguaggio, come se potesse trasportarla nel suo mondo senza problemi. E lei capisce cheUna voce nuova mi risuona dentro, simile all’eco di un pozzo profondo. …un sogno profondo mi abbraccia. Comincio a vivere tutta un’altra vita. (B.C.)

Il compleanno

Dal primo momento si sono scelti, voluti, amati con purezza e passione. Si conoscono da pochi giorni, ma […] il suo viso viene alla deriva verso di me, […]Ma perché pensare a lui in continuazione?, mentre MarcMi parla come se mi vedesse tutti i giorni. Lei vorrebbe addirittura andar via, tornare nella sua casa, ma le gambe non ubbidiscono più. La guida è lui, quel giovane artista che si presenta con delle parole folgoranti, piomba come un fulmine a ciel sereno e spazza via i miei giorni tranquilli. (B.C.)

Così lei lo accoglie, da subito, nella sua interezza, lo circonda di grazia e affetto. Per il primo compleanno di Chagall, ancora giovanissima, Bella vuole festeggiarlo, «Mi ricordo ancora come mi scorticai le mani tentando, sopra una siepe, di strappare dei fiori azzurri dal gambo lungo».Si reca sul fiume, dove vive lui e dove, per la prima volta lei ispirerà uno dei quadri più celebri dell’artista. 

Ho ancora i fiori in mano. Non riesco a stare ferma.[…]Ti sei gettato sulla tela che vibra sotto la tua mano. Intingi i pennelli. Il rosso, il blu, il bianco, il nero schizzano. Mi trascini nei fiotti di colore. Di colpo mi stacchi da terra, mentre tu prendi lo slancio con un piede, come se ti sentissi troppo stretto in questa piccola stanza. Ti innalzi, ti stiri, voli fino al soffitto. La tua testa si rovescia all’indietro e fai girare la mia…Mi sfiori l’orecchio e mormori…, scrive Bella Rosenfeld nelle sue memorie. Mentre lui semplicemente le domanda Tornerai domani? Dipingerò un altro quadro…Voleremo via.

E lo hanno fatto, si sono innalzati sopra l’orrore delle guerre, sopra la povertà e le ingiustizie dell’antisemitismo, hanno attraversato campi di fiori, cortili, sinagoghe e hanno volteggiato, insieme, combattendo con l’amore e l’arte. 

Il tuono rimbombò

All’improvviso però, dopo essersi trasferiti in America, Bella contrae una malattia e muore. «Il tuono rimbombò, un diluvio si abbatté alle sei di sera del 2 settembre 1944 quando Bella lasciò questo mondo. Tutto è divenuto tenebra». (M.C) Tutto il mondo di Marc si sgretolata e l’unico luogo in cui potersi sentire a casa d’improvviso svanisce. Così la sua arte, che da sempre era stata illuminata e protetta quell’amore coinvolgente e segreto che custodivano. Lui non dipinge per quasi un anno e anche quando tornerà a vivere, a risposarsi, una certa malinconia lo accompagnerà per sempre.

Continuerà a celebrarla nei suoi quadri, a invocarla e soprattutto a dipingerla come un angelo, una misteriosa figura pronta a consolarlo. Come ne La notte verde,in cui lui, rosso di pianto e di disperazione, viene avvicinato dallo spirito di Bella, da quella donna meravigliosa che conosceva bene ma di cui dirà «Eppure avevo la sensazione che qualcosa in lei fosse custodito in disparte, inespresso. Lei scriveva come viveva, amava, come accoglieva gli amici. Le sue parole, le sue frasi sono una patina di colore sulla tela. […] Aspetta, pensa e forse percepisce già altri mondi».(M.C.)

Bibliografia di riferimento

M. CHAGALL, La mia vita,SE, Milano 2012.
B. CHAGALL, Come fiamma che brucia, Donzelli, Roma 2012.

Emile Zola: tra pittura e letteratura

di Gilda Diotallevi

Un nuovo secolo

Esiste un rapporto particolare tra letteratura e pittura che il periodo dell’Ottocento francese ha saputo cristallizzare. La relazione tra queste due forme d’arte è stata così intensa da risultare complesso decidere se sia stata la pittura a dar vita al movimento del naturalismo in letteratura o se al contrario il nuovo umanesimo scientifico abbia influenzato i colori e le tele dei futuri impressionisti.

