Si potrebbe fissare un prezzo per i pensieri. E con che cosa si pagano i pensieri? Credo con il coraggio. Ludwig Wittgenstein
Una premessa
Il filosofo e ricercatore Michele Ragno, che già in passato si è dedicato allo studio di Wittgenstein (suo infatti il saggio L’arte che schiude il senso. La filosofia dell’arte di Wittgenstein e Heidegger sul valore filosofico dell’arte a partire per l’appunto dai due grandi filosofi del Novecento: Wittgenstein ed Heidegger), nel 2022 cura l’edizione italiana delle lettere di Ludwig Wittgenstein a Ludwig von Ficker. Tale rapporto epistolare, inedito in Italia da decenni, insieme alle altre lettere di Wittgenstein, ci permette di accedere al pensiero più intimo di un autore in cui filosofia ed esistenza risultavano tra loro strettamente congiunti.
Mentre la figura di Wittgenstein risulta maggiormente conosciuta, e non solo nell’ambito filosofico, lo stesso non potrebbe forse dirsi per Ludwig von Ficker. Editore e letterato dei primi del Novecento, lega il suo nome alla rivista di arte e cultura Der Brenner, da lui fondata nel 1910,e subito divenuta un punto di riferimento per la letteratura d’avanguardia. Wittgenstein, dopo aver contribuito economicamente alla attività editoriale dell’amico Ludwig, nel 1919 gli sottopone il suo lavoro più importante, il Tractatus logico-philosophicus, (n.d.a. anche se all’inizio non era questo il titolo originale dell’opera) perché lo pubblicasse proprio sul Der Brenner. Alla richiesta però von Ficher oppose un rifiuto, non credendo nella commerciabilità di un testo così complesso e frammentario. (Cfr. R. Monk, Ludwig Wittgenstein: Il dovere del genio, pp. 178-185)
In dialogo con Michele Ragno
Michele, come è nata l’idea di ridare nuova visibilità editoriale a queste lettere? Sappiamo che la traduzione in italiano mancava da parecchi anni.
M. R «Credo che queste lettere siano state e siano tutt’ora essenziali per comprendere la filosofia di Wittgenstein, perché fanno breccia nella sua vita e nel legame essenziale e indissolubile che per Wittgenstein stesso c’è tra filosofia e vita. La filosofia, e qui c’è sicuramente un atteggiamento in contrasto con la modernità e fondamentalmente più vicino ai filosofi antichi greci, non si limita a teoresi, ma è quella luce che ci guida nell’esistenza. Direi quasi che l’opera essenziale di Wittgenstein non sia tanto il Tractatus logico-philosophicus, né alcun altro testo scritto, quanto piuttosto la sua stessa esistenza, le sue scelte, i suoi errori, le sue risalite.
Non è un caso che, sul letto di morte, egli senta il bisogno di dire queste ultime parole: «Dite loro che ho avuto una vita meravigliosa». Questa affermazione racchiude una carica emotiva intrinseca tale da essere stata per me oggetto di studio e di riflessione.
La prima volta che presi visione di queste lettere le trovai necessarie per capire il Tractatus, per svelare l’anima che si nascondeva dietro quelle fredde e ordinate proposizioni numerate. Pubblicarle dopo così tanti anni di oblio non fa parte di un mero progetto biografico – Heidegger infatti introdusse un corso universitario affermando che della personalità di un filosofo ci interessa soltanto questo: nacque quel tal giorno, lavorò e morì –, un feticcio ossessivo che spesso ci porta a voler ‘spulciare’ ogni singolo aspetto personale – talvolta anche irrilevante – di un personaggio che ammiriamo, ma significa fornire quel tassello mancante del puzzle.
Probabilmente mai nella storia della filosofia vi è stato qualcuno come Wittgenstein tanto capace di racchiudere in se stesso struggente dolore, perfetta coerenza personale e ricerca di autenticità. E leggendo quelle lettere ci si rende conto di come la filosofia di Wittgenstein si possa perfettamente specchiare negli eventi della sua vita: la scelta di spogliarsi dei propri averi per donarli ad artisti austriaci privi di mezzi economici, di partecipare alla Prima Guerra, di abbandonare – ormai da punta di spicco della filosofia anglosassone – un ruolo prestigioso nell’Accademia inglese per fare l’insegnante di scuola elementare in Austria, etc.»
A proposito di queste scelte, nella sua introduzione a Lettere a Ludwig von Ficker. Vienna la guerra, il Tractatus di Ludwig Wittgestein (di cui lei è il curatore) menziona l’abbandono dell’ambiente universitario di Wittgenstein dopo la pubblicazione del Tractatus. Qual era il rapporto di Wittgenstein con l’accademia?
M. R «Sì, tale abbandono si è effettivamente verificato e il rapporto avuto con l’Accademia in generale è abbastanza complesso. Wittgenstein è sempre stato abbastanza sospettoso e diffidente nei confronti della filosofia accademica, da lui criticata perché pensava fosse improprio professionalizzare il pensiero.
Il pensiero ha dei tempi: tempi in cui bisogna seminare e tempi in cui bisogna raccogliere. Il fatto che il pensare sia un lavoro, che dia il sostentamento di un individuo, potrebbe forzare dei processi che secondo Wittgenstein dovrebbero essere assolutamente spontanei. Wittgenstein ha infatti scoraggiato diversi suoi allievi dal perseguire una strada accademica. Per essere filosofi non bisogna essere necessariamente professori di filosofia o accademici ricercatori filosofici. Al contrario, il percorso accademico potrebbe essere un ostacolo per la vera filosofia. Paradossalmente potrebbe essere maggiormente filosofica la vita di un operario – ed egli stesso prese in considerazione l’idea di abbandonare Cambridge per fare l’operaio in Unione Sovietica – rispetto a quella di un insegnante di filosofia.
Sottolineo che lo stesso Tractatus non è nato a Cambridge, in un ambiente accademico: quelle proposizioni sono state piuttosto concepite nella trincea della Prima Guerra Mondiale.»
Wittgenstein viene spesso descritto come il pensatore più antiaccademico che sia esistito. «Ricchissimo, rinuncia all’eredità e vive di borse di studio senza avere nessuna cattedra prima dell’ultima parte della vita. Voleva solo pensare. Non scrivere libri o articoli su riviste. Pensare, perché la sua ambizione era di essere perfetto sotto tutti i punti di vista. Segno d’un egocentrismo che farà poi scuola.» (R. Monk, idem)
Quello che vorremmo chiederle Michele però è se, nel concreto, l’avversione nei confronti della filosofia accademica si traduca necessariamente in avversione verso la disciplina della storia della filosofia?
M. R «Questa è una domanda molto interessante e richiede una risposta piuttosto lunga. In realtà proprio mesi fa mi ero imbattuto in un testo, edito dal Mulino, che conteneva un insieme di saggi sull’importanza della storia della filosofia nel pensiero contemporaneo. Il libro esordiva citando la prefazione al Tractatus di Wittgenstein
– In che misura i miei sforzi coincidano con quelli di altri filosofi non voglio giudicare. Ciò che qui ho scritto non pretende già essere nuovo, nei particolari; né perciò cito fonti, poiché mi è indifferente se già altri, prima di me, abbia pensato ciò che io ho pensato –
e presentando Wittgenstein come il filosofo analitico par excellence, intenzionato a rompere del tutto i rapporti con la storia della filosofia. Il testo denuncia l’ignoranza wittgensteiniana in materia di storia della filosofia, e bisogna sottolineare come questa sia una critica abbastanza comune al filosofo austriaco. Vero è che Wittgenstein non ha mai avuto una formazione filosofica ‘classica’: ciò è dovuto al fatto che la scelta di dedicarsi alla filosofia sia stata improvvisa, nata nel bel mezzo di studi ingegneristici. Ciò però non annulla l’interesse che Wittgenstein sin dall’inizio aveva avuto nei confronti della filosofia: da giovane infatti aveva letto Schopenhauer, Nietzsche – di cui era grande estimatore –, Kierkegaard. Sappiamo delle sue letture di Agostino, Spinoza e persino Platone, i cui dialoghi sono da lui più volte citati. Su Platone egli stesso scriverà questo pensiero:
I filosofi non sono più prossimi al significato di Realtà di quanto lo fosse Platone… Che strana situazione. Sconcertante che Platone sia comunque riuscito a spingersi così lontano! O anche che noi non siamo riusciti a spingersi oltre! È stato forse perché Platone era così bravo?
Viene perciò da chiedersi il perché di quel passo nella prefazione al Tractatus. Credo che Wittgenstein volesse mettere in chiaro una serie di cose: innanzitutto che la filosofia, essendo appunto strettamente connessa all’esistenza, è un percorso personale e in quanto tale non conta l’originalità: non è importante che io sia il primo a giungere ad una idea vera. L’importante è arrivarci e ciò basta.
L’altro aspetto decisivo che emerge è che la filosofia non è fatta solo di contenuti, ma anche di forme. Ed è forse questa la vera novità del Tractatus. O, ancora meglio, la forma incide su un pensiero tanto quanto il contenuto che viene espresso.»
Le difficoltà del Tractatus
Michele può parlarci della storia editoriale del Tractatus che, in parte, emerge proprio da una serie di lettere scritte dal nostro filosofo?
M. R «Il Tractatus ha incontrato non pochi ostacoli editoriali: essendo un testo breve e ostico nella comprensione, nessun editore era disposto a pubblicarlo. Wittgenstein chiese una referenza al suo mentore Gottlob Frege presso la rivista Beiträge zur Philosophie des Deutschen Idealismus, che aveva pubblicato il saggio di Frege Der Gedanke.
Frege in realtà non fece ciò: era disponibile a scrivere alla rivista per raccomandare la serietà dello scrittore, ma aveva diversi dubbi sul Tractatus – per la poca chiarezza di diverse proposizioni – e su esso sentiva di non poter esprimere alcun giudizio.
L’idea di Frege fu dunque di sezionare il testo, affrontando ogni singolo problema filosofico in una sezione che sarebbe stata poi pubblicata da un periodico, in modo da rendere più chiaro il pensiero nascosto dentro il difficile schema del Tractatus.
Wittgenstein ovviamente rifiutò immediatamente la proposta della suddivisione: come disse a Russell ciò era inaccettabile, perché significava mutilare l’opera dall’inizio alla fine e, in una parola, farne un’opera completamente diversa. La via era improponibile poiché suddividere il testo significava modificarne la forma e modificare la forma a sua volta comportava la snaturazione del testo stesso e dei suoi pensieri. L’importanza della forma, a cui sopra mi riferivo, è ribadita nella prefazione: Se questo lavoro ha un valore, questo consiste in due cose. In primo luogo, pensieri son qui espressi; e questo valore sarà tanto maggiore quanto meglio i pensieri sono espressi. Quanto più se colto nel segno.
Ed è strano che una simile proposta sia venuta proprio da Frege, che in una corrispondenza con Wittgenstein – a proposito del testo –, scrive:
Il piacere della lettura del suo libro non può pertanto raggiungersi sulla scorta di un contenuto già noto, bensì unicamente in base alla sua forma, nella quale s’imprime la peculiarità dell’autore. Per cui il libro è efficace più sul piano artistico che su quello scientifico; ciò che vi si dice è secondario rispetto al modo in cui lo si dice.
Wittgenstein dunque non era disponibile ad alcun compromesso per aumentare le probabilità di pubblicazione, perché l’importanza della sua opera consisteva proprio nella forma con cui quei pensieri erano espressi.»
Lettera a L. von Ficker, fine ottobre 1919
Per concludere riportiamo un estratto di una lettera che Wittgenstein scrisse a Ludwig von Ficker in allegato al manoscritto del Tractatus perché questi glielo pubblichi.
[…] Forse Le sarà di aiuto, se le scrivo un paio di parole sul mio libro: dalla lettura di questo, infatti, Lei, e questa è la mia esatta opinione, non ne tirerà fuori un granché. Difatti Lei non lo capirà; l’argomento Le apparirà del tutto estraneo. In realtà, però, esso non Le è estraneo, poiché il senso del libro è un senso etico. Una volta volevo includere nella prefazione una proposizione, che ora di fatto lì non c’è, ma che io adesso scriverò per Lei, poiché essa costituirà forse per Lei una chiave alla comprensione del lavoro. In effetti io volevo scrivere che il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto, ed inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante. Ad opera del mio libro, l’etico viene delimitato, per così dire, dall’interno; e sono convinto che l’etico è da delimitarerigorosamente solo in questo modo. In breve credo che: tutto ciò su cui molti oggi parlano a vanvera, io nel mio libro l’ho messo saldamente al suo posto, semplicemente col tacerne. E per questo il libro, a meno che io non mi sbagli completamente, dirà molte cose che anche Lei vuol dire, ma non si accorge forse che son già state dette lì. Le consiglierei di leggersi la prefazione e la conclusione, poiché sono queste che conducono il senso del libro alla sua più immediata espressione.
Bibliografia di riferimento
RAY MONK Ludwig Wittgenstein: Il dovere del genio, Bompiani, Milano 1991.
LUDWIG WITTGENSTEIN Lettere a Ludwig von Ficker. Vienna la guerra, il Tractatus, goWare 2022.
Fiori Vivi ringrazia
Michele Ragno Filosofo, studioso e scrittore di articoli a carattere scientifico. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo David Foster Wallace come esperienza filosofica (AM 2020); L’arte che schiude il senso. La filosofia dell’arte in Wittgenstein e Heidegger (goWare 2021).
L’uomo che si isola rinuncia al suo destino, si disinteressa del progresso morale. Parlando in termini morali, pensare solo a sé è la stessa cosa che non pensarci affatto, perché il fiore assoluto dell’individuo non è dentro di lui; è nell’umanità intera. […] Non si adempie il dovere, come spesso si è portati a credere e come ci si vanta di fare, confidandosi tra le vette dell’astrazione e della speculazione pura, vivendo una vita da anacoreta; non vi si adempie con i sogni ma con gli atti, atti compiuti nella società e per essa.
G. W. F. HEGEL, Scienza della logica, 1812
Un quadro introduttivo
Negli ultimi anni, la parola emergenza ha occupato drasticamente il linguaggio della politica. La sua eco, in assenza di un vero e proprio dibattito pubblico, si è propagata attraverso i flussi comunicativi che intercorrono tra governanti, media e cittadini.
L’emergenza sanitaria derivante dal propagarsi del virus COVID 19 ha messo alla prova le istituzioni, testando più specificamente la capacità degli ordinamenti di regolare la contingenza.
Ricordiamo il giorno in cui l’Italia fu dichiarata zonarossa e le regioni, le provincie e i comuni sono state divise da confini invisibili; l’adozione di atti emergenziali di contenimento e di gestione dell’epidemia; le proroghe dello stato di emergenza.
E ancora, il 24 febbraio di un anno fa, l’annuncio dell’invasione militare russa a danno dell’Ucraina ha materializzato nuovamente lo spettro della guerra, che continua a scandire la storia dell’umanità.
La comunità internazionale è sprofondata in uno stato emergenziale, segnato da una grave crisi energetica.
L’epidemia e la guerra sono accadimenti straordinari ed eccezionali che ridisegnano l’ordinario assetto dei diritti, delle garanzie costituzionali e del complesso sistema di pesi e contrappesi proprio degli ordinamenti democratici.
La Costituzione italiana non contempla lo stato di eccezione a differenza – a titolo esemplificativo – della Costituzione spagnola, della Costituzione ungherese o della Costituzione di Weimar che all’art. 48 prevedeva la sospensione parziale o totale dei diritti costituzionalmente garantiti al fine di ristabilire l’ordine e la sicurezza pubblica.
Tuttavia i decreti del Presidente del Consiglio italiano che durante la recente emergenza sanitaria hanno cadenzato le varie fasi del lockdown richiamano il Codice della Protezione civile, emanato il 2 gennaio del 2018. Più specificamente l’art. 7 del decreto legislativo n. 1 del 2 gennaio del 2018 sancisce che, di fronte a «emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo», si può ricorrere a «mezzi e poteri straordinari».
Recentemente il dibattito dottrinario si è accesso attorno a due posizioni dominanti. Secondo alcuni studiosi, giuristi e teorici del diritto, è necessario effettuare una distinzione tra emergenza ed eccezione, la prima implica la conservazione di un ordine precostituito, la seconda invece il suo disfacimento. (G. Zagrebelsky, ‘Non è l’emergenza che mina la democrazia. Il pericolo è l’eccezione’, la Repubblica, 28 luglio 2020)
È evidente che il punto di partenza di tale ricostruzione è la differenziazione schmittiana fra dittatura commissaria, che ha lo scopo di conservare o restaurare la costituzione vigente e dittatura sovrana, che tende invece a instaurare un nuovo ordine. La visione sopra esposta è fortemente criticata da chi sostiene che l’eccezione e l’emergenza implicano entrambi la sospensione della legge. Da ciò segue che, non è dirimente riflettere sulle intenzioni o sulle motivazioni sottese alla dichiarazione dello stato d’eccezione e dello stato emergenza, quanto sull’esito: l’interruzione delle garanzie costituzionali. (G. Agamben, Stato di eccezione e stato di emergenza, 2020).
Per giunta Carl Schmitt in Teologia Politica parla semplicemente di Ausnahmezustand, «stato di eccezione», termine tecnico che si è imposto per definire la condizione di eccedenza del politico sul giuridico; in altre parole la terra di mezzo tra l’ordine giuridico e il fatto politico, tra la legge e la sua sospensione.
Banksy, ballerina sulle rovine di un grattacielo di Borodyanka – Ucraina
Le parole di Eligio Resta
Proprio quando l’ordine precostituito sembra svanire e la forza immanente dei principi fondativi dell’ordinamento giuridico cede il passo alla sospensione e all’incertezza, è facile chiedersi quale sia il ruolo dei diritti.
Questa domanda e tanti altri interrogativi saranno il filo conduttore dell’intervista – o per dirla come abbiamo sempre chiamato le nostre conversazioni – della chiacchierata, con il Professore e Filosofo Eligio Resta, la cui ricca produzione scientifica è da sempre caratterizzata dalla rarissima capacità di portare alla luce i paradossi del diritto.
E. R «L’emergenza è ormai definitiva e proprio in questo periodo storico possiamo notare il calpestare continuo dei diritti di individui e di intere popolazioni. È necessario chiederci in che modo i diritti possano essere Katéchon, ossia limite all’esercizio del potere.
