Vedere suoni. Il sentire e le sinestesie in Maurice Merleau-Ponty

di Camilla Gazzaniga

È una sera d’inverno del 1911, e le note delle sinfonie di Arnold Schönberg risuonano per le strade di Monaco.

Il giorno seguente, quella musica sarebbe stata tracciata sulla tela di un dipinto da Vasilij Kandinskij, improvvisando un concerto di segni e colore che potesse esibire in forma visiva l’aria intima degli strumenti musicali. La loro voce invisibile. «Il colore è il tasto. L’occhio è il martelletto. L’anima è il pianoforte dalle molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, mette preordinatamente l’anima in vibrazione» (Lo spirituale nell’arte, 1911).

Il colore blu, per Kandinskij così vicino al cielo quando è tenue, alla notte e al mare quando è carico, suona, per la sua aura spirituale, come le corde del violoncello. Il giallo, così acceso, ha la forza dirompente della tromba, fino ad arrivare al bianco e al nero e alla loro vicinanza al silenzio. Ciascuna suggestione uditiva diviene visibile nel colore sulla tela e l’occhio dell’artista, quando si ritrova impressionato dal mondo, vi coglie un senso e lo restituisce con i segni tracciati dalla sua mano. (M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, 1964).

Il chiasma.

«Il sensibile mi restituisce ciò che gli ho prestato, ma è dal sensibile stesso che io lo derivavo. Io che contemplo l’azzurro del cielo, non sono, di fronte a questo azzurro, un soggetto a-cosmico, non lo possiedo nel pensiero […], io sono il cielo stesso che si riunisce, si raccoglie e si mette a esistere per sé, la mia coscienza è satura di questo azzurro illimitato. Ma il cielo non è spirito: non è allora privo di senso dire che esso esiste per sé scriveva Maurice Merleau-Ponty (Fenomenologia della percezione, 1945) nelle pagine che avrebbero siglato la sua seconda tesi di dottorato, dove già si stagliava la relazione chiasmatica soggetto corporeomondo, o di più, dove essi si affermavano come i due termini del medesimo evento.

Il pensiero di Merleau-Ponty, partendo dalla fenomenologia husserliana e dal relativo impegno a sottoporre il concetto di conoscenza alla soggettività, tenta di declinare il pensiero in termini nuovi, esistenziali. Vi è una riflessività propria del corpo, perché esso sente il mondo, ma anzitutto si sente, prima ancora che la coscienza sia desta.

Il senso non va ricercato in una idealità astratta, nell’ in sé della tradizione filosofica, perché esso, scriverà Merleau-Ponty, è già nel mondo.

In altre parole, il ‘soggetto’ si inserisce in un evento di co-nascenza con le esperienze che vive, con vissuti che diventano i suoi (Fenomenologia della percezione, 1945), così che, tornando alle prime parole, il cielo è già lì, ma non può esistere in modo a sé stante. Sarò io a volgere i miei occhi a quel frammento cobalto che si estendeva già da prima che lo notassi, ad abbandonare una parte del mio corpo, o esso intero, a tale contemplazione. Così come sarà il mio atteggiamento a essere occasione per un dato evento di determinarsi, di divenire, nel nostro caso specifico, un azzurro con un significato, e di conseguenza di essere sentito.

Ma neanche l’altro termine del chiasma, il ‘mondo percepito’, permane inerte nella materialità delle cose, esso infatti  significa aldilà di esse: io trovo nel sensibile una proposta di esistenza che esso mi rivolge in quanto mi è visibile. Sarò io a scegliere se accettare questa forma d’esistenza, o al contrario se inibirmi.

Mi ritrovo nel cuore del visibile, perché esso è destinato a esser visto dalla mia corporeità, e tuttavia non risiedo totalmente in esso. Vivo dall’interno l’esperienza sonora della mia voce, ma non la odo come gli altri l’ascoltano; la mia mano destra, quando è nel mentre di toccare, ha presa sul mondo, ma quando viene toccata dalla mia altra mano, ecco che la sua presa s’interrompe (Il visibile e l’invisibile, 1964).