Stiamo parlando di un periodo particolare per l’arte europea; il secolo delle grandi rivoluzioni civili è terminato e una rinnovata fiducia per il progresso segna l’inizio del secolo nuovo. La Francia, ma Parigi in particolare, contribuisce a creare la nuova sensibilità moderna, un’estetica diversa, al crocevia tra l’ondata naturalistica dell’Ottocento e il perduto romanticismo, tra il passato e il secolo di scienza che si sta aprendo. Di fronte al bagliore di questa luce, scriverà Emile Zola, gli artisti barcollano ebbri. «Ora il momento della demolizione, quando un gran polverone riempie l’aria e le macerie crollano con fracasso. Domani l’edificio sarà ricostruito».

Si avverte chiaramente la necessità del rinnovamento, il desiderio di parlare alle nuove generazioni, la volontà di servirsi di nuova linfa creativa.  

Il teatro, la letteratura, la pittura risentono tutti della necessità di questo nuovo impulso. «L’opera si rivela essa stessa capace di un mondo, solo nella misura in cui può rifigurare questo mondo» (Ricoeur). Stanchi dell’alea del romanticismo, si avverte un bisogno diverso, di verità,  che trascenda le consuete categorie del bello, reagendo così all’istituzionalizzazione dell’arte attraverso una sorta di umanesimo scientifico. «Io dipingo la realtà così com’è, né bella, né brutta» (Courbert).

Tra pittura e letteratura

Protagonisti assoluti di questo momento sono la pittura e la letteratura, o meglio gli artisti che le vivificano e tra cui si innestano storie di vite, di amicizie e di amori. Le loro opere ne sono testimonianza, a volte indirettamente, frutto di un’idea comune, altre chiaramente, come nel caso di Zola e delle sue appassionate difese nei confronti di Manet e Cezanne.

Era stato Charles Baudelaire per primo a scrivere nei suoi straordinari Salons (1859) dell’esistenza di una particolare relazione tra pittura e poesia, sostenendo che «il vero artista, il vero poeta non deve dipingere che quello che vede e quello che sente». E ciò che essi vivono li accomuna, alimenta la loro arte ma, ancor prima, la loro idea di estetica.

Si discute di arte il giovedì a casa di Manet, negli atelier degli artisti così come nei caffè. Come non ricordare il famoso caffè Guerbois citato ne L’opera di Zola e il cui proprietario diventerà il soggetto per il quadro di Manet Le bon bock. Ci si incontra, ci si diverte e si lavora anche nella casa di Zola a Medan che, più avanti, diventerà il centro nevralgico della costituzione di un movimento letterario-artistico che è appunto quello del Naturalismo. Le frequentazioni abituali così come gli incontri casuali fanno nascere amicizie, ma soprattutto particolari incroci tra giudizi, influenze e difese.

Zola e Cezanne

Zola e Cezanne vivono entrambi a Aix-en-Provence e si incontrano poco più che adolescenti, diversi in molti aspetti eppure entrambi ossessionati «dal vago tormento di una comune ambizione», come dirà Zola, sospinti alla ricerca continua di uno stimolo per le loro menti, difficilmente appagabili dalla semplice vita di provincia. Non che non apprezzino le nuotate nei fiumi, la pesca e le folli corse in campagna, ma la loro sete di poesia e successo li unisce in un sogno comune. «Ho fatto un sogno –confessa a sua volta Zola – avevo scritto un bel libro, un libro sublime che tu avevi illustrato con splendide illustrazioni. I nostri due nomi brillavano a lettere d’oro, uniti sul frontespizio, e nella fraternità del genio passavano inseparabili alla posterità».