La questione della guerra ancora una volta è fondamentale. Aveva ragione Hans Kelsen a dire che non ci sarà mai pace fin quando non si metterà in crisi il meccanismo della sovranità degli Stati, che è un vero e proprio elemento di prepotenza.
Il vecchio proposito di sostituire il diritto alla sovranità o i diritti alla sovranità, che sicuramente rivive nella richiesta alla Corte penale Internazionale dell’Aja di aprire un’indagine sui crimini di guerra, non condurrà ad esiti significativi, in quanto la terzietà del diritto non sarà mai così forte da mettere in crisi la prepotenza dello Stato.
É necessario fare uno sforzo doppio, in modo da continuare, da un lato, a sperare nell’ordinamento giuridico internazionale e dall’altro a lavorare sulla dimensione ‘micro’ dei diritti, che consiste nell’attivazione costante della garanzia ai diritti individuali.
Molto suggestivo ciò che raccontava Carl Schmitt: quando i tempi si fanno inquieti la questione della tutela degli ameni parchi a tutela della natura lascia lo spazio ad una volontà di decisione, più propriamente di schieramento che ruota attorno alla dicotomia amico/nemico.
Purtroppo mai come in questa momento l’inquietudine dei tempi è emergente.»
Professore, in un’opera pubblicata nel 1984, intitolata L’ambiguo diritto, lei ricostruisce e decostruisce il diritto dell’emergenza. Questa espressione ‘l’ambiguo diritto’ mi ha fatto sempre pensare a un diritto personificato, un diritto che si fa umano e che, come un uomo, vive di complessità, di contraddizioni, di ambivalenza.
E. R «La questione dell’ambiguità del diritto mette in crisi la teologia giuridica – teologia orientata a colmare l’assenza di un dio – e lo fa fondamentalmente attraverso la scoperta del rapporto tra diritto e violenza.
Avevo preso questa formula da Walter Benjamin che, come è noto, ha fatto riferimento al carattere demonicamente ambiguo del diritto, in relazione non solo al fondamento, ma anche al suo funzionamento.
Più specificamente, il diritto che crea gli ordinamenti è lo stesso che li conserva ed esso è legato a doppio filo alla violenza. Del resto sappiamo benissimo come il gioco dell’ambiguità massima risiede proprio nel rapporto tra violenza legittima e violenza illegittima. Pensiamo che la violenza sia legittima, quindi positiva e che la violenza illegittima sia negativa, tuttavia la violenza legittima è sempre violenza.
In controluce il carattere demonicamente ambiguo del diritto è utile per comprendere i meccanismi della teologia della colpa. Benjamin ci ricorda, a tal proposito, che il giudice non vede colpa in un comportamento antigiuridico, ma infligge destino. Forte è il rapporto tra destino, diritto e la vita; da questa consapevolezza è nata la mia modesta riflessione sul diritto vivente. (n.d.a. Cfr. Diritto vivente 2014)»
Nell’ambito de L’ambiguo diritto lei richiama la valenza simbolica dell’emergenza.
Più specificamente scrive: «Emergenza, destabilizzazione, eccezionalità sono piuttosto il frutto del ricatto e della propaganda della paura.»
E. R. «La retorica dell’emergenza si fonda sull’equivoco che l’emergenza è un intralcio alle magnifiche sorti e progressive dell’umanità. In altre parole essa viene intesa cioè come un’interruzione del progresso. Ma è ancora una volta Benjamin a guidarci; nell’ottava tesi di Filosofia della Storia il filosofo afferma che non bisogna stupirsi della violenza. Chi si stupisce della violenza la considera come un’eccezione nel cammino delle magnifiche sorti e progressive e così facendo, fa gli interessi del fascismo, come anche del nazismo, che considera la violenza come un’eccezione e lavora oltretutto per la sua giustificazione in nome dell’ordine.
É in gioco l’ontologia della paura che da Hobbes in poi continua a legare la politica e il diritto al filo della modernità.»
L’emergenza è terreno fertile per l’instaurarsi di una società del controllo imperniata sul disciplinamento sociale
E. R. «In genere il disciplinamento fa parte delle tecniche di potere orientate all’ordine sociale.
La parola ordinamento è dotata di senso; ordine è la trama, l’ordito, che è costituto da un legame molto forte tra tutti gli elementi della società. L’ordine implica l’affermazione del controllo sociale, basato anche sulla perfetta consapevolezza della divisione delle funzioni sociali. Imprescindibile è il un ruolo del dissenso.
Nello Stato di diritto c’è un’ampia apertura al dissenso e al conflitto, tuttavia il dissenso e il conflitto non devono confondersi con il dissidio che è invece rottura: impossibilità della comunicazione.
Credo fortemente che dobbiamo ancora una volta tornare alle radici dello Stato di diritto e dunque a scommettere sull’autonomia del diritto, ripensando ad una divisione forte delle funzioni che sono equivalenti dei poteri. Del resto se c’è un potere che controlla l’altro, non ci può essere un monopolio di un potere sull’altro; tale equilibrio è affermato anche in nome della pluralità sociale.»
Vorrei, a questo punto della nostra conversazione, far riferimento alle rigide restrizioni che durante l’emergenza sanitaria hanno interessato i cittadini non vaccinati, di fatto esclusi dalla vita sociale.
Eppure, è stato il Codice di Norimberga, nato dagli orrori della seconda guerra mondiale, a sancire che il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente necessario.
Con questo documento si inaugura la rivoluzione del consenso informato; qualsiasi intervento medico sul corpo del paziente è pertanto ad esso subordinato. L’individuo non è più oggetto del potere medico e politico. Si afferma così il potere della persona, che in quanto soggetto morale, è capace di decidere per sé sulla sua vita e non è più sottoposta al volere altrui.
La legislazione adottata durante l’epidemia COVID 19 sembra, da un certo punto di vista, ‘barattare’ l’accesso ai servizi essenziali e la partecipazione alla vita sociale ad un trattamento sanitario sul corpo, il vaccino. Tale scambio renderebbe, a mio avviso, il consenso al trattamento sanitario tutt’altro che libero e scevro da condizionamenti.
E. R «Ripartirei dal concetto di soggetto che, nella tradizione giuridica, viene investito del carattere della titolarità dei diritti e in quanto soggetto di diritto può decidere della propria vita. In realtà, da un punto di vista semantico, la parola soggetto porta con sé una dimensione di sottomissione. Soggetto è subiectum; sottoposto. L’idea del diritto come privilegio individuale è condizionata alla dimensione politica della comunità.
Vorrei mettere in luce questo termine: communitas, ossia dono e dovere comune. Alla comunità non si prende parte ma si dona. La storia del soggetto nella comunità è una storia più che di privilegi, di donazioni; ha a che fare con l’altruismo e non con l’egoismo. La fraternità e comunità sono elementi fortemente collegati.
Io penso che sia necessario il sacrificio individuale in nome della salvezza della comunità. Ben venga il sacrificio se serva volontariamente a salvare il tutto!»
G. Klimt, L’albero della vita 1909
Professore,ricordo che ogni anno accademico, durante la prima lezione del corso di filosofia del diritto, era solito leggere agli studenti il famoso frammento di Georg Friedrich Hegel di seguito riportato: «La contraddizione sempre crescente tra l’ignoto che gli uomini inconsapevolmente cercano e la vita che ad essi è offerta e permessa e che essi hanno fatto propria, la nostalgia verso la vita di coloro che hanno elaborato in sé la natura in idea, contengono l’anelito a un reciproco avvicinamento. Il bisogno di quelli, di ricevere una consapevolezza sopra ciò che li tiene prigionieri e l’ignoto di cui sentono l’esigenza, s’incontra col bisogno di questi, di trapassare dalla propria idea nella vita.»
La vita, del resto, è uno dei nodi centrali di tutta la sua ricerca.
E. R «Ritengo questo passo fondativo, in quanto mette in relazione due dimensioni: la determinatezza e l’anelito verso una vita migliore, pertanto ciò che è determinato e la ricerca dell’indeterminatezza della libertà.
È un frammento di grande apertura verso la modernità: la contraddizione sempre crescente, mai come in questo momento, ci condiziona fortemente. D’altro canto l’esistenza è fatta di aneliti verso una vita migliore, che ognuno nel proprio piccolo cerca. L’anelito, tuttavia, viene in contraddizione con la necessità – Anánkē – del resto, sono nato in una certa epoca, sono inserito in un determinato contesto sociale, devo sottostare ad alcune condizioni economiche, insomma sono determinato dalla vita.
Certamente un elemento forte di consapevolezza è quello di considerare se stessi come determinati dalla vita, ma l’anelito verso la vita migliore è ciò che spinge al di là dei confini.
Hegel aggiunge un elemento ulteriore: la contraddizione sempre crescente non può essere ridotta con un atto di violenza, che è qualcosa che produrrà un nuovo dolore. Noi pensiamo che attraverso le regole si possa incidere sulla vita, mentre la vita sfugge alle regole. Le passioni fredde del diritto si scontreranno sempre con le passioni calde della vita. Piuttosto, alla luce di una lettura hegeliana, la contraddizione viene risolta nella dimensione dello Spirito Assoluto, cioè di quelle forme della vita che si incarnano nello Stato e nella politica. Lo Stato diventa il risultato degli opposti antagonismi.
Questo bellissimo frammento sulle determinatezze della vita termina con un Oder, con un ‘oppure’, seguito da puntini di sospensione.
Un’altra soluzione è sempre possibile ma, guai a dare un significato a questo Oder, a questa possibilità esclusa ma non eliminata.»
Una via d’uscita dalle determinatezze della nostra epoca è quindi possibile, probabilmente il punto di partenza è proprio la capacità di vedere oltre il presente. «Eppure la paura umana del nuovo è spesso grande quanto la paura del vuoto, anche quando il nuovo rappresenta il superamento del vuoto.»
Ho sempre trovato profondamente suggestivo questo passaggio dell’opera Terra e Mare.
Mi piace pensare, citando ancora una volta Carl Schmitt che «nella lotta più accanita fra le vecchie e le nuove forze nascono giuste misure e si formano proporzioni sensate.»
E. R «Non so se sensate, ma sicuramente nuove misure. Il passato dobbiamo considerarlo hegelianamente come la determinatezza della vita, di questo si tratta, d’altra parte esso corrisponde ad una complessità già ridotta. Il nuovo si pone in un rapporto di continuità e nello stesso tempo di rottura con il vecchio. Ogni epoca pensa se stessa come il superamento della precedente, vale per le epoche quello che vale per gli individui. Il rapporto giovane/vecchio è costruito sulla base della conservazione delle aspettative e della delusione che ne nasce. Ogni futuro sarà il passato di un futuro prossimo e a sua volta il passato è stato futuro di un passato; siamo di fronte ad un rapporto di inseguimento circolare.
Piuttosto mi colpisce un’altra dimensione della storia narrata da Nietzsche, quella secondo cui i primordi sono sempre possibili e mai come oggi ci troviamo di fronte a questa evenienza.»
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:
G. AGAMBEN, Stato di eccezione e stato di emergenza, Quodlibet, Macerata 2020.
W. BENJAMIN, Angelus Novus, Einaudi, Torino 2014.
W. BENJAMIN, Tesi di filosofia della storia, Mimesis, Sesto San Giovanni 2012.
H. KELSEN, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale. Contributo per una dottrina pura del diritto, Giuffrè, Milano 1989.
E. RESTA, L’ambiguo diritto, FrancoAngeli, Milano 1984.
C. SCHMITT, Le categorie del politico, Mulino, Bologna 2013.
C. SCHMITT, Ex captivitate salus, Adelphi, Milano 1987.
C. SCHMITT, Terra e mare, Adelphi, Milano 2002.
Fiori Vivi ringrazia:
Eligio Resta Giurista e Filosofo. Professore Emerito di Filosofia del diritto e Sociologia del diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi Roma Tre, già membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura, è autore di innumerevoli testi di grande pregio e articoli scientifici. Tra i suoi lavori ricordiamo Poteri e Diritti (Giappichelli 1996), L’infanzia ferita (Laterza 1997), Diritto fraterno (Laterza 2004), Il diritto vivente (Laterza 2008), Le regole della fiducia (Laterza 2011).
Favorita Barra Docente a contratto di Informatica giuridica presso la Link Campus University, e collaboratrice alla didattica del corso Diritto dell’amministrazione digitale presso la Luiss Guido Carli è attualmente consulente presso il FormezPA. Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Funzione pubblica.
Enchi Fumiko (secondo l’ordine giapponese, in cui antepone il cognome al nome 円地 文子), è nata a Tokyo nel 1905 e morta nel 1986, sempre nella capitale giapponese) è stata una scrittrice giapponese nell’era Shōwa (periodo compreso tra il 25 dicembre 1926 e il 7 gennaio 1989).
Ha modificato il suo nome, in quello che conosciamo, nel 1928 trasformandolo in Fumiko (文子) con i caratteri di 文 letteratura, lettere, frase e 子 bambino, figlio. Quindi ribattezzandosi con un nome che in italiano potremmo rendere come Figlia delle lettere, della letteratura. La vocazione per la scrittura era di famiglia, infatti suo padre fu un celebre linguista giapponese. Di lui dirà «Senza dubbio, quella mescolanza di frasi e storie che mi raccontava si agitò in me mentre crescevo, cambiandomi in modi che non potevo controllare, rendendomi una scrittrice di storie.»
In particolare, è nota per aver affrontato nelle sue opere temi legati alle donne, anche con riferimento all’importanza di lottare per guadagnare la propria dignità.
A woman’s love is quick to turn into a passion for revenge–an obsession that becomes an endless river of blood, flowing on from generation to generation.
Enchi Fumiko
In linea con la sensibilità della nostra Autrice, mi piacerebbe indirizzare questa mia riflessione indistintamente a coloro che ancora non hanno letto di lei e a chi, invece già conosce almeno qualcosa.
Ci si potrebbe domandare come mai una simile riflessione, che appare assai bizzarra e forse non intuibile a prima lettura. Bene, risponderei che il motivo risieda nella particolare attitudine di Enchi Fumiko, capace di distinguerla dagli altri: ‘l’emozionare’.
Le sue pagine trasudano di emozioni delle protagoniste (e qui, sì, che prevale il femminile, in barba alle comuni regola grammaticali), ci si sente non solo dentro la storia, ma dalla parte stessa della narratrice.
È così che ci si finisce per innamorare di Teishi, splendida Prima consorte imperiale, tanto perfetta da sembrare una figura onirica (Cfr. Namamiko monogatari. In it. Namamiko. L’inganno delle sciamane); ed è nello stesso modo e con la stessa forza che ci si ritrova a girare le pagine di Onnazaka, con i muscoli contratti e la frustrazione di Tomo (Onnazaka. Il sentiero nell’ombra).
Ecco, dunque, il motivo dell’ideale doppia destinazione del mio scritto: a coloro che queste emozioni le hanno sentite addosso, e agli altri, con la speranza che possano fare altrettanto.
E ci tengo a sottolineare che queste considerazioni valgono anche per le opere tradotte; quindi, che non vi scoraggi quel tanto che il traduttore ruba al narratore.
Un tema rilevante
Per tentare di delineare Enchi Fumiko, prenderei le mosse dal tema della donna, che come accennato all’inizio è proprio ciò che ne caratterizza la poetica.
Se fossimo nel film Fight club, la voce fuoricampo annuncerebbe: Sono la sofferenza ineluttabile delle donne di Enchi Fumiko. A parte la battuta, e fuori dalla metafora del film, mi sentirei di ritenere l’Opera di Enchi Fumiko, come un paradosso (il che a ben pensarci, è del tutto in linea con l’esordio teatrale dei suoi scritti).
Dunque, la definirei: un’Opera Paradossale, poiché tutte le volte che qualcosa si afferma, sembra negarsi allo stesso tempo.
Infatti, e per cominciare, tutto ciò che ha prodotto l’Autrice ha una forma di donna, ma non è a sua misura; in ogni scritto incontriamo una protagonista – se non più di una – che conduce la vicenda, tesse le fila del racconto, inducendo eventi e personaggi a dirigersi nelle strade da lei solcate.
Sembrerebbe quindi trattarsi di una scelta autoriale che, piuttosto pioneristicamente considerata l’epoca, voglia affermare la forza e l’importanza della donna.
Tuttavia, queste figure femminili non vivono mai il loro essere donna, la loro femminilità e la loro sessualità serenamente.
Tutto sembra un grido soffocato.
(L. Bienati P. Scrolavezza, La narrativa giapponese moderna e contemporanea)
Piuttosto sono sciamane, sono maschere, sono Reali, sono spiriti, sono martiri, ma non sono mai libere di soffrire e di cercare conforto. Sono anche bellissime e spesso convolano a nozze, ma dalla prima all’ultima notte, consumeranno il matrimonio subendo la forza sessuale animalesca di un uomo, che al di fuori di quella stanza, solitamente, vale davvero poco.
Persino Mieko, la protagonista dell’opera Maschere di donna, che a confronto con le altre donne descritte dovremmo sentire come più ‘contemporanea’, si rivela una maschera teatrale, prigioniera della retorica classica legata al risentimento femminile e alla sua forza distruttiva.
Sembra, dunque, che l’amore non trionfi mai, che la gioia non sia abbastanza seria, almeno non quanto il dolore e, di conseguenza, i suoi personaggi femminili finiscano per essere inquietanti o indolenti. Questo di certo ne accresce il fascino, ma allo stesso modo li priva di umanità.
Una delle poche eccezioni, forse, si trova nelle timide fantasie erotiche di Chigako (il riferimento è al racconto L’ammaliatrice), che sembra farsi contaminare dal denaro proibito ottenuto da traduzioni di testi erotici, non senza un forte senso di colpa sotteso, lasciandosi trasportare.
Ecco, quello è stato il momento più umano che ho trovato nella ‘donna’ di Enchi Fumiko.
Tuttavia, anche qui sono il senso di colpa e l’inazione a prevalere.
E di questa ossessione femminile (cfr. D. Moro, postfazione a Namamiko L’inganno delle sciamane), è stato chiesto anche all’autrice stessa, che ha recisamente rifiutato la definizione, preferendo quella di fenomeni sciamanici, augurandosi che l’ossessione femminile potesse essere intesa come figlia della frustrazione della donna che vive in una società maschio-centrica e maschio-orientata.
Possessione ed espressione
Ed ecco qui un’altra tematica onnipresente nell’opera dell’Autrice: la magia; o per usare un termine maggiormente filofumikiano, la possessione.