Ciò significa che esiste una esteriorità anche del mio corpo, che però a me è nota a partire dalla mia interiorità. Io sento sempre dalla parte del mio corpo, non posso che esistere così e questo scarto tra toccato e toccante, tra la mia voce parlata e udita, è segno che la mia carne si concilia con la carne del mondo senza scomparire in essa, perché se fossi piena coscienza, pieno sapere del mondo, non potrei percepirlo.

Il corpo proprio: sentire.

Ogni mia sensazione dipende da una sensibilità che l’ha preceduta e le sopravvive al termine di quella stessa esperienza che si situa nel corpo prima che vi sia coscienza sul mondo. La sensibilità è la voce di una acquisizione originaria corporea, e i suoi vari registri sensoriali emergono nella loro singolarità o contaminandosi a vicenda.

Ciascun senso, nel suo ruolo specifico, costituisce un piccolo mondo rispetto alla totalità sensoriale del corpo, e traccia un confine netto con gli altri sensi nel caso anomalo in cui l’integrità dell’organismo venga offuscata dal corso di una patologia o di una lesione. In ciò che è anomalo emergono quegli elementi che sono invece taciti nella normalità, perché nel loro equilibrio non destano l’attenzione: nella malattia l’integrazione di un senso con l’altro non avviene e al corpo è chiesto di riconfigurarsi secondo nuovi criteri che possano colmarne la mancanza. Nel caso dei ciechi dalla nascita, il campo tattile non può tradursi nel linguaggio della vista senza perdita alcuna, anche laddove la vista venga recuperata. Il cieco può sentire, in una piena continuità fra il suo tocco e il mondo, la fattezza più recondita di una mano o di volto, di un qualsiasi oggetto; ma quando i suoi occhi vedranno per la prima volta, egli non riconoscerà il nuovo aspetto del mondo e si meraviglierà di essi, che appaiono tanto distinti l’uno dall’altro (Fenomenologia della percezione, 1945). In un primo momento tutto sorge disordinato; la cognizione delle forme e dei colori, il loro apprendimento, avverrà solamente quando il paziente avrà inteso cosa è vedere.

La sinestesia.

I sensi, nella loro distinzione, tuttavia comunicano. Essi inter-vengono, si incontrano, aldilà del loro perimetro specifico, in uno strato ancestrale e originario, dove la differenziazione sensoriale non è ancora avvenuta. Lì si realizza l’ascolto dei colori o la visione dei suoni: si ode la fragilità del vetro, quando esso s’infrange emettendo un suono cristallino, si vede la morbidezza di un tessuto dalla curva soave delle pieghe.

Se in ambito neurologico la sinestesia è pensata come condizione rara, traccia di un difetto percettivo, per Merleau-Ponty non è ossimorico considerare ciascun senso come una parzialità che si conferma tale, e insieme operante con il tutto (Fenomenologia della percezione). Non è il soggetto a decidere la sintesi intersensoriale, è il corpo, prima ancora del pensiero, che riunisce il suo movimento verso un fine ultimo a partire da una sua primordiale sinergia. Questa sintesi dona l’unità dello spazio percettivo, poiché se è vero che con il tatto tocco la prossimità attorno a me, è solo con la vista che posso estendere il mio campo d’esperienza e riempire di significato i termini “vicino” e “lontano” rispetto a dove permango.

È nel movimento che appare compiersi l’intersensorialità, poiché l’altro che si muove o l’oggetto che viene mosso sono lo spostamento visibile di colori e forme. Dal tocco con cui affondano a terra si desume la loro flessibilità o la gravezza del peso, dal rumore continuo dei passi, o dall’intermittenza delle loro pause, s’intuisce la conformazione dello spazio adiacente.

Lo stesso colore significa oltre la qualità visibile, celando un senso motorio, così come affettivo: l’esperienza cromatica va a determinare la motilità del corpo. Sull’eco di Kandinskij, il rosso e il giallo favoriscono un movimento di estensione, il blu e il verde, con un tono riposante inducono a un raccoglimento del corpo in se stesso. Ancor prima di essere uno scenario oggettivo, il mondo dei colori viene abitato dal corpo con le sue modalità d’esistenza, a seconda delle suggestioni che può trarne.

Vedere melodie, udire la musicalità delle forme avviene perché il corpo non è una mera associazione di un organo, di un arto dopo l’altro, ma è un sistema sinergico in cui tutte le funzioni si riprendono seguendo il disegno dell’esistere al mondo.