Leggono in continuazione, scrivono, inventano e traducono componimenti poetici, fanno esperimenti chimici e parlano di colori e arte. Questi momenti saranno ricordati più avanti da Zola quando in una lettera aperta al suo amico Paul Cezanne scriverà «Sono dieci anni che io e te discutiamo di arte e di letteratura. Abbiamo spesso abitato insieme, ti ricordi? E più di una volta il giorno ci ha sorpreso mentre ancora discutevamo, scavando nel passato, interrogando il presente, cercando la verità».

Cezanne è più grande, più ricco, più bello e possiede, secondo Zola, un talento vigoroso e originale capace di  ispirarsi alla natura così com’è. Eppure Zola ha una tenacia diversa, è «erotico, bacchico, fantastico, antico» e la sua capacità di influenzare l’animo inquieto e soggetto a continue depressioni di Cezanne lo porterà a incoraggiarlo nel lavoro ma sarà al tempo stesso causa della dolorosa fine del loro legame.

«Tra di noi non c’è mai stata una vera lite, – sosterrà Cezanne – non mi sentivo più a mio agio in una casa piena di tappeti, di domestici e l’altro che lavorava a una scrivania di legno scolpito» (Discorso al mercante Ambroise). Eppure la vera ragione della rottura è da rintracciare nella pubblicazione, da parte di Zola, del romanzo L’oeuvre, in cui è narrata la storia di un pittore incapace di portare a compimento il proprio lavoro e, sconfitto, morto suicida. Cezanne è convinto che il protagonista del romanzo sia lui e l’ancestrale necessità di essere approvato, soprattutto dal suo amico di sempre, si esaspera, fino a sentirsi tradito proprio da colui che avrebbe dovuto difenderlo. Sente di averlo deluso, supportato dal fatto di non ricevere più critiche positive da parte di Zola. Così gli scrive una lettera in cui, tra le righe, pare mettere un punto alla bellezza del loro passato. Zola rispetterà la sua voglia di separazione e non si vedranno più. Eppure nel momento in cui Cezanne viene a sapere della morte dell’amico si chiuderà in casa e piangerà a lungo.

Al di là di tutto rimane impressa nelle pagine del Salon (1859) di Zola l’epigrafe di una storia tra artisti. «Tu sei tutta la mia giovinezza, ti trovo unito a tutte le mie gioie, a tutte le mie sofferenze. I nostri spiriti, in fraternità, si sono sviluppati fianco a fianco. Oggi abbiamo fede in noi perché abbiamo penetrato i nostri cuori e la nostra carne». 

Ma è in un passo successivo che si fa chiara la reale influenza artistica tra i due, quando si legge «[…]in ogni cosa noi cercavamo la presenza dell’uomo, in ogni opera, dipinto, poesia, volevamo trovare un accento personale. Lo sai che eravamo dei rivoluzionari senza saperlo?».

Una nuova concezione artistica

E rivoluzionario Zola lo era davvero, sovversivo nei confronti dei canonici estetici preesistenti così come verso la massima autorità accademica. I Salon rappresentavano l’istituzionalizzazione dell’arte, il potere ufficiale capace di distruggere o consacrare una carriera, mentre Zola sognava uno spazio diverso, una sala in cui «[…]le tele di tutti i pittori del mondo fossero riunite[…]dove poter leggere, pagina per pagina l’epopea della creazione umana».

Non è un caso che il luogo predestinato al cambiamento Zola lo individui nella pittura, lì dove i canoni stilistici vengono meno e al loro posto subentra la vita umana. La bellezza ideale diviene impossibile da ottenere perché non esiste un metro di giudizio assoluto e la visione catturata dal singolo uomo, unita al dato immutabile della realtà, diviene creazione». Esiste la natura così com’è, indagabile e osservabile in modo analitico, ma ciò che forma l’arte è quella «[…]libertà di espressione di un cuore e di una intelligenza che tanto è più grande, quanto più è personale». L’arte tutta quindi corrisponde per Zola a «[…]un momento della creazione visto attraverso un temperamento», sfuggendo a quella funzione che Proudhon individuava nel miglioramento fisico e morale della specie. Scriverà «[…]la mia concezione dell’arte è negazione della società, affermazione dell’individuo al di fuori di tutte le regole e di tutte le necessità sociali» (Proudhon, Du principe de l’art et de sa destination sociale, p. 43).