Argomento, anch’esso, che non esce dalla ‘donna’, ma ci si interseca.
Possessione, che pur se muta, è quella che permette di considerare Onnazaka, Onnamen e Namamiko monogatari, una trilogia (n.d.a. L’altro elemento che conduce a questa ipotesi è relativo ai riferimenti all’opera Genji Monogatari, di cui l’Autrice ha prodotto la traduzione in lingua giapponese moderna), poiché scivola da un’Opera all’altra, modificandosi sì per assumere la forma della storia, ma – a ben guardare – ancor più manifestando la sensibilità dell’Autrice.
Nonostante i suoi mutamenti, il filo rosso resta la possessione.
A questo proposito, è la stessa Enchi Fumiko a raccontare che la pratica delle possessioni possa essere interpretata come una modalità espressiva delle donne passive, costrette a ricorrere alle pratiche esoteriche per riuscire a trovare voce in una società che le opprime e le priva della possibilità di espressione. (cfr. D. Moro, postfazione a Namamiko L’inganno delle sciamane)
Ed è questa interpretazione che sembra chiudere il cerchio. Ecco forse scovato il motivo di tanta sofferenza e di altrettanta sopportazione.
Si tratta di donne immaginate da una donna che ha vissuto le guerre mondiali, due operazioni chirurgiche invasive proprio della sfera ‘femminile’ (I. Starace, Erotismo femminile in due racconti di Enchi Fumiko in ‘Il Giappone’, vol. 45, 2005) e un matrimonio infelice in un’epoca in cui erano solo gli uomini a decidere.
Ciononostante, non sembra ancora potersi ravvisare quell’indipendenza, fosse almeno di pensiero, che permette di staccarsi da queste figure maschili tiranniche, proprio perché quando l’Autrice auspica un futuro equilibrio nella psiche femminile, si appella alle frustrazioni date da una società maschilista, che devono risolversi.
In altre parole, sembrerebbe sperare che siano gli uomini, ancora una volta loro, a smettere ti tediare l’animo gentile delle donne e non le donne a decidere per loro stesse.
Sono, dunque, donne che sembrano sempre voler essere guardate da un uomo – o dagli uomini – e che forse proprio per questo non mettono mai a fuoco i loro desideri.
Enchi Fumiko
Tuttavia, man mano che invecchiano, le figure femminili sembrano prendere maggiore consapevolezza e maggiore forza e l’atto di ribellione arriva appena prima che si chiuda il sipario: si negano in punto di morte, chiedendo di non essere sepolte con i loro stessi tiranni che hanno dovuto accontentare per una vita intera.
È questa, forse, la parte migliore dell’eredità che possiamo raccogliere da Enchi Fumiko: l’augurio che le donne del futuro riscrivano il loro finale.
Enchi Fumiko
Bibliografia di riferimento
L. BIENATI – P. SCROLAVEZZA, La narrativa giapponese moderna e contemporanea, Marsilio, Venezia 2009.
ENCHI FUMIKO, Namamiko. L’inganno delle sciamane, Safarà, Pordenone 2019.
ENCHI FUMIKO Onnazaka. Il sentiero nell’ombra, Giunti, Firenze 1987.
ENCHI FUMIKO Maschere di donna, Marsilio, Venezia 2001.
È appena stato pubblicato il tuo romanzo La nave dei folli (Studium Marcianum Press), solo un anno fa usciva Nella musica del vento (Salani), ora hai inaugurato una nuova collana per Le Storie editore di cui hai scritto il racconto per la prima uscita, Un mare troppo lontano. La prima domanda è una considerazione intorno a questi eventi. Cosa li accomuna?
M.S «Un grande amore per la letteratura, tutto qui, unito al desiderio di spaziare fra le diverse forme letterarie.
Il tema che ho sempre prediletto nel mio scrivere è quello del viaggio, sia fisico che mentale. Ho viaggiato tanto nella mia vita e per lunghi anni l’ho fatto sulle tracce imprecise di un personaggio non reale, ma immaginario come Corto Maltese; dunque, l’immaginazione è stata sempre la guida di questi ‘vagabondaggi’.
Le declinazioni possibili in questo ambito sono estremamente varie: La nave dei folli racconta un viaggio Fantastico, cioè una vera fuga da una dura realtà. Questa storia nasce infatti come un omaggio alla letteratura che mi ha sempre accompagnato e avviato alla Fantasia più pura e libera, da Edgar Alla Poe, a Lovecraft e Melville, solo per citarne alcuni.
Il racconto ruota intorno a una parola molto preziosa: la possibilità.
Possibilità intesa come inquieta reazione e ricerca di altro in qualunque situazione. Nello specifico alla base della storia de La nave dei folli, un gruppo di internati in un manicomio riesce insperatamente a fuggire grazie a un misterioso veliero approdato sulla loro isola per avventurarsi verso rotte imprevedibili. Nel loro viaggio c’è il prepotente desiderio di libertà e di possibilità di vivere in una condizione diversa e, soprattutto, più umana. Nel racconto di questo itinerario affronto anche il tema della potenzialità liberatoria della scrittura stessa, infatti Indio, il comandante di questo strano vascello, affida al proprio diario di bordo una serie di pensieri personali e il resoconto delle conversazioni che si susseguono con gli altri membri del suo variopinto equipaggio nel corso di una navigazione costellata di prove e sorprese.
Nella musica del vento, è, invece, un romanzo che affronta il tema che mi è sempre stato caro, quello dell’avventura. In questa storia ho cercato di rendere omaggio al mio Maestro di scrittura, Hugo Pratt, percorrendo rotte e piste che hanno il sapore e rasentano le atmosfere del marinaio Corto Maltese, un amico che mi ha insegnato non soltanto a viaggiare liberamente, ma a farlo con la disponibilità all’incontro con l’immaginario più puro e nel costante rispetto dei luoghi attraversati e delle persone incontrate lungo la strada.
Nella musica del vento è un’avventura classica, ma è anche una ruvida storia d’amore fra due personaggi diversi, eppure in qualche modo simili nella loro emarginazione sociale.
Nel corso della vicenda ho cercato di raccontare anche il rapporto fra uomo e Natura in una terra selvaggia come il sud della Patagonia. Le popolazioni indigene della Terra del Fuoco ne sono state un ottimo esempio perché hanno saputo rispettare e dialogare con il duro ambiente che li circondava e consentiva loro di vivere. E nonostante questo, migliaia di persone pacifiche sono state sterminate nella prima metà del ‘900 dai latifondisti colonizzatori per lo più europei. Il protagonista, Morgan Jones, un bastardo senza morale né pietà, è un uomo che inizia il suo percorso cacciando proprio quei selvaggi per conto dei suoi padroni, ma che alla fine si ritroverà cambiato. Imparerà infatti, grazie ai nativi e attraverso il rapporto con la sua donna, ad attraversare quelle terre selvagge ascoltando la natura, dialogando con serpenti, pampas desolate e distese ghiacciate di mare. Pian piano fino la sua inquieta solitudine si aprirà all’ascolto della sua donna, della Terra e di quegli uomini che gli consentiranno non solo di sopravvivere, ma anche di comprendere l’importanza degli incontri che avvengono lungo la strada e dei cambiamenti che essi consentono.
La nuova collana di libri della casa editrice Le Storie, della quale In un mare troppo lontano apre la serie, è un invito alla letteratura di viaggio e avventura, inventando o riscoprendo storie che escano dai limiti angusti dei racconti di genere per aprirsi all’immaginario. In fondo il senso è proprio questo. Avrò l’onore, come direttore di collana, di proporre titoli e autori spaziando dal presente al passato. A questo mio primo racconto ne seguiranno altri di amici scrittori che si imbarcheranno in questa nuova avventura e testi dimenticati o da troppo tempo non pubblicati. Naturalmente anche lungo questo viaggio ci saranno certamente delle sorprese.»
Un mare troppo lontano mi appare un precipitato di tutta la tua opera, di tutto il tuo contesto letterario, narrativo. È come se in questo racconto breve lavoro ci fosse condensato tutto il tuo mondo, perché c’è Corto Maltese, che a un certo punto appare, ma ci sono anche i velieri, i relitti…
M.S «Qui effettivamente c’è quel precipitato, la parola usata da te Emiliano è perfetta. Perché man mano che si arriva a uno stile, che si scrive in una certa maniera, non si deve più continuare ad apporre cose ma a limarle. La scrittura assomiglia alla voce massima che è la poesia. In fondo il vertice massimo della scrittura è proprio la poesia. Poesia e teatro direi…
Nasce così questo piccolo racconto che ha sintetizzato il mio amore per un certo tipo di avventura, per la terra, per la Sicilia, per il Mediterraneo, per i sapori della vita in fondo. Si tratta di una sorta di dialogo poetico o, come mi hai giustamente detto tu una volta Emiliano, una prosa poetica, un dialogo tra un corvo e un ulivo.»
Questo mio primo racconto nasce da una serie di esperienze, strade polverose percorse, onde salate, silenzi, pagine attraversate e non scritte, musiche raccolte nel vento, personaggi, oggetti, cose o animali che mi hanno raccontato una maniera d’intraprendere questa specie di viaggio, un’avventura che, impercettibilmente, è diventata vita vera. (Marco Steiner, Agosto 2022)
Tra questi due romanzi, Nella musica del vento e La nave dei folli, vi è una differenza sostanziale; il primo, che io definisco un romanzo sudamericano, ha un registro realistico, mentre il secondo ha una impostazione apertamente fantastica. Come mai un cambio così radicale, esigenze o volontà di sperimentare?
M.S «Hai giustamente definito il realismo del primo romanzo come sudamericano e in questo consiste la vicinanza con il secondo, perché quel realismo magico è lo stile di tanti scrittori di quel mondo di frontiera che amo molto, fra questi, sicuramente Borges, Arlt, Alejo Carpentier, Cortázar, Márquez, ma, in fondo anche, Calvino, Süskind, Sgorlon, Landolfi.
Questo modo di raccontare apre, anzi spalanca, le porte all’immaginario e all’imprevedibile. Tale prospettiva la ritengo fondamentale e per me, come scrittore, sta diventando una necessità. In questo nostro mondo ormai pervaso, invaso e sclerotizzato da realtà e false riproduzioni della realtà, viviamo in un ambiente dove, per raggiungere qualsiasi luogo, si usano navigatori. Siamo costantemente geolocalizzati e ci muoviamo seguendo griglie e reti che non fanno altro che intrappolare la nostra libertà e soprattutto la nostra fantasia con continue ‘risposte’ informatiche che impediscono o riducono un pensiero libero e alternativo. A questa situazione cerco di opporre una sorta di distacco.
Oggi siamo costretti ad aprire gli occhi per seguire uno schermo, mentre sarebbe necessario aprire la mente attraverso l’esercizio della fantasia e del sogno. Per tale motivo questi due libri sono stati una necessità, non solo di sperimentazione letteraria, ma di esigenza esistenziale, in particolare dopo questo periodo di ulteriore blocco forzato dovuto alla pandemia. Anche se va considerato che questa reclusione viene continuamente esasperata dalla gabbia progressiva e invadente che sta calando sulle nostre esistenze incanalate ed è dettata da esigenze di appiattimento necessarie al consumismo dilagante.
Il principio che mi ha sempre guidato, e che la ‘conoscenza’ con il personaggio di Corto Maltese ha ulteriormente ampliato, è il più puro senso della libertà; libertà di viaggiare senza seguire schemi o programmi precisi e, naturalmente, di scrivere non curandomi di quello che potrebbe essere un mero e accattivante intrattenimento.»
Vorrei però fare un ulteriore passo indietro, Isole di ordinaria follia è un ‘romanzo’ (anche se ogni definizione è imprecisa perché il testo non è riducibile a un genere) che ha segnato una svolta evidente nel tuo lavoro e nella tua scrittura, è un punto di non ritorno. Potresti accennare a questa svolta, a questo cambiamento nella scrittura?
M.S «La svolta è dovuta essenzialmente alla modalità da cui è scaturita la scrittura di questa storia. Proverò brevemente a spiegare com’è nata.
Seguendo il lavoro fotografico del grande Gianni Berengo Gardin sulla situazione manicomiale in Italia, mi sono ritrovato in un ambiente assolutamente inusuale, l’archivio dell’ex-manicomio di San Servolo, una piccola isola affacciata a poca distanza dalle luci e dalla dolce magnificenza dell’affollata Piazza San Marco. L’archivio, un luogo-altro, un Altrove immerso nella sua placida ma inquieta penombra, conserva fra mura e finestre sbarrate, in maniera ordinata e razionale, la storia della follia e di oltre duecento anni di psichiatria.
In quell’ambiente isolato, silenzioso e distante da ogni cosa, non ci sono voci, ma fredde schede e rapporti tracciati in bella calligrafia su antichi registri che vanno dal 1750 fino ad arrivare al 1980. Si tratta semplicemente di nomi, di scarne diagnosi, date di ingresso e spessissimo di morte dei pazienti.
Eppure mi sono ritrovato circondato da volti e storie.
Sono rimasto immediatamente colpito dalla pochezza e dall’esiguità delle descrizioni degli uomini e delle donne che hanno vagato in quel limbo; le loro storie cliniche e i sintomi erano riassunti in scarne descrizioni. Immediatamente, fin dal primo giorno in cui mi sono seduto a leggere alcune di queste misere schede diagnostiche, dalle più antiche a quelle più moderne, ho avvertito una specie di richiamo, le loro voci, anzi, le urla di quelle persone che non avevano mai potuto raccontare altro che il loro disperato disagio, mi imploravano di essere ascoltate.
È così che ho provato ad immedesimarmi in alcuni di loro, provando a raccontare attraverso le loro differenti voci, altrettante storie di disagio e dolore.
Questo processo identificativo, molto più che stimolare la fantasia nel raccontare le storie di quegli uomini e donne senza parole, ha provocato in me una vera condizione di profondo contatto umano. Da un punto di vista letterario è chiaro che la voce, il linguaggio e la storia personale di un internato della fine del ‘700 non poteva essere simile a quella di una ragazza rinchiusa nello stesso ambiente nel ‘900, quindi questo processo di partecipazione a diverse storie e personalità è stato un grande esercizio di autentico ascolto di silenzi e modalità di reazione a quella reclusione.
In definitiva è stato un vero lavoro d’immersione e immaginazione.
Ho sempre sostenuto che per raccontare una storia non basta descrivere accuratamente e possibilmente in buono stile un ambiente oppure una determinata situazione, ma è più opportuno entrare fisicamente ed emotivamente in quell’ambiente e in quella situazione; in questo caso, a maggior ragione, bisognava entrare nelle teste, nelle anime e nelle storie personali di questi personaggi privati della voce nel corso delle loro difficili esistenze.
Per Vedere le cose, non devi guardarle, devi sbatterti dentro, graffiare sul fondo, sanguinare…e dopo, uscirne ridendo, questa frase l’ho scritta per un’altra storia, ma in questo caso è fondamentale per non rimanere ancorati a una descrizione asettica, come fosse soltanto un resoconto scientifico.
Non potevo essere un osservatore distaccato, dovevo partecipare, dovevo entrare in quelle stanze e nelle diverse personalità di personaggi da immaginare dopo aver letto poche righe che ne descrivevano i disagi.
È stata un’importante esperienza umana e un punto di svolta nella mia scrittura.
Ero già entrato fisicamente e spiritualmente in ambienti geografici estremamente differenti e avevo già fatto incontri casuali con personaggi inusuali nel corso dei miei quindici anni di viaggi reali sulle tracce di uno splendido personaggio immaginario come Corto Maltese, ma a San Servolo mi sono ritrovato ad ascoltare voci lontane e assolutamente ‘diverse’ con lo stesso principio di incontro e ascolto rispettoso che avevo vissuto vagabondando sulle tracce di quel marinaio prattiano che ho sempre definito come un apritore di porte.
Ho seguito quel principio e quelle porte mi hanno portato in un mondo sorprendente, forse è per questo motivo che ho sentito la necessità con La nave dei folli di immaginare una fuga da quell’isola in una sorta di viaggio esistenziale verso la luce.»
Tutto il tuo lavoro di scrittura è apertamente inattuale rispetto alle mode e ai canoni della narrativa contemporanea, così impegnati a perdere la partita contro l’intrattenimento, mentre i tuoi romanzi recuperano un ruolo ‘esemplare’ della letteratura, quando questa era ancora interessata a fornire delle risposte intorno alla questione dell’umano in generale. È una condizione che ritieni necessaria o è un’evoluzione naturale di te stesso e del tuo lavoro?
M.S «Direi entrambe le cose, ritengo sia una condizione assolutamente necessaria in particolare in questo momento di evoluzione della mia vita e della mia scrittura. Ci sono diversi tipi di scrittura possibile: da una parte ci sono le storie lineari, cioè quelle che si leggono piacevolmente, con interesse, storie che scorrono davanti ai nostri occhi e descrivono realtà che conosciamo e che magari vorremmo approfondire nei dettagli. In questo ambito, i livelli di scrittura possono essere stilisticamente più o meno semplici o eleganti, in ogni caso le parole scritte sulle pagine scorrono davanti ai nostri occhi, coinvolgono la nostra attenzione, ma restano lì, distanti; sono righe di un libro che una volta letto rimarranno rinchiuse in quel blocco di carta.
Da un’altra parte ci sono storie che definirei a spirale cioè quelle che ci fanno entrare, anzi, ci spingono a precipitare in universi sconosciuti, insomma storie che allontanandoci dalla cosiddetta realtà si aprono a un nuovo orizzonte. Sono storie che ci aiutano a mollare gli ormeggi di un porto sicuro per avventurarci verso mari lontani e nuove isole da scoprire o, perfino, da inventare.
Questo secondo è il mondo letterario nel quale mi piace vagabondare come fosse un vero viaggio di scoperta, sarà anche inattuale, come tu lo definisci, ma è un mondo libero e lontano dalle solite rotte. Questo allontanamento però non vuole essere una fuga dal reale, ma un tentativo di distacco per osservare e capire la realtà da un’altra prospettiva per poi parteciparne in maniera più profonda.
Ecco cosa intendo per viaggio fisico e mentale, un’altra possibilità, un respiro di libertà.
La libertà…
è la possibilità di dubitare, la possibilità di sbagliare, la possibilità di cercare, di sperimentare, di dire NO a una qualsiasi autorità, letteraria, artistica, filosofica, religiosa, sociale, e anche politica, diceva Ignazio Silone.