«Quello del corpo è[…] l’unico mezzo che io ho di andare al cuore delle cose, facendomi mondo e facendole carne» (M. Merleau-Ponty, VI, p.162).

Bibliografia di riferimento

V. KANDINSKIJ, Lo spirituale nell’arte, SE, Milano 2005.
M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2018.
M. MERLEAU-PONTY, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 2009.
M. MERLEAU-PONTY, L’occhio e lo spirito, SE, Milano 1989.
G. NIFOSÌ, Arte in primo piano. Guida agli autori e alle opere, vol. III, Laterza, Roma-Bari 2011.

Il sacrilegio della navigazione

di Gilda Diotallevi

La filosofia, nata in Asia Minore nel VI secolo a.C. sulle rive del Mar Egeo, parla, in un modo o nell’altro, il linguaggio del mare. Il suo destino, scritto sotto il segno dell’acqua, influenzerà infatti la sua stessa natura, riflettendosi nella teorizzazione, nella prassi così come nella sua semantica rilevante.

La ricerca del senso aleggia nelle metafore del viaggio, tantissime in tal senso, accomunate tutte dal desiderio di spingersi oltre il conosciuto, al di là del conoscibile. La terra ferma diviene il luogo da abbandonare, la riva da cui partire nel tentativo di solcare mari e pensieri nuovi.

Eppure ogni esplorazione, per quanto bramata dall’uomo, rimane sempre turbata da una certa inquietudine difficilmente decifrabile. Testimonianza ne è la nostra tradizione poetico-culturale la cui semantica non si immunizza dal retaggio di una colpa che, a dispetto del più intuitivo peccato originale, attiene storicamente al sacrilegio commesso nell’aver profanato luoghi sacri.

Il mare trattiene infatti tutta l’ambivalenza della scoperta e della perdita, esso, secondo Omero, è sempre terribile, duro, grande abisso, livido, instancabile e il suo pericolo più grande è rappresentato dal rischio del suo attraversamento, corrispondente, in molti casi, al rischio di una profanazione. «Ah! […] i mortali[…] si procurano dolori oltre il segno» (Omero, Odissea, Proemio). L’uomo vuole mettersi in mare e la sua navigazione in direzione dell’ignoto lo condurrà verso un disvelamento ma gli procurerà, allo stesso tempo, un senso di sradicamento.  Ed ecco che l’eroe per eccellenza del mediterraneo, Ulisse, paragona le onde del mare alla guerra, entrambe capaci di portare dolore, entrambe mobili e malferme.

In realtà solo la rilettura moderna di questo mito ha reso Ulisse metafora della sete di conoscenza, pronto a sfidare con consapevolezza ciò che gli dei proibiscono. Egli infatti, secondo una precisa lettura esegetica dei testi, «supera di senno i mortali» e si distingue dagli altri suoi compagni che (come nel caso dell’apertura dell’otre dei venti o della distruzione delle mandrie del sole) rischiano continuamente di superare il segno che gli dei impongono. Eppure l’idea della sfida del fato, del superamento del limite non è nuova alla nostra tradizione culturale.

Pensiamo ad esempio al mito degli Argonauti, la cui spedizione rappresenta senza dubbio l’infrangere tabù, a Serse, simbolo della violazione della legge e dei limiti imposti (nel suo caso dall’autorità persiana), così come ad Alessandro Magno, figura emblematica della tensione conquistatrice, disposto a giungere fino ai confini del mondo conosciuto.

Mare: simbolo di hybris

I riferimenti omerici, ma più in generale la cultura mediterranea con le Argonautiche e l’Eneide, sono pieni di esempi in cui lo spingersi oltre il consentito, il varcare limiti non concessi, il macchiarsi di hybris, rappresentino azioni difficilmente perdonabili. La furia degli dei era implacabile verso l’uomo che, macchiandosi di una tal colpa, pregiudicava non solo la sua vita ma quella della sua intera stirpe. E gli dei si vendicavano proprio attraverso il mare, facendo soffiare dirompenti tempeste, dando vita a violenti capovolgimenti di flutti. In fondo anche l’isola di Atlantide «[…] essendosi verificati terribili terremoti e diluvi, nel corso di un giorno e di una notte, […]sommersa dal mare, scomparve» (Platone, Timeo, 25c-d).

