Biagio Schembari e il viaggio nel mito

di Gilda Diotallevi

L’incontro

A Ibla, l’antico centro storico e oggi il quartiere più antico di Ragusa, questa mattina di agosto sta per piovere, e tutto si è tinto di uno strano grigio. Sarà per questo che l’entrata nel Teatro Donnafugata di Ragusa, in cui si tiene dopo tre anni di assenza la mostra del maestro Biagio Schembari, è ancora più sorprendente.

In netto contrasto con l’atmosfera esterna, un’esplosione di luce inonda l’atrio. Sembra di essere entrati in una fornace, dove alcuni quadri presenti emanano calore e ipnotizzano.

Ad accoglierci ci sono il maestro Schembari e la sua splendida moglie Margherita, che da anni lo segue e lo sostiene.

Sembra un sogno poter parlare direttamente con il Maestro, perché un vero artista lo si riconosce subito per un motivo. Evoca autenticità. E Schembari non fa che dimostrarlo, attraverso il suo lavoro, la sua poetica, la sua idea di pittura e di arte.

Ci racconta della Accademia delle Belle Arti a Firenze che ha frequentato durante i moti del Sessantotto e della vivacità culturale di Roma negli anni Settanta, quando a parlare non era la teoria ma l’arte stessa.

Come un vero anfitrione ci conduce nelle sale interne del Teatro in cui sono sistemati i suoi quadri. Una serie di dipinti con il suo stile inconfondibile. Simili eppure tutti completamente differenti.

La mostra

La mostra è allestita in un luogo insolito ma che ben si adatta alle opere di Schembari, tutte di forte impatto scenico. Nel Teatro Donnafugata, costruito nella prima metà dell’Ottocento e che prende il nome da uno dei più significativi palazzi di Ragusa, alcune sale ben illuminate accolgono la mostra e permettono di ammirare le opere che, quest’anno, hanno tutte dimensioni notevoli.

È il Maestro stesso ad accompagnarci in questo viaggio, svelando pian piano le opere che compongono la sua personale di pittura.

Passiamo così, attraverso dei tendaggi simili a sipari, da una sala all’altra, ammirando figure femminili e maschili giganti, la cui origine affonda nel mito, e che a tratti si confondono con le stesse architetture dipinte. Non è un caso che il Maestro abbia studiato come scenografo, perché lo spazio della tela diventa per lui una quinta di un teatro, in cui la luce e il buio, la staticità e il movimento prospettico parlano una lingua misteriosa ma al contempo universale.

Le sale si illuminano al nostro passaggio, permettendoci di osservare una tela dopo l’altra, come fossimo trasportati fuori dal tempo. Eppure qualcosa di incredibile succede proprio nel momento in cui le luci si spengono. Se ci si sofferma a osservare il quadro in penombra accade una magia. Dal centro del dipinto sembra accendersi una luce, qualcosa capace di autoilluminare la storia che ogni dipinto cela.

«Alla fine ad impressionare davvero non sono le forme, ma i colori»,

ci confessa il Maestro Schembari, la cui tecnica pittorica innovativa, affinata negli anni, conferisce la qualità centrale del lavoro. Sarà per quella lucentezza dovuta alla cera che l’artista passa sulla tela, dopo aver dipinto il legno con l’acrilico, o sarà la capacità di ricreare giochi di ombre e luce, ma qualcosa si accende e brilla dal centro esatto del dipinto. 

Aldo Cottonaro scrive a riguardo che «… in questa pittura spesso la luce giunge di traverso come una luce di tramonto, […]. Sulle immagini domina il silenzio, ma la pittura con un originale trattamento tecnico del colore crea volumi che contraddicono la propria staticità».

Grazie a questa emanazione di gialli, rosa, bianchi, che crea un colore unico e personalissimo, una mistura che sembra provenire dal manierismo, una porosità materica che dona profondità, le immagini riescono a suggestionare e a raccontare una storia.

«Ogni quadro deve contenere gli elementi essenziali di un momento storico, del tema centrale del quadro»,

ci dice Schembari. Partendo da alcuni segni infatti, come ad esempio scudi, tori, carri, si disvela un mondo fatto di giganti, di uomini e donne simbolo, di angeli e di animali. Come in una rappresentazione teatrale, vengono raffigurati miti ed eroi, in un connubio unico di classicismo e surrealismo.

Nell’immaginazione poetica di Schembari, che si traduce nella produzione di composizioni plastiche, tutto viaggia su un doppio binario, congiungendo e sovrapponendo il mito, la cui origine è ben piantata nelle radici della civiltà, al mondo contemporaneo; come dire che la dimensione arcaica, ancestrale e originaria sia in qualche modo correlata a quella del tessuto attuale.

Siano tutti figli di una storia che con un sottile filo ci tiene ancorati all’origine, al passato, ma che al contempo ci spinge in avanti, verso uno sfondamento, una rivoluzione che solo l’arte è in grado di decodificare e suggerire. Quando infatti chiediamo al Maestro cosa significhi per lui l’arte, non ha dubbi.

«L’arte, nel mio caso la pittura, deve rompere con gli schemi»,

ci risponde.

«Voglio che l’arte parli, che crei una rottura».

Ed è ciò che accade, perché basta osservare i suoi lavori perché qualcosa dentro di noi avvenga.

Le parole del Maestro

Vogliamo sapere di più da Schembari, il cui modo di parlare e raccontarsi disvela una poetica personale e ragionata.

La mia pittura ritorna ancora più impetuosa, incisiva, è ancora più forte la sperimentazione, la ricerca di nuove soluzioni.

Il mito, l’arte classica, impregnano le tele ed è un continuo riaffiorare di vecchie statue, giganti che un tempo erano idoli, adesso semplici reperti archeologici dei miei continui scavi, che compongo come vedute panoramiche di paesaggi e luoghi arcaici, dove un tempo l’uomo trovava riparo.

Antichi eroi, guerrieri e dei immortali, matriarche, simboli di guerre, cavalli immensi, tutto passa attraverso l’immaginazione, la sintesi della volontà, del bisogno instancabile di aprire uno squarcio (nell’arte) e creare una via nuova.

Il risultato è la forza scabra che emana la pittura e rende il mito protagonista del nostro tempo.

La matrice metafisica e surreale si fonde con la concezione etnica che è nel mio bagaglio culturale di autore. Si ha l’impressione di rivivere il momento eroico in cui il Kuros si muove dopo secoli di rigidità; il pennello, i colori gli danno vita, le cave di pietra di Cosimo diventano fonte inesauribile della materia di cui sono costituiti questi giganti.

Di figura in prosa

Scopriamo inoltre che il Maestro ha scritto dei libri, in linea con la sua idea di arte e di vita. Strade di pietra (Lampi di stampa, 2010) e Il giardino delle mele marce (Il Filo, Roma 2008), in cui prosa, versi e documenti di vita reale si alternano in una narrazione che parla di dolore e amore. Il testo è anche un atto di denuncia, ma al contempo una dichiarazione d’amore, per la Sicilia, sua terra madre, capace di riportare l’autore sempre a sé.

Dietro a te lasci un fiore e una carezza,

seguendo il tempo che ti accompagna. (p. 98)

Per concludere questo breve ritratto di artista, riportiamo un estratto di un brano che il Maestro stesso ha scritto, un augurio che fa a se stesso e, in fondo, anche a noi.

Che augurio mi posso fare, adesso che riesco a malapena a ridere del tempo che passa e del sole che tramonta sui ricordi del mio passato incensurato? Mi auguro che le mie urla, i miei colori, le mie forme, non disturbino la povera gente; mi farò coraggio per affrontare i pareri negativi, le ansie mattutine, le mie lettere che tornano indietro.

Ho perso anche le chiavi dell’ultimo cassetto, dell’ultimo mio sogno, sotto una montagna di tante altre cose.

Mi auguro di poter stare zitto e dipingere il mondo a modo mio, di poter leggere in silenzio e sbandare con le frasi, da sembrare ubriaco di solitudine, un albero senza ombra. (7/03/2015)

Fiori Vivi ringrazia

Il Maestro Biagio Schembari e sua moglie Margherita

http://www.biagioschembari.it/

Gilda Yoko Diotallevi

Andrea Loiaconi, Gianluca Mulè, Caterina Zizzi

Intervista ad Alfredo Catalfo: un attivista della cultura

di Gilda Diotallevi

Alfredo Catalfo possiede la casa editrice [https://www.edizioniefesto.it/], ma non solo. Editore, studioso, attivista della cultura, si definisce principalmente un libraio. Da anni infatti la sua casa editrice è supportata dall’omonima libreria, situata in un crocevia di facoltà, che illumina il cammino degli studenti universitari.

Alfredo Catalfo porta avanti una sua battaglia personale, decostruire la netta separazione tra scienziati e umanisti, pubblicare testi altamente specialistici, senza rinunciare ad accostarli a collane di classici latini e greci. Nel suo pensiero infatti la filosofia, la storia, la poesia ben si allineano con interessi matematici, scientifici e ingegneristici.

Partirei da alcune date che in un certo senso segnano i momenti salienti della tua storia lavorativa. Nel 2004 hai iniziato a far parte del mondo dei libri, dell’editoria. Ma è nel 2011 che decidi di percorrere la tua strada e di fare scelte complesse e rischiose. Apri infatti la libreria Efesto, mentre nel 2012 registri il marchio della casa editrice Edizioni Efesto. Non deve essere facile dedicarsi in prima persona a due attività.

AC «Tutto è iniziato nel 2004, dal momento in cui mi è stato offerto di lavorare in una libreria universitaria. Io in quel momento stavo provando a fare dei concorsi, ero già stato nell’esercito come ufficiale, ma sarei voluto restare a Roma. Quella era una occasione per me, un po’ inaspettata, ma sicuramente nelle mie corde. Chi mi offrì quel ruolo sapeva mi sarebbe piaciuto lavorare con i libri. Ero già un grande lettore, molto attento anche agli aspetti meno visibili del mondo del libro. È stato l’inizio di tutto.

Nel 2011 ho invece deciso di aprire per conto mio, il mio ex datore era in fase di chiusura con la sua attività e non avrei potuto continuare in quel luogo. Era al centro di Roma, con degli affitti altissimi. Quindi aprii io una libreria universitaria, accademica, in continuità con la mia esperienza pregressa. Però con l’idea, che già avevo nel 2004, di sperimentare e scoprire anche il lato dell’editore.

Mentre quindi nel 2011 ho aperto una libreria conoscendo già discretamente bene quel lavoro che avevo svolto per più di sette anni, nel 2012 ho dato l’avvio alla casa editrice come una scommessa con me stesso. Avevo moltissime idee, ma non sapevo se poi nel concretizzarsi le cose sarebbero andate per il verso giusto. Con la libreria mi sentivo paradossalmente più sicuro, con la casa editrice dovevo procedere un po’anche per tentativi. Avevo ben chiara che tipo di casa editrice lanciare, ma non ne conoscevo in concreto le problematiche. O meglio sapevo molte cose in teoria, dal punto di vista del libraio, ma senza averle vissute in prima persona. Oggi sono quasi a 500 titoli.»

In parte lo hai accennato anche tu. Quando prima hai confessato di essere interessato anche ad altri aspetti, oltre quelli del semplice leggere i libri, molti hanno una visione riduttiva di questo lavoro…

A.C «Sapessi quante volte me lo sentito dire, “che bello fai il libraio, quindi leggi!” Sono due cose diverse. È chiaro che ci vuole un certo amore per la lettura, per la letteratura, per il libro in sé, ma il mestiere richiama anche molto altro.»

Walter Henry Bromley-Davenport definiva l’editore una persona che conosce precisamente quello che vuole, ma non è abbastanza sicuro. A parte la sua ironia, questa affermazione mi permette di chiederti come riesci a conciliare due aspetti del tuo lavoro, che sono in realtà abbastanza difficili da rendere omogenei. Da un lato il gusto, ma dall’altro il lato gestionale. Perché la casa editrice è una azienda. Ha delle dinamiche che non tolgono poesia, credo, al primo aspetto, ma fanno semplicemente parte della dimensione più pragmatica. Però esistono e vivono di regole non sempre conciliabili.

AC «Per quanto riguarda il gusto, devo ammettere che mi ha aiutato molto anche l’essere libraio. Mi ha dato l’opportunità di riflettere su quale fossero le assenze nel mondo editoriale, gli spazi vuoti nelle richieste delle persone che venivano in libreria universitaria. Mi resi conto fin dall’inizio che su molti argomenti tecnico-universitari non c’era scritto nulla. Capire quindi quali sarebbero stati i libri che poi avrei davvero venduto è stato, paradossalmente, più semplice dell’affrontare l’aspetto più propriamente aziendale. Soprattutto i primi due, tre anni sono stati impegnativi da un punto di vista gestionale. Come dare un prezzo di copertina, quante copie stampare, con che formato. Chiedevo consiglio ad amici editori, studiavo, ma è stata anche una fase importante perché mi ha permesso di imparare, a volte procedendo proprio per tentativi. Mentre invece il gusto si era formato sulla base dell’esperienza, dei miei interessi personali ma anche su quello dei clienti. Il libraio spesso si appassiona dei temi che più vengono richiesti in libreria.

Mi ero reso conto che c’era una grossa carenza di temi tecnico-scientifici a livello accademico. In pochissimi riescono a pubblicare un libro di matematica, di ingegneria, di fisica. Un po’perché i grandi editori si sono dedicati ad altro, un po’perché non sono proprio molti quelli che si appassionano agli argomenti tecnici. Conosco solo qualche altro editore in Italia, oltre me, che accetterebbe di pubblicare un libro sugli impianti elettrici. Nella maggior parte dei casi non è facile per chi si dedica a questi aspetti del sapere tecnico accedere alla pubblicazione, anche a dispetto della richiesta che invece esiste. Per cui mi faceva piacere aprire una strada, insistere su questi temi che mi sono sempre piaciuti, anche per curiosità personale. Da lì poi mi sono allargato agli altri argomenti che corrispondono proprio al mio di gusto, la storia dell’arte, la storia, la filosofia, l’archeologia. Questi sono sostanzialmente i temi della casa editrice, che contiene titoli per lo più di saggistica. E io, devo ammetterlo, che da lettore leggo proprio questi libri.»

Edizioni Efesto

Il nome deriva da Efesto(gr. Ηϕαιστος, lat. Hephaestus), Divinità greca del fuoco terrestre. Figlio di Zeus ed Era, fratello di Ares. Considerato il fabbro degli Dei, sempre raffigurato con l’incudine e il martello, la mitologia attribuisce a lui, che viveva nella fucina di un vulcano, le armature degli dei e degli eroi greci, tra cui le armi e lo scudo di Achille. Per i romani divenne poi la divinità Vulcano.