Ecco, a questo punto, posso dire che ho fatto tanti viaggi e scritto tutti i miei libri seguendo questa filosofia, con Corto Maltese e senza di lui, adesso sono pronto ai prossimi.»
Ti ringrazio per il tempo e l’attenzione che hai voluto dedicarmi; da quanto detto credo che meglio si potrà cogliere la presenza del termine letteratura nel titolo, in un momento e in un contesto in cui si cerca di trovare un genere di narrativa a cui corrisponde una sezione di mercato, quest’idea di letteratura sembra quasi rivoluzionaria.
Non è casuale che in un breve dialogo come questo siano emersi autori che hanno fatto la storia della letteratura e che ti sono compagni ed esempio nelle articolazioni del tuo lavoro. Ricorrono, nel tuo dire, parole come il viaggio, il fantastico, il possibile, l’esotico e il nome di quel libero marinaio da cui sei partito, credo che questi temi e parole ti saranno ancora corrispondenti.
Nel ringraziarti non mi resta che augurarti buona scrittura!
Fiori vivi ringrazia:
Marco Steiner scrittore, narratore, viaggiatore. Per la sua produzione, non solo letteraria, rimandiamo al suo sito http://www.marcosteiner.it/
Emiliano Ventura saggista, scrittore e filosofo. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo David Foster Wallace. La cometa che passa rasoterra, Elemento115 2019, Giordano Bruno. Tempo di non essere, Aracne 2021, Catilina. Il mio nome è legione, Efesto edizioni 2022.
mi sai dire qual è mai la molla che scatena in tanta gente un’attrazione per il falso così forte,
che ci godono a non dire nulla di sensato, e,
addirittura, più uno racconta un’assurdità, più gli danno retta.
Luciano di Samosata
In occasione della presentazione del libro di Emiliano Ventura la Cattiva Moneta. Un ragionamento sul falso, Claudio O. Menafra ha discusso con l’autore sul concetto di falso, sollevando questioni filosofiche e letterarie.
Questo saggio non vuole essere una storia del falso, cosa in se contraddittoria, ma un ragionamento filosofico su di esso.
Qual è la gestazione del tuo libro, Emiliano? O meglio: come nasce il desiderio in un filosofo che, per definizione, – etimologicamente parlando – ‘ama il vero’, di dirottare le sue ricerche verso il falso?
Che si possa, in qualche modo, raggiungere la verità per mezzo del suo contrario, quasi come una teologia negativa?
E.V «Non è facile rispondere a questa domanda, sicuramente ai filosofi a volte piace presentare in negativo gli argomenti, anche perché la doppia negazione ha il pregio di ricondurre al positivo e spesso è una meravigliosa via di fuga, almeno da certe argomentazioni. La gestazione di un libro è sempre lunga ed enigmatica all’autore stesso, diciamo che la lunga frequentazione con la logica mi ha sensibilizzato contro la retorica, oggi la trovo insopportabile, visto che il falso si nutre spesso di retorica ho cercato di capire i motivi di questo suo spudorato successo. Ecco direi che è stata la curiosità verso il successo del falso a spingermi a questa ricerca.»
Perché la metafora della falsa moneta e qual è la sua origine?
Mi spiego: una falsa moneta nasce perché ne esiste una originale, oppure ha uno statuto ontologico a sé?
E.V «È la legge di Gresham (Thomas Gresham, mercante e banchiere inglese del XVI sec.) secondo cui lacattiva moneta scaccia la buona moneta. Mi sembrava la metafora migliore per suggerire la dinamica tra vero e falso. Se abbiamo tra le mani una banconota in pessime condizioni e una nuova di zecca, noi cerchiamo di spacciare prima quella rovinata, così come il falso, si spaccia molto più facilmente e velocemente del vero.»
Mi piacerebbe ora ripartire da qualche delucidazione tassonomica: in che rapporto stanno i termini: originale, falso e copia?
E.V «Originale e falso sono due categorie. È stato però il falso a far nascere la nozione di originale, ed è un concetto moderno, rinascimentale. Il medioevo e l’antichità greco-romana non conosceva il concetto di originale o di unicità, la bravura dell’artigiano consisteva nel copiare un modello nel miglior modo possibile, non cercava l’originalità ma l’imitazione perfetta. Solo nella modernità, con lo sviluppo dell’arte e la rivoluzione del concetto di artigiano e artista, si è sentita la necessità di attestare la paternità di un’opera per difendersi da falsari o attribuzioni improprie, (qui poi entra in gioco anche un contesto economico molto più florido). Per cui è stato il falso a stabilire l’originale.
Per quanto riguarda le copie, i plagi, le contraffazioni, i simulacri, questi sono tutti concetti inseriti nella macro categoria del falso.»
Ora, scendiamo un po’ nel dettaglio della tua riflessione. Nel tuo libro lasci intendere chiaramente che il falso è più seducente del vero perché ‘avvera’ i pregiudizi, trova il suo fondamento in un contesto di credenze già fornito, risponde a delle idee sotterranee che aspettano solo di essere (ri)evocate – penso ad esempio ai protocolli di Sion. Il vero, invece, di solito scardina e disorienta, e per questo infastidisce.
Può anche essere uno dei motivi per cui il filosofo ha da sempre avuto vita difficile nelle società?
E.V «La filosofia e il filosofo hanno fin da subito una natura agonistica, conflittuale. Il logos si contrappone immediatamente al mythos, poi ci saranno i conflitti con i vari regimi politici, che siano tirannie o democrazie poco importa, la relazione sarà sempre agonistica, gli esempi di Socrate, Seneca, Boezio, Bruno non fanno che confermare questa natura agonica.
Il filosofo inglese Simon Critchley lo ha affermato chiaramente la maggior parte dei filosofi sono stati uccisi o hanno corso il rischio di esserlo.
Detto questo, per rispondere al tuo primo quesito, ribadisco che il falso ha un successo spudorato perché conferma i nostri pregiudizi, o conferma una tradizione orale secolare alla quale tutti credono ma che però è falsa o non dimostrabile.
Il vero al contrario è spiazzante, confuta i pregiudizi, costringe a cambiare idea, teoria, abitudine. Pensa alla difficoltà di passare da una visione del cosmo geocentrica a una eliocentrica, è stato un passaggio lento e non privo di eventi dolorosi. I protocolli di Sion (n.d.r il falso documentale creato dalla polizia segreta zarista nel XX sec. col chiaro intento di diffondere l’odio verso gli ebrei nell’Impero russo.) sono emblematici in questo, un documento falso, apertamente falso e già dimostrato dal ‘Times’ di Londra, viene creduto vero perché confermava il pregiudizio di un complotto ebraico nell’Europa del primo Novecento.»
Se diamo per vera la definizione nietzschiana per cui non esistono fatti, ma solo interpretazioni, allora si può dire – estremizzando, come piace ai filosofi del sospetto – che il falso è in un certo senso connaturato all’uomo? Che gli è più congeniale del vero, quasi biologicamente parlando? Se non possiamo vedere i fatti nudi e crudi, allora siamo in un certo senso già predisposti alla distorsione…
E.V «Leonardo Da Vinci diceva che la nostra mente ha la bugia come quinto elemento, tanto il falso è connaturato al nostro modo di percepire e dare un senso alle cose. Anche le neuroscienze hanno dimostrato che spesso i ricordi sono falsati, la mente copre gli inevitabili ‘buchi’ con immagini o fatti incongruenti, avvenuti prima o dopo un certo fatto.
La cosa interessante è che ci sono dei falsi ricordi che ci accompagnano per anni e che sono funzionali, svolgono una funzione significante che può essere anche positiva, in altri casi può essere negativa ovviamente, ciò non toglie che un falso ricordo agisce e modifica il nostro comportamento.
Lo studioso di neuroetica Neil Levy, afferma che una dose di incongruenza (falsità) nelle narrazioni di noi stessi non è compromettente per un sano sviluppo.»
Puoi raccontarmi il falso che fra tutti ti ha stupito per l’enorme presa che ha avuto sulle coscienze? Il falso che ha saputo, in sostanza, sostituirsi alla verità tanto da annientarla.
E.V «Sicuramente la Donazione di Costantino, (Costitutum Costantin) il documento medievale redatto attorno al VII o VIII secolo d.C., la falsità venne affermata già dal cardinale diacono Giovanni dalle dita mozze che lo svela all’imperatore Ottone III nel X secolo. Nonostante questa dichiarazione il falso documento è stato creduto vero fino alla confutazione filologica di Lorenzo Valla (De falso credita et ementita Costantini donatione) nel XVI secolo, e oltre. Tutta la politica delle monarchie europee e dei pontefici è stata condizionata da questo falso documento, che ricordo attestava la superiorità del potere papale su quello imperiale. Una superiorità basata su un documento falso. Questa è la forza del falso, la sua capacità di creare un dominio di verità che agisce realmente e condiziona azioni. Una copia, o un plagio, non ha questa capacità.»
Questa ‘predisposizione’ dell’uomo rispetto al falso, e quindi alla sovra-interpretazione del reale, è anche il motivo del grande successo della letteratura attraverso i secoli?
Di fatto, la letteratura si differenzia dalla cronaca perché crea un universo parallelo, autonomo, indipendente, ma fittizio, non-vero, in una parola: falso.
E.V «La letteratura non ha pretese di verità storiche e non è essa stessa una cronaca, o almeno non lo sarebbe senza perdere la sua cifra più autentica, ovvero la possibilità di tentare di rispondere al problema fondamentale di capire cosa sia un essere umano; come agisce, come pensa, ama, sogna e via dicendo. Questo è sempre stato il suo compito, almeno fino alla nascita delle scienze come la psicologia, l’economia, l’etnologia.
Tali ambito del sapere hanno poi assunte il compito di definire in maniera scientifica il problema uomo e del suo ambiente di vita. La letteratura, pur non essendo una scienza esatta, ha svolto un ruolo esemplare di conoscenza dell’uomo, usando spesso strumenti o argomenti fantastici o mitici, il che non toglie valore al suo modo di essere. Inoltre, se pensiamo alla lingua inglese, la letteratura è fiction, finzione e la saggistica è non fiction.»
Il falso può insinuarsi ovunque mi sembra di capire: anche nell’empirismo induttivo della scienza? Pensi che questo sia un pericolo concreto?
E.V «Assolutamente sì. Il falso ci tiranneggia partendo dall’esperienza personale. Pensa di nuovo alla teoria cosmologica geocentrica, l’esperienza diretta ci mostra ogni giorno che il sole si muove, sorge e tramonta, così la luna, mentre in realtà siamo noi a muoverci, e la luna, mentre il sole resta fermo. Il falso ci tiranneggia, è spudorato.»
Un’ultima domanda, in cui vorrei chiamare in causa un tema a te caro, di cui hai discusso ampiamente anche in altri libri e che rappresenta un po’ una delle pietre dello stagno intorno alla quale ruota la carpa del tuo pensiero – per usare un’immagine zolliana – e cioè il concetto di pharmakon.
Qual è il pharmakon per il falso? E soprattutto, abbiamo bisogno di un pharmakon?
E.V «Per il falso non vi è un pharmakon, è esso stesso pharmakon nel senso dell’ambiguità del significato, può essere sia rimedio che veleno. Il falso non è eliminabile dalla nostra capacità di cogliere il reale né di argomentare o di conoscere, possiamo solo essere sempre migliori e più professionali nelle nostre capacità di riconoscerlo, ma non potremmo mai sconfiggerlo. Il falso distrugge carriere o le costruisce, ci costringe a non abbassare mai la guardia ma dobbiamo essere consapevoli che spesso sbagliamo e sbaglieremo nel riconoscerlo o non riconoscerlo. Noi possiamo solo cercare di sbagliare il meno possibile.»
Fiori vivi ringrazia
Claudio O. Menafra: linguista, articolista ed insegnante di letterature straniere. Collabora con diversi giornali e riviste, compensando la cronaca con la terza pagina e seguendo le principali uscite letterarie contemporanee, con recensioni e saggi.
Emiliano Ventura: saggista, scrittore e filosofo. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Il mito di Diana e Atteone in Ovidio, Arbor Sapientiae 2018, Mario Luzi. La poesia in teatro, Scienze e Lettere 2010, David Foster Wallace. La cometa che passa rasoterra, Elemento115 2019, Giordano Bruno. Tempo di non essere, Aracne 2021.
La libreria le Storie www.lestorie.it per aver ospitato la tavola rotonda sulFalso e cattiva moneta
In occasione della mostra fotografica dell’artista Francesca Consoli abbiamo discusso sul valore della fotografia di viaggio. Lo spunto ci è stato fornito da questo lavoro della Consoli che, in tredici scatti, esplora la questione della memoria e del viaggio stesso.
Reflex en voyage, titolo dell’intero progetto, rappresenta un manifesto esemplificativo su passione e metodo. Le differenti tecniche fotografiche sperimentate negli scatti sono funzionali al ricordo, al risveglio di una memoria che da privata diventa essenzialmente una testimonianza condivisa.
La fotografia di viaggio, dalla sua nascita fino a oggi, ha subito profondi cambiamenti non solo riguardo l’aspetto tecnico-scientifico ma anche per ciò che concerne il suo scopo. Nata per assolvere a una funzione documentale, capace di riproporre la natura così com’era senza cioè l’apporto dell’artista che la ritraeva, finisce oggi per essere tramite di un ricordo privato. La sua vocazione iniziale si diluisce attraverso la facilità di scattare e riprodurre immagini. Sembra così che la sua natura venga minata dall’interno e che a prendere il sopravvento sia la moda del viaggio, del presenzialismo, piuttosto che l’unicità e la straordinarietà.
La domanda che vorrei perciò porle Francesca è se oggi sia ancora possibile che una foto trattenga in se stessa sia l’elemento documentaristico che quello dell’impressione personale oppure se questo tragitto della fotografia l’abbia completamente snaturata. Se cioè la foto di viaggio sia ancora capace di trattenere in se stessa quella allure iniziale, quel gusto per l’esotico che pare, anche in correlazione con la nascita del digitale e della riproduzione immediata di scatti, essersi esautorata.
FC: «Se penso alla storia della fotografia di viaggio dai suoi albori certamente sembra essersi snaturata. L’avvento del digitale ha infatti ancor più facilitato un proliferare infinito di fotografie e fotografi che non necessariamente però deve essere visto con negatività. Tutto è diventato più facile, si è persa quella dimensione elitaria iniziale ma allo stesso tempo tutto è diventato ancor più fruibile e con maggiore facilità veicola passione e curiosità. Anche il fatto che sia aumentata, nel tempo, la possibilità di viaggiare ha influito sul cambiamento, anzi sono certa che vada di pari passo. Man mano poi che la tecnologia si è evoluta, si è alleggerita, la fotografia in generale, quindi anche quella di viaggio, è diventata qualcosa di molto più fruibile.
Oggi si viaggia per piacere, per lavoro, come esperienza culturale, gastronomica con una facilità e accessibilità economica che prima non era pensabile. Ciò permette alle persone di riconoscersi con maggiore facilità nel proprio, di portare a casa ricordi di una precisa esperienza.
Le mie fotografie sono in realtà anche il frutto di questo. In ogni scatto che ho esposto, è come se avessi una madeleine proustiana, perché attraverso la vista di una foto ricordo tutte quelle emozioni, tutti quei profumi, quei momenti che ho vissuto in quel viaggio. Non solo in quella singola fotografia ma in quel viaggio.
Forse anche perché ho tutto il pensiero come racchiuso in un piccolo quadro. Ho una visione del mondo a riquadri e non soltanto quando sono in viaggio ma anche quando cammino, vivo, anche questa sera vedo voi già in foto, pronti al taglio giusto dell’immagine. Mi viene spontaneo, ancor più quando sono in giro con la macchina fotografica che mi permette fattualmente di riproporlo.»
Quindi potremmo sostenere che se da un lato è innegabile che un certo cambio di natura vi sia stato, dall’altro esso stesso è stato l’artefice della creazione di un mondo alternativo.
FC: «È esattamente così. Se l’originale essenza della fotografia di viaggio si è snaturata, questa stessa stortura ha permesso a noi di arricchirci. Ci ha donato qualcosa, ha reso le persone capaci di una condivisione prima inimmaginabile, ci ha avvicinati nel privato, tramite la passione stessa.»
Questa sera lei presenta 13 scatti, ma sarebbero potuti essere altri e di numero molto superiore. Perché proprio questi? Credo la domanda sottesa sia in realtà un’altra, ovvero perché una foto crei un certo interesse e un’altra no. Vorrei riportare un passo di Roland Barthes che, nel testo ‘La camera chiara’, si occupa proprio di questo problema.
«Perché una certa foto crea un interesse? […] è piuttosto un’agitazione interiore, una festa, un lavorio se vogliamo, la pressione dell’indicibile che vuole esprimersi. E allora? Chiamarla interesse è poco. […] allora vorrei sapere che cosa, in quella foto, fa fare tilt dentro di me. Mi pareva che la parola più giusta per designare l’attrattiva che certe foto esercitano su di me fosse la parola avventura. La tale foto mi avviene, la talaltra no. (pp. 20-21)»
E ancora.
«[…] i due elementi, la cui copresenza sembrava fondare quella specie di particolare interesse che io avevo per quelle fotografie» consistevano, secondo Barthes, l’uno nello studium, ovvero il campo d’interesse, l’altro nel punctum, ovvero in quell’elemento che viene a infrangere (o a scandire) lo studium. «[…] in questo caso non sono io che vado in cerca di lui ma è lui che, partendo dalla scena, come una freccia, mi trafigge. […] infatti il punctum è anche: puntura, piccolo buco, macchilona, piccolo taglio. Il punctum di una fotografia è quella fatalità che, in essa, mi punge, ma anche mi ferisce, mi ghermisce. (pp. 27-28)»
Quindi, una volta stabilito la fotografia di viaggio come suo studium, come cioè ristretto campo di un sapere, che cosa l’ha ferita al punto far cadere la sua scelta su alcuni scatti?
FC «Quando mi sono trovata a dover scegliere ho individuato un filo conduttore. Il colore. Mi sono sorpresa da sola, perché nel momento della scelta, che mi sembrava complessa, posavo di più lo sguardo su alcuni scatti che avevano o esplosioni di colori o un bianco e nero più freddo, con maggiore contrasto. Stavo scegliendo irrazionalmente forse, ma avevo trovato un criterio.