La sua concezione si distanzia da Kant, da Hegel ma non elimina del tutto le sfumature romantiche che permangono a dispetto della sua fede positivista e influenzeranno l’intero movimento naturalista che si imporrà sia in pittura che in letteratura. La natura perciò, osservabile nella sua percezione scientifica, mantiene una dolcezza e una forza che la personalità dell’artista sono in grado di filtrare in un modo sempre diverso, sempre personalissimo. Un’opera racconta sempre qualcosa, trovi essa la forma della scrittura o quella della pittura, «[…]è come se leggessi la stessa poesia in mille lingue diverse e non mi stanco di rileggerla in ogni dipinto, affascinato[…]dalla forza di ogni dialetto». (Zola, 1897).

Sarà forse per questa sua consapevolezza del mondo nuovo, per il fatto di aver sentito sulla sua pelle una certa tensione al cambiamento, o per il suo giudizio scevro da sovrastrutture che da subito comprende la grandezza di un giovane pittore: Manet.

Zola e Manet

Quando il giovane Manet prova a esporre la sua opera l’Olympia, l’accoglienza da parte degli accademici è pessima. Stupisce il fatto che a difenderlo non furono gli altri pittori o i critici d’arte quanto al contrario Zola. Lo scrittore infiammò la scena del momento scrivendo un vero e proprio manifesto in soccorso a Manet, così come aveva fatto per il suo amico di sempre Cezanne. A rimanerne impressionato fu lo stesso Manet che in una lettera del 7 maggio 1866 scriverà che vorrebbe incontrare Zola per ringraziarlo di persona, ma che non sa come raggiungerlo. Così gli specifica che lui tutti i giorni dalle 5.30 alle 7 è presente al caffè de Bade del boulevard des italiens.

Dopo il lavoro nei rispettivi studi infatti, la vita degli artisti si trasferiva nei caffè, luoghi di svago ma soprattutto di incontro e di discussione. In un certo senso si potrebbe affermare che i caffè, nella Parigi di quegli anni, diventino la sede alternativa alle accademie, fucine di idee e di reciproche influenze tra pittori, critici, giornalisti e scrittori. «Il caffè forniva inchiostro, penna e fogli per scrivere, tutti i quotidiani (alcuni ne avevano più di cinquanta) e una grande quantità di bevande, dal caffè alla limonata, fino agli aperitivi alla moda. (Maria Teresa Benedetti, Impressionismo. Le origini).

Proprio in uno di questi luoghi inizia l’amicizia tra Zola e Manet, testimoniata da una lunga e fitta corrispondenza che andrà avanti fino alla morte di quest’ultimo nel 1883. Tra loro non ci saranno solo lettere, ma inviti a cena, fine settimana trascorsi nella casa di Zola a Medan e in barca, così come uno scambio continuo di libri che proverà come anche Manet fosse affascinato dalla letteratura. In altre parole l’arte dell’uno influirà su quella dell’alto.

Per Zola infatti interrogarsi sulla pittura è il modo migliore per creare, anche inconsapevolmente, l’ordito del proprio manifesto «Il mio studio su Èdouart Manet non è che un’applicazione del mio pensiero in campo artistico» (Zola, 1867).

Per Manet la letteratura fornirà il concreto spunto per più soggetti dei suoi quadri. In particolare vale la pena ricordare proprio Il ritratto di Emile Zola, in cui lo scrittore è ritratto nell’atelier dell’artista con in mano un libro d’arte e in cui, in un gioco di continui rimandi, su un tavolo del medesimo quadro viene raffigurato il saggio che Zola aveva dedicato all’artista.

Credo che Ricoeur abbia centrato perfettamente il senso del rapporto tra vita e arte, sostenendo che «Se, infatti, si riduce l’opera d’arte – che sia letteraria, plastica o musicale – soltanto a una fonte costitutiva di un ordine irreale, le si nega il suo mordente, la sua potenza di presa sul reale. Non dimentichiamo la duplice natura del segno: ritrarsi dal e ricadere sul mondo. Se l’arte non avesse, ad onta del suo ritrarsi, la capacità di fare irruzione in mezzo a noi, all’interno del nostro mondo, essa sarebbe totalmente innocente; sarebbe tacciata di insignificanza e ridotta a un puro divertissement». (Ricoeur, La critica e la convinzione, p. 244).