Anche nell’iconografia cristiana il mare torna a essere centrale; presente con diverse sfumature di senso esso è il luogo dell’epifania del male, lo strumento di cui si serve la collera divina per punire i peccati dell’umanità. La palingenesi è già nel diluvio universale, narrato nel poema di Gilgamesh, nella Bibbia, così come nel mito greco di  Deucalione e Pirra.

Il circoscrivere il mare di una qualche sacralità poteva celare un esercizio di potere, i divieti sul commercio marittimo che una classe dominante imponeva all’altra si servivano proprio dell’antica credenza di commettere sacrilegio nel toccare le acque del mare, ma spesso nascondeva anche il bisogno di autoprotezione da parte dell’uomo. «Il sacrilegio della navigazione punisce se stesso già col timore delle potenze superiori alle quali l’uomo si consegna e che traduce nelle immagini dei suoi dei, ai quali queste potenze vengono sostituite. Ma che con esse non può stringere un patto, l’uomo lo sperimenta nella vanità dei suoi sforzi di esorcizzarle». (H. Blumenberg, Naufragio con spettatore, p.54).

Lasciare la terra ferma in vista di una navigazione coincideva con l’abbandono del presidio e della guida a favore di un indeterminato. Ma ancor più rappresentava il pericolo dell’alterazione dell’antico rapporto tra terra e mare, «paragonabile all’offesa arrecata alla inviolabilità della terra, alla legge della terra inviolata che ad esempio sembrava proibire il taglio di istmi e la creazione di porti artificiali, cioè drastiche modificazioni del rapporto tra terra e mare». (H. Blumenberg, Naufragio con spettatore). Ciò che il divino aveva tenuto separato viene, attraverso la spavalderia della navigazione, congiunto e l’uomo, dimentico del monito degli dei, commette impiae rates. L’assolutizzazione di un elemento a discapito dell’altro infatti avrebbe eliminato quella necessaria contrapposizione dialettica, compromettendo l’ordo naturans delle cose e rendendo così il mare spaventoso. 

Ma in fondo, come ci ricorda Conrad, il mare non è mai stato amico dell’uomo quanto senz’altro complice della sua irrequietezza.

L’illusione metafisica

L’antico sacrilegio della navigazione, seppur abbandonato nella sua piena accezione di superstizione, permane nel tempo, confluendo nell’accento di sconsideratezza, se non di empietà, di cui si macchieranno gli uomini moderni. Il tentativo di oltrepassare il limite, così come la ricerca spasmodica di un elemento a discapito dell’ordine naturale, rischia di trascinare il pensiero verso derive nichilistiche.

Pensiamo oggi alla ricerca scientifica portata avanti senza il freno del proprio contraltare, del proprio opposto o a come la tecnica, privata di una qualche resistenza del dubbio, si muova senza nessun presidio etico.

Sarà Franco Cassano, nel suo bellissimo Il Pensiero meridiano, a far coincidere la crisi del pensiero con l’assolutizzazione del mare/tecnica, privato di ogni forma di possibile contrapposizione dialettica. «È qui la radice della crisi del pensiero, del suo arrendersi al predominio della tecnica: d’ora in poi vale solo il pensiero che vive sempre in alto mare e che ha rimosso le idee stesse del limite, del ritorno, della terra come superstizioni, timidezze o regressioni. L’aver sostituito al vecchio infinito quello della tecnica significa solo aver cambiato il lato della dismisura».(F. Cassano, Il Pensiero meridiano, p. 32).

Misure e dismisure oggi fanno i conti con il pericolo continuo dello smarrimento del pensiero, lì dove le cose, sottratte al loro posto, non ritrovano una collocazione ma viaggiano in una lacerante mancata relazione con i propri opposti. Ed ecco che Giustizia e Legge, verità e conoscibilità, progresso ed etica non possono più dialogare. La ragione è smarrita, letteralmente, e si ritrova a navigare nella sua sconfinata libertà senza più nessun porto sicuro. Il mare aperto della conoscenza torna a macchiarsi di una certa forma di sacrilegio, così come il diritto all’allontanamento porta dietro non solo la libertà ma anche lo sradicamento.