C’è quindi una corrispondenza tra la linea editoriale e il tuo gusto personale.

AC «Assolutamente sì. Anzi proprio questa corrispondenza mi ha permesso di affrontare con più facilità la professione editoriale. Ho fatto, in tal senso, l’editore di libri su argomenti che interessavano me anche in quanto lettore.»

Ti definiresti un editore indipendente? Cerco di spiegare cosa intendo, non indipendente dai capitali, ma nel senso che i criteri di scelta che assumi, sui lavori da pubblicare, rispondono a ragioni personali e non solamente di mercato.

AC «Certamente, sempre nel rispetto delle varie aree, dove ad esempio sono presenti i comitati scientifici e quindi devo pormi il problema di ciò che vado a inserire in una collana, soprattutto se accademica. Per il resto mi sento libero di decidere cosa pubblicare. Se mi piace l’argomento pubblico, altrimenti no. Ti confesso che a volte conta anche l’autore, se trovo affinità con lui o meno.»   

Ti sei mai trovato in una situazione in cui non ti sei sentito di pubblicare qualcosa per una ragione etica o di opportunità?

AC «Sì, ho detto parecchi no, anzi tantissimi. Non solo nel caso in cui mi hanno proposto qualcosa che non mi piaceva, ma anche quando, pur proponendomi cose belle, sapevo di non volermene occupare.  Mi viene in mente ad esempio la questione dei libri per bambini. Mi sono state proposte cose davvero belle a cui ho dovuto dire di no. Non volevo dedicarmi a quel settore, non volevo essere un editore per bambini, per ragazzi. Mi sono poi capitati episodi ancora più specifici, in cui a entrare in gioco erano ragioni personali. Una volta un docente di filosofia, con cui avevo già lavorato in passato, mi presenta questa raccolta di suoi articoli molti belli, ma che conteneva nell’ultima parte una giustificazione, anche un po’esagerata, sul mondo no vax. Sono stato sincero e gli ho detto che non avrei pubblicato il libro se non avesse ridotto quella parte e lui lo ha fatto. Non era neanche in linea con il resto degli scritti, era fuori contesto e davvero esagerato il tono usato. Assumendomi le mie responsabilità, sono riuscito a mantenermi libero e politico. Anche perché un senso di responsabilità deve esserci da entrambe le parti, da parte dell’editore e da quella dello scrittore, ci si deve in qualche modo venire incontro.

Con un altro autore di economia politica mi è capitato di cambiare una parola. Lui la usava sempre, ma aveva una accezione troppo forte e così l’ho cambiata con un sinonimo che aveva però una sfumatura semantica differente. Sono stato interventista. L’autore me lo ha fatto notare, ma non si è opposto al cambiamento.»

Come ti relazioni con gli autori? Che tipo di rapporto hai con loro?

AC «In assoluto direi che è più bello quello con i lettori in libreria! Scherzo, dal fatto che nessuno fin ora se ne sia andato, direi che è buono. Nel senso che nessuno ha deciso di cambiare casa editrice per via di una discussione con me. Chiaramente per ogni scrittore, a rischio di essere banale, un libro è un figlio. C’è un rapporto di affetto tra l’autore e il suo libro a volte un po’ esagerato. E il ruolo dell’editore è sempre quello di calmierare questo affetto esagerato.»  

Il mestiere dell’editore, dipendendo dal tempo e dall’impossibilità di essere identici a se stessi, è difficilmente definibile una volta per tutte. Tu pensi che sia solo una professione o pensi mantenga una dimensione politica, un impegno sociale.

AC «Penso davvero che essere editore, fare l’editore sia fare politica. Nel mio caso l’idea di aver voluto lanciare e sponsorizzare tantissimo l’editoria tecnica, la cultura tecnica, è stata una scelta politica. Soprattutto in un paese come l’Italia in cui pochi si iscrivono a ingegneria per via di idee pregresse sbagliate, come che sia troppo difficile od ostica. Io non ho fatto studi tecnici, sono laureato in Sociologia, però ridare slancio al settore tecnico scientifico è stato il mio primo obiettivo di natura politica. Questa, così come tutte le altre scelte editoriali che mi trovo a prendere, compresa l’ultima che ho fatto un anno e mezzo fa. Ovvero il far nascere una collana con delle piccole monografie su dei singoli politici della Prima Repubblica. Ho scelto di pubblicare questi libretti per avvicinare ad un vasto pubblico la conoscenza di alcuni politici del passato, che erano grandi professionisti. Questa è stata una mia idea e penso di fare politica anche così.»

C’è qualche testo o qualche autore che ha segnato in qualche modo la storia di questo tuo percorso editoriale?

AC «Ce ne sono tre o quattro che hanno fatto la svolta della casa editrice nel 2015, dopo due anni dall’apertura. Due sono di saggistica.

Antonio Ciaramella, che ha scritto due bellissimi libri di Storia del make up, uno nel 2015 e uno proprio quest’anno. (A. Ciaramella, Make up. 100 anni allo specchio 2015; Make up. Il codice teatrale 2021)

L’altro è Giorgio Franchetti che ha fatto con me all’inizio un libro sui gladiatori, poi a tavola con gli antichi romani, a tavola con gli etruschi da poco. (G. Franchetti, Panem et Circenses 2015; A tavola con gli antichi romani 2017; A tavola con gli Etruschi 2022)

Questi due autori, per me oggi amici e autori importanti, arrivarono in casa editrice entrambi lo stesso anno e, in qualche modo, la sconvolsero in modo positivo sia per la diffusione dei loro libri, talmente tanto da permettere di farmi conoscere come editore, sia per aver confermato in qualche modo la mia idea di essere principalmente un editore di saggistica. Senza ovviamente nulla togliere a tutti gli altri autori, docenti di ingegneria dall’inizio a cui si sono aggiunti archeologi, storici dell’arte e filosofi, che dal 2013 mi seguono e che poi a lungo termine con i loro libri continuano a plasmare l’identità della casa editrice. Io li definisco dei long seller. Ho pubblicato un libro sulle infrastrutture aeroportuali che è unico in Italia e che continua ad avere successo da molti anni, a cui si aggiungono quelli di ingegneria chimica. Quindi anche questo per me ha un gran valore. (P. Di Mascio, L. Domenichini, A. Ranzo, Infrastrutture Aeroportuali 2016)»

Ti sei trovato in una condizione in cui le due figure professionali che ricopri, quella da editore e quella da libraio, fossero confliggenti? Mi riferisco a situazioni in cui, invece di essere un vantaggio tutto ciò fosse un problema?

AC «Sì, più di una volta. In termini di gestione mi è successo spesso, proprio perché sono mestieri molto diversi da un punto di vista gestionale. Addirittura più diversi di quanto si possa credere. Solo chi si trova a svolgerli contemporaneamente può capire. I grossi editori infatti hanno due amministratori delegati, uno con un ruolo e uno che ne ricopre un altro. Noi piccoli ci dobbiamo arrangiare. A livello gestionale confliggono ogni giorno, la collisione è quotidiana. Mi è capitato anche a livello di scelta editoriale. A volte ho pubblicato da editore delle cose, sapendo da libraio che non le avrei vendute o che ne avrei vendute poche. Che mi sarei, in un certo senso, inflitto un danno economico. Però almeno posso dire di averlo fatto con una certa consapevolezza.»

Ti è capitato in libreria di preferire mettere in esposizione altre case editrici al posto della tua, proprio per via di qualche logica confliggente?

AC «Sì, su qualche libro sì. Ma, ovviamente non voglio fare nomi. Però posso dirti che sulla narrativa mi è capitato. Comunque tengo talmente distinte le due attività che in libreria, per scelta, non espongo i volumi della casa editrice in modo prioritario, stanno sugli scaffali in mezzo agli altri, per argomento.»

Per ciò che concerne il futuro. Mi ero prefissata di chiederti se nel tempo la tua idea iniziale di pubblicare alcune cose sarebbe cambiata, ma a rispondermi, in un certo senso, ci ha pensato lo stesso catalogo di Edizioni Efeso. Perché effettivamente dai primi testi di natura scientifica, quindi dall’iniziale obiettivo di pubblicare ricerche tecnico-scientifiche, pian piano il catalogo si è nel tempo arricchito di temi ulteriori, di indagini filosofiche, storiche, passando dalla saggistica alla narrativa.

Però c’è qualche altra cosa che ti piacerebbe pubblicare o un ramo della cultura, del sapere che non hai ancora trattato, ma a cui ti piacerebbe aprirti?

AC «Innanzitutto mi piacerebbe lavorare meglio come editore di narrativa, anche se non sono molto fiducioso che riuscirò in questo intento.»

Perché?

AC «Perché richiederebbe un impegno tale da distogliere quella concentrazione e quella attenzione che oggi riverso sulla saggistica. Per cui anche se la narrativa, la poesia ad esempio, mi affascinano da lettore e vorrei crescere in tal senso anche come editore, mi rendo conto che sarebbe difficile dedicargli lo stesso impegno che dedico a ciò che oggi pubblico. Addirittura mi è capitato più volte di commissionare alcuni libri di saggistica, ma difficilmente troverei il tempo per chiedere a uno scrittore di presentarmi un certo romanzo. Sarei in difficoltà anche sull’argomento da prediligere. In tutto ciò a fare la differenza è solo il mio essere editore di una collana di romanzi storici. Un po’ perché io stesso sono un grande lettore di quel genere, ma anche perché sono libri che possono posizionarsi a metà strada tra romanzo e saggio. Allora in questo caso mi accorgo di essere un po’ più preparato e di riuscire a far combaciare l’impegno da editore di saggistica, con quello da romanzi, seppur storici.

Forse mi piacerebbe aprirmi di più alla narrativa contemporanea, però davvero, almeno per ora, non potrei proprio.»

Li segui tutti personalmente gli autori che pubblichi o sei costretto, in alcuni casi a demandare ad altri?

AC «In alcuni campi accademici, ad esempio quello di ingegneria, mi affido ai docenti, agli specialisti di cui ho piena fiducia. Per quanto potrebbe essere soggetto a critiche, quando mi propone un libro un accademico di pregio, devo anche fidarmi. Non posso io contestare alcune parti della sua teoria. Lo stesso vale per alcuni libri di archeologia ad esempio. Ciò non toglie che poi i libri li leggo, anche quelli di ingegneria, pur preferendo in tali casi quelli a carattere più divulgativo che specialistico. Mi guardo gli indici, mi studio alcuni argomenti che mi incuriosiscono maggiormente.

Per il resto mi leggo tutto. Anche quando ho di fronte il testo di un autore che già ha pubblicato con me un altro saggio, che è una certezza nel suo campo, ho piacere comunque a leggerlo, fosse anche solo per interesse personale. Soprattutto quando sono già a forma di libro, non solo come quando devo leggerlo stampato come fossero delle fotocopie. Quindi visiono tutto, anche gli argomenti tecnici, magari a volte leggendoli dopo, ma comunque prestandogli sempre molta attenzione. In questo sono fortunato perché il catalogo di Edizioni Efesto rispecchia esattamente i miei interessi culturali. In questo sono felice e soprattutto mi sento libero.»  

Sarà per i miei trascorsi accademici, ma ho notato che sul sito della tua casa editrice compare l’open access. Qualcosa che chiunque abbia fatto ricerca non può che lodare. Anche perché sinceramente non so quanti editori possano vantare questa possibilità.

AC «Esatto, non sono molti gli editori che hanno deciso di puntare su questo. Anzi, in realtà la maggioranza degli editori non conosce proprio l’open access. In parte perché appunto come facevi notare tu è qualcosa che richiede e che utilizza più il mondo accademico e soprattutto da pochissimi anni. Una decina di anni fa non avrei avuto nessuna richiesta. L’open access è un libro che, oltre ad essere acquistabile in formato stampato, consente di essere scaricato gratuitamente in formato pdf. E molti mi chiedono se effettivamente mi convenga. Ti rispondo subito di sì. Perché quando cento persone si sono scaricate un bellissimo pdf gratuito di una ricerca che magari solo dal titolo non avrebbero mai comprato, non ti dico tutti, ma la metà comprerà anche il cartaceo. Perlomeno in quei pochi esperimenti di open access che ho fatto, si è rivelato una legge matematica.»

Anche in questo caso credo sia una scelta precisa, politica, quella di consentire un accesso libero al sapere.  In tal modo ci si può avvicinare a qualcosa che non avremmo avuto la possibilità di leggere, un materiale prima magari non rintracciabile. Invita a fare altre ricerche sullo stesso autore, oltre a invogliarti ad avere una copia cartacea di ciò che hai visionato.

AC «È proprio questo il punto, avere la doppia possibilità di acquistare il libro, oltre a scaricarlo in formato pdf, risulta sempre un aiuto alla vendita del libro, mai un blocco. Certo, tale procedura ha senso su alcune ricerche, meno su un saggio divulgativo e tanto meno su un romanzo, anzi qui lo non avrebbe proprio. Ma in tante ricerche scientifiche delle varie aree disciplinari ha molto senso. Le ricerche tecniche ad esempio di un poeta esistito nell’Ottocento, che poi è sparito, non sembrano interessanti. Ma se poi scaricando il pdf e leggendo qualche pagina scoprono il poeta, la metà di quelli che ne ha preso visione si va a comprare il libro.»  

Mi piace che tu abbia voluto rischiare su questo, che non ti sia fermato al preconcetto che tutto ciò che è gratuito ostacoli la vendita.

AC «Molti fanno confusione con i romanzi, che nel caso in cui vengano piratati e girino copie on-line il cartaceo non lo comprerà più nessuno. La differenza quindi la fanno l’argomento e il genere.

Anche perché alcuni testi sono davvero difficili da studiare sul pc, senza una copia cartacea.

AC «Pensa che proprio ora ho inserito l’open access di un testo di 780 pagine. Forse se qualcuno è interessato a leggerselo tutto, due volumi da 350 pagine a 30 euro preferisce senza dubbio acquistare il cartaceo.»  

Vorrai continuare a scommettere sull’ open access anche nel futuro?

AC «Assolutamente sì, proprio un’ora prima di questa intervista abbiamo parlato con una docente di greco di questa possibilità.»  

Per tornare alla tua professione di libraio. Esistono dei luoghi che non subiscono il processo di decostruzione del tempo e che dovrebbero essere preservati come luoghi sacri. Personalmente a tal riguardo il mio pensiero va subito alle librerie. Per te, al di là del mercato che si evolve e della tecnologia che sta cambiando le abitudini e le dinamiche, ha senso continuare a parlare della libreria come luogo fisico? Vedi futuro in questo?