Bibliografia di riferimento

M.T. BENEDETTI, Impressionismo. Le origini, Giunti, Firenze 2002.P-J.
PROUDHON, Du principe de l’art et de sa destination sociale, Garnier fréres, Paris1865.
P. RICOEUR, La critique et la conviction, Calmann-Lévy, 1995 (tr. it.) La critica e la convinzione. Intervista con François Azouvi e Marc de Launay, Jaca Book, 1997.
E. ZOLA, Scritti d’arte, Angelo Signorelli, Roma 1993.

Vladimir Majakovskij. Rivoluzione e pathos

di Gilda Diotallevi

Amore e politica

Nel 1929 Aleksandr Rodchenko immortala in uno scatto Vladimir Majakovskij, il grande poeta russo, e i coniugi Osip e Liljia Brik. Sono tutti seduti a tavola, nella loro casa di vicolo Gendrikov, tra tazzine, fogli scritti e bottiglie. Si riesce quasi a percepire il fumo di tabacco che ha roso l’aria, o a immaginare il colore della confettura con cui i russi amano prendono il thè.

Della foto colpisce la scena di semplice quotidianità, l’immagine privata di un uomo, Majakovskij, che il Regime intendeva invece mostrare esclusivamente come emblema della propaganda russa. Tale distonia tra dimensione politica pubblica e versione intima ed esistenziale in realtà costituirà la base stilistica della sua poetica d’avanguardia, in cui la repulsione per ciò che è ordinario e sistematicamente ripetibile, il rifiuto del conformismo e l’attacco alla cultura borghese si intrecceranno con ragioni del tutto personali.

La produzione di Majakovskij si nutre infatti in egual misura di lotte rivoluzionarie alla conquista della giustizia sociale come di tensioni erotiche e mentre le sue parole inneggiano alla provocazione, incendiando il popolo alle cause del partito, una più intima emotività ne ridefinisce i contorni. 

Sensibilità e violenza, ardimento e fragilità segnano la sua vita e si nascondono oltre la teatralità dei versi declamati. Non meraviglia perciò che sia lo stesso uomo a scrivere: «Trombare è necessario come ai cinesi il riso»…«Che il mio pene come un pilone si innalzi! Per me fa lo stesso chi mi sta sotto- la moglie di un ministro o un inserviente» (Majakovskij, Inno agli onanisti). Come pure «L’amore è la vita, è la cosa principale. Dall’amore si dispiegano i versi, e le azioni, e tutto il resto. L’amore è il cuore di tutte le cose. Se il cuore interrompe il suo lavoro, anche tutto il resto si atrofizza, diventa superfluo, inutile. Ma se funziona, non può non manifestarsi in ogni cosa» (Lettera Febbraio 1923, Mosca). Parole, quest’ultime, dedicate a Lilija Brik, a un amore che lo costrinse a continui cambiamenti, a spostamenti e tradimenti in grado di influenzare, in maniera più o meno visibile, tutta la sua arte. 

Lilija.

Esistesempre una dimensione ‘altra’ che si appropria di una parte di noi, una malattia d’amore che infetta o risana le espressioni artistiche, anche se non sempre se ne possiede una testimonianza tangibile, come invece accadde nella lunga relazione epistolare che il nostro terrà con Lilija Brik. Non si tratta di alta letteratura, di versi artefatti e costruiti ma di scambi intrisi di quotidianità, di conti da pagare, di acquisti, di difficoltà economiche e, ancor più, di amore.

Lilija e Majakovskij si incontrano nel 1925 e da subito si instaura tra loro un rapporto passionale, non sempre pienamente corrisposto da parte della donna che, per oltre quindici anni, vive intensamente la violenta attitudine all’amore totalizzante del poeta. 