La terra ferma dei principi, il luogo della sicurezza, l’oikos, verranno abbandonati in direzione di una navigazione che non troverà più approdo. Il pensiero è mosso da un vento che non trova mai scogli e le forme conosciute si dissolveranno, i limiti si decostruiranno e alla ragione pura si sostituirà una tentata ragionevolezza.

Non è possibile per l’uomo stringere a lungo un patto di non belligeranza tra se stesso e la Natura, a cui peraltro appartiene, perché, come ci ricorda Lucrezio, «mentre va sulla prua, al supplice voto un turbine sorge violento/e lo prende e contro le rocce lo sbatte, al guado/ignoto dell’implacabile morte». Consci di tutto ciò, a noi non rimane che sperare che l’augurio di Martin Heidegger si avveri e che al pensiero calcolante della tecnica, a quel pensiero che si trova, sempre e di continuo, in alto mare torni a contrapporsi la forza radicata di un pensiero diverso, di un pensiero meditante.

Bibliografia di riferimento

H. BLUMENBERG, Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, Mulino, Bologna 1985.
F. CASSANO, Il Pensiero meridiano,Laterza, Roma-Bari 1996.
OMERO, Odissea.
PLATONE, Timeo.

O filosofi, salite dunque a bordo!

di Gilda Diotallevi

Quando si consideri l’effetto prodotto su ogni individuo da una giustificazione filosofica totale del suo modo di vivere e di pensare, la quale lo riscalda, lo benedice, lo feconda come un sole splendente tutto per lui, e gli conferisce libertà di fronte alla lode e al biasimo; quando si pensi come essa lo renda soddisfatto, ricco, prodigo di felicità e di benevolenza, come non desista dal trasformare continuamente il male in bene, porti tutte le energie allo sboccio e alla maturità, e non lasci prevalere le male erbe dell’accoramento e della tetraggine, si finisce per gridare in tono di preghiera: «Ah, potessero esser creati ancor molti altri di questi soli!». Anche il malvagio, l’infelice, l’uomo d’eccezione debbono possedere la loro filosofia, il loro buon diritto, il loro raggio di sole! Non di pietà hanno bisogno! Dimentichiamoci di questa idea orgogliosa, quantunque finora l’umanità abbia appreso da questa e questa abbia praticato; per coloro non abbiamo bisogno né di confessori, né di esorcizzatori, né di assolutori! Invece v’è bisogno di una nuova giustizia! E di una nuova parola d’ordine! E di nuovi filosofi. Anche la terra morale è rotonda! Anche la terra morale ha i suoi antipodi! Anche gli antipodi hanno diritto all’esistenza! Vi è ancora un altro mondo da scoprire… e più che uno! O filosofi, salite dunque a bordo!

Si conclude così l’aforisma 289 di Nietzsche, tratto da La Gaia Scienza, con un invito rivolto ai filosofi a imbarcarsi sulle navi e non in un luogo qualsiasi, ma lungo le rotte del Mediterraneo. Da sempre quest’ultimo, cantato e invocato dalla poesia, ha suggerito legami con la storia, con l’antropologia e più in generale con la dimensione della vita.

Esiste infatti uno strato di senso che eccede la semplice narrazione del Mediterraneo e che lo rende metafora di un luogo ideale, di una dimensione ulteriore dell’esistenza. Quest’ultima, nascosta oltre la linea del visibile, sarà disvelata solo agli «uomini nuovi, gli innominati, gli uomini ardui a comprendersi, nati in anticipo per un avvenire non ancora dimostrato» (F. Nietzsche, La Gaia Scienza, 382). A coloro cioè che, mossi dall’entusiasmo della conoscenza, navigheranno coraggiosamente le acque agitate dei mari con la convinzione che «[…]la vita ha da essere un esperimento[…] e non un dovere, non una fatalità, non un’impostura! »(Id., 324).

Ri-conoscere 

L’esperire, esperienziale, rimanda al senso del movimento, del tragittare (pi-par-ti, sanscrito) lo sguardo oltre l’orizzonte visibile dalla terra ferma, dell’imbarcarsi con mente aperta e priva di predeterminazioni. La ricerca infatti investe una dimensione profondamente decostruzionista e si lascia attraversare da una trasvalutazione di quelle credenze, di quei principi e valori, che si pensavano ultimi. 