AC «Sì, innanzitutto perché l’on-line non si trova sul territorio. Partirei da questa base. On-line banalmente i libri li compra già chi è interessato a leggere. Ma nessuno dall’on-line viene a promuovere un libro sul territorio; a farlo sono sempre i librai che hanno una attività fisica, o altre attività miste in cui l’attività della libreria è importante. In tal senso ha futuro.Ma certamente è cambiato tutto moltissimo. Anche rispetto al 2004 che l’on-line iniziava solo ad affacciarsi, il ruolo del libraio è cambiato molto. Prima il libraio stava in negozio e la gente entrava in libreria perché aveva necessità di farlo. Oggi il libraio si deve muovere di più per portare la cultura e il libro fuori dalla propria libreria o all’opposto far avvicinare le persone con una motivazione. Ci si deve impegnare molto, il libraio deve lavorare di più per essere presente.»  

(Ph: Libreria Efesto, via C. Segre 11, Roma) (G. Balla, Gli stati d’animo dei libri 1940)

Esiste poi qualcosa di ineliminabile, ovvero il rapporto tra chi cerca qualcosa e chi è in grado di aiutare in tal senso.

AC «Ai miei scrittori, agli autori della casa editrice che mi dicono che sono sempre in libreria rispondo che, se mi togliessero la categoria degli studenti universitari che entrano in libreria, appassirei. Avere a che fare da libraio con moltissimi ventenni studiosi, pieni di entusiasmo, mi aiuta a mantenere quella stessa vitalità necessaria per fare questo lavoro, e vale anche per il mio essere editore.

E a dispetto di ciò che si può pensare delle materie scientifiche, mi trovo tantissimi ventenni che vengono da me a dirmi “mi fai vedere i libri di analisi matematica che hai perché devo fare un confronto”. Oppure “dalla tua esperienza di libraio quale fra questi due testi mi suggerisci?”. Questo succede ogni giorno, contrariamente a quanto si dice che i giovani non leggono e non si applicano nello studio.»  

Come sfatare questa convinzione che se una persona studia materie scientifiche, giuridiche, allora non è aperta anche ad altro?

AC «Devo dire che è più comune trovare lo studioso di materie tecnico-scientifiche che si interessa a un saggio letterario che viceversa, per ovvi motivi. Io, ad esempio, sono uno che si appassiona a capire cosa siano le fondazioni e le travi, ma magari non tutti hanno questa curiosità.

Una volta ricordo di aver contestato l’impianto che mi avevano montato a casa perché mancava un partitore sull’impianto delle antenne. Gli operai erano sbigottiti, ma io avevo un bellissimo manuale degli impianti elettrici. Mi sono fatto una cultura.

Al di là dell’ironia, nel mondo scientifico, a dispetto di quello che si pensa, c’è molto interesse per la cultura. La settimana scorsa un ragazzo, dottorando di ingegneria meccanica, per cui ci si immagina il tipo più avulso dalla letteratura, entra in libreria dicendomi “Sa, io seguo molto Barbero. Con che libro suo mi consigli di iniziare?”. E poi ha aggiunto “Ho fatto lo scientifico, non il classico, ma vorrei tanto leggere una bella edizione della divina commedia commentata, quale mi consigli?” Questa cosa succede molto più spesso di quanto ci si immagini.»

Credo che a te accada spesso, anche perché tu sai far bene il tuo lavoro, dai fiducia alla persona che entra.

AC «Ma i miei colleghi librai sanno fare tutti bene il loro lavoro, perché altrimenti non riuscirebbero a resistere con un negozio al pubblico e con i relativi costi che tutto ciò comporta. Su molti editori invece avrei da ridere. Il libraio che ha una attività e quindi dei costi fissi, deve essere anche un bravo libraio con il cliente. Ci sono invece editori che rimangono seduti sulla loro poltrona, a volte nemmeno entrano in libreria, pur vantando poi pretese assurde. Quindi mi sento di essere molto più critico su alcuni editori. I librai che conosco sono bravi. Quelli non bravi forse sono quelli che provano ad aprire una libreria e dopo un anno si trovano costretti a chiudere. Ma se un libraio sta lì da anni, è in grado di farlo anche meglio di me questo lavoro.»  

Anche tante case editrici aprono con facilità, ma chiudono poi in tempi brevissimi.

AC «C’è un giro più alto nel diventare e cessare di essere editore che non libraio. Fosse solo per il cospicuo investimento economico. E poi chi resiste, nonostante tutte le difficoltà attuali è un vero professionista. Ma questo credo sia un problema non circoscritto alle librerie, il modo impulsivo e compulsivo di comprare on-line è un po’una malattia psicologica. Con il fatto che la libreria è anche punto corriere e ricezione pacchi, vedo persone capaci di acquistare qualunque cosa on-line. E questo danneggia non solo i librai ma qualunque negozio fisico. Se si potessero tagliare i capelli on-line alcuni farebbero anche quello.

Ma come con i corsi e ricorsi storici la gente alla fine si stanca e pur di socializzare vuole stare in un negozio e quindi in libreria ci rientra. Ho notato queste forme di ritorni. Così come la persona che ha acquistato per un mese vestiti on-line e dopo cento volte che le ha rimandate indietro ha preferito il negozio vero. Alla fine quindi dobbiamo essere fiduciosi.

(Jonathan Wolstenholme, 1950)

Vorrei concludere dicendo di non essermi mai pentito dei libri che ho pubblicato. Coltivo anche rapporti di amicizia con gli autori, a prescindere poi da quante volte io li senta durante l’anno. Sia con quello che sento quasi tutti i giorni, che con quello con cui mi scambio solo gli auguri per le feste, sono riuscito a istaurare un bel rapporto e di questo sono contento. Un pensiero affettuoso da editore lo voglio rivolgere ai tanti autori giovani, ventenni e trentenni, che hanno scelto la mia casa editrice, la fiducia più importante non è la mia verso le loro opere ma la loro nei confronti della mia attività. Un grazie speciale va anche a Francesco Manzo (graframan.com), il grafico e colui che ha impaginato la maggior parte dei volumi, senza di lui molti libri non avrebbero letteralmente preso forma.»

Fiori Vivi ringrazia Alfredo Catalfo e la sua Casa editrice: Edizioni Efesto.

La Malattia Mortale: disperazione e peccato in Kierkegaard

di Giancarla Perotti

Genesi dell’opera

La malattia mortale, scritta da Søren Aabye Kierkegaard nel 1849 sei anni prima della sua morte e pubblicata con lo pseudonimo usato per la prima volta di Anti-Climacus, tratta due categorie fondamentali dell’antropologia umana: la disperazione e il peccato. Infatti nella prima parte del testo egli afferma che l’uomo è mortalmente malato e che, tale malattia, è la disperazione, nella seconda dichiara che la disperazione è il peccato. L’opera appartiene, quindi, alla fase più matura e meglio definita del pensiero Kierkegaardiano, a quel momento culminante in cui lo stadio religioso domina e campeggia in uno spazio sovrano e autonomo mentre sempre più recedono lo stadio etico e lo stadio estetico, tappe comunque sempre presenti nell’itinerario spirituale di Kierkegaard.

Già il sottotitolo dell’opera, Un’analisi di psicologia cristiana per l’edificazione dello spirito, sembra mettere a fuoco e circoscrivere l’orizzonte del suo significato. L’argomento viene presentato come un saggio di psicologia cristiana per edificazione e risveglio, in cui Kierkegaard ha un chiaro intento, quello di presentare il problema del cristianesimo con il preciso ed esplicito proposito di contrapporlo al fenomeno degenere della cristianità ufficiale, impigrita e cristallizzata nel suo ordine costituito. Il filosofo ha anche come obiettivo quello di mettere in rilievo il senso di responsabilità che deve avere un uomo cristiano, per questo adotta una forma ansiosa, ma di un’ansia che edifica. Egli fa notare che la disperazione di cui si parla in questo scritto è intesa, come dice il titolo, come malattia.

Il filosofo con tale opera vuole difendere il cristianesimo scomodo, difficile da vivere perché tutto modellato sulla figura del Cristo deriso, umiliato, offeso, percorso e, infine, crocifisso. Il cristiano di Kierkegaard non è colui che ammira il Cristo risorto sfolgorante nel suo trionfo, ma l’iniziatore del Cristo perseguitato che affronta la sofferenza, l’angoscia, la persecuzione, la morte crudele, percorrendo tutte le tappe del suo calvario. Kierkegaard rimprovera con uguale furore due diverse negazioni del Cristo: quella dei nemici che si contrappongono apertamente al suo messaggio e quella dei suoi seguaci imborghesiti che si rifugiano in una cristianità accomodante, benpensante, tutta immersa nelle comodità di una esistenza che non si priva di alcun piacere.

Il pensatore danese presenta la disperazione sia come l’elemento che caratterizza la vita dell’esteta, sia come la condizione che permette il salto dalla vita etica a quella religiosa. Si tratta di due aspetti, spiega il filosofo, di due facce della stessa medaglia. La disperazione è sempre una negazione di sé, del proprio io; ma nel primo caso essa ha luogo in quanto l’uomo è sempre alla ricerca di se stesso, di un io che non coincide mai con quello che di volta in volta egli è, e che non trova mai; nel secondo caso essa è rifiuto totale di sé, è quella rinuncia a sé che si traduce, sul piano della fede, nella assoluta autodonazione a Dio.

La disperazione è una malattia nello spirito, nell’io, e può essere triplice: disperatamente non essere consapevole di avere un io (disperazione in senso improprio); disperatamente non voler essere se stesso; disperatamente voler essere se stesso. (La malattia mortale, p. 13.)

La disperazione appartiene all’uomo come spirito, come io.

Ma che cos’è l’io? È un rapporto che si mette in rapporto con se stesso, oppure è, nel rapporto il fatto che il rapporto si metta in rapporto con se stesso; l’io non è il rapporto, ma il fatto che il rapporto si mette in rapporto con se stesso. (Ivi, p. 13.) 

La gradualità con la quale si sviluppa questo rapporto è che l’uomo è sintesi di finito e infinito, temporale ed eterno, di possibilità e necessità. Ma la sintesi, come rapporto tra due elementi, non è ancora l’uomo; nel rapporto fra due elementi, infatti, il rapporto è un terzo negativo. Così solo quando il rapporto si mette in rapporto con se stesso, il rapporto diventa un terzo positivo, e questo è ’l’io.

Ora l’io, come rapporto che si rapporta a se stesso è un rapporto posto da un altro, quindi oltre ad entrare in rapporto con se stesso, è anche un rapporto con ciò che ha posto il rapporto intero. Di conseguenza possono nascere due forme di disperazione in senso proprio: la prima è la disperazione di non voler essere se stesso, cioè di volersi liberare da se stesso. La seconda è la disperazione di voler essere se stesso che nasce dalla consapevolezza di non potere giungere da solo in uno stato di equilibrio e calma, ma può farlo solo se si rapporta a ciò che lo ha creato come rapporto. Kierkegaard conclude 

la formula che descrive lo stato dell’io quando la disperazione è completamente estirpata è questa: mettendosi in rapporto con se stesso, volendo essere se stesso, l’io si fonda, trasparente, nella potenza che l’ha posto. (op.cit., p. 15).

Anche la disperazione dunque, come ’l’angoscia, caratterizza un rapporto: la seconda, quella del singolo con il mondo, la prima quella del singolo con se stesso. Infatti l’angoscia si manifesta al cospetto di quegli infiniti possibili, e dell’infinità del possibile che il mondo rappresenta per l’uomo; la disperazione nasce invece di fronte a quella radicale incognita che è il proprio io. Due sono i possibili modi di relazionarsi a se stesso; uno è quello di accettare di essere se stesso, l’altro è quello di rifiutare di essere se stesso; ma la disperazione si verifica in entrambi i casi, sia quando l’uomo vuole essere se stesso, sia quando non vuole assolutamente essere se stesso, cioè quando egli rinnega totalmente se stesso, quello che è e quello che potrebbe essere. Nel primo caso il singolo si dispera perché vuole ma non riesce a trovare se stesso nei vari possibili, in quanto tutte le possibilità di essere se stesso si rivelano insufficienti e inadeguate. Nel secondo caso egli si dispera quando percepisce che non c’è più alcuna possibilità di trovare il vero se stesso, e vi rinuncia; e vorrebbe semplicemente distruggere se stesso senza potervi riuscire. Questa seconda è dunque la forma piena, totale, della disperazione; è quella che Kierkegaard chiama malattia mortale.

Cadere nella malattia mortale è non poter morire, ’perché morire significa che tutto è passato, ma morire la morte significa vivere e sperimentare il morire. Su questa definizione iniziale si amplia tutta la prima parte dell’opera: la malattia mortale è la disperazione.

 La realtà del peccato invece, trattata nella seconda parte dell’opera (la disperazione è peccato), viene posta in termini nuovi, concreti, storici. Il peccato non è solo negazione, né una fondamentale funzione dialettica, ma una posizione, non è qualcosa da capire, ma un paradosso, di cui la ragione non riesce a percepire la dimensione teologica. C’è una demoniaca coscienza del peccato che si chiude al bene facendo aumentare la profondità del distacco e non soltanto esclude il bene ma anche il pentimento. È il peccato contro lo Spirito dice Kierkegaard, il peccato che non sarà perdonato, la disperazione finale.

L’uomo e la malattia mortale

Nella Malattia mortale attraverso l’indagine della disperazione e del peccato Kierkegaard studia in modo globale il vivere in rapporto a Dio, tanto da rivoluzionare l’uomo dal profondo della sua esistenza interiore. Per capire bene cosa è la disperazione secondo il filosofo dobbiamo cercare di capire come egli definisce l’uomo. Cos’è l’uomo? L’uomo è una creatura che sintetizza corpo e spirito, è inoltre un rapporto di finito e infinito, di tempo ed eternità, di possibilità e necessità; e questo rapporto si rapporta con se stesso, nel senso che è cosciente di se stesso. Ma in realtà, il rapporto più importante che l’uomo intrattiene è quello con Dio: l’uomo non può e non deve dimenticare di essere creatura divina. 