Lui è magnetico, eccesivo, possiede sicurezza nello sguardo e un tipo di pensiero che non tollera compromessi. Rende Lilija l’oggetto di una attenzione morbosa che nel tempo scoprirà un lato di inaspettata fragilità del poeta. «Non smettere di amarmi del tutto, ti prego: ne ho molto bisogno! » (Lettera 6 dicembre 1924, Parigi-Mosca). Majakovskij necessita di una costante approvazione che ricerca, in misura indifferente, nel fronte russo, nel futurismo socialista, nelle amicizie, come quella con il marito di lei, ma soprattutto nella passione che nutre per la sua musa. Si legherà infatti ad altre donne ma le desidererà tutte attraverso un sentimento incapace di allontanare quella dipendenza emotiva, quell’attaccamento alla sua Lilija. Sarà quest’ultima a rivelare, nella sua biografia, che Vladimir possedeva, come un ladro nella sua anima, una forza insaziabile capace di incenerire se stesso e gli oggetti del suo desiderio. Perché Majakovskij non si limitava a innamorarsi, lui era «un’autentica aggressione».

La sua poesia, capace di influenzare i movimenti artistici russi d’avanguardia, scaturisce da una passione non sopita, che mette al lavoro del cuore il Motore raffreddato. L’innamoramento è legato all’azione, a una qualche forma di movimento e di attività senza la quale sarebbe impossibile tornare a scrivere. La sua produzione lirica appartiene a uno stato emotivo spinto dall’eccitamento erotico-sentimentale, «Amare – è dai lenzuoli lacerati dall’insonnia strapparsi[…]», senza il quale sarebbe impossibile trovare ispirazione, anche per la produzione più politica legata al realismo socialista. Tutto è testimoniato da alcune semplici lettere, piccole confidenze quotidiane tra lui e Lilija, che come singoli tasselli ricostruiscono una immagine che supera e si sovrappone a quella strettamente politica dell’autore. Per amore, o dipendenza emotiva che fosse, lui è pronto a modificare la sua vita, le sue abitudini. Così accade che lei lo esorti a scrivere, gli organizzi la vita pratica e gli ricerchi editori e investitori, mentre lui le dedichi la sua opera, le sue parole e componga per lei le didascalie ai suoi film, come ne Gli ebrei sulla terra.

Majakovskij odiava le convenzioni di ogni sorta, la staticità delle imposizione politiche come la natura borgese di un amore tradizionale. Decise così di uscire dalle linee stilistiche approvate (V. Majakovskij, Come far versi, 1926), dalle formule poetiche del passato (Il voler «[…]minare il vecchiume, per andare alla conquista della nuova cultura» è uno dei punti fermi del LEF, Levyi Front Iskusstva, ovvero del Fronte di Sinistra delle Arti fondate nel 1922), con la stessa naturalezza con cui visse il suo rapporto a tre. Lui, Lilija e Osip, indipendentemente da altre storie e avventure, tornavano a casa tutte le notti. Divisero soldi, appartamenti, cibo e passioni politiche. Riscaldavano una sola stanza per risparmiare e parlavano del fronte russo con uguale fuoco con cui si dedicavano all’arte. Vissero tra loro una morbosa e forte relazione, che oggi definiremmo progressista, composta d’amore ma anche di depressioni e fughe. Nelle lettere si parla di umori schifosi, di lontananze non volute e di distacchi necessari per arginare il tarlo della deludente quotidianità. «[…]come ho potuto, come ho osato farmi rodere da un tarlo d’appartamento.[…]un indizio del mio essere caduto in basso. Non esisterà mai più nessuna forma di quotidiano, in nulla! Nulla del vecchio quotidiano si insinuerà tra noi» (Lettera 1-27 febbraio 1923, Mosca).

Rivoluzione e pathos

La capacità di scrivere era, secondo lo stesso Majakovskij, influenzata dall’ostinazione e dalla passione, sentimenti, entrambi, che nutriva per la rivoluzione così come per le donne. Attraverso l’arte filtrò il suo pathos e lo mise al servizio della rivoluzione bolscevica, facendo della poesia, di quella lirica che l’amore ispirava, un’arma in grado di sovvertire i valori del passato e le ideologie troppo lontane dai bisogni del popolo.