L’essere colpita da qualcosa è raro, ma quando accade è come se ciò che avrei voluto fare si condensasse in un punto. E quel punto rappresenta esattamente come io vedo città e luoghi. Faccio un esempio. Il quadro intitolato Pietralata, che ritrae appunto il medesimo luogo, ovvero un posto che pare diventato una città a se stante e che mi ha trasmesso il senso della duplicità. Da un lato infatti era ancora viva la decadenza, ma dall’altra c’era il contrasto con alcune baracche circondate da tantissimi locali moderni, da luci e suoni. Cercavo qualcosa che mi colpisse in tal senso e credo di averla trovata. Mentre perciò la foto che ritrae Trastevere potrebbe riferirsi alla Roma di tanti angoli differenti, questa foto indica solo Pietralata, solo quel luogo capace di coniugare insieme modernità e degrado.»
Visto che ha citato proprio questo scatto, vuole parlarcene di più?
FC «Lo scatto intitolato appunto Pietralata, è quello che forse assomiglia di più a un quadro. Una insegna caduta per il maltempo e comunque mai riparata. I suoi frammenti, così tanto luminosi, mi hanno fatto vedere qualcosa. Quella era per me Pietralata, i frammenti di luce nel nero della strada, nella povere della pioggia. I pezzi si trovano da soli così, così ha fermato quella casualità che sembrava racchiude il tutto.»
Pietralata
Lei ha citato il rapporto con la pittura. In realtà la fotografia, come ha perfettamente premesso, non può essere trattata alla stregua della pittura, che vive di tecniche e di parametri già consolidati nel tempo. Nella fotografia il discorso è differente. Per tornare al testo di Barthes, che in un certo senso ci sta guidando in questa nostra discussione, il filosofo rivendica nella fotografia, rispetto alla pittura, un infra-sapere, la possibilità cioè di accedere a qualcosa. «Poiché la Fotografia è contingenza pura e poiché non può essere altro che quello […] essa consegna immediatamente quei particolari che costituiscono precisamente il materiale del sapere etnologico. […] La Fotografia può dirmelo, molto meglio dei ritratti dipinti. Essa mi permette di accedere a un infra-sapere». Lei Francesca si trova d’accordo con questa posizione?
FC «Non so dire esattamente cosa differenzi una foto da un quadro, ma ciò che posso asserire con certezza è che per me la macchina fotografica mi permette di esercitare una magia, di racchiudere un pensiero, una sensazione. E che, al contrario, quando osservo le foto dei grandi maestri, di chi è venuto prima di me o quando osservo le foto di mio padre (n.d.r. il grande fotografo Carlo Consoli) è come se qualcosa avvenisse in me. Vengo portata altrove.»
Pensi che la tecnica, tu hai usato in realtà tecniche diverse per questi scatti, possa attrarre l’attenzione, possa fungere da catalizzatore o sei contraria a una eccessiva manipolazione della pellicola.
FC «Per rispondere prendo ad esempio il fotoritocco che oggi ti permette di fare praticamente tutto su una foto e che però al tempo stesso può snaturare anche tutto. La pellicola riesce ancora a mostrare il suo valore. Io faccio sempre un paragone un po’ forte. Penso alla formula uno di venticinque anni fa in cui le macchine era già forti ma era il pilota a fare davvero la differenza. Così nella fotografia con la pellicola era più difficile ingannare, ciò che riuscivi a fare con lo sviluppo potevi aggiustarla con la saturazione, la luce, ma non potevi tornare indietro. La foto era lì, era quella. Non potevi migliorarla.
Adesso la formula uno è diventata tutta macchina, e la tecnologia supera le abilità del pilota. Non che il divertimento sia minore ma è diverso. Nello stesso modo il fotoritocco permette, da una singola foto, di creare l’impossibile. Aggiungere persone, cambiare ambientazione. È divertente ma non è la fotografia.
Certo, con il digitale è tutto più semplice, anche il lato della comunicazione della foto. La loro possibilità di girare è quadruplicata, ma nulla è paragonabile a toccare con mano una foto.»
Quale è, sempre che ci sia, una foto che vorrebbe fare ma che ancora non ha fatto?
FC «C’è una foto che vorrei scattare, i colori in India. Da tanto studio e colleziono libri di fotografia sull’Idia che regalano scorci e colori unici. È un viaggio che non ho fatto, nonostante abbia avuto la fortuna di viaggiare tanto nella mia vita. Sarà il mio prossimo tema di lavoro, perché c’è qualcosa di preciso che vorrei fare, è nella mia mente, ma ancora non so cosa sia. Con me è sempre così, rimango estasiata dal Taj Mahal ma magari poi fotografo il sasso sotto il tempio che per me è simbolo del tutto.»
Dopo aver visto i quadri, alcune persone hanno rivolto a Francesca alcune domande. Ne riportiamo alcune.
Quanto conta l’improvvisazione quando scatti una foto o quanto invece ti fermi a studiare il soggetto.
FC «L’immediatezza dei miei quadri mi assomiglia. Sono istintiva. Ci sono due scuole di pensiero nella fotografia. Chi crea un set; quella foto deve essere così e crea uno spettacolo. E poi c’è chi come me improvvisa. Coglie quel momento. Posso attendere, anche molto tempo, ma non costruisco. Spero che quella fotografia rispecchi quel momento che ho intravisto. Perché in un secondo può cambiare tutto, la luce, il colore, il soggetto stesso. Esemplare in tal caso è lo scatto intitolato Madrid, a cui sono molto affezionata. Ricordo come fosse oggi quel momento. Faceva freddissimo in quella piazza in cui si era ricreata come una luce soffusa e offuscata, mia attenzione è stata rapita da una insegna rossa. Mentre la osservo è passata una ragazza con la valigia rossa. In un istante, prima ancora che riuscissi a decidere, già avevo scattato. Quella ragazza stava passando in quel momento, solo in quel momento.»
Madrid
Mentre ci siamo conosciuti prima, mi ha detto di essere poco incline alla pubblicità, al parlare e mostrare gli scatti in pubblico. Quanto la intimidisce mostrare questa parte intima.
FC «Ha ragione. Ma la mia è ritrosia, forse dovuta anche al fatto che sono una foglia d’arte e che mi sento in continuo confronto con chi è venuto prima di me. Il mio modo di guardare il mondo è tale, proprio perché sono cresciuta attraverso al fotografia, è un codice personalissimo. Non sono timida di mio, vale solo per la fotografia che ricrea perfettamente il mio mondo interiore e che quindi mi metto a nudo.»
Amsterdam
Conclusione
Per tornare alla foto di viaggio e alla evoluzione e trasformazione che questa specifica categoria della fotografia ha subito nel tempo, potremmo concludere sostenendo che l’’accessibilità al sapere e la facilità nello scatto che la tecnologia ci ha donato lasciano nelle mani dell’individuo la possibilità altissima di conoscere mondi o quella, più banale, di fotografarli solamente.
In fondo le foto banali sono quelle che non riescono a esprimere il non detto, che sprecano la grande possibilità dell’arte, quella di far venir fuori l’indicibile.
Garbatella, Roma.Trastevere, RomaBudapestCittà del Vaticano ViennaCesenaticoMare e plasticaStoccolma
Per me, fotografia è un altro modo per dire viaggio.
Christopher Anderson
La fotografia di viaggio rappresenta un genere fotografico incentrato sulla documentazione di un territorio, di una cultura, di un paese e dei costumi dei popoli che a esso si riferiscono.
La Photographic Society of America la definisce formalmente come una immagine che: esprime il sentimento di un tempo e di un luogo, ritrae una terra, la sua gente o una cultura nel suo stato naturale, e che non ha limitazioni geografiche.
In realtà la storia di questo genere fotografico risale agli albori stessi della nascita della fotografia legandosi indissolubilmente con l’evolversi della ricerca scientifica e con i cambiamenti dei costumi nel tempo. Tecnica e moda incidono così sull’aspetto principale della fotografia di viaggio, creando intorno ad essa una allure del tutto particolare.
L’inizio
Nel 1826 Joseph Nicephore Niepce ci regala la prima fotografia ancora conservata, mentre nel 1839 viene sviluppata la Dagherrotipia, ovvero il procedimento per lo sviluppo dell’immagine su una lastra di rame su cui veniva applicato argento elettroliticamente, per poi esporla ai vapori di iodio per circa 10-15 minuti, infine ai vapori di mercurio per svilupparla. Pur essendo un procedimento lungo, complesso, e poco salutare, permise a Daguerre, il suo inventore, di pensare di uscire dagli studi fotografici per avventurarsi prima nelle strade della sua città. (A questi primi esperimenti risalgono le origini della fotografia di viaggio, quando tali uomini si inoltrarono sulla Senna e a Pont Neuf per fotografare. La più antica fotografia di viaggio sopravvissuta è del 1826, ritrae la scena di una strada a Saint Loup de Varenne, in Francia, ad opera di Joseph Nicephore Niepce). Possiamo perciò utilizzare proprio il 1839 come data di inizio della fotografia di viaggio, ovvero di quel suo desiderio di conoscenza e avventura, di sfondamento di limiti, geografici e non, conosciuti.
Daguerre, Boulevard du Temple di Parigi.
Il problema pratico, posto in evidenza dallo stesso Daguerre, era però riuscire fattivamente a portarsi in viaggio una attrezzatura tanto pesante e difficile da gestire. Per non parlare poi della camera oscura e del materiale necessario allo sviluppo delle immagini (se pensiamo alla stampa dell’immagine tramite collodio umido era possibile solo se fatta immediatamente). I primi fotografi che uscivano dai loro studi dovevano allestire dei piccoli laboratori chimici, eppure tutto ciò non arrestò questi uomini straordinari, conoscitori di procedimenti alchemici e scientifici, artisti con conoscenze di tecniche pittoriche e prospettiche, ma al contempo viaggiatori e avventurieri.
La prima fotografia aerea fu scattata a Boston. A bordo di una mongolfiera, a circa 600mt di altezza, nel 1860 il fotografo James Wallace Black riuscì ad immortalare Boston “come la vedono l’Aquila e l’Oca Selvaggia”. Fu così che venne realizzata la prima fotografia aerea della storia.
Grand Tour
Al fermento scientifico del tempo si lega però un altro fenomeno culturale che segnerà lo sviluppo della fotografia. Come non pensare ad esempio ai primi dagherrotipi di fotografi stranieri che, già verso la metà del XIX secolo, immortalarono Roma antica e i ruderi di molte città italiane. La ragione è da rintracciare nei famosi Grand Tour, ovvero i viaggi nell’Europa continentale intrapresi da ricchi aristocratici europei a patire dal XVII sec. per il perfezionamento della loro cultura. Di solito si trattava di giovani alto-borghesi inglesi, francesi e tedeschi che, attraverso queste esperienze cominciavano a creare la loro rete di conoscenze per il commercio, imparavano nuove lingue e usanze e soprattutto scoprivano con mano, non più solo sui testi, le meraviglie dell’antichità.
I diari di viaggio del tempo non contenevano solo cartine ma anche disegni e acquerelli. Tali bozzetti, testimonianza del viaggio, vengono pian piano sostituiti da foto, illustrazioni fotografiche di luoghi e monumenti. Tale fenomeno non fece altro che amplificare la fascinazione per luoghi poco battuti, spingendo il desiderio dei viaggiatori verso luoghi sempre più esotici. Dalla fine dell’Ottocento infatti, le destinazioni predilette erano luoghi più lontani e costosi come l’Egitto, il Medio Oriente, l’antica Costantinopoli. Comparvero le prime foto delle piramidi egizie, del Nilo, della grande Muraglia.
Il compito di testimonianza e documentazione di ricerche scientifiche e luoghi sconosciuti, che fino a quel momento era spettato alla pittura, ora passa alla fotografia attraverso le tecniche di calotipia e della dagherrotipia, in grado di offrire una realtà oggettiva, non modificabile o suscettibile di variazione da parte dell’artista. La diatriba sulla superiorità o meno della pittura alla fotografia verrà ripresa, da un punto di vista filosofico, da Roland Barthes che rivendica nella fotografia, rispetto alla pittura, un infra-sapere, la possibilità cioè di accedere a qualcosa. «… niente differenzia, eideticamente, una fotografia, per quanto realistica sia, da un dipinto. Il ‘pitturalismo’ è solo una esagerazione di ciò che la Foto pensa di se stessa. Tuttavia non è attraverso la Pittura che la Fotografia perviene all’arte, bensì attraverso il Teatro.» (R. Barthes, La camera chiara, Einaudi, Milano 2003 p. 32)
Veduta della Gran Madre di Dio, Enrico Jest, primo dagherrotipo italiano certificato; Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna.Costantinopoli 1876
Adolphe Goupil, editore e mercante d’arte, che all’inizio trattava incisioni e litografie d’arte antica nonché riproduzioni dei grandi maestri pittori del Salon, comprese subito il potenziale economico del commercio di foto e dal 1853 cominciò a vendere immagini di luoghi lontani. In Italia, a Firenze, i fratelli Alinari aprirono il loro laboratorio fotografico dove raccolsero e documentarono monumenti e città, divenendo, ad oggi, il più grande e antico archivio fotografico dal 1852.
Se tali viaggi erano prerogativa di una ristretta élite di viaggiatori, proprio per loro nacquero i primi servizi di viaggio. Nelle più antiche guide Michelin, risalenti addirittura al 1898, erano segnalati quegli hotel in grado di soddisfare le esigenze di questi avventurieri, come ad esempio la presenza di camere oscure messe a disposizione dall’hotel. In Italia il Grand Hotel et de Milan, (edificio del 1863, in via Manzoni a Milano) offriva, oltre il sevizio postele e telegrafico, proprio la possibilità di farsi allestire una camera oscura. Famosa rimase la stanza 418 in cui Medardo Rosso, lo scultore appassionato di fotografia al punto di definire il suo lavoro scrittura di luce, usò tale stanza e proprio cadendogli dalle mani una lastra per lo sviluppo si ammalò.
In parallelo al cambio di mentalità dell’epoca, cambia però il senso stesso della fotografia. La sua funzione documentaristica di luoghi e tradizioni esotiche viene minata dall’interno, cominciando a crearsi la moda del ricordo di viaggio.
1869
A questo punto la foto di viaggio si intreccia con un’altra storia fantastica, ovvero quella delle cartoline. Nel 1869 infatti le poste austriache danno il via al servizio di posta celere, alleggerito anche nella forma e le prime cartoline corredate di disegni vengono pian piano soppiantate da foto. Ai piedi della Tour Effeil c’era un piccolo ufficio postale in cui si potevano mandare foto con la riproduzione fotografica della famosa Tour Effeil direttamente sul posto.
Basti pensare che qualche anno dopo, nel 1910, le poste francesi spedirono 123 milioni di cartoline in tutto il mondo.
1888
Avevamo già premesso che tutta la storia della fotografia di viaggio poggia sull’evoluzione dei costumi e della ricerca scientifica. Il momento di svolta di tutta la fotografia ci fa nel 1888, quando George Eastman, fondatore della Kodak, inventò la fotocamera con la pellicola. Egli intuì il potenziale di un apparecchio più agevole e a basso costo.
La Kodak modello1 a box: una fotocamera priva di regolazione e dotata di pulsante a scatto, del mirino per l’inquadratura e di un sistema di avanzamento della pellicola. Anche le dimensioni erano ultra compatte per il tempo.
Da questo momento in poi le foto di viaggio smisero di essere prerogativa esclusiva degli avventurieri e divennero il sogno di ogni tipo di turista.
Ma il 1888 è un anno importante per un altro motivo. Segna infatti la nascita della National Geographic. Seppur lo scopo fosse quello di diffondere conoscenze geografiche, si presentava infatti come una rivista di carattere scientifico, le illustrazioni che all’inizio erano realizzate con disegni a colori vengono, a loro volta, sostituite dalla fotografia. Nasce da questo momento un sodalizio artistico così potente da potersi quasi definire un genere a parte.
Nel 1910 vengono pubblicate ben 24 pagine di fotografie che ritraevano il Giappone e la Corea.
…aver visto molto e non avere niente, è avere gli occhi ricchi e le mani povere.
William Shakespeare
La domanda che ci facciamo è se la foto di viaggio sia ancora capace di trattenere in se stessa quella allure iniziale, quel gusto per l’esotico che pare, anche in correlazione con la nascita del digitale e delle riproduzione immediata di scatti, essersi esautorata. Lo snaturarsi iniziale della fotografia di viaggio ha però creato un mondo alternativo, una capacità di condivisione prima inimmaginabile. L’accessibilità al sapere e alla conoscenza lascia nelle mani dell’individuo la possibilità altissima di conoscere mondi o quella, più banale, di fotografarli solamente.
Rilke è poeta e scrittore di profonda ricettività, una raffinatissima capacità di analisi lo contraddistingue come una delle massime figure liriche, rappresentative del Novecento. Sempre volto alla ricerca ed alla riflessione, nella dolorosa consapevolezza data dall’incomprensibilità degli elementi della vita, che però coabita e si accompagna all’intensa spinta interiore volta alla comprensione del tutto: un’intelligenza, la sua, che riporta ad unione il particolare e l’universale, ciò che è racchiuso nell’animo ed il mondo fuori.
Come Paul Valery lascia scritto in un suo Ricordo, tra gli uomini non comuni più affascinanti che ebbe la fortuna di conoscere vi è proprio Rilke. Portatore di una magica presenza, capace di infondere un potente fascino in ogni parola da lui scelta, lo scrittore traduce in immagini ciò che altri non sono neppure in grado di vedere. Valery rievoca come «i suoi occhi bellissimi vedevano ciò che io non vedevo: presagi, tracce o sottotracce, coincidenze significative, presentimenti che gli suggerivano di agire o di astenersi in diverse evenienze rispetto alle quali io mi stupivo che si potesse manifestare quella sensibilità».
Le Elegie Duinesi manifestano appieno le sue concezioni: in esse inquietudini e paure si mischiano, come nel caso della prima composizione, con appelli ad elementi forse salvifici, tra cui, ad esempio, un albero su un pendio.
Ecco la comparsa di entità naturali, di un’attenzione a certe presenze nel mondo.
Nati da profondi stati d’animo, da ragionamenti interiori, questi componimenti esprimono al massimo grado le domande che il poeta praghese pone a sé e così a tutti.
Accanto ad opere tanto fondamentali, però, un insieme di altri scritti presenta la visione ed il pensiero di Rilke. Così sono rinvenibili importanti meditazioni in lettere, memorie, impressioni di viaggio: molte di queste considerazioni restituiscono un suo modo di vedere e vivere sì lo spazio interiore, ma anche quello esteriore, il paesaggio.