La disperazione

La disperazione è la malattia dello spirito dell’io cioè dell’uomo. L’opera è ontologica, l’uomo infatti è definito un rapporto che si rapporta a se stesso, come una sintesi di finito e infinito, di tempo ed eternità, di possibilità e di necessità. All’uomo si apre due possibilità: essere se stesso, che comporta di rispettare la natura dei propri elementi costitutivi; non essere se stesso, svilupparsi quindi in maniera arbitraria e unilaterale sovvertendo il proprio intimo equilibrio. Inoltre la disperazione è un’opera di autodistruzione dell’attività dell’essere umano. L’uomo è un essere creato e solo nella fede egli può davvero realizzare se stesso. Quando l’uomo è pienamente consapevole di fronte a Dio, la sua disperazione diventa profonda, diventa la negazione volontaria e cosciente della essenzialità divina per l’esistenza stessa e diventa peccato.

È evidente in Malattia mortale che il filosofo tenta di scuotere l’apatia del lettore affinché possa aderire alla verità edificante con tutto il suo impegno e abbandona la tiepida esposizione cattedratica, per far crescere tutto il pathos dialettico e poetico fondamentale a questa missione di risveglio.

L’uomo è spirito. Ma che cos’è lo spirito? Lo spirito è l’io. Ma che cos’è l’io? È un rapporto che si mette in rapporto con se stesso oppure è, nel rapporto, il fatto che il rapporto si metta in rapporto con se stesso; l’io non è il rapporto, ma il fatto che il rapporto si mette in rapporto con se stesso. (op.cit. p.13).

L’io è sempre in rapporto con un altro. Il fragile equilibrio la cui rottura fa precipitare il rapporto in una disperante stasi spirituale, è mantenuto fino a che il rapporto che si rapporta con se stesso si rapporta con ciò che l’ha posto come rapporto.

Nell’io che spezza i legami con l’altro che l’ha posto come rapporto c’è disperazione. Se tronca tali legami infatti, l’io si immobilizza, diventa statico in se stesso; al contrario, l’io che tiene solidi i legami con l’altro che l’ha posto come rapporto, accetta la propria esistenza come un continuo rapporto di apertura rispetto questo altro, volendo essere se stesso, cioè essenzialmente rapporto, si riflette nello stesso tempo infinitamente nel rapporto con la potenza che l’ha posto. L’io che vuole essere se stesso non nega la propria trascendenza. Nell’apertura all’altro che l’ha posto come rapporto, il rapporto si fa trasparente. Nella disperante chiusura il rapporto si fa opaco e indecifrabile. L’uomo scopre la propria finitezza nell’apertura che segna il limite oltre il quale si dà altro. A differenza dell’animale, che non sa nulla della propria finitezza, poiché non gli è dato di vedere, e che è immune da quella malattia che è la disperazione, l’uomo, e ancor di più il cristiano, siccome questi ha imparato a pensare tutte le cose terrestri e mondane, compresa la morte, è condannato a vedere e a guardarsi. Nel momento della creazione l’uomo è quasi scivolato via dalle mani di Dio.

Dov’è poi l’origine della disperazione? Nel rapporto in cui la sintesi si mette in rapporto con se stessa, nel momento in cui Dio, il quale creò l’uomo come rapporto, se lo lascia quasi scivolare di mano, cioè nel momento in cui il rapporto si mette in rapporto con se stesso. (op.cit. p.17)

     Egli è caduto e si è poi rialzato in un mondo che lo sovrasta per estensione, mentre di fronte a sé infiniti spazi tacciono la possibilità ch’egli possa percorrerli per intero. D’innanzi a ciò che gli è altro e che lo supera da ogni lato, l’uomo che dispera si riconosce miserabile. E in questo riconoscimento c’è grandezza.

     Quindi l’opposto della disperazione, che è la fede, è la speranza e la fiducia in Dio. Tuttavia, la fede è assurdità, paradosso, scandalo, conduce l’uomo al di là della ragione, della logica, della comprensione. Lo scandalo fondamentale del cristianesimo è che la realtà dell’uomo sia quella di un individuo isolato di fronte a Dio.

     Nonostante diversi paradossi del pensiero religioso, la fede crede, ma resta comunque qualcosa di incerto, precario, in quanto essa è espressione della condizione esistenziale umana, che è rischiosa perché dominata dalla precarietà delle possibilità: poiché Dio, è la gigantografia delle possibilità, l’uomo che ha fede non fa altro che rafforzare la condizione dell’esistenza.

     Di fronte all’instabilità costitutiva dell’esistenza dominata dal possibile, la fede si appella alla stabilità di Dio, cui tutto è possibile. Ricapitolando Kierkegaard chiama malattia mortale la disperazione. Perché mortale? Non perché conduce alla morte, molto peggio! È mortale perché consiste nel vivere la morte del proprio io, sentirsi insufficiente e limitato, ma non poter andare oltre se stessi; è un provare la disperazione vivendo. Si continua a vivere in un’eterna agonia, in uno stato di impotenza, come un moribondo, e senza la speranza di morire. Ma essere consapevoli della disperazione è già un passo avanti, perché in qualche modo è possibile superare questo stato. Certo, è necessario un salto, il salto della fede: solo accettando di essere nelle mani di Dio è possibile combattere questo sentimento. 

Il peccato

Per Kierkegaard, il peccato è il rifiuto dell’amicizia con Dio che si è fatto uomo per salvare l’uomo. Il peccatore è colui che non ascolta la voce del Salvatore, che agisce contro l’alleanza.

É questo concetto identico con il concetto del primo peccato, del peccato di Adamo, della caduta del primo uomo? Così talvolta lo si intende, e di conseguenza il compito di spiegare il peccato originale fu identificato con quello di spiegare il peccato di Adamo. (Il concetto dell’angoscia, p. 29)

Secondo i concetti tradizionali la differenza che corre tra il primo peccato di Adamo e il primo peccato di ogni uomo è questa: il primo peccato di Adamo condiziona la peccaminosità come conseguenza, mentre il primo peccato degli altri presuppone la peccaminosità come condizione. (Ivi p. 33)

Kierkegaard esaminando il racconto biblico della genesi del peccato originale, definisce Adamo innocente, fintanto che resta ignorante, finché non conosce le proprie infinite possibilità; ma tale ignoranza contiene già in sé l’elemento che determina la caduta, e tale elemento non è né calma, né riposo, né perturbamento, né lotta, perché non c’è alcunché da cui riposarsi o contro cui lottare. Non è che un niente: ma è proprio questo niente a generare angoscia. A differenza del timore e di altri stati analoghi, che si riferiscono sempre a qualcosa di determinato, l’angoscia non si riferisce a nulla di preciso. Essa è il puro sentimento della possibilità.    

Lo scrittore danese distingue così fra peccato originale e primo peccato.  

Nel cristianesimo il peccato è atto di libertà e il suo muoversi verso la propria perdizione: perché l’io si scandalizza perché non supera la possibilità dello scandalo.

L’uomo che disperatamente non vuole essere se stesso poiché non sa scendere fino nel fondo della sua anima, o perché, giunto di fronte ad essa, dispera per la debolezza che gli impedisce di stringersi nel rapporto con chi l’ha posto come rapporto, è un peccatore. E peccatore è anche l’uomo che disperatamente vuole essere se stesso perché insegue ostinatamente l’infinito che custodisce in sé nel tentativo di farsi assoluto, o perché, spinto dall’odio per un’esistenza colma di sofferenze e percossa dall’assurdo, si scontra con forza contro chi l’ha posto come rapporto.

Qui il peccato è disperazione, è farsi distante da Dio, infatti il peccato è una posizione. L’uomo si fa scivolare di mano Dio quando disperatamente non vuole essere se stesso; ovvero quando disperatamente vuole essere se stesso. Cosa dice la disperazione? Essa dice che si è nel peccato, ovvero in un rapporto ormai compromesso tra l’uomo e chi l’ha posto come rapporto. Chi è colpevole di questo rapporto compromesso? Non certo chi ha posto il rapporto, ma l’uomo che sceglie di non rapportarsi con chi l’ha posto come rapporto

Vi sono dunque due gradi distinti di colpevolezza, di disperazione. In quanto compromesso rapporto con chi l’ha posto come rapporto, v’è il peccato di chi ignora Dio, ossia di chi ignora cosa è il peccato, di chi ignora il rapporto; e c’è il peccato di chi non ignora cosa è il peccato, giacché conosce Dio, ma che insiste ostinatamente nel peccato. Nel primo caso c’è l’uomo naturale, il pagano; nel secondo caso c’è il cristiano.

Il peccatore cristiano, il più disperato tra i disperati, è colui che, dopo aver saputo, per mezzo di una rivelazione da Dio, che cosa è il peccato, davanti a Dio disperatamente non vuole essere se stesso, o disperatamente vuol essere se stesso. La distanza scellerata che il disperato cristiano pone tra sé e Dio, la posizione disperante di fronte a questo, misura l’incapacità di accogliere, tramite le fede, la Rivelazione. Se la possibilità dello scandalo testimonia la distanza infinita che corre tra Dio e l’uomo, il peccato dello scandalo fissa disperatamente il posizionamento di tale distanza. Per Kierkegaard quindi l’individuo è nello stato equivoco di ’un’innocenza colpevole per generazione e di una colpa innocente che si traduce nella malinconia dell’innocenza perduta e nella possibilità del peccato.

M. Ernst, Castor and Pollution 1923

La definizione socratica del peccato

Il peccato è ignoranza. Questo è, come si sa, la definizione socratica la quale, come tutte le cose di Socrate, è sempre un’istanza degna di essere presa in considerazione. Però a riguardo di questo detto socratico è successo lo stesso che di molti altri detti socratici: gli uomini hanno imparato a sentire l’impulso di oltrepassarlo. (La malattia mortale, p. 123).

Il peccato è definito da Socrate come: ignoranza. Il difetto di tale definizione è che non spiega se tale ignoranza sia originaria o sia prodotta a posteriori. Se fosse vera quest’ultima, il peccato non consisterebbe nell’ignoranza ma in altro. La domanda diventa allora un’altra, ovvero se quando l’uomo ha cominciato a oscurare la propria conoscenza, ne fosse cosciente. Se ne fosse stato cosciente allora il peccato non starebbe nella coscienza ma nella volontà. Se il peccato è ignoranza, allora propriamente non esiste, perché il peccato è coscienza.

Ma l’uomo è cosciente di questo processo? E se ne fosse stato inizialmente cosciente allora il peccato non sarebbe il risultato dell’ignoranza, ma piuttosto il risultato della volontà dell’uomo stesso. E che rapporto ci sia tra volontà e conoscenza Socrate non lo puntualizza così come non presuppone l’esistenza del peccato in se stesso; cosa che è ammessa dal pensiero cristiano che si configura nel dogma del Peccato Originale. Se invece l’uomo è ignorante, cioè non ha la consapevolezza del peccato, ovvero non sa cosa sia il giusto, allora il peccato secondo l’impostazione socratica non esiste. Questa è la posizione di partenza del Cristianesimo secondo cui l’uomo non ha coscienza del peccato, in quanto tale, e necessita di un aiuto divino perché si renda a lui manifesto. Sarebbe stata un’obiezione molto pericolosa contro il cristianesimo se il paganesimo avesse avuto una definizione del peccato che il cristianesimo doveva riconoscere come giusta.

Qual è allora la determinazione che manca a Socrate per definire il peccato? È questa: la volontà, l’ostinazione.

La grecità non riesce a comprendere che un uomo possa coscientemente tralasciare di fare il bene, oppure in coscienza conoscendo il bene, fare il male, fare l’ingiusto pur conoscendo il giusto. Per Socrate se un uomo comprendesse in verità una cosa allora la sua vita lo esprimerebbe non come un risultato intellettuale, ma come concezione etica per la vita di ogni giorno. Quindi tra il comprendere il bene e fare il bene manca un passaggio fondamentale, una pietra miliare che il cristianesimo ha definito, cioè la volontà dell’individuo e la sua ostinazione. Il peccato per Kierkegaard consiste nella volontà, non nella conoscenza, e la degradazione di questa volontà non è alla portata dell’individuo, ma trascende la sua coscienza e la sua conoscenza. La possibilità dello ‘scandalo’ consiste nel fatto che è necessaria una divina rivelazione per insegnare all’uomo che cosa è il peccato e quanto profonde siano le sue radici

Allora, che cos’è lo scandalo? Lo scandalo è ammirazione infelice; è perciò una specie di invidia, ma un’invidia che si rivolge contro l’uomo stesso, in un senso più stretto: è la forma peggiore di invidia contro se stesso. La grettezza di cuore dell’uomo naturale non può non invidiare a se stesso lo straordinario che Dio gli ha voluto concedere; perciò si scandalizza. (La malattia mortale p. 120)

La definizione di peccato è: davanti a Dio, disperatamente non voler essere se stesso.  Il peccato non è una negazione, ma una posizione. Se il peccato è determinato negativamente allora il cristianesimo perde il suo carattere, quindi ci deve essere per forza una rivelazione, per insegnare all’uomo cosa sia e questa rivelazione deve essere creduta.

Il pensiero di Kierkegaard è perciò un pensiero essenzialmente religioso: è la difesa dell’esistenza del Singolo, esistenza che si fa autentica soltanto davanti alla trascendenza di Dio.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

CANTONI R., La coscienza inquieta, Mondadori, Milano 1949.

CORTESE A., Kierkegaard oggi, Vita e Pensiero, Milano 1986.

GARAVENTA R., Angoscia e peccato in Søren Kierkegaard, Aracne, Roma 2007. 

GARFF SAK J., Søren Aabye Kierkegaard. Una biografia, Castelvecchi, Roma 2013.

KIERKEGAARD S., Il concetto dell’angoscia, Se, Milano 2007.

KIERKEGAARD S., La malattia mortale, Newton Compton, Roma 1995.

MARIO PIZZUTI G., Invito al pensiero di Kierkegaard, Mursia, Milano 1995. 

MASI G., Disperazione e speranza. Saggio sulle categorie Kierkegaardiane, Gregoriana Libreria, Padova 1971.

Ringraziamo Giancarla Perotti, filosofa, teologa Sacramentaria, scrittrice e fondatrice del Centro Ricerche personaliste Raissa e J. Maritain. Tra i suoi lavori segnaliamo Amore e Giustizia nel pensiero di Jacques Maritain del 2009.

Buddismo e carta: storia di un legame millenario

di Gilda Diotallevi

«Signore del Cielo, se qualcuno in punto di morte ricorda questo divino Dharani, anche solo per un momento, la sua vita si allungherà e acquisirà la purificazione di corpo, parola e mente. Senza soffrire alcun dolore fisico e secondo le sue azioni meritorie, godrà ovunque della tranquillità. Ricevendo benedizioni da tutti i Tathagata, e costantemente sorvegliato dai deva e protetto dai Bodhisattva, sarà onorato e rispettato dalla gente, e tutti gli ostacoli malvagi saranno sradicati.»