Il senso può essere accostato solo se si comprende la nostra precarietà, l’impossibilità cioè di definire e autodefinirsi aprioristicamente e, soprattutto, una volta per tutte. Lo aveva perfettamente capito Elias Canetti quando sosteneva che «L’incerto dovrebbe essere il vero regno del pensare» (Die Provinz des Menschen, 1944). Nel momento in cui si sale a bordo infatti, nonostante ci sia chiara la destinazione, quella cioè della conoscenza, ogni calcolo e previsione dovranno rimanere sospesi. Solo in questo modo sarà possibile rileggere, riosservare e ricomprendere ciò che ci appariva vicino e, contemporaneamente, così lontano.

Anche i nostri stessi desideri, lungi dal poter essere definiti sulla base di un oggetto, di un nome o di un’azione, continuamente si ricompongono e si ritendono verso astrazioni che non credevamo di volere così intensamente. A mostrarcelo, ancora una volta, è proprio la navigazione nel Mediterraneo, in cui il già conosciuto, il già visto, sarà sottoposto a una seconda lettura. Dopo essersi imbarcati anche i luoghi che pensavamo di conoscere verranno riletti sotto una nuova luce, ci appariranno differenti. 

Così «dopo esser stati lungamente in viaggio[…]ecco che a noi sembra di ricever per compenso un paese sconosciuto che è davanti ai nostri occhi, dai confini che nessuno ha mai veduto, un al di là di tutte le terre e i rifugi dell’ideale, un mondo così straricco di bellezza, d’ignoto, di problematico, di terribile e di divino, che rapisce in estasi la nostra curiosità e la nostra avidità di possesso» (F. Nietzsche, La Gaia scienza, 382).

Il viaggio di cui parla Nietzsche però possiede una sfumatura altra, perché non si tratta di una semplice metafora di un percorso interiore, ma rappresenta il mezzo per la trasformazione del sé. Dopo aver deciso di navigare, l’uomo diventerà estraneo a se stesso e a ciò che prima era la sua casa finendo per non riconoscersi, o meglio, per conoscersi di nuovo, per ri-conoscersi. «La natura è all’interno troppo più ricca, potente, felice, terribile; voi non la conoscete così come vivete abitualmente: imparate a ridiventare voi stessi natura e lasciatevi poi trasformare con essa e in essa dal mio incantesimo d’amore e di fuoco» (F. Nietzsche, Richard Wagner a Bayreuth, p. 113).

L’identità smette perciò di essere un dato naturale e comincia invece a essere letta come un processo. Essa cambia nel tempo e si scopre composta da elementi che si trasformano continuamente, richiedendo così necessari aggiustamenti di connessioni. L’uomo nuovo naviga esattamente come governa la propria rotta, assumendosene il rischio ma avendo anche la forza di «crescere a modo proprio su se stessi, di trasformare e incorporare cose passate ed estranee, di sanare ferite, di sostituire parti perdute, di riplasmare in sé forme spezzate» (F. Nietzsche, Dell’utilità e il danno della storia per la vita, Milano 1981, p. 9).

A-dialettica

La scoperta di una nuova impostazione può liberare l’uomo, «Abbiamo lasciato la terra e siamo saliti sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti dietro di noi e rotta ogni strada»(Id., 124), ma non può sottrarlo al giogo del desiderio. Quella ineluttabile bramosia che sospinge l’uomo nuovo a prendere possesso della realtà si dimostrerà, spesso, causa di sofferenza. Più ci si vorrà accostare alla verità, più essa si allontanerà da noi, mostrando il lato tragico di una esistenza che rimarrà sempre, in parte, a noi inaccessibile. La ricerca furiosa condurrà infatti alla scoperta di contrapposizioni non scioglibili, alla copresenza di aperture e chiusure, ad avvicinamenti e allontanamenti che, di continuo, disegneranno rovesciamenti a-dialettici.

Perché la conoscenza è necessità e tormento, speranza e angoscia, declinazioni queste che trovano posto in un luogo capace di condensare e dar voce a correnti multiple e contrarie: il Mediterraneo per l’appunto. Esso, il cui «principio pericoloso agiva: cioè essere immenso, molteplice e contemporaneamente immutabile» (E. Montale, Mediterraneo, in Ossi di Seppia),rappresenta la ricerca della misura, il fecondo equilibrio tra ragione e natura che l’uomo non può far proprio ma solo circumnavigare. 