Nella raccolta Del paesaggio ed altri scritti (Adelphi), sono stati riuniti più testi: la narrazione è data da esperienze, sogni, luoghi, idee sull’arte, ma protagonista è di certo l’elemento naturale ed il racconto dello spazio.
«Poteva essere trascorso poco più di un anno da quando nel giardino del castello, che lungo un pendio abbastanza ripido scendeva fino al mare, gli era accaduto un fatto meraviglioso. Camminava avanti e indietro, come era sua abitudine, con un libro, quando si trovò a poggiare le spalle contro la forcella di un arbusto; in tale posizione si sentì coì gradevolmente sostenuto e felicemente riposato che rimase immobile, senza leggere, immerso nella natura, in una contemplazione quasi inconsapevole.»
Lungo le sue riflessioni, Rilke fa riferimento a città come Bruges, con quelle sue spiagge che investono i villeggianti di sentori legati al trascorrere lieve del tempo, per poi passare a ricordare la languida bellezza di Venezia.
Centrale in questa composita narrazione, però, è lo scritto in cui viene trattato il tema della pittura di paesaggio e della storia della sua rappresentazione. Difficile è tradurlo, comprenderlo, l’ambiente, elemento a noi esterno ma in cui allo stesso tempo si è immersi. E così: «colui che avesse a scrivere la storia del paesaggio si troverebbe, anzitutto abbandonato a un elemento estraneo, privo di affinità con altri, impenetrabile. Noi siamo soliti contare sulle figure e il paesaggio non ha nessuna figura; siamo abituati a inferire dai movimenti sugli atti di volontà, e il paesaggio, quando si muove “non vuole”. Le acque fluiscono e in esse oscillano e tremano le immagini delle cose. E nel vento che stormisce tra gli alberi antichi, crescono i giovani boschi, crescono verso un futuro che noi non vivremo. Il paesaggio è là, privo di mani e non ha viso; oppure è tutto viso e l’immensa grandezza dei suoi tratti spaventa e schiaccia l’uomo».
Così è nella comprensione del paesaggio e della natura che quest’ultima può davvero essere non solo un mezzo attraverso cui esprimere altro ma, in una ricerca di rinnovamento, diventa e la si osserva per ciò che è:
«si cominciò a capire la natura quando non la si capì più».
Rilke dedica in questo capitolo riflessioni all’arte di Théodore Rosseau e poi di Millet: i suoi contadini, che abitano le campagne, sono figure che occupano lo spazio pittorico come segni e valori paesistici, cosicché alla solitudine dell’uomo corrisponda la pianura, ed i suoi gesti al cielo. Nel mezzo di questa analisi affiora, anche, poi, l’affinità con un altro pittore, Segantini, di cui è poeticamente descritto il dipingere: rappresentare la montagna è per l’artista come un’opera d’ascesa «i monti sono per lui soltanto gradini verso nuove pianure, sopra le quali si alza un cielo vasto quanto il cielo di Millet, ma più luminoso, più profondo, più colorito».
Di cieli ne riceviamo un’immagine potente anche nelle Elegie Duinesi, in cui questi, descritti come ‘intimi’, regalano una nuova esperienza di profondità al lettore.
Nel settimo componimento, la descrizione della primavera e dell’estate, del loro passaggio, è data dal percepire e vedere il farsi di un giorno, con un moto che da contemplazione diventa rapimento.
«Non solo i mattini dell’intera estate-, non solo Come essi tramutano nel giorno e splendono fin dall’inizio. Non soltanto i giorni, che delicati s’aggirano intorno ai fiori, ed in alto, intorno agli alberi già formati, forti e possenti. Non soltanto il raccoglimento di queste dischiuse forze, non soltanto le vie, non soltanto i prati alla sera, non soltanto, dopo i tardi temporali, la respirante chiarezza, non soltanto le notti! Ma le elevate notti dell’estate, ma le stelle, le stelle della notte. Oh essere morti un tempo e saperle infinite, tutte le stelle: allora come, come, come dimenticarle!».
C’è luce, in questi versi. Chiarori e stelle.
Se Van Gogh guardando il cielo notturno non poteva che sognare, in Rilke troviamo un raccoglimento acceso da punte scintillanti di raffinata coscienza della natura, del mondo.
«Ma le stelle, le stelle della notte…»
C’è una sconfinata energia in questa riflessione.
Difronte a tutto ciò, in Rilke, vi è però anche la percezione della grande fragilità umana, che può perdere e vedere perire tanta bellezza.
«Poiché noi sentendo svaniamo; ah noi esaliamo fino ad estinguerci; un legno che di ardore in ardore dà sempre più tenue profumo».
Ma allora come si può essere? Dice Rilke, tutto quello che è qui ha bisogno di noi, è il mondo stesso che si appella all’uomo:
«Siamo qui forse per dire casa, ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutto, finestra, − al più: colonna, torre… ma per dire, comprendilo, per dire così come persino le cose intimamente mai credettero d’essere».
Nei suoi scritti Del Paesaggio ritroviamo una riflessione sul rapporto dell’uomo con le cose del mondo, nel punto in cui il poeta ricorda la saggia consapevolezza espressa da Constable, che aveva ben compreso quanto la natura fosse la chiave per avviarsi alla scoperta del mondo, così vasto nella sua mutevolezza e diversità: «non vi sono due giorni che siano eguali, neppure due ore, dalla creazione del mondo in avanti non ci sono state date neppure due foglie che fossero una eguale all’altra». Il mondo è vasto e quando si accende una scoperta tale, l’uomo non può che cogliere tutto davanti a sé.
[Dopo le precedenti recensioni di mostre d’arte, la monografia Worpswede di Rilke divenne il primo grande lavoro che mostrava il talento speciale del poeta per la combinazione dell’arte e della considerazione della personalità. Tale monografia, pubblicata per la prima volta nel 1903, è ancora oggi un classico sull’arte e sugli artisti di quel movimento culturale.]
Rimanendo in tema artistico, si ricordi che Rilke ha scritto del gruppo di Worpswede, in Germania, che aspirava a riprendere il lavoro della scuola di Barbizon, fatto di tecnica en plein air e di vita condotta nella natura, alla ricerca di spazi non contaminati dalla società. Come la storia e l’anima di un luogo siano narrabili attraverso gli elementi naturali che lo compongono ed attorniano, è un qualcosa su cui lo scrittore ci illumina in poche righe, raccontando potentemente aspetto e spirito del paese suddetto: «Worpswede è strano, strade e corsi d’acqua si perdono nelle profondità dell’orizzonte. Là comincia un cielo di una mutevolezza e grandezza indescrivibili. Si rispecchia su ogni foglia: tutte le cose sembrano occuparsi di esso, che è dappertutto. E dappertutto è il mare. Non più quello che secoli fa qui salì e si ritirò, quando la groppa sabbiosa su cui è posta Worpswede non era che una duna in mezzo alle altre. Le cose non lo sanno dimenticare. Il grande fragore che colma gli antichi pini del colle sembra sia il suo, e il vento, il vasto, possente vento reca il suo aroma. Il mare è la storia di questo paese, che non ha quasi altro passato».
Hiersei ist herrlich
(Essere qui è magnifico), scrive il poeta nelle Elegie Duinesi.
Le cose, la natura, saranno anche caduche, ma fin tanto che l’uomo è qui ad esse è legato, loro sanno della nostra gioia e miseria.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:
R. M. RILKE, Del paesaggio e altri scritti, Adelphi, Milano 2020.
R. M. RILKE, Elegie Duinesi, Einaudi, Torino 1978.
La libreria indipendente Le Storie prosegue la sua rubrica letteraria in collaborazione con fiorivivi.com dedicando questo speciale al NATURE WRITING
(a cura di Gilda Diotallevi)
NATURA E SCRITTURA
Per scrittura della natura (Nature writing) si intende quella parte della narrativa, della poesia, della saggistica ispirata o dedicata alla natura. Molti esempi di scritture sui luoghi e gli ambienti appartengono a un genere misto tra racconto e saggio. La centralità del contesto, piuttosto che del soggetto, la cui vicenda è strumentale allo spazio e consiste nell’attraversamento o nell’esperienza di un ambiente, implica un rovesciamento. Il focus non è più, necessariamente, sulla vicenda individuale, ma sulla storia naturale, sugli ambienti e i suoi abitanti (non necessariamente umani), anche prima che il narratore-osservatore entri a farne parte.
Al suo interno confluiscono però realtà e dimensioni talmente differenti che si renderà utile, alla stregua del teorico Thomas J. Lyon che elabora una tassonomia dei diversi tipi di scrittura della natura negli Stati Uniti, proporne una differenziazione interna per macroaree.
[T.J. Lyon, This Incomparable Land: A Book of American Nature Writing, Houghton Mifflin, Boston 1989. Questo libro è una guida introduttiva al genere, nella vastità della scrittura americana.]
Letteratura scientifica (e botanica) sul mondo naturale e sulla storia naturale
Scrittura di esplorazione, viaggio, avventura, e vite solitarie in luoghi naturali
Riflessione filosofico/meditativa/sociale/giuridica sulla natura e sull’effetto che provoca nell’uomo
Nonostante la connessione tra natura e scrittura abbia affascinato e coinvolto una lunga schiera di intellettuali, filosofi e scienziati del passato, non solo essa non accenna a spegnersi ma, addirittura, alimenta i suoi estimatori, evidenziandone l’attuale fortuna. Anche per tale motivo spesso ci si domanda se possa essere una questione di moda, se porre al centro del discorso pubblico e culturale la natura non sia un altro tentativo di trasformarla in qualcosa di facilmente fruibile, economicamente vendibile, in altre parole se non sia l’ennesimo tentativo di mercificare ogni cosa, compresa la natura e le esperienze ad essa legate.
Ma la relazione dell’uomo con la natura è, in realtà, un tema talmente ricco di implicazioni e di riverberi in campi apparentemente lontani che pare destinato ad essere indagato e amato ancora a lungo.
Il fatto che ci si riferisca a nature writing non è un caso. Dobbiamo infatti al mondo angloamericano la capacità di formalizzare e rendere genere letterario, qualcosa che, seppur in nuce, era già presente da molto. La scrittura della natura infatti verrà istituita come genere letterario a se stante alla fine del XVIII secolo, quando il movimento romantico reinterpreta il rapporto uomo natura sia in ambito letterario che filosofico. Al contrario del romanticismo però, qui si assiste ad una fusione tra arte e scienza. La narrazione si basa infatti su analisi e osservazioni scientifiche della natura.
1 Letteratura scientifica (e botanica) sul mondo naturale e sulla storia naturale
La letteratura incentrata sulla storia naturale si deve alla nobile trazione inglese, che dalla seconda metà del XVIII e XIX sec. si lega principalmente alla botanica e alle informazioni scientifiche sul mondo naturale.
Se dovessimo trovare un capostipite a questo filone, non potremmo non citare Gilber White, parroco naturalista, considerato da molti il primo ecologo inglese che nel 1789 pubblica The Natural History and Antiquites of Selborne. Considerata un’opera modernista, col merito di aver plasmato l’atteggiamento moderno nei confronti della natura, viene citata ancora oggi.
Solo per annoverare alcuni esempi in tal senso, ricordiamo Susan Fenimore Cooper (1813-1894) il cui Rural Hours del 1850 rappresenta il più significativo esempio di letteratura ambientale americana scritto da una donna. Susan sostenne infatti che la conoscenza dei luoghi naturali incoraggi la popolazione al rispetto della terra, proponendo un’etica consapevole e rispettosa della natura e degli animali. Charles Darwin con il suo Sull’origine delle specie del 1859 e William Bertram. Quest’ultimo, primo naturalista che penetrò le fitte foreste tropicali della Florida, esploratore e naturalista, dopo una vita avventurosa tra colonie sudamericane, indiani d’America ed esplorazioni varie, sulla base di appunti e disegni di flora e fauna sconosciuta, scrisse le sue esperienze nel libro noto oggi come Bartram’s Travels, pubblicato nel 1791.
In tutti questi casi la particolarità, del tutto innovativa, consiste nel fatto che la scrittura sulla natura, pur basandosi su ricerche e nozioni scientifiche, viene esposta dagli autori in prima persona, con riflessioni filosofiche sulla natura e osservazioni personali che la allontanano dalla separazione tra saggistica e letteratura.
È pur vero però, che in un continuo rimando, anche la letteratura si trovi a incontrare la natura. A volte solo come espediente, altre come vero e proprio mezzo di conoscenza di se stessi e del proprio mondo. Basti pensare ad esempio all’ Isola di Arturo di Elsa Morante, a Canne al Vento della Deledda, o alla Mansfield con il suo Aloe in cui il vento della Nuova Zelanda fa da sfondo alla scoperta di un fiore. Ma quando alla natura si associa la botanica e il paesaggio, si fa spesso rifermento a qualcosa che tutto ciò riesce a racchiudere: il giardino. Esso, in alcuni fulgidi esempi, diviene luogo di ricerca scientifico/botanica, rifugio contemplativo e allo stesso tempo ispirazione letteraria vera e propria.
La botanica e la conoscenza antica delle erbe sono state alla base di una recente riscoperta, ovvero dell’Emily Dickinson Herbarium (Elliot Edizioni 2017). Attraverso l’accuratezza del lavoro della scrittrice (sono presenti 424 fiori perfettamente conservati) e le indicazioni presenti, ammiriamo qualcosa in grado di parlarci della vita stessa della Dickinson.
Scopriamo che la Dickinson era una amante della natura, a cui dedica versi […] la natura è armonia. Natura è tutto quello che sappiamo senza avere la capacità di dirlo, tanto impotente è la nostra sapienza a confronto della sua semplicità, ma ancor più di botanica e di giardinaggio. Oltre a regalare piccoli bouquet floreali, era solita lasciare dei fiori pressati nelle lettere che scriveva ai suoi amici. Come il giglio dorato, che la poetessa una volta regalò a Thomas Wentworth Higginson, con il quale intrattenne una regolare corrispondenza. Teneva poi un piccolo giardino d’inverno Al giardino ancora non l’ho detto, scriveva in uno dei suoi celebri componimenti, mostrando come esso ispirò profondamente il suo animo e le sue opere e curava inoltre quello più grande intorno alla sua dimora ad Amherst, Massachussetts. Lo sai che io sono stata allevata in un giardino, scriveva Emily in una lettera a una cugina. Emily è una donna della seconda metà dell’Ottocento e in questo periodo nascono i primi cataloghi per corrispondenza che vendono anche semi. In Italia, quello dei Fratelli Ingegnoli di Milano risale al 1890.
In Emily Dickinson e i suoi giardini (Ippocampo) Marta McDowellsegue «lo scorrere di un anno della scrittrice all’interno del suo giardino, mentre scopriamo particolari poco conosciuti della sua vita e capiamo meglio la sua anima. Alternando fotografie e illustrazioni botaniche a poesie e brani tratti dalle lettere di Emily Dickinson, mostrando, sotto una prospettiva del tutto inedita, una delle figure letterarie americane più celebri ed enigmatiche». Ci racconta del suo apprendistato botanico, quando da ragazzina girava per i boschi con il suo cane Carlo a caccia di fiori.
Attraverso la descrizione del rapporto tra gli scrittori, i poeti e gli artisti in generale con i giardini, la scrittura si fa strumento di introspezione e metafora viva della vita. E se il rapporto con essi non è prettamente femminile, pensiamo a Jean-Jacques Rousseau, ad Andrè Gide, vero cultore di botanica, o a Marcel Proust, grandi donne hanno mostrato come il giardino, luogo di memoria, di sogno, di solitudine, sia stato fondamentale per la loro letteratura.
Il giardino di Virginia Wolff, ovvero la storia del giardino di Monk’s House
di Cecil Wolff
Per rendere pienamente giustizia al piccolo paradiso terrestre che ricordo bisognerebbe scrivere un’epopea orticola, ma le mie capacità poetiche e le mie competenze in materia di giardinaggio non ne sono all’altezza. Leonard e Virginia non avevano figli; i loro figli erano i libri e quel giardino. I miei ricordi legati al giardino hanno inevitabilmente qualcosa di impressionistico. Dal terreno incolto comprato dietro la casa comprata una ventina d’anni prima i Woolf avevano creato un mosaico spettacolare di fiori coloratissimi: cinerarie variopinte, enormi gigli bianchi e arancioni fiammanti, dalie, garofani e un’esplosione e una esplosione di Kniphofia che si mescolavano agli ortaggi, ai cespugli di uva spina, ai peri, ai meli, ai fichi. Nel prato erano sparse alcune vasche con pesci rossi. Oltre al giardino e al frutteto c’erano le arnie e le serre in cui Leonard teneva un’ampia collezione di cactus e piante grasse.
A differenza dei sontuosi giardini formali di Sissinghurst allestiti da Vita Sackville-West, la carissima amica di virginia, quello dei Woolf era un giardino naturale, squisitamente informale e più spontaneo. Era inoltre un’impresa fondata sulla collaborazione. Benché la forza trainante fosse Leonard, al quale si riconosce giustamente il merito maggiore, è evidente sia dai libri che dai diari di Virginia che giardini e spazi aperti avevano un posto di rilievo nella sua vita. Cecil Woolf, 2013. Brano tratto da ‘Introduzione’ a Il giardino di Virginia Woolf. La Storia del giardino di Monk’s House, Ippocampo.
Il libro si presenta come una sorta di albo illustrato, simile a un album di famiglia, in cui i dettagli tecnico-botanici e i consigli di giardinaggio si mescolano a una storia famigliare, di amore fraterno e coniugale. Quello di Virginia per il parco di Monk’s House pare amore a prima vista. Scrive infatti agli amici non posso descrivertelo, perché devi venire a sederti qui con me sul prato, o a fare una passeggiata nel meleto o a raccogliere: ci sono ciliegie, prugne, pere, fichi, più tutti gli ortaggi. Sarà il vanto dei nostri cuori, sappilo. (p. 20)
Ma non è solo un luogo in cui esercitare la sua competenza botanica, è il suo spazio di felicità, tutto il giorno a togliere erbacce per terminare le aiuole con uno strano entusiasmo che mi ha indotto a dire questa è la felicità, (p. 28), un ritrovo contemplativo da cui prendere ispirazione per i suoi lavori letterari.