(Versione tradotta del Maestro Buddhapala durante la dinastia Tang)

Nell’ottobre del 1966, in occasione dei lavori di restauro della Pagota Seokgatar (석가탑) Sŏkkat’ap in Corea del Sud, precisamente nella città di Gyeongju, nel tempio principale dell’Ordine Joyge del buddhismo coreano Bulguksa (불국사), venne alla luce un sorprendente ritrovamento, una antica trascrizione in cinese del Dharani Sutra.

Tale copia rappresenta la traduzione dal sanscrito (उष्णीष विजय धारणी सूत्र) del famoso Uṣṇīṣa Vijaya Dhāraṇī Sūtra, appartenente al periodo dell’espansione del buddismo mahayano in Corea e in Cina. Mentre il sutra originale però, per altro diffusissimo in alcune regioni dell’Estremo Oriente che avevano provveduto a tradurlo e distribuirlo, era inciso su tavolette di pietra, la traduzione ritrovata nella pagoda di Seokgatar è oggi considerata la xilografia più antica al mondo. Il Great Dharani Sutra, così viene infatti definito il ritrovamento, èdatabile intorno al 704 d.C. Composto da 12 fogli di carta, per un totale di 620 cm di lunghezza e 8 di altezza, colpisce per un ulteriore elemento. Da una accurata indagine al microscopio si è infatti scoperto che il Great Dharani Sutra fu realizzato servendosi di una particolare carta, ovvero la tradizionale carta coreana hanji.

La stampa del sutra, che prende in Corea il nome di Mugujŏnggwang Taedaranigyŏng (무구정광 대다라니경), ha quindi almeno 1250 anni e viene riconosciuta come il più antico materiale stampato al mondo, su una carta che lo ha conservato per più di mille anni.

L’inizio di una lunga storia

Davvero complesso risulta stabilire la data d’origine della carta.

Il suo etimo latino charta richiama il greco χαράσσω, col significato di incidere e imprimere, che forse a sua volta deriva dall’origine egizia del papiro, pianta utilizzata dagli Egizi per scrivere, confluito poi nelle derivanti anglosassoni (paper), francesi/tedesche (papier) e spagnole (papel).

Mentre la leggenda vuole che l’inventore della carta sia stato Ts’ai Lun, ufficiale imperiale della dinastia Han, intorno al 105 d.C., i ritrovamenti di differenti siti archeologici (pensiamo a quello di Fangmatan in provincia di Gansu, o a quelli di Dunhuang e Yumen) anticipano di molto la sua datazione.

In un passo dell’Hou Hanshu, l’opera di storiografia cinese ufficiale scritta da Fan Ye nel V secolo sulla base di documenti precedenti, che descrive il periodo della dinastia Han Orientale dal 25 al 220 d.C. leggiamo:

Nell’antichità le scritte e le iscrizioni erano generalmente realizzate su tavolette di bambù o su pezzi di seta[…]. Ma essendo la seta costosa e il bambù pesante, non erano convenienti da usare. Cai Lun ha quindi avviato l’idea di produrre carta dalla corteccia degli alberi, dalla canapa, dai vecchi stracci e dalle reti da pesca. Ha presentato il processo all’imperatore nel primo anno di Yuanxing [105] e ha ricevuto elogi per la sua abilità. Da quel momento, la carta è stata utilizzata ovunque ed è universalmente chiamata la carta di Lord Cai. (Hou Hanshu 78/68:2513-14)

Sempre nelle cronache della dinastia Han si narra, anche se tale teoria non pare essere supportata da prove concrete, che Ts’ai Lun si recava ogni giorno a meditare in uno stagno che di solito veniva usato dalle donne per lavare i vestiti e le stoffe. Un giorno notò che le fibrille, staccatesi dai panni sporchi per opera dello strofinio, si erano riunite in un angolo dello stagno come a formare un tessuto. Lui le raccolse e le fece essiccare. Alla fine si accorse che si era venuto a creare una sorta di foglio in cui si sarebbe potuto scrivere.

Al di là dei racconti, certo è che Ts’ai Lun abbia dato l’avvio a un tipo di carta differente, i cui fogli erano orditi non da fibre animali ma vegetali. Già nel 123 d.C. impiegava nel procedimento di produzione infatti stracci di vestiti, fibre del gelso da carta, erba cinese (Bohìehmeria), canna di bambù, materiali ancora oggi utilizzati, soprattutto da alcune popolazioni orientali. I materiali venivano lasciati immersi nell’acqua per parecchio tempo, fino a quando, ormai macerati, creavano una poltiglia che, scaldata al sole veniva piegata in sottili strati.

Il materiale adottato però da Ts’ai Lun, una volta messo a punto il procedimento di fabbricazione, fu la corteccia del gelso da carta (Brussonetia papyrifera). La parte fibrosa della corteccia veniva messa a macerare in acqua, risciacquata e successivamente battuta in mortai di pietra fino ad ottenere una pasta uniforme di fibre.

I cinesi custodirono il segreto della loro produzione di carta fin quando nel 610 d.C. i sacerdoti inviati in Cina dalla Corea ne appresero l’arte, finendo poi per eccellerne. Secondo alcuni studiosi l’introduzione della carta in Corea fu opera della Cina tra il II e il VII sec. All’inizio prodotta con scarti di canapa e rmaji (ramiè), già intorno al IV la Corea aveva sviluppato e perfezionato la tecnica per produrre la carta hanji.

Tale innovazione arrivò a sua volta anche in Giappone, grazie al monaco buddista coreano Damjing inviato da Goguryeo.

In primavera, marzo, diciannovesimo anno [dell’imperatrice Suiko], il re di Koma offrì [i] sacerdoti Doncho e Hojo come tributo [al Giappone]. Doncho conosceva i Cinque Classici. Produsse bene colori, carta e inchiostro, inoltre fece mulini ad acqua. (Nihon Shoki, vol. 22, 720 d.C.)

Ts’ai Lun con Donchō (sinistra) e Mochizuki Seibee

La carta giapponese, che prese il nome di Washi, era infatti prodotta utilizzando fibre vegetali del gelso da carta, nonché altre piante locali come la Diplomorpha sikokiana, la Edgeworthia papyrifera e l’Euonymus sieboldianus.

Dal suo luogo di origine la carta si diffuse in Medio Oriente e in Occidente. Le sue peculiarità infatti erano tali da poter sostituire ogni altra trama e la sua malleabilità permetteva un utilizzo ulteriore, non relegabile alla sola scrittura sacra.

La connessione tra carta e Buddhismo

La storia della connessione tra la carta e il buddhismo è lunghissima e si stabilisce fin dall’inizio. Durante il regno Goryeo, individuabile tra il 918 e 1392 e corrispondente al periodo di massimo splendore del buddhismo in Corea, si compivano lavori di copiatura e di stampa dei sutra e di altri testi sacri. Se è vero che da un lato proprio la stampa contribuì alla diffusione e al mantenimento della religione buddhista in Corea, è pur vero che la principale necessità fosse quella di preservare i sacri testi dalle continue invasioni, soprattutto mongole. I monaci buddhisti a tal fine perfezionarono le loro tecniche, producendo la più ricercata carta dell’Estremo Oriente che, per malleabilità e resistenza fuori dal comune era diventata un vero tesoro. Di questo periodo sono i Tripitaka Koreana, delle scritture buddhiste, derivate in gran parte dal Canone buddhista cinese, scolpite su tavolette di legno. Tale maestria nell’incisione non era un semplice esercizio, ma era al contrario considerato un modo per invocare l’aiuto di Buddha durante i periodi di guerra. Il valore dei Tripitaka era individuabile per l’estetica, la perfezione della trascrizione e per essere storicamente la collezione più ricca di trattati, leggi e canoni buddhisti. Nonostante poi siano state riprodotte, queste prime tavolette furono quasi completamente distrutte dall’invasione mongola in Corea nel 1232.

Nel 1234 la dinastia Goryeo incaricò il ministro Choe Yun-ui di stampare un altro testo buddhista, il rituale prescritto del passato e del presente (Sangjeong Gogeum Yemun). Lungo quasi cinquanta volumi avrebbe richiesto un numero troppo elevato di blocchi di legno. Il ministro civile così pensò di alterare il metodo utilizzato per coniare le monete di bronzo e di applicarlo alla carta. I caratteri venivano rivestiti di inchiostro e premuti su molti fogli di carta in successione. Nonostante il tentativo riuscì perfettamente, anche tale esemplare è andato distrutto e disperso.

Per cui, ad oggi, il più antico libro esistente stampato con caratteri mobili è l’Antologia degli insegnamenti Zen dei grandi sacerdoti buddhisti, il Baegun hwasang Chorok Buljo Jikji simche yojeol (백운화상초록불조직지심체요절), conosciuto semplicemente come Jikji.

In realtà i caratteri mobili erano già stati inventati in Cina durante la dinastia Song che però era solita utilizzare un materiale troppo fragile come la porcellana prima e il legno poi. Solo nell’epoca Goryeo si introdussero i caratteri in lega metallica.

Il Jikji perciò, essendo databile nel 1377, anticipa di molti anni Gutenberg e l’omonima Bibbia stampata intorno al 1452, oggi conservato nella biblioteca nazionale di Francia.

La carta coreana, con le sue principali caratteristiche di malleabilità e resistenza, comincia ad essere richiesta e utilizzata anche per usi differenti rispetto alla trascrizione di testi sacri.

Caduto infatti il regno Goryeo, la nuova burocrazia di impronta neo-confuciana richiedeva quantità maggiori di carta e un minore investimento in essa. La produzione della carta hanji comincia così ad essere sottratta all’esclusività dei monaci e lasciata a privati che ne realizzavano, necessariamente, una qualità inferiore con una minore accuratezza.

Nel periodo Joseon (1292-1919) poi l’uso della carta hanji si estende anche ad aspetti non legati alla scrittura. Essa comincia ad essere impiegata nella produzione di oggetti di uso quotidiano, come suppellettili e ventagli, fino ad essere utilizzata per le armature. Tale tendenza sembrava poi coadiuvata dall’ideale di austerità tipico di questo periodo che tendeva a rinunciare allo sfarzo. Pensiamo ad esempio a come alcuni materiali preziosi venivano sostituiti dalla carta. Esemplare al riguardo è l’abbandono dei fiori artificiali composti con cera e seta a favore di fiori di carta che finivano così per entrare all’interno dei riti e delle feste buddiste. Proprio per supplire alla continua richiesta di dak (ovvero della corteccia del gelso da cui veniva ricavata la carta hanji), accanto alla versione tradizionale della produzione di carta se ne affiancano altre, prodotte con corteccia di pino, paglia di riso e bambù.

Propri del periodo Joseon sono gli Uigwe. Genere di testi che descrivevano i rituali reali e le cerimonie della dinastia Joseon. Una sorta di protocolli reali lunghissimi, in cui le cerimonie pubbliche e gli affari della famiglia reale (matrimonio, funerali, successioni) si intrecciavano. Essi contenevano una descrizione dei fatti molto dettagliata che si serviva anche dell’ausilio di illustrazioni fatte a mano, estendendo in tal modo l’uso della carta hanji anche alla pittura.

Addirittura il governo creò un’agenzia amministrativa che commissionava armature impermeabili utilizzando proprio il materiale hanji, che si era sperimentato possedesse proprietà altamente isolanti. Proprio quest’ultima caratteristica fece estendere l’utilizzo di tale carta (nella versione oliata) all’architettura interna delle abitazioni tradizionali, riscontrando infatti in essa la capacità di controllare il calore e l’umidità. Venivano così ricoperte con carta le porte di legno, così da garantire il raffreddamento in estate e il mantenimento del calore in inverno.

Tutti questi fattori e la difficoltà dei monaci buddhisti di far fronte alla crescente richiesta, portarono alla industrializzazione della carta e al lento abbandono della hanji a favore di altri tipi di carta meno costosi e più facilmente reperibili. Anche il cambio delle unità abitative, sostituite pian piano da moderne abitazioni che eliminavano i tetti in paglia, le coperture e le rifiniture fatte in carta hanji, nonché l’economicità della carta cinese contribuirono ad estromettere l’hanji da quella quotidianità di cui, per anni, aveva fatto parte.

Non è un caso che l’attuale produzione delle bambole ricavate da carta hanji, considerata una vera e propria arte, raffigura personaggi tradizionali che si sarebbero potuti incontrare nei villaggi intenti a esercitazione abitudini familiari nelle tipiche case o giochi legati comunque all’antica tradizione.

(한지)Hanji

Per Hanji si intende la tipica carta coreana interamente prodotta a mano, secondo una procedura tradizionale che richiama il valore della lentezza e della ritualità. La particolarità è data dalla sua provenienza totalmente naturale, non chimica, che richiede la complicità della ciclicità della natura.

Essa si ottiene dalla corteccia interna della Broussonetia payrifera, (in coreano prende il nome di Dak) comunemente detto gelso di carta, albero originario dell’Asia appartenente alla famiglia delle Moraceae.  Le fibre di cellulosa estratte dalla corteccia del gelso, i cui rami vengono tagliati a dicembre, sono infatti lunghe e capaci di impigliarsi le une alle altre.

A completare la procedura per creare tale carta viene utilizzata anche la mucillagine derivante dalla radici di un altro albero, ovvero l’Hibiscus manihot, ibisco del tramonto, aibika. Il materiale usato per l’incollatura non è chimico, ma è ottenuto dalla linfa (dak pul), una sostanza naturale ricavata dalla pianta omonima, che si dissolve in acqua, non influendo con la propria neutralità ma permettendo una conservazione della carta per secoli. Anche il colore successivo che può essere utilizzato per la carta è di origine naturale, il più delle volte ad esempio si usano petali di fiori.

Produrre la carta richiede grande precisione, un lavoro complesso appreso nel tempo suddiviso in diverse fasi che si susseguono secondo un ordine di ore e di giorni.

Il legame con la natura si riflette sulla sua lunga procedura, su una ciclicità sacra che non può essere compromessa. I tempi corretti sono essenziali alla riuscita del processo. Senza di essi il foglio non può prendere forma, senza di essi la carta non svilupperà quella lucentezza e resistenza al tempo. Alla base perciò rimane una sorta di ritualità ancestrale, una arte, una poiesis in comunione con una dimensione meditativa tipica delle filosofie e delle discipline di stampo orientale.

L’intero processo è basato su fasi, ritmi, passaggi in una correlazione tra azione e inazione.