«Da ora in poi, infatti, signori filosofi guardiamoci meglio dalla pericolosa, vecchia frottola concettuale che ha postulato un “puro soggetto della conoscenza senza volontà, senza dolore e senza tempo”; guardiamoci dall’abbraccio di concetti contraddittori come “pura ragione”, “spiritualità assoluta”, “conoscenza in sé”:- qui si pretende sempre di pensare un occhio che non può essere affatto pensato, un occhio che non avrebbe assolutamente alcuna direzione» (F. Nietzsche, Genealogia della morale, BUR, Milano 2000, Terza dissertazione, par.12).

Eppure senza cambiare prospettiva sarebbe impossibile vivere, conoscere e sperimentare perché vorrebbe dire farlo essendone una parte in causa priva di consapevolezza. Mentre invece «[…]quanti più occhi, occhi diversi, siamo capaci di aprire sulla stessa cosa, tanto più completo sarà il nostro ‘concetto’ di questa cosa» (Ibidem).

La polifonia e poliformia del Mediterraneo si riflettono nella nostra identità, incessante e sempre diversa. L’uomo non può valutare la natura, ma può cambiare prospettiva rivedendo il mondo da una diversa angolazione, può cioè scoprire una nuova parte di se stesso.

Il rischio

«Vi è ancora un altro mondo da scoprire… e più che uno!» (Id., 289), che il Mediterraneo suggerisce e che la legge del mare ci mostra. Salire a bordo significa assumere interamente la chance della scoperta, come pure il rischio di ogni fallimento. 

Perché «[…]noi, Argonauti dell’ideale, forse più coraggiosi che saggi», ci ritroviamo «assai spesso naufraghi e mal ridotti[…]». Accogliere l’invito a salire sulla nave vuol dire accettare i più grandi pericoli, così come la possibilità che quella misura, che il mesos del Mediterraneo ci suggerisce, rimanga per noi estranea. Eppure per chi è pronto a rischiare «Finalmente, anche se non è limpido, l’orizzonte ci appare di nuovo libero, finalmente i nostri vascelli possono riprendere il mare, affrontare di nuovo tutti i pericoli; ogni audacia è consentita di nuovo a chi vuol conoscere; il mare, il nostro mare, è nuovamente là, aperto, e forse non vi fu mai un mare ‘tanto aperto’»(Id., 124).

Il rischio dell’attraversamento del Mediterraneo è pari al rischio che l’uomo assume rispetto alla filosofia, quello cioè di essere sempre a un passo dall’abisso. «L’uomo è una fune tesa tra il bruto e il superuomo; una fune sopra l’abisso. Un pericoloso andare di là, un pericoloso essere in cammino, un pericoloso guardare indietro, un pericoloso rabbrividire e arrestarsi. Ciò che è grande nell’uomo è d’essere un ponte e non uno scopo: ciò che si può amare nell’uomo è il suo essere un passaggio e un tramonto». (Id., Così parlò Zaratustra, Prefazione, par. 4). 

Eppure accogliere l’invito a salire a bordo, nonostante la difficoltà di un navigare che ci spoglia dalle antiche rassicurazioni e convinzioni, possiede in sé una ricompensa enorme. Liberati da una logica puramente razionale, si avrà accesso alla conoscenza. Solo accettando di vivere in un mondo in cui tutto è soggetto a trasvalutazione, senza cadere nel facile atteggiamento nichilistico, si potrà dire di aver accolto la sfida a cui l’uomo nuovo è chiamato. La possibilità del naufragio per i viaggi in mare corrisponde all’assunzione del rischio di una indipendenza critica non condivisibile che spinge, in un modo o nell’altro, nella direzione di una rivoluzione.

Prospettiva significativa perciò quella attraverso cui la filosofia legge il Mediterraneo, traducendosi in un invito a porre un secondo sguardo sul mondo, sugli altri ma principalmente su noi stessi. In fondo se la conoscenza non fosse trasformazione del sé, non potrebbe spingerci verso terre sconosciute, verso mari non solcati, verso lampi di verità che non pensavamo neanche di possedere. 

Bibliografia di riferimento

F. NIETZSCHE, La Gaia Scienza.
F. NIETZSCHE, Così parlò Zaratustra.