Prenderà in tal modo forma uno strano intreccio tra vita e arte e la sua insopprimibile esigenza di sovvertire il conformismo passerà attraverso la letteratura, la poesia, la politica anche se in fondo sarà l’irrazionalità dell’Amore, forse, a spingerlo oltre quei limiti imposti, oltre quella linea che da sempre e per sempre cercherà di superare. 

La copresenza di dimensioni pubbliche e private permarrà fino alla fine, fino all’ultima lettera d’addio, sempre che sia stata realmente scritta da lui, in cui egli attribuisce la responsabilità del gesto all’amore non corrisposto della sua ultima musa e alla delusione del partito. E forse proprio per tale ragione sarà impossibile riuscire a sciogliere i nodi intrecciati tra colpe e cause, tra motivi e influssi che vivevano nell’animo dell’artista e lo indussero al tragico gesto.

Non è possibile infatti relegare la storia di Majakovskij a mito della Russia staliniana, così come ricercare nel suo distacco dalla propaganda l’unico motivo della sua morte. Esistono ragioni non visibili, insondabili moti dello spirito che assumono una valenza a noi sconosciuta nella contingenza dell’esistenza. L’ambiente storico, il periodo particolare vissuto dalla Russia e la necessità di ribellarsi a una tradizione obsoleta e non rispettosa della libertà degli individui fanno da sfondo ad una poesia incarnata, a un uomo la cui luce risplende ancora tra i versi e le parole, parole d’amore che «non sono vane» (V. Majakovskij, Il flauto di vertebre, 1915).

Bene!

1.
Il tempo è qualcosa d’insolitamente lungo./Ci furono tempi di leggenda/ma sono passati. Oggi/non leggende, non epos/né epopee:/come telegramma vola,/verso!

Con labbro ardente/chinati a bere nel fiume/che ha nome: «Fatto».

Il nostro tempo vibra/come un cavo telegrafico/ed io sono stretto/alla verità.

Questo accadeva alla patria,/ai combattenti,/oppure nel mio cuore.

Io voglio/che dal piccolo mondo della tua stanza,/leggendo questo libro,/come baionetta che il verso/ha reso abbagliante,/voglio che ancora tu muova/sulle spalle di fuoco/delle mitragliatrici/e che attraverso la gioia degli occhi/del testimone fortunato/scorra nei tuoi muscoli stanchi/una ribelle/e costruttiva forza.

A celebrare questo giorno/non assolderemo nessuno./Noi/inchioderemo la matita sui fogli/perché il fruscìo delle pagine/sia come il fruscìo delle bandiere/sulla fronte degli anni.

Il tempo è qualcosa d’insolitamente lungo./Ci furono tempi di leggenda/ma sono passati. Oggi/non leggende, non epos/né epopee:/come telegramma vola,/verso!

Con labbro ardente/chinati a bere nel fiume/che ha nome: «Fatto».

Il nostro tempo vibra/come un cavo telegrafico/ed io sono stretto/alla verità.

Questo accadeva alla patria,/ai combattenti,/oppure nel mio cuore.

Io voglio/che dal piccolo mondo della tua stanza,/leggendo questo libro,/come baionetta che il verso/ha reso abbagliante,/voglio che ancora tu muova/sulle spalle di fuoco/delle mitragliatrici/e che attraverso la gioia degli occhi/del testimone fortunato/scorra nei tuoi muscoli stanchi/una ribelle/e costruttiva forza.

A celebrare questo giorno/non assolderemo nessuno./Noi/inchioderemo la matita sui fogli/perché il fruscìo delle pagine/sia come il fruscìo delle bandiere/sulla fronte degli anni.

Bibliografia di riferimento 

V. MAJAKOVSKIJ, L’amore è il cuore di tutte le cose (Lettere 1915-1930), BEAT 2016.
V. MAJAKOVSKIJ, Come far versi, (1926), Editori Riuniti, Roma 1961.
R. JAKOBSON, Una generazione che ha dissipato i suoi poeti, Einaudi, Torino 1975.
V. MAJAKOVSKIJ, Opere, Editori Riuniti, Roma 1972.