E proprio l’azione simbolica è ciò che sorregge i riti e gli ordinamenti di una comunità, che ne descrive il suo valore identitario. La Corea, nello specifico, riconosce nella carta hanji un valore eccedente, una declinazione della propria cultura, della propria identità nazionale. In Oriente infatti, questa tecnica millenaria esprime un processo identitario la cui produzione investe nazioni, centri, addirittura villaggi.

Il recupero della tradizione

Avevamo già citato la carta artigianale giapponese Washi, realizzata con la corteccia interna dell’albero di gelso e l’ausilio della linfa dell’ibisco del tramonto.

Ma dalla fibra del gelso si ricava anche una altra tipologia di carta, il Tengujo, inventata a Gifu, la provincia giapponese che viene considerata il luogo di nascita della carta giapponese stessa. Già presente nel periodo Muromachi (1336-1573 d.c.) era molto più spessa della sua versione successiva di soli 0,3 mm. Sarà proprio la sua trasparenza e sottigliezza a renderla utilissima per gli interventi di recupero e di risanamento di altri testi.

L’acidificazione dei libri fatti di carta prodotta con la pasta di legno vanno necessariamente incontro a deterioramento, che dal semplice ingiallimento arriva fino alla possibilità di sbriciolarsi. Motivo per cui si utilizza la carta Tengujo per riparare le parti mancanti.

Al di là della sua indiscussa ricchezza, la carta hanji ha vissuto un periodo di declino. La lentezza di tale procedimento, la difficoltà spesso degli antichi artigiani di trovare loro successori rischia costantemente di far perdere una trazione millenaria. Ciò che inizialmente aveva permesso l’archiviazione di una sapienza antica, religiosa, sacrale, ciò che aveva contribuito a creare uno scambio culturale e un progresso dell’intera civiltà umana rischia di perdere il suo valore.

Eppure questa incredibile sapienza artigianale deve essere preservata. E meraviglia che le forme di tutela, sviluppo e mantenimento di una parte della nostra storia siano affidate esclusivamente ad artisti e calligrafi del sud della Corea.

Perciò nonostante commuova che sia poeticamente l’arte a recupere l’arte, una tale ricchezza dovrebbe essere tutelata anche in altre forme.

Una forte testimonianza in tal senso è stata la recente mostra dedicata alla carta hanji e al suo utilizzo artistico tenutasi presso il museo Carlo Bilotti di Roma.

Frutto della collaborazione tra l’Accademia di Belle Arti di Roma e l’Istituto Culturale Coreano, si è dato vita a un progetto espositivo il cui intento era quello di recuperare la dimensione artigianale, prettamente manuale degli artisti, chiamati a ricreare in laboratorio la carta secondo il procedimento tradizionale. Ne sono scaturiti disegni, dipinti, sculture, opere sonore, fotografiche e performative, in grado di mostrare il potenziale inalienabile di una tradizione millenaria.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

Lee Seung Chul, Hanji- Everything you need to know about traditionale Korean paper, Hyeonamsa, Corea 2012.

Jan C. Heestermann, Il mondo spezzato dal sacrificio, Adelphi 2007.

http://www.buddhism.org/Sutras/2/UsnisaVijayaDharani.htm

http://www.bulguksa.or.kr/

Fiori Vivi ringrazia Flavia Sorato per il reportage sulla Mostra Carta coreana – Hanji, Museo Carlo Bilotti Aranciera di Villa Borghese di Roma https://www.museocarlobilotti.it/it

Il paradigma: intervista a Francesco Tigani

di Emiliano Ventura

Parlo di paradigma riferendomi alla prassi leopardiana di unire la poesia e la filosofia, all’impostazione moderna di Poe e di Baudelaire che prevede che non ci sia poeta senza critico. Essendo tu autore di una raccolta poetica e anche filosofo, ci muoveremo proprio su questi campi d’azione.

Nella tua raccolta poetica Il taccuino di Enmerker  recuperi la figura del fondatore della città di Uruk, imparentato con Gilgameš. Da cosa dipende questa tua scelta?

F.T «Per rispondere, prendo spunto proprio dal concetto di paradigma, nel significato più semplice di ‘modello’, di archetipo. In questo senso, potremmo dire che Enmerkar sia un paradigma. È una figura mitologica e in quanto tale funge da modello per qualcos’altro, è di per sé il calco di un’idea. Cerchiamo allora di spiegare che genere di idea sia. Nel poema sumerico Enmerkar e il signore di Aratta viene narrata l’invenzione della scrittura, che gli antichi abitanti di Sumer attribuivano a questo glorioso re, come gli Egizi l’attribuivano a Thot. La differenza è importante, perché per gli Egizi l’inventore di un così grandioso strumento era una divinità, mentre per i Sumeri era un semplice uomo, sebbene un uomo dalle doti straordinarie, tanto da configurarsi come un eroe culturale.

La scrittura è insomma una materia umana, che ha il compito di eternare gli oggetti del pensiero, i moti del cuore, i dubbi, le gesta dei condottieri e il ricordo delle persone comuni, cioè tutte cose espressamente umane.

A un dio non serve la scrittura: la sua onnipotenza e onniscienza gli consente di padroneggiare ogni ente e non dimenticare nulla. La scrittura serve all’uomo, che ha una memoria labile, si lascia sfuggire le cose, e ha bisogno di tramandare le nozioni che possiede per mantenere vivo il passato, avendo a disposizione solo la dimensione del tempo. Se disponesse invece della dimensione dell’eternità, non si porrebbe il problema della successione cronologica, ossia di dover collocare un determinato evento prima o dopo di un altro. E la scrittura serve a questo: a immortalare, a creare una struttura logica laddove vi sarebbero unicamente casualità e incoerenza. Ho dedicato la mia silloge a Enmerkar per rendere contezza di quella che sento come una necessità: la necessità di risalire alle origini della parola.

Il taccuino di Enmerker (Robin 2021)

Io sono sempre stato, fin da piccolo, ossessionato dal linguaggio: dall’impellenza di trovare la parola giusta, di dire le cose nel modo migliore, essendo consapevole che di modi ve ne sarebbero stati in numero illimitato. Enmerkar rappresenta una garanzia mitica, ancestrale, avendo fissato una volta per tutte le parole, imprimendole nell’argilla: un gesto che ha segnato l’inizio alla Storia, innescando la fondamentale evoluzione dall’homo loquens all’homo scrivens. Ma il suo legame dinastico con Gilgameš lo rende ancora più paradigmatico, giacché Gilgameš è l’eroe che cerca la vita eterna, il primo vero predatore del Graal, l’antesignano di Parsifal e della lunga schiera dei suoi emuli. E l’immortalità è proprio quella che Enmerkar ha consegnato a chiunque si avvalga della sua invenzione, che permette di creare qualcosa che rimane, un monumentum aere perennius, come dirà Orazio.

C’è peraltro una forma di purezza nella parola, che è legata al concetto stesso di mito, che in greco vuol dire sia ‘racconto’ che ‘parola’: parola scabra, essenziale, nuda e cruda, intesa come potenzialità significante, come veicolo di costruzione di una moltitudine di significati. In questo senso, la poesia, la filosofia, la storia, la sapienza in generale sono mythoi, perché nascono dalla parola: sono figlie della capacità enunciativa dell’uomo.»

Il mito è il fondamento di ogni possibile strutturazione linguistica, precorre e accompagna la facoltà umana di interpretare la natura. È il segno da cui scaturisce l’orizzonte di senso dell’ermeneutica, che colloca gli individui all’interno di coordinate ben precise e ineludibili: lo spazio, il tempo, la mentalità e il linguaggio stesso.»

In questa raccolta risulta evidente un legame con l’origine o la fondazione, anche in senso generale, mi ha fatto pensare alle Opere e i giorni di Esiodo, in un verso affermi: Un attimo può essere epocale/ e un’epoca svanire in un attimo.

F.T. «Con Esiodo siamo nella stagione in cui la poesia mitologica diventa poesia gnomica, sapienziale. Già nella Teogonia si parla della nascita di divinità che vengono subito associate a concetti (pensiamo a Mnemosine, la Memoria, tanto per fare un esempio). Il nesso fra mitologia e filosofia è dunque segnato fin da questo poema, che riunisce le tematiche profonde che allignano nella coscienza dell’uomo a partire da una loro simbolizzazione, da una loro immagine. Esiodo si può considerare, in un certo senso, come l’antesignano del platonismo: a Platone spetterà il compito di definire lo stretto legame che intercorre fra i pensieri e le immagini. Il termine ‘idea’, che deriva dal greco eidomai ed è imparentato con eidolon, significa proprio ‘immagine’. Le idee sono tali in quanto vengono viste dalla mente: sono presenti alla coscienza sotto forma di idoli, di simulacri. Ma il collegamento con Esiodo, come fai giustamente notare, si coglie con maggior precisione attraverso le Opere e i giorni, che è un poema di fondazione appunto, dedicato al lavoro, alle attività, alle praxeis: a quella dimensione che, avvalendoci del lessico politico della Arendt, potremmo indicare come vita activa. Bisogna comprendere, tuttavia, che la vita activa non è solo quella finalizzata all’utile collettivo e non può essere separata dalla vita contemplativa, giacché essa stessa costituisce una praxis a tutti gli effetti, richiedendo tenacia, concentrazione e una notevole dose di tempo. Il poetare e il filosofare sono dunque modalità di esistenza che rientrano a pieno titolo nella vita activa. Il poeta crea con le parole dei mondi concettuali, il filosofo li decostruisce e li rielabora. Con il termine ‘mondo’ intendo una modalità di esistenza di qualcosa. Esistono allora mondi umani e mondi non-umani: mondi avulsi dalla dimensione abitativa che gli uomini cercano ugualmente di colonizzare, come il mare (dove comincia ad affermarsi il fenomeno delle floating cities, delle città galleggianti) e lo spazio (dove le stazioni orbitanti sono già una realtà). Nella poesia Cristalli di ghiaccio rendo omaggio agli esploratori che per primi raggiunsero l’Antartide, col proposito di antropizzare un luogo dove la vita risulta impossibile e il tempo biologico degli esseri sussiste in uno stato di sospensione, di ibernazione. Qui troviamo infatti l’elemento fondamentale che dà la vita (l’acqua, la prima arché) convertito nel suo allotropo (il ghiaccio), nell’eterna lotta fra le forze del caldo e del freddo che Telesio ricondurrà alla dialettica universale della natura. In questa dimensione, però, l’uomo viene sopraffatto dall’angoscia del Nulla, che per difendersi dal suo baratro maschera con il Sogno e la Speranza. Il che rimanda, per tornare a Esiodo, al mito di Pandora, che finisce per identificarsi con la natura stessa: colei che tutto dona e tutto toglie.»

Non è un caso che torni il concetto del mito.

F.T «Aristotele nella Metafisica lo dice esplicitamente: i primi filosofi sono philomythoi, sono ‘amici del mito’. Questo vale per i presocratici, ma vale anche per i socratici: Platone ricorre spesso al mito e non si potrebbe concepire la sua filosofia separata da quella costellazione di miti che ne costituiscono l’ossatura (i miti di Theut, di Gige, di Er, della caverna, della biga alata, delle cicale, giusto per citare i principali). Ma nel corso dei secoli la filosofia si è progressivamente allontanata dal mito, scegliendo la strada del discorso, del logos. Si è trattato di una trasformazione naturale, ma a lungo andare non credo che abbia giovato alla filosofia: tutt’altro. Fintanto che il passaggio ha riguardato i poli del mythos e del logos, il trauma è stato inavvertito. Ma quando si è aggiunto il polo dell’episteme, della scienza, che ha preteso di dettare legge sugli altri due, relegando l’uno nella sfera della fantasia e l’altro in quello della fumisteria, ecco che la filosofia ha cominciato a perdere il suo ubi consistam. Per recuperarlo bisognerebbe dunque, ritengo, ripartire da quei linguaggi che fortunatamente sono rimasti impermeabili alla scienza e vengono infatti etichettati, senza ombra di dubbio, come “non-scientifici” dalla sensibilità neopositivista della nostra epoca. Mi riferisco alla poesia e al mito, che sono autenticamente alla base dell’universo filosofico e possono condurre sulla strada dell’epistrophé, del ritorno all’Uno, e alla conseguente ‘ricomposizione dell’infranto’, che nel lessico teologico assume il nome di apocatastasi

Tu sei autore di diversi saggi il più recente è un testo di filosofia, L’oscuro argonauta. Sulla forma del tempo e del mistero. Leggendo il libro ho subito colto un aspetto che mi ha molto colpito, il tuo è un saggio di filosofia con un’impronta tradizionale, ovvero presenta una pagina pulita senza note in cui l’argomentazione filosofica non rinuncia, ma anzi provoca, la prosa letteraria. In parole povere non è in linea con i dettami accademici che prevedono un tasso di ‘scientificità’ che finisce per mortificare l’autore e il lettore. Posso chiederti il perché di questa scelta?

L’oscuro argonauta. Sulla forma del tempo e del mistero (Transeuropa Edizioni)

F.T «Io sono sempre stato legato a un’idea tradizionale, originaria, della filosofia. Non a caso, è soprattutto la filosofia antica a essere richiamata costantemente nelle mie pagine. E anche quando mi confronto con autori contemporanei, come Spengler e Schmitt, lo faccio partendo da concetti classici, quali polis, polemos, homonoia, koinonia, katechon etc. A ciò si aggiunga che sono per indole e coscienza un antiaccademico. I miei maestri mi hanno insegnato a diffidare degli schematismi, specie quando questi diventano delle gabbie. “L’uomo nasce libero, ma ovunque si trova in catene”, per citare Rousseau. L’accademia, se cessa di essere un luogo di formazione, di accrescimento, può assumere i connotati di un’enclosure, di un recinto che viola lo ius naturae e stabilisce dei diritti artificiali per alcuni che sono per altri la negazione degli stessi in chiave universale. Se opporsi a questo stato di cose significa essere anarchici, ebbene lo sono. Meglio ancora, preferisco identificarmi nella figura dell’anarca di Jünger, che è uno di quei maestri antiaccademici (come Emerson, Borges, Camus o Sgalambro, e naturalmente Nietzsche) che hanno avuto un ruolo preponderante nella mia crescita personale. Ciò non toglie che altri miei saggi rispondano ai dettami di scientificità previsti dall’accademia, con il loro bell’apparato di note dettagliatissime e una ricca bibliografia primaria e secondaria. In quel caso, trattandosi di “studi” a tutti gli effetti, nel significato più completo del termine, questo tipo di tecnicismi era ammissibile e in un certo senso doveroso. Ma devo dire che anche nei miei studi più convenzionali sono sempre stato abbastanza parco nella disseminazione delle note, tanto da attirarmi molte critiche a livello accademico, perché (come mi venne detto da un professore) in un testo scientifico non è possibile esprimersi con la propria voce, bisogna sempre citare qualcun altro, quindi non può esistere una pagina dove non sia presente almeno una nota. In realtà, quest’ansia citazionista non è affatto garanzia di scientificità o lo è specificamente in un’ottica italica. Sfogliando alcune opere capitali, come quelle di Foucault (per esempio, L’archeologia del sapere e La volontà di sapere), si vedrà che le note sono ridotte all’osso: ciò significa che non sono testi scientifici?»