La sua scrittura è influenzata dall’osservazione della natura e tutte le vite che abbiamo vissuto e quelle che dobbiamo ancora ancora vivere sono piene di alberi e di foglie che cadono.
Ogni onda del mare ha una luce differente, proprio come la bellezza di chi amiamo
Nel testo Le Onde ad esempio, ma potremmo citare molte altre opere, viene indagata la relazione tra il tempo della natura che ha un andamento ciclico e quello umano, più vicino a una andatura informe. L’intera esistenza di un uomo può corrispondere ad una sola giornata della Terra. E gli elementi naturali si fanno metafora di una intera esistenza.
Ma Virginia non è però la sola scrittrice che può essere considerata una giardiniera. Vita Sackville West, baronessa inglese e donna colta e spregiudicata, teneva una rubrica dedicata al giardinaggio sull’ Observer. Il suo giardino bianco presso il castello di Sissinghurst è ancora oggi il più ammirato in Inghilterra. Proprio nelle lettere di Virginia indirizzate a lei la ragguagliava spesso sul suo giardino, parlandole di progressi botanici e di cambiamenti delle fioriture.
Anche George Sand, che visse gran parte della sua vita nella casa di campagna della nonna a Nohant, nel Berry, si definiva una giardiniera e amava passare il tempo sottratto alla scrittura a catalogare piante e fiori, a comporre erbari. Ne Il mugnaio di Angibault la sua cultura naturistica le servirà per creare le atmosfere del libro, la perfetta descrizione del parco abbandonato descritto nell’opera. In lei infatti il rapporto simbiotico con la natura, e in particolare con il suo giardino, si fuse con la stessa professione di scrittrice.
2 Scrittura di esplorazione, viaggio, avventura, camminate e vite solitarie in luoghi naturali
Se è vero che dobbiamo alla tradizione letteraria angloamericana la creazione del genere nature writing, altrettanto vero è che esistono fulgidi esempi di esploratori e avventurieri che, attraverso le loro annotazioni hanno saputo descrivere un periodo storico di passaggio e una nuova relazione con l’ambiente naturale.
Alexander von Humboldt (1769- 1859) è stato il primo viaggiatore dell’epoca moderna.
Fin dalla mia prima giovinezza ho provato un ardente desiderio di viaggiare in terre lontane e inesplorate. È un sogno questo che caratterizza quell’età in cui la vita ci appare come un orizzonte sconfinato, quando nulla ha per noi maggiore attrattiva dei forti turbamenti dell’anima e dell’immagine dei pericoli concreti.
L’edizione italiana di Viaggio alle regioni equinoziali del Nuovo Continente(Quodlibet/Humboldt) di Von Humboldt, ci fa conoscere un testo innovativo e profondamente moderno. Mentre infatti fino ad allora i viaggi avevano il preciso scopo di scoprire o esplorare qualche terra lontana, qui troviamo qualcosa di diverso. Scritto negli anni tra il 1799 e il 1804 insieme all’amico botanico Aimé Bonpland queste annotazioni si presentano come un diario di viaggio avventuroso, sentimentale, esplorativo sì, ma anche scientifico e letterario. Ha così trasformato l’osservazione scientifica in una narrazione poetica e i suoi scritti hanno ispirato naturalisti e poeti come Goethe Wordsworth, Darwin ma anche politici come Jefferson.
Anche la descrizione che fa di stesso nella sua biografia sorprende, trattandosi di un naturalista, di uno scienziato che però amava l’irrequietezza, scavava vulcani, pagaiava l’Orinoco e correva attraversa la siberia infestata dall’antrace. La sua capacità di connettersi alla natura e di comprenderne l’interconnettività fanno dei suoi testi e delle sue idee la base della moderna percezione della natura. Anche oggi siamo debitori delle sue idee per la moderna percezione della natura.
Bisogna però ammettere che il massimo sviluppo di tale declinazione della nature writing si deve al mondo anglo-americano. Sono infatti inglesi (pensiamo al XVIII sec), ma poi soprattutto americani i grandi esploratori che del XIX sec. Pensiamo a Henry David Thoreau, indicato come il padre della scrittura naturalistica americana, ma anche Ralph Waldo Emerson, John Muir, Aldo Leopold, Rachel Carson. L’influsso del trascendentalismo (di cui ci occuperemo in seguito) pone l’accento sull’individualismo e sulla posizione privilegiata del rapporto con la natura, in contrapposizione allo Stato. Alcuni elementi del panteismo vengono ripresi, sottolineando la volontà di tornare a un rapporto semplice e diretto con la natura, contro ogni formalismo e artificio.
L’effetto che tale movimento del trascendentalismo provoca nella letteratura è il recupero della dimensione naturale dell’esistenza e la possibilità di rintracciare nella Natura stessa la possibilità di un nuovo risveglio. La scoperta del mondo esterno si fa simbolo di una riscoperta di se stessi. Esplora la natura e conosci te stesso rappresentano due aspetti della stessa medaglia, afferma Emerson.
Waldo Emerson, padrespirituale del trascendentalismo, filosofo scrittore e poeta, nei suoi scritti, di cui Nature è manifesto, egli coniuga geologia, botanica e scienza a dimensioni cosmiche ed enigmi cosmici non facilmente percepibili, all’astronomia e all’elettromagnetismo. La conoscenza sensibile è possibile se sorretta dalla visione intellettuale, che nel libro della natura trova il modello esemplare di ogni esperienza estetica possibile. Grazie alla contemplazione estetica della natura, alla fiducia in se stessi, alla percezione del momento presente, al di là del passato, della società e della cultura, è possibile accedere a un più alto livello di consapevolezza e riscoprire la scintilla divina che da sempre anima l’uomo, è possibile cioè il risveglio e il distacco da ciò che formalmente ci informa.
Da tale risveglio e rinnovamento riparte Henry DavidThoreau, ma riportando il tutto alla dimensione del quotidiano, al semplice e non alla redenzione eterna.
Walden or Life in the Woods, pubblicata nel 1854, capolavoro indiscusso di Thoresu, venne scritta nell’arco dei due anni che l’autore decise di passare in una capanna da lui costruita tra i boschi di Concord, in un terreno di Emerson. Dall’idealismo passiamo alla vita concreta, all’essenza stessa della realtà che sfugge a definizioni. La parabola delle stagioni vissute a stretto contatto con Walden Pond, il lago di Walden, gli animali, gli alberi, ogni forma naturale divengono il simbolo di un percorso interiore che l’uomo deve compiere per risorgere a nuova Vita, per scoprire il selvaggio e rinascere a Primavera
Ancora una volta, il trascendentalismo coniuga l’ideale con la vita concreta in cui la Natura rappresenta la via privilegiata per l’esperienza della bellezza primigenia. Gli effetti maggiori della sua contemplazione della natura si palesano nella percezione del tempo, che sembra rallentare o addirittura fermarsi. Egli vive dunque nel “fiore del momento presente”, in comunione con la natura.
Elogio poetico alla semplicità
di Bruno Segre
«…diversamente che nel Settecento, il fascino del primitivo non è nell’Ottocento americano soltanto un atteggiamento letterario: è un motivo largamente presente nella coscienza degli uomini comuni. Nelle Foreste del nuovo mondo l’uomo della frontiera, che calza stivale e veste panni di daino, con un coltello di caccia sempre alla cintura, apprende a vivere delle proprie risorse e del proprio coraggio animale, come gli indiani suoi vicini. […] uomini disposti a vivere secondo Natura, cioè ad accettare la terra e l’insieme della vita organica che alla terra si collega, e desiderosi di farsi amico il paesaggio naturale prima che le istituzioni intervengano a impossessarsene e a deformarlo.»
«Walden non si presta a facili definizioni. Si tratta di un testo a metà tra il saggio e il resoconto, che lo scrittore comincia a comporre durante il suo solitario soggiorno. […] L’esperienza di Walden nasce dalla ferma decisione dell’autore d’essere padrone del proprio tempo. Riducendo al minimo le spese, per essere libero di dedicarsi ai suoi libri, allo studio della natura. […] suo credo esistenziale Semplifica. È la proposta di una liberazione della mente, destinata ad avvenire mediante il ritorno a un’esperienza genuina, il cui risultato può avere una portata rivoluzionaria. Può infatti trasformare il nostro modo di affrontare la vita. Con una ragione più libera e più lucida, può aiutarci a riconoscere l’irrazionalità dei nostri impegni quotidiani, dei nostri interessi, dei nostri falsi bisogni, delle leggi che governano la società.
Ancora oggi questa connessione tra dimensione letteraria e scientifico saggistica è forte. Ma mentre all’inizio erano gli scienziati ad avere una cultura letteraria rilevante, oggi è il contrario. Molti scrittori infatti sono storici o giornalisti abituati a far emergere una componente non esclusivamente argomentativa.
3 Riflessione filosofico/meditativa/sociale/giuridica sulla natura e sull’effetto che provoca nell’uomo.
Il Trascendentalismo è una corrente di pensiero e, al contempo, un vero e proprio movimento collettivo nato nella regione del New England intorno ai primi decenni dell’Ottocento.
Ralph Waldo Emerson, nel suo saggio The Trascendentalist, spiega la connessione ideale alla filosofia kantiana, da cui prende il nome, trovando quindi il sincretismo fra trascendentale e immanente riferito alla effettiva realtà delle cose. La spinta iniziale è rintracciabile nel rifiuto del dogmatismo filosofico o religioso, prettamente europeo e nella reazione ideologica nei confronti del razionalismo. La situazione storica è complessa, ma capace di elaborare quell’immaginario controverso che finirà per far parte della cultura americana: il rapporto con la natura, la frontiera, il selvaggio, l’individualismo, la spiritualità, il confronto con i nativi americani, il progresso della civiltà e della tecnologia.
Emerson, filosofo e scrittore statunitense, pone al centro l’individuo che si avvicina alla natura, in una dimensione anti-sociale. «La filosofia di Emerson non si presta a una classificazione formale, poiché egli non aveva un codice, un sistema, un credo […] Ci sono critici che stano ancora tentando di etichettarlo come monista, dualista, panteista, trascendentalista, platonico, neoplatonico, ottimista cronico; ma egli stesso avrebbe rifiutato di essere etichettato o incasellato». P. W. Brown, Emerson’s Philosophy of Aesthetics, in ‘The Journal of Aesthetics and Art Criticism’, vol. 15, n. 3, 1957.
Nel suo saggio più influente Nature,essa, la Natura appunto, si presenta come l’elemento da rispettare e da proteggere con cui l’uomo, artefice delle sue azioni e come essere dipendente da sensazioni ed emozioni in corrispondenza con i ritmi della natura, instaura un rapporto di comprensione e condivisione. Le posizioni filosofiche di Emerson vengono recepite da Thoreau che, come precedentemente sostenuto, dedica la maggior parte dei suoi lavori al rapporto uomo natura, alla convivenza possibile tra forme naturali e solitudine umana. E se Walden: ovvero la vita nei boschi è il suo libro manifesto, un altro testo però può essere considerato archetipo dell’ambientalismo moderno: Camminare. Pur non essendo, almeno secondo la critica più autorevole, un ecologista, Thoureau intuì prima di altri il rischi della tecnologia e della distruzione ambientale.
Vorrei spendere una parola in favore della natura, dell’assoluta libertà e della selvatichezza che vengono opposte a una libertà e a una cultura meramente civili. Considero infatti l’uomo più come abitante, come parte integrante della natura che come membro della società.
Pensato come una sorta di pamphlet, Camminare racconta la meditazione in movimento, la fusione spirituale tra ambiente naturale e animo umano in un cammino diretto all’autoconsapevolezza. La bellezza esterna, selvaggia, è fondamentale per la propria crescita e, andrebbe perciò tutelata. Thoreau ci spiega come diventare camminatori non è semplice, perché si deve essere disposti a partire per un viaggio interiore, dove anche una brevissima distanza diventa un cammino decisivo per chi lo intraprende con consapevolezza.
Nel corso della mia vita ho incontrato non più di una o due persone che comprendessero l’arte del Camminare, ossia di fare passeggiate, che avessero il genio, per così dire, del vagabondare, termine splendidamente tratto da “genti oziose che nel Medioevo percorrevano il paese chiedendo l’elemosina con il pretesto di recarsi à la Sainte Terre”, sin quando i bambini cominciarono a gridare: “Ecco là un Sainte Terre!”, un Vagabondo, un Terra Santa. …Perché ogni vagabondaggio è una sorta di crociata, predicata dal San Pietro l’Eremita che è in noi, per indurci a uscire e riconquistare la Terra Santa dalle mani degli infedeli.
I temi trattati da questi autori giungono, in un modo o nell’altro, anche a noi. Essi assumono connotati differenti, attualizzati, ma riportano nel loro fulcro una matrice comune. Pensiamo all’ecologia sociale, all’etica ambientale, alla filosofia della scienza o all’ecocriticismo, solo per fare alcuni esempi. L’importanza e la pervasività delle questioni ambientali, soprattutto oggi, contribuiscono a fare dell’ecologia il contesto di una grande narrazione collettiva, il cui ruolo centrale è giocato proprio dalla letteratura.
L’Ecocriticism è lo studio della relazione tra la letteratura e l’ambiente fisico. Proprio come la critica femminista esamina il linguaggio e la letteratura da una prospettiva di genere, e la critica marxista porta la consapevolezza dei sistemi di produzione e della classe economica nel suo modo di leggere i testi, così l’Ecocriticism ha un approccio agli studi letterari incentrato sulla Terra. […] Gli ecocritici e i teorici fanno domande come le seguenti: Com’è la natura rappresentata in questo sonetto? Quale ruolo ricopre lo scenario naturale nella trama di questo racconto? I valori espressi in questo dramma sono in accordo con il sapere ecologico? (C. Glotfelty- H. Fromm, The Ecocriticism Reader: Landmarks in ‘Literary Ecology, Athens’ The University of Georgia Press, 1996.)
Arte: Rilke e il paesaggio.
di Flavia Sorato
Rilke è poeta e scrittore di profonda ricettività, una raffinatissima capacità di analisi lo contraddistingue come una delle massime figure liriche, rappresentative del Novecento, sempre volto alla ricerca ed alla riflessione, nella dolorosa consapevolezza data dall’incomprensibilità degli elementi della vita, che però coabita e si accompagna all’intensa spinta interiore volta alla comprensione del tutto: un’intelligenza, la sua, che riporta ad unione il particolare e l’universale, ciò che è racchiuso nell’animo ed il mondo fuori.
Nella raccolta Del paesaggio ed altri scritti (Adelphi), sono stati riuniti più testi: la narrazione è data da esperienze, sogni, luoghi, idee sull’arte, ma protagonista è di certo l’elemento naturale ed il racconto dello spazio. Così sono rinvenibili importanti meditazioni in lettere, memorie, impressioni di viaggio: molte di queste considerazioni restituiscono un suo modo di vedere e vivere sì lo spazio interiore, ma anche quello esteriore, il paesaggio.
«Poteva essere trascorso poco più di un anno da quando nel giardino del castello, che lungo un pendio abbastanza ripido scendeva fino al mare, gli era accaduto un fatto meraviglioso. Camminava avanti e indietro, come era sua abitudine, con un libro, quando si trovò a poggiare le spalle contro la forcella di un arbusto; in tale posizione si sentì coì gradevolmente sostenuto e felicemente riposato che rimase immobile, senza leggere, immerso nella natura, in una contemplazione quasi inconsapevole.»
Centrale in questa composita narrazione, però, è lo scritto in cui viene trattato il tema della pittura di paesaggio e della storia della sua rappresentazione. Difficile è tradurlo, comprenderlo, l’ambiente, elemento a noi esterno ma in cui allo stesso tempo si è immersi. Rilke dedica riflessioni all’arte di Théodore Rosseau e poi di Millet: i suoi contadini, che abitano le campagne, sono figure che occupano lo spazio pittorico come segni e valori paesistici, cosicché alla solitudine dell’uomo corrisponda la pianura, ed i suoi gesti al cielo. Ai sui romantici tedeschi, per poi ricordare la saggia consapevolezza espressa da Constable, che aveva ben compreso quanto la natura fosse la chiave per avviarsi alla scoperta del mondo, così vasto nella sua mutevolezza e diversità […] E indaga poi il gruppo di Worpswede, in Germania, che aspirava a riprendere il lavoro della scuola di Barbizon, fatto di tecnica en plein air e di vita condotta nella natura, alla ricerca di spazi non contaminati dalla società. Come la storia e l’anima di un luogo siano narrabili attraverso gli elementi naturali che lo compongono ed attorniano, è un qualcosa su cui lo scrittore ci illumina in poche righe, raccontando potentemente aspetto e spirito del paese suddetto: «Worpswede è strano, strade e corsi d’acqua si perdono nelle profondità dell’orizzonte. Là comincia un cielo di una mutevolezza e grandezza indescrivibili. Si rispecchia su ogni foglia: tutte le cose sembrano occuparsi di esso, che è dappertutto. E dappertutto è il mare. Non più quello che secoli fa qui salì e si ritirò, quando la groppa sabbiosa su cui è posta Worpswede non era che una duna in mezzo alle altre. Le cose non lo sanno dimenticare. Il grande fragore che colma gli antichi pini del colle sembra sia il suo, e il vento, il vasto, possente vento reca il suo aroma. Il mare è la storia di questo paese, che non ha quasi altro passato».
Poesia: Pasolini e la forma della natura
di Stefania Parigi
La letteratura e il cinema di Pasolini sono attraversati dall’esaltazione mitica delle forme naturali, degli elementi primari della vita: aria, terra, acqua. La natura appare come una sorta di mistero religioso e carnale. Nei versi friulani il corpo del poeta e dei suoi personaggi è immerso in un paesaggio fatto principalmente di cielo e di terra, di acque fluviali e piovane, di odore dell’erba, di luce che piove dal cielo, di aria che avvolge, di sole che illumina e arde, di colori e di fiori. È una sorta di Eden primitivo in cui la vita e la morte sono strettamente legate e ripetono il ciclo delle stagioni, il ritmo delle albe e dei tramonti. La natura è vista come una forma del mondo (La nuova gioventù, p. 182), che appartiene all’arcaico mondo contadino, caratterizzato da un eterno ritorno dell’identico, in cui i figli ripetono le sembianze dei padri e ciò che è morto rinasce costantemente, come il seme piantato nella terra. In questo universo, scrive Pasolini, il tempo non si muove (Ibidem), ovvero il tempo non è quello lineare della storia e del progresso, ma quello del ciclo naturale che si ripete all’infinito.