Assolutamente no, soprattutto se prendi in considerazione, oltre ai testi da te citati, anche La nascita della clinica o La storia della follia, parliamo infatti di un autore che ha faticato non poco per essere accolto anche dall’accademia.

F.T «Il problema è un altro: che, come osservi tu, i dettami accademici finiscono per svilire il valore di un testo filosofico, che dovrebbe essere anzitutto un testo letterario, piacevole da leggere. Se la differenza fra la letteratura filosofica e quella generica risiede in una certa specificità del linguaggio, significa che un testo filosofico è tale per il modo in cui si esprime. L’espressione presuppone però un livello di libertà che dovrebbe costituire la cifra stilistica di un autore, mentre si rivela l’esatto opposto, perché nell’ambito della cosiddetta letteratura scientifica ciò dipende da alcuni orpelli tecnici, come l’apparato delle note e dei riferimenti bibliografici. Si è passati insomma dall’espressività come criterio di originalità a una standardizzazione di elementi comuni, con il conseguente prevalere del conformismo sull’autorialità e dello schematismo sulla libertà di espressione. Nei miei testi più personali, come La nave di Teseo e Virotopia, avevo già abiurato a molti aspetti del conformismo scientifico imperante. Con L’oscuro argonauta, che è un testo ancora più personale, ho deciso di fare un passo ulteriore, concedendomi il lusso di argomentare in totale libertà.»

Il tuo libro di filosofia è anche un omaggio alla filosofia stessa, è presente quella dialettica originaria con cui ogni filosofo deve confrontarsi, mi riferisco all’essere e al divenire, se vuoi l’essere e il tempo. Potresti tornare su questo tema?

F.T «Il tempo è la questione intorno a cui ruota la filosofia nella sua interezza. È l’argomento principe: tutti gli altri ne conseguono inevitabilmente e non possono che confrontarsi e scontrarsi con esso in una lotta all’ultimo sangue. In fondo, la tauroctonia praticata nei culti antichi (come quello mitriaco) è una sorta di cronomachia, perché il Toro rappresenta astronomicamente la precessione degli equinozi e la sudditanza della Terra alle leggi del cambiamento, quindi testimonia la volontà dell’uomo di dominare e uccidere il tempo per garantirsi una stabilità che a livello cosmico non esiste. Dal tempo dipende la forma del nostro essere: siamo e non siamo, aspiriamo all’immobilità e all’imperturbabilità e siamo sempre inquieti e transeunti, cerchiamo la terra promessa, un luogo in cui riposare, e finiamo per vestire perennemente i panni del viandante. E l’ombra che ci accompagna è quella dell’Essere, che ci costringe a interrogarci sulla nostra origine e sul nostro destino. E qui viene a inserirsi il dilemma della nave di Teseo, che mutando è rimasta identica a se stessa, ma solo per un artificio. Chi siamo veramente? Quelli che eravamo? Quelli che siamo adesso, in questo preciso momento? Quelli che saremo? Chi può rispondere a questa domanda una volta per tutte, prima che la propria vicenda personale sia conclusa? La verità dovrebbe forse apparire hegelianamente al crepuscolo, portata dalla nottola di Minerva. Ma non bisogna dimenticare che il crepuscolo ha una doppia facies, di cui quella serotina è solo una delle due. L’aspetto più esoterico del crepuscolo si evince al contrario dalla sua variante mattutina, quando la tenue oscurità che lo caratterizza prelude alla luce abbagliante dell’alba. È in questo frangente che si consuma l’opposizione fra il dionisiaco e l’apollineo, fra i chiaroscuri del baccanale e gli accecanti strali del dio del sole, che è tutore dell’ordine cosmico. Ciò che rimane fra la tenebra e il barbaglio, fra il trambusto e il silenzio è la gnosi del profondo. Nella sapienza orientale è il rintocco di una campana a risvegliare l’Essere: una vibrazione che racchiude nei suoi echi i cicli delle reincarnazioni, che contengono ciascuna un risvolto dell’Essere, una sua determinazione particolare. Nella dialettica fra Essere e tempo, l’Essere sembra uscire sconfitto: la nave di Teseo, che ha mutato ogni singolo pezzo che la componeva, ha perduto la sua identità. Ma in questo libro io parlo di un’altra nave: parlo di Argo, la ‘Rapida’, la nave magica che riportò indietro il Vello d’Oro, la reliquia dai poteri risananti, immortalizzanti, come la pianta di Gilgameš, come il Soma del Rigveda e l’Haoma dell’Avesta, come il Graal dei cavalieri. La vittoria dell’Essere sul tempo avviene quando si realizza che il tempo non è qualcosa di irreversibile, non segue un’unica direzione: quando all’immagine della freccia si sostituisce quella del cerchio, dell’ouroboros, del serpente autofagico, della ruota del chakra. Allora si può comprendere che il senso del tempo non è quello di passare, di scorrere e basta, ma è quello di ritornare. E il ritorno permette una riacquisizione dell’Essere, la reintegrazione delle sue facoltà apparentemente transitorie. E l’epopea degli Argonauti, che può leggersi come il primo nostos, racconta proprio il grande ritorno dal mare del tempo, che è il mare delle possibilità (per citare il titolo di un altro mio saggio): un mare che può essere navigato infinite volte sulle medesime rotte, in un verso come nell’altro.»

Mi fa piacere che hai accennato alla simbologia del serpente, che tu hai illustrato in maniera dettagliata, approfondita. Volevo chiederti di tornare sulla polifunzionalità di un tale simbolo, esso cambia significato con il mutare di una cultura, per gli antichi greci o romani ha un significato diverso da quello assegnato dai cristiani. È forse il simbolo che richiama immediatamente l’idea del pharmakon, su cui ti soffermi. Inoltre tu riporti la presenza del serpente anche nello Zarathustra nietzschiano, un filosofo che con l’eterno ritorno dell’uguale ha posto una personale sintesi della dialettica essere e tempo, ti chiedo di tornare su questi due aspetti, la simbologia del serpente e la sintesi nietzschiana.

F.T «Questa domanda, di cui ti sono grato, è molto importante e impegnativa e costituisce probabilmente il nocciolo del discorso. Va detto subito che la simbologia legata al serpente assume una particolare rilevanza, in quanto varia da religione a religione e presenta una stretta attinenza col modo di intendere il tempo in diverse civiltà. Laddove s’impone una concezione ciclica, ecco che troviamo l’ouroboros, raffigurato come un cerchio graficamente concluso ma non concettualmente. Infatti è un cerchio vivente e feroce: il serpente si morde la coda e promette di divorarsi poco per volta fino alla fine. Il che crea un paradosso, come osserva Ernst Gombrich (in Freud e la psicologia dell’arte): che cosa farà il serpente quando non sarà più in grado di mordere, ormai ridotto a un moncherino? Quindi la sua immagine, che dovrebbe sciogliere l’enigma del tempo ciclico, finisce invece per alimentarlo: come succede ne L’enigma dell’ora di De Chirico, dove il vero enigma consiste nel capire quale sia l’enigma (a parte la discrasia fra la luce e l’ora segnata sul quadrante, il dipinto appare del tutto privo di mistero; in effetti, usando la logica, si potrebbe supporre semplicemente che l’orologio sia rotto). Il potere del mistero è dunque quello di replicare sè stesso. Il tema del doppio è uno dei più affascinanti e ricorrenti nella storia della letteratura dall’antichità ai nostri giorni, passando per Plauto, Dostoevskij e Borges, la cui ossessione per gli specchi deriva proprio dalla paura di essere duplicato, di scindersi in Io e non-Io. Il serpente è una sorta di specchio vivente, perché riesce a duplicarsi cambiando pelle, ringiovanendo, lasciandosi dietro le spoglie del tempo per vestire un nuovo corpo, come Sata, il ‘serpente dagli infiniti anni’ del Libro dei Morti. Sempre nella civiltà egizia troviamo un altro serpente, Mehen, che ha un ruolo fondamentale, perché protegge Ra, il dio del sole, nel suo viaggio notturno agli Inferi, creando con il suo corpo una cabina protettiva intorno al dio. Nella fattispecie, il serpente diviene nuovamente garante della ciclicità cosmica, ossia del regolare sorgere del sole al mattino. L’uomo ha quindi cercato di domare questa creatura (simultaneamente mistica e demoniaca) per poter imbrigliare il tempo, senza riuscirci. Non è un caso che dallo zodiaco sia stato escluso un segno, il tredicesimo, che raffigura proprio un uomo nell’atto di domare un serpente: l’Ofiuco, già conosciuto e studiato dagli astrologi babilonesi. Spostandoci oltreoceano ci imbattiamo nel serpente celeste chiamato dai Maya Kukulkán e dagli Aztechi Quetzalcóatl, che è dotato di piume come un uccello e si caratterizza come una creatura ibrida, in grado di volare fra le nubi e saettare sulla terra. Del resto, anche quella del Genesi è una creatura ibrida, descritta inizialmente in posizione eretta (al pari dell’egizio Sata) e solo in seguito, come punizione per il suo inganno, costretta a strisciare sul ventre, mangiando la polvere. Da ciò è dipesa la sua demonizzazione in ambito cristiano, dove il serpente diviene un simbolo satanico, con la Vergine raffigurata spesso nell’atto di schiacciargli la testa: una caratterizzazione diametralmente opposta rispetto alla civiltà greco-romana, che lo associa allo scettro di Hermes (il caduceo), che dissipa le nubi ed è quindi latore di conoscenza, di schiarimento mentale e morale, e alla verga di Asclepio, portatrice di risanamento e assurta a emblema della scienza medica. E a questa si connette la duplicità del concetto di pharmakon, che in greco significa sia veleno che medicamento: ogni farmaco è infatti potenzialmente venefico se assunto in dosi errate, perché il concetto di pharmakon presuppone l’annientamento di qualcosa. Il suo compito è quello di annientare il male che possiede una persona per consentirle di continuare a vivere, ma se non annientasse il male potrebbe annientare la persona stessa e la cura si dimostrerebbe peggiore della malattia. Il farmaco oscilla fra questi due estremi, ecco perché è essenziale la protezione di un dio come Asclepio, che funga da mediatore: la sua verga con il serpente attorcigliato serve a calibrare l’effetto del pharmakon, agendo da equilibratore, da ago della bilancia (la bilancia appunto con cui lo speziale deve dosare attentamente i composti nella preparazione del farmaco). L’immagine del serpente sintetizza allora, alla perfezione, l’ambivalenza del farmaco: il serpente che con il suo morso può uccidere, può anche, allo stesso modo, guarire. Sicché nell’antichità spiccano diversi culti connessi alla venerazione di un serpente guaritore o pantocratore, come i semidei Nāga degli Indù e il dio Glicone di Alessandro di Abonotico, per arrivare al serpente “eucaristico” degli Ofiti. E veniamo così a Nietzsche. La velenosa insinuazione con cui un demone gli prospetta la possibilità dell’eterno ritorno si rivela l’autentica cura per un tempo lineare, teleologico, che non conserva e non restituisce nulla. Solo l’Übermensch può farsi carico del peso di una simile eventualità, utilizzando questo veleno come antidoto contro la mortalità e la fatuità di ogni istante. Nell’eterno ritorno tutto è vano e niente è vano: è vano perché ogni istante ritornerà, quindi perde la sua essenzialità, la sua unicità; non lo è per la medesima ragione, perché ogni istante si qualifica come permanente, eterno, necessario: anche quando sembra fuggire via, in realtà è custodito per sempre, è un frammento ineludibile intessuto nella trama del destino. Il Superuomo è allora l’Ofiuco disceso in terra dal cielo, come il Demiurgo fuggito dall’Iperuranio con la sua particella di eternità stretta fra i denti, l’exaiphnes, l’istante infinito con cui darà forma al tempo, plasmandolo secondo l’ordine della successione cronologica. Il Superuomo è il vero dominatore del serpente, come rivela Nietzsche in un capitolo dello Zarathustra, quello Della visione e l’enigma, dove il profeta della “trasvalutazione dei valori” insegna come trasvalutare il primo fra tutti i valori, cioè il tempo. In questo capitolo troviamo infatti un uomo che sta per avere divorata la lingua da un serpente che si è intrufolato nella sua bocca mentre dormiva e per liberarsene Zarathustra gli consiglia di addentarlo, mozzandogli la testa. Così facendo, il Superuomo porta a compimento il lavorio dell’ouroboros: sottrae al serpente la facoltà di divorarsi a partire dalla coda, rubandogli la forza che lo caratterizza, quella del morso, per appropriarsene. Un’azione che esige il sacrificio del serpente, che viene simbolicamente decapitato. L’Übermensch-Ofiuco ha così vinto la sua battaglia cosmica, come Mitra che sgozza il toro e offre al serpente ormai domato di bere il suo sangue, sancendo il proprio definitivo trionfo sulla tirannia del tempo. Il serpente dei mitrei può intendersi perciò come una raffigurazione eterna del mysta, dell’iniziato, che prenderà posto nel taurobolium per il bagno di sangue e la regeneratio in aeternum, come il serpente egizio Sata che costituisce la forma ultraterrena del defunto immortalizzato.»

Francesco ti ringrazio molto per il tempo che ci hai dedicato, i temi sono talmente tanti e affascinanti che son sicuro avremo modo di continuare questo nostro dialogo, non più intervista ma vero e proprio dialogo.

In dialogo

Francesco Tigani, storico delle dottrine politiche, scrittore e poeta. Tra le sue opere, oltre quelle già citate nell’articolo, ricordiamo Vita d’Europa. La nascita e il declino della coscienza europea, Rubettino 2018, Le ceneri del politico in due capitoli: il teologo e l’erostrato, Moltemi 2019.