Il paesaggio friulano rappresenta una sorta di Paradiso che già reca in sé i segni della perdita: ciò che appartiene alla vita è contemporaneamente proiettato nella morte e scivola verso il nulla, verso il mistero delle origini e della fine. Proprio questo continuo senso del nulla stimola quello che Franco Fortini (F. Fortini, Attraverso Pasolini, p. 155) ha definito il più floreale manierismo funerario di Pasolini: il Friuli è rappresentato come un giardino pieno di odori e di colori; il colore predominante è l’azzurro del cielo; il fiore prediletto la viola e il mese l’aprile, a cui è legata anche una delle sue poesie più belle, scritta molti anni dopo il periodo friulano e intitolata Il glicine (aprile 1960, compresa nella raccolta La religione del mio tempo). Pasolini affida a questo ‘rampicante’ il compito di rappresentare la forza e insieme la caducità della natura, la sensualità dell’esistenza, l’immersione del corpo nella natura e la frattura con il mondo della storia:
Tra il corpo e la storia c’è questa / musicalità che stona, / stupenda, in cui ciò ch’è finito / e ciò che comincia è uguale, e resta / tale nei secoli: dato dell’esistenza.
L’aprile è una figura del ritorno, della nascita connessa alla morte, che rimanda al culto dell’alba e della primavera. Straordinarie appaiono a mio giudizio le sintonie tra Il glicine e i primi famosissimi versi della Terra desolata (The Waste Land, 1922) di Thomas S. Eliot:
April is the cruellest month, breeding /Lilacs out of the dead land, mixing /Memory and desire, stirring /Dull roots with spring rain.
Il mito di aprile evoca una sensualità funerea della natura, in cui il pieno è legato al vuoto, la luce all’ombra. In La religione del mio tempo (1957-59) Pasolini scrive:
Non c’è più niente / oltre la natura – in cui del resto è effuso / solo il fascino della morte – niente / di questo mondo umano che io ami. (P.P. Pasolini, Tutte le poesie, tomo I, p. 985).
Conclusione
Per concludere vorremo riportare la poesia di Lord Byron L’incanto dei boschi senza sentiero, come una sorta di augurio e di manifesto per la nostra libertà.
Vi è un incanto nei boschi senza sentiero. Vi è un’estasi sulla spiaggia solitaria. Vi è un asilo dove nessun importuno penetra in riva alle acque del mare profondo
e vi è un’armonia nel frangersi delle onde. Non amo meno gli uomini, ma più la natura e in questi miei colloqui con lei io mi libero da tutto quello che sono e da quello che ero prima, per confondermi con l’universo, e sento ciò che non so esprimere e che pure non so del tutto nascondere.
La letteratura e il cinema di Pasolini sono attraversati dall’esaltazione mitica delle forme naturali, degli elementi primari della vita: aria, terra, acqua. La natura appare come una sorta di mistero religioso e carnale.
Nei versi friulani il corpo del poeta e dei suoi personaggi è immerso in un paesaggio fatto principalmente di cielo e di terra, di acque fluviali e piovane, di odore dell’erba, di luce che piove dal cielo, di aria che avvolge, di sole che illumina e arde, di colori e di fiori. È una sorta di Eden primitivo in cui la vita e la morte sono strettamente legate e ripetono il ciclo delle stagioni, il ritmo delle albe e dei tramonti. La natura è vista come una forma del mondo (La nuova gioventù, p. 182), che appartiene all’arcaico mondo contadino, caratterizzato da un eterno ritorno dell’identico, in cui i figli ripetono le sembianze dei padri e ciò che è morto rinasce costantemente, come il seme piantato nella terra. In questo universo, scrive Pasolini, il tempo non si muove (Ibidem), ovvero il tempo non è quello lineare della storia e del progresso, ma quello del ciclo naturale che si ripete all’infinito.
Il mito di Aprile
Ezio Vitale, P.P.Pasolini con il suo autoritratto col fiore in bocca del 1947, 1962.
Il paesaggio friulano rappresenta una sorta di Paradiso che già reca in sé i segni della perdita: ciò che appartiene alla vita è contemporaneamente proiettato nella morte e scivola verso il nulla, verso il mistero delle origini e della fine. Proprio questo continuo senso del nulla stimola quello che Franco Fortini (F. Fortini, Attraverso Pasolini, p. 155) ha definito il più floreale manierismo funerario di Pasolini: il Friuli è rappresentato come un giardino pieno di odori e di colori; il colore predominante è l’azzurro del cielo; il fiore prediletto la viola e il mese l’aprile, a cui è legata anche una delle sue poesie più belle, scritta molti anni dopo il periodo friulano e intitolata Il glicine (aprile 1960, compresa nella raccolta La religione del mio tempo). Pasolini affida a questo ‘rampicante’ il compito di rappresentare la forza e insieme la caducità della natura, la sensualità dell’esistenza, l’immersione del corpo nella natura e la frattura con il mondo della storia:
Tra il corpo e la storia c’è questa / musicalità che stona, / stupenda, in cui ciò ch’è finito / e ciò che comincia è uguale, e resta / tale nei secoli: dato dell’esistenza.
L’aprile è una figura del ritorno, della nascita connessa alla morte, che rimanda al culto dell’alba e della primavera. Straordinarie appaiono a mio giudizio le sintonie tra Il glicine e i primi famosissimi versi della Terra desolata (The Waste Land, 1922) di Thomas S. Eliot:
April is the cruellest month, breeding /Lilacs out of the dead land, mixing /Memory and desire, stirring /Dull roots with spring rain.
Il mito di aprile evoca una sensualità funerea della natura, in cui il pieno è legato al vuoto, la luce all’ombra. In La religione del mio tempo (1957-59) Pasolini scrive:
Non c’è più niente / oltre la natura – in cui del resto è effuso / solo il fascino della morte – niente / di questo mondo umano che io ami.
(P.P. Pasolini, Tutte le poesie, tomo I, p. 985).
In Edipo re (1967), a conclusione di un percorso che riproduce quello autobiografico di Pasolini, il protagonista, interpretato da Franco Citti, esclama: «La vita finisce dove comincia».
La natura friulana viene rappresentata come la scena originaria della vita che coincide con quella della morte. Esemplari in questo senso appaiono le prime e le ultime sequenze. Nel prologo il mondo è una sorta di emanazione del corpo della madre e consiste nell’unione primordiale di terra e di cielo esplorati dallo sguardo di Edipo bambino che compone una sorta di cantico del creato innalzandosi dal prato all’azzurro del cielo incorniciato dai pioppi e poi ridiscendendo dal cielo al verde dell’erba. Nell’epilogo, dove Edipo è ormai vecchio e accecato, si ripetono gli stessi movimenti degli occhi sulla medesima immobilità cangiante della natura. In Medea (1970) l’immagine sacrale, che simbolicamente accompagna il personaggio della protagonista interpretata da Maria Callas, è quella della terra infuocata dal sole che vediamo nei titoli di testa, nell’inquadratura finale e quando la tragica eroina rievoca la sua origine.
Natura e Storia
Il mito pasoliniano della natura contrapposta alla storia viene affidato alle parole del centauro Chirone il quale afferma che la natura è un’apparizione, che la scena naturale è abitata da un Dio, che la natura non è naturale ma è una visione, un’esperienza religiosa. La storia, il cammino del cosiddetto progresso, allontana l’uomo dalle sue origini, ma non può distruggerle del tutto. L’impronta sacra del mondo si conserva anche nelle forme sconsacrate della storia e della modernità e la natura può ancora configurarsi sia come il luogo dell’autenticità e della pienezza vitale sia, contemporaneamente, come il luogo del dolore e del mistero dell’esistenza.
Nell’incontro con la storia il giardino friulano delle prime poesie salta in aria senza mai scomparire del tutto. I romanzi e i film sulle borgate romane mostrano un paesaggio di rovine: le baracche, le case diroccate, i resti antichi del passato, i cumuli d’immondizia, gli stracci, il fango, la terra smossa e desertificata. Su questo spazio sconnesso di rifiuti, il sole e gli elementi naturali continuano a imprimere un timbro atemporale e astorico, simile a quello che ancora vibra nei corpi barbarici dei sottoproletari mitizzati da Pasolini. Nella scarpata ricoperta di spazzatura di Che cosa sono le nuvole? (1968) Totò, davanti alla visione del cielo, inneggia alla «straziante meravigliosa bellezza del creato». E non a caso alcuni brevi film come appunto Che cosa sono le nuvole? o La terra vista dalla luna (1967) recano fin dai titoli il richiamo agli elementi del cosmo. I meravigliosi titoli di testa cantati da Domenico Modugno in Uccellacci e uccellini (1966) hanno come sfondo una luna di giorno su cui si muove una nuvolaglia.
Le immagini astrali connotano tutta l’opera pasoliniana fino al progetto non realizzato di Porno-Teo-Kolossal in cui i personaggi inseguono, come i re magi, una cometa. In Poema per un verso di Shakespeare (compreso nella raccolta Poesia in forma di rosa, 1964) il poeta è rapito in cielo e dall’alto osserva la terra come uno spazio di scintillanti frantumi, di casuali rifiuti (Ivi, p. 1165).
Tra terra e cielo
Una delle forme simboliche che la scena naturale assume di frequente nei suoi film è quella della nudità, dell’unione di cielo e di terra senza più alcun ornamento, floreale o di altro tipo. Nel passaggio dai prati friulani, dal paesaggio acquoso e aereo del Nord alle borgate romane e poi agli aridi spazi africani e arabi dei film sul mito greco, lo spazio tende sempre più a desertificarsi, a ridursi alle sue entità primarie di cielo e di terra.
Una sorta di immagine desertica è già la visione che Accattone ha della propria morte, quando nel sogno chiede al becchino di scavargli la fossa al sole. Attraverso due panoramiche simmetriche, dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto, lo sguardo si apre su monti e vallate inondate di luce che – commenta Pasolini – sembrano dipinte da Corot e sono chiamate a evocare il paradiso della natura (Il paradiso di Accattone, «Vie Nuove», 1° luglio 1961).
Totò e Ninetto Davoli in Uccellacci e uccellini camminano dentro immagini del tutto spoglie, divise a metà tra cielo e terra, in un paesaggio stilizzato che Pasolini definisce ormai appartenente a una sorta di “dopostoria”, totalmente disarticolato e sconnesso. In questo spazio la modernità ha seminato le sue icone distruttive, il passato e il presente si contaminano in forme stridenti e il deserto diventa una figura dell’apocalisse causata da una industrializzazione selvaggia. Nell’episodio medievale di Uccellacci e uccellini, al contrario, l’essere umano è sprofondato nel paesaggio composto dalla natura e da antiche, sacre costruzioni del passato. Totò che parla francescanamente con gli uccelli appare addirittura come una figura arborea, totalmente fuso nel mondo vegetale e animale. In Teorema (1968) il personaggio della serva, legato all’antica cultura contadina, vive analogamente tra la terra e il cielo. Può innalzarsi in cielo come una santa o sprofondare nella terra come il seme che muore per risuscitare.
Nel film sul Vangelo (1964) e poi in quelli sul mito della tragedia classica (Edipo re, Medea, ma anche Porcile, 1969) il deserto si configura come un luogo della narrazione, in cui si radicano gli eventi e, insieme, come una sorta di spazio originario della vita.
Paradiso e deserto
Vittorio La Verde, P.P. Pasolininel giardino della casa di Monteverde Vecchio, Roma 23 Maggio 1962
Teorema (libro e film) offre la più conseguente teorizzazione e rappresentazione del deserto come spazio materiale e simbolico: investito da una trasfigurazione biblica, rimanda alla dimensione originaria dell’essere ormai smarrita nel mondo moderno, dominato dai consumi della società di massa. Le immagini desertiche qui solcano il film senza una motivazione narrativa, per indicare un’origine rimossa e una violenta contestazione del presente, dell’omologazione sociale contemporanea.
In Teorema (libro) si trova un approfondimento filosofico di questa icona. Il deserto è «la realtà di tutto spogliata fuori che della sua essenza». Non c’è niente «oltre a ciò che è necessario» (P.P. Pasolini, Romanzi e racconti, volume secondo 1962-1975, p. 1053): la terra, il cielo e, come avviene nel finale del film, il corpo nudo. È il luogo da cui si proviene e a cui si ritorna, che precede addirittura il prato friulano della nascita rappresentato in Edipo re. Pasolini elabora la teoria dei due Paradisi, entrambi perduti: il primo è rappresentato, appunto, dal deserto che è il luogo di una prima nascita, nel grembo di un padre androgino (donna e uomo insieme come nel mito raccontato da Aristofane nel Simposio di Platone); il secondo ha il colore verde del prato friulano, lo stesso odore delle primavere e delle primule, gli stessi fiumi. Rappresenta una seconda nascita, nel grembo di una madre e poi di un padre che Pasolini definisce adottivi. Il primo paradiso è il regno della comunione dei sensi, di una unicità primigenia governata dall’ambivalenza. Nel deserto non c’è inizio, fine, limite, distinzione o sviluppo. Esso, scrive Pasolini, «nasceva da se stesso, continuava in se stesso e finiva in se stesso» (Ivi, p. 961). Al di là del deserto non c’è altro che deserto: qui si sperimenta un tempo che non procede, che non si muove, uno spazio che non cambia pur mutando incessantemente. Il deserto è l’idea del tutto che coincide con il nulla, dell’origine che si unisce alla fine. La sua immobilità mutevole (per usare uno dei tipici ossimori pasoliniani) è suggerita nelle inquadrature di Teorema dal vento che alza la polvere e dalle nubi che si riflettono sulla terra. Nei versi che concludono Teorema (libro) Pasolini lo definisce un «luogo immaginato dalla mia povera cultura» (Ivi, p. 1055) dove risuonano domande senza risposta.
Il deserto è vibrante e misterioso come la vita, sta prima e dopo la storia. È il regno di una natura impenetrabile, che dà insieme la vita e la morte. È qualcosa di simile a ciò che Pasolini ha definito in alcuni suoi versi Inespresso Esistente o nulla lucente (Ivi, p. 1055).
Ebbro di erba e tenebre
Attraverso la rappresentazione della natura – di cui ho ricordato soltanto qualche squarcio all’interno della sua opera – Pasolini esprime così la sua filosofia dell’esistenza e, insieme, la sua concezione dell’arte: da una parte esalta il mito di una vita anteriore alla storia, inafferrabile nel suo mistero, in cui si realizza una sorta di indifferenziazione tra uomo e natura e i rituali fisici si presentano come rituali conoscitivi; dall’altra fonda il processo artistico e in specie quello dell’immagine cinematografica sul desiderio di ritrovare la scena naturale, di immergersi nella sensualità degli elementi, direi quasi di liquefarsi in quella che Maurice Merleau-Ponty ha definito la «carne del mondo». Dagli anni sessanta in poi Pasolini attribuisce al cinema la capacità di essere un linguaggio della presenza, che rende possibile una immersione fisica nella realtà. La letteratura, invece, gli appare come un’arte dell’assenza. Mentre la parola si limita a evocare la vita quando questa è ormai passata, l’immagine sembra mantenere il contatto con il mondo e con il suo fluire.
La passione che aveva assunto la forma di un grande amore per la letteratura e per la vita – dichiara nel ’69 – si era spogliata dell’amore per la letteratura diventando ciò che era davvero, ossia una passione per la vita, per la realtà, per la realtà fisica, sensuale, oggettuale, esistenziale attorno a me. Questo è il mio primo, unico grande amore e in un certo qual modo il cinema mi ha costretto a rivolgermi ad esso e a esprimerlo in forma esclusiva.
(O. Stack, Pasolini on Pasolini, Thames & Hudson, London-New York 1969; pubblicato in traduzione italiana con il titolo Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, Guanda, Parma 1992; poi in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, p. 1302).
All’isolamento del tavolino dello scrittore, il cinema contrappone l’ebbrezza sensuale del set, che assume quasi i caratteri di una droga, come afferma Pasolini in un’altra intervista del 1969 (Pietro Bianchi, Con il cinema non ho respiro e… l’ulcera è roba passata, «Il Giorno», 1° aprile 1969). Il rapporto fisico che lo lega al cinema è lo stesso che impronta la sua immersione nella realtà, nella natura, nei corpi. Già nel 1960, ricostruendo in poche righe la sua autobiografia, scrive:
Amo la vita così ferocemente, così disperatamente, che non me ne può venir bene: dico i dati fisici della vita, il sole, l’erba, la giovinezza: è un vizio molto più tremendo della cocaina, non mi costa nulla e ce n’è un’abbondanza sconfinata, senza limiti: e io divoro, divoro… come andrà a finire non lo so… (E. F. Acrocca, a cura di, Ritratti su misura, 1960, p. 321).
Concludendo la sua pièce teatrale Bestia da stile (1966-1974) offre il suo ennesimo autoritratto definendosi ebbro di erba e di tenebre, perennemente sospeso su quel ciglio dove la vita e la morte si incontrano nella tragica beatitudine che unisce l’esistenza e la creazione estetica.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:
ELIO FILIPPO ACROCCA (a cura di), Ritratti su misura, Sodalizio del Libro, Venezia 1960.
PIETRO BIANCHI, Con il cinema non ho respiro e… l’ulcera è roba passata, «Il Giorno», 1/04/1969.
FRANCO FORTINI Franco Fortini, Attraverso Pasolini, Einaudi, Torino 1993.
PIER PAOLO PASOLINI La nuova gioventù, Einaudi, Torino 1975.
Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2003.
Romanzi e racconti, volume secondo 1962-1975, Mondadori, Milano 1998.
Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999.
Poesia in forma di rosa, Garzanti, Milano1964.
OSVALD STACK Pasolini on Pasolini, Thames & Hudson, London-New York 1969
FIORI VIVI ringrazia
STEFANIA PARIGI, scrittrice, studiosa e profonda conoscitrice di cinema, prevalentemente italiano. Attualmente Professoressa ordinaria di cinema presso l’Università di Roma Tre, si è occupata di Moravia, Pasolini, Ferreri, Maselli, Zavattini, Rossellini e altri, curando e scrivendo testi di notevole rilievo. Tra i suoi ultimi lavori si segnalano: Cinema-Italy (Manchester University Press, 2009); Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra (Marsilio, 2014); la nuova edizione di Pier Paolo Pasolini. Accattone ( Lindau 2021)
La libreria Le Storie e in particolare Stefania Stefanini