Emiliano Ventura, saggista, scrittore e filosofo. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Il mito di Diana e Atteone in Ovidio, Arbor Sapientiae 2018, Mario Luzi. La poesia in teatro, Scienze e Lettere 2010, David Foster Wallace. La cometa che passa rasoterra, Elemento 115 2019, Giordano Bruno. Tempo di non essere, Aracne 2021.

Mario Luzi, Baudelaire e la poesia moderna

Emiliano Ventura

Valeria Magini

Emiliano Ventura e Valeria Magini, attraverso la forma del dialogo, disegnano un percorso tortuoso e interessante all’interno della poesia moderna e contemporanea.

V.M «L’idea di Emiliano Ventura, che mi sento di sposare, è quella di partire da tempi più remoti, da Leopardi nello specifico, per tentare di comprendere la natura della poesia oggi.

Ci chiediamo da subito cosa sia il concetto di poesia moderna e come si differenzi dalla poesia contemporanea. All’inizio del Novecento l’attenzione principale è incentrata sull’io, più presente in una dimensione naturale. Mentre via via nel tempo, anche a fronte delle due guerre e dei relativi dopoguerra, si viene a creare un rapporto più concreto con la dimensione della città. L’urbanistica e la massificazione divengono incidenti nella produzione poetico letteraria. Non soltanto in Italia ma in Europa. Di conseguenza gli autori di questo periodo vengono tutti fortemente influenzati da ciò che stava accadendo.

Il Leopardi degli Idilli, delle prime produzioni poetiche, è un Leopardi giovane, che si discosta dall’ultima produzione artistica. Pensiamo alla Ginestra e a come sia differente da La Donzelletta che vien dalla campagna, per fare un esempio concreto.

Però il nodo centrale che riscontro è il legame con la poesia di Mario Luzi, punto centrale della poesia contemporanea, ma anche in un certo qual modo moderna. E tutto ciò si rispecchia nel concetto centrale dell’agone in Mario Luzi.»

E.V «Ci vorremmo concentrare sulle caratteristiche della poesia moderna, attraverso l’occhio privilegiato di Mario Luzi. Non solo perché quest’ultimo è autore di diversi saggi in cui chiarisce cosa sia la poesia moderna e perché nasca, ma soprattutto perché lo ha testimoniato attraverso tutta la sua opera. Personalmente considero Mario Luzi più centrale di altri, rispecchiando ciò che Martin Heidegger diceva di Friedrich Hölderlin, “Hölderlin è centrale nel mio pensiero, perché lui è il poeta che aspetta il Dio”, riferendosi ovviamente a ciò che è trascendente.

Allo stesso modo per me Luzi è il poeta che aspetta ‘l’evento’, che lo attende. Ciò perché il pensiero fondamentale di Mario Luzi ruota intorno alla definizione di agone, in tutte le sue varie declinazioni, ovvero agone, agonia, disputa, confronto. In pratica tutta la sua opera, sia quella poetica, teatrale e saggistica, ruotano intorno a questo concetto, che corrisponde esattamente alla caratteristica della poesia moderna, ciò che la definisce. Asserisce infatti che la poesia moderna nasce con le stimmate dell’agone, del confronto, dell’agonismo. E si chiede chi siano i protagonisti di questa svolta, chi abbia espresso tali caratteristiche, li individua in Leopardi e Baudelaire.

La poesia moderna nasce nel momento in cui il poeta entra in conflitto con la società coeva, con le istituzioni. Il poeta toscano, in tal senso, parla di orfanità umanistica, proprio perché l’uomo si sente orfano, non solo per la filosofia che lo circonda, ma per se stesso, privato del contesto culturale che lo aveva riconosciuto depositario di un valore, di una Parola, di una autorevolezza. Si pensi ai poeti nelle Corti, al Rinascimento di Ariosto, del Tasso, tanto per fare i nomi più noti.

Nell’Ottocento tutto questo cambia radicalmente, il poeta non è più il centro di quel mondo.

Il primo nome, come aveva anticipato Valeria, è Leopardi. Basta rileggere la sua opera e concentrarsi sulla critica che muove allo sviluppo della filosofia e delle scienze positive dei primi dell’Ottocento. È una voce fuori dal coro, è in contrasto con la visione positivistica della scienza che aumenta la possibilità di conoscere, aumentando di pari passo l’infelicità dell’uomo.

Prima edizione con note dell’autore.

Il secondo nome è quello di Baudelaire che di tale concezione diviene paradigmatico. Quando pubblica i Fiori del Male, la prima poesia della raccolta, ovvero Benedizione si traduce, a dispetto del nome, in una maledizione. A parlare è la madre del poeta che però si sente maledetta per il fatto di aver partorito un poeta.

Avessi partorito un groviglio di vipere,

piuttosto che nutrire questa derisione!

Maledetta notte degli effimeri piaceri

Quando il mio ventre concepì questa espiazione!

Poiché mi hai scelta fra tutte le donne,

per essere disgusto del mio triste marito,

e non posso gettare questo aborto di natura,

come un biglietto d’amore, tra le fiamme,

farò rimbalzare il tuo odio che mi opprime

sullo strumento maledetto delle tue malvagità

e torcerò a tal punto quest’albero spregevole,

che non potrà mai più germogliare la sua peste!

 Non può non notarsi la differenza ad esempio tra la madre di Dante, che fa un sogno in cui vede il figlio trasformato in un pavone, simbolo di grandezza e bellezza, e questa madre che maledice il figlio poeta. Ancor più significativo un altro poemetto (molto noto) di Baudelaire, contenuto in Spleen, in cui il poeta attraversando la strada perde l’aureola nel fango, ma non si addolora, pensando che qualche poetastro la raccoglierà fingendo di essere lui.

Dovreste almeno far affiggere che avete smarrita codesta aureola, o farla reclamare dal commissario.

No davvero! Qui sto bene. Voi solo m’avete ravvisato. D’altronde la grandezza mi annoia. E poi penso con gioia che qualche poetastro la raccatterà e se la metterà in testa impudentemente….

Si conferma quindi una visione del poeta radicalmente cambiata. Egli non è più accolto, accettato. Non fa più parte del contesto culturale precedente. Siamo di fronte a una posizione fortemente agonistica, conflittuale.»

V.M «In Mario Luzi tutto questo forse deriva dal forte interesse che nutriva per la poesia francese. A tal punto da studiarla e laurearsi con una tesi in letteratura francese. Quella di Luzi è una attenzione specifica che lo spinge a fare traduzioni, pensiamo a quelle di Rimbaud.

Il melanos e il male di vivere, che riscontriamo in Baudelaire, derivano proprio da quel sentimento tipico del romanticismo che confluisce in Francia in una altra forma letteraria. Esattamente come tutto quello che Emiliano diceva sul malessere, sullo spleen, che poi significa nello specifico milza, e che possiamo riscontrare nel concetto tedesco dello Sturm und Drang. Sono tutte correnti contemporanee, anche se differenti tra di loro, che però raccontavano in uno specifico momento storico in Europa un malessere proprio del poeta nei confronti di se stesso e dell’altro. Uno spleen, un male a strabiliare, un malessere interno al nostro corpo.

Tutto ciò in Mario Luzi risiede in un momento successivo rispetto alla sua prima produzione poetica, anche se personalmente mi sento più legata alla poesia romantica, sono rimasta affascinata da La Barca, la prima raccolta di Luzi, del 1935, in cui si riscontrano due tematiche importanti: il tempo e il mare. Inteso come il mare dell’essere, con il suo spingere verso qualcosa. Probabilmente legato al concetto dell’adolescente che deve crescere. Mario Luzi infatti vive gli anni del liceo a Firenze, trascorrendo il tempo a osservare l’Arno e le barche, che assumono per lui un valore importante, la possibilità del traghettare da uno stato all’altro.

In una intervista rilasciata da Luzi infatti si legge

la barca era per me un oggetto fascinoso di per sé, che allora vedevo spesso sull’Arno. C’erano le barche dei remaioli e avevano una densità che le barche sportive non hanno […]

Il mare dell’essere è un mare più pensato che visto e goduto con i sensi, per cui si può presumere che ci sia questo senso del destino come viaggio o del viaggio come destino ed esperienza totale.

Da questo momento però Mario Luzi prende una strada completamente diversa, i suoi amici della poesia ermetica che frequentava a Firenze fanno parte della fase iniziale della sua produzione poetica. Dal 1963 in poi Luzi inizierà a pubblicare molte raccolte.»

E.V. «L’opera di Luzi in vero, oltre a essere molto corposa, attraversa quasi settanta anni, cambiando radicalmente. Per cui ogni definizione su di lui, da quella iniziale di poeta ermetico a quella successiva di poeta cristiano, non sono esaustive. É un poeta estremamente complesso, la cui produzione poetica cambia costantemente nell’arco della vita, finendo per assumere sempre di più una connotazione metafisica. Le sue espressioni liriche sono sempre state molto alte, ma alla fine lo divengono ancor più complesse, come l’irregolarità della spaziatura tipografica della parola sulla pagina bianca.

Per comprendere l’essenza dell’agonismo del poeta, citiamo una poesia molto breve ma significativa che ci mostra l’agone vissuto dal poeta.

Ne Al fuoco della controversia, il cui titolo già si posiziona in quella prospettiva che definisce la poesia moderna e descrive perfettamente la poesia contemporanea, troviamo la poesia Poscritto. Dedicata a tre poeti scomparsi, che in realtà non sono mai citati esplicitamente, riportando solo i luoghi in cui vengono uccisi. Si tratta di Pier Paolo Pasolini, Osip Mandel’stam e Garcia Lorca:

A Granata, nel gulag siberiano, a Ostia –

Una riprova superflua, una preordinata

testimonianza

oppure sulla lunga controversia

un irrefutabile sigillo? Si chiede

lei depositaria inferma

di misura e arte

mentre escono il poeta e l’assassino

l’uno e l’altro dalla metafora

e s’avviano al sanguinoso appuntamento

ciascuno certo di sé, ciascuno nella sua parte.

Per me questo passo rappresenta la descrizione più calzante e lineare dell’agone del poeta, del suo assassinio e della conseguente orfanità.

Esiste una interpretazione dei Fiori del male proposta da Benjamin originalissima. Tale raccolta, che per altro potrebbe essere individuata come l’opera poetica che definisce la modernità, ha una struttura che può essere vista come un romanzo poliziesco. Le 100 poesie, che richiamano i cento canti dell’inferno, ci presentano un inferno quotidiano. Secondo Benjamin infatti, la continua sequenza di omicidi, morti violente, assassinii presenti nelle liriche rende la raccolta una sorta di romanzo poliziesco. Una fenomenologia del crimine che però, sostiene Benjamin, nel caso di Baudelaire, traduttore per altro di Poe, di quest’ultimo non ne eredita la mentalità investigativa; infatti non ripristina l’ordine antecedente. Non ha una mente analitica in grado di sciogliere, con la scienza analitica, l’enigma degli omicidi. Baudelaire è un personaggio della modernità, è un flaneur, che cammina, osserva e riporta ciò che vede, esattamente come i suoi amici pittori, che in alcuni saggi recensisce, avrebbero fatto in un quadro.

Diviene in tal senso paradigmatico, perché è lui che definisce cosa sia la modernità: “ciò che è estremamente transitorio, fugace, veloce”. Sosteneva infatti che i pittori non devono farci vedere un soggetto moderno ma con gli abiti del Rinascimento, al contrario devono mostrare i nostri abiti, il bello che si cela dietro il quotidiano. Questo sarebbe il ruolo del poeta, il poeta della modernità, impegnato a mostrarci il bello del continuamente transitorio, fugace, passeggero.»

V.M «Anche se ciò che la critica dice sui Fiori del male, pubblicazione del 1857 e quindi non così recente, è che tale raccolta poetica abbia la solidità del marmo, la forma infatti è quella del sonetto. Non siamo nel verso libero, c’è comunque una struttura della tradizione.»

E.V «Baudelaire era rigidissimo sulla questione della struttura. Famosi erano i litigi con il suo editore, perché preferiva che ci fosse un refuso ma che nessuno toccasse la sua metrica.»

V.M «Mentre l’elemento moderno presente, di cui tu Emiliano parlavi, è il disagio, il tormento nei confronti della società contemporanea. Parigi, sempre secondo Benjamin, era la capitale dell’Europa, simbolo ed emblema di tutto ciò che stava accadendo. In fondo ciò risulta vero non solo in poesia, ma in arte in generale, così come in politica.

Per quanto riguarda invece l’accenno che hai fatto della connessione tra Baudelaire e Poe, concordo sul fatto che Poe fu per lui centrale, avendolo tradotto e, di fatto, introdotto nella cultura europea. »

E.V «E se il metodo deduttivo di Poe manca in Baudelaire, da lui però riprende l’indagine, l’osservazione, seppur priva del passaggio analitico successivo.

Quando Baudelaire traduce i racconti di Poe, si concentra su un racconto L’uomo della folla, in cui il protagonista insegue nella folla un uomo che ha delle caratteristiche criminali. Si muove nella folla e si perde in questa. Baudelaire recupera il concetto della folla, concetto centrale nella modernità. Per la prima volta il poeta si relazione con un pubblico, con una moltitudine di persone. In una straordinaria poesia Baudelaire rovescia il racconto di Poe, non è un assassino che si nasconde nella folla imprendibile, ma qui si parla di una ragazza che emerge dalla folla che il poeta vede e di cui si innamora ma lei, tornando nella folla, sparisce. Ci consegna la poesia dell’attimo, in cui vede per un secondo un amore, che poteva essere, ma che con rapidità è sparito nella folla. E questo è solo un esempio del passaggio di tematiche tra i due. Baudelaire scrive anche una lettera alla zia/suocera di Poe manifestando i suoi sentimenti e il fatto di considerarlo come un fratello.»

V.M «Anche il concetto di morte diviene centrale, portato sia dalla letteratura americana di Poe che dai Fiori del male. Un male che è melanos, cioè nero e quindi morte.»

E.V «In questa genealogia della poesia moderna, una tappa importante è anche quella di Mallarmé, colui che ha saputo portare l’agone alle estreme conseguenze. Talmente grande è il senso del «conflitto» in questo poeta che entra addirittura in rivalità con il creatore, con Dio. Una rivalità tra il creatore poetico e il creatore divino, che prevede già, nella sua stessa natura, una sconfitta, una duplice resa che il poeta stesso descrive ne L’aprés-midi d’un faune. Un fauno intravede al di là del bosco due ninfe di cui si innamora, pensa di averle amate, possedute e poi si rende conto alla fine che probabilmente era solo un sogno. L’assioma di partenza della poesia di Mallarmé è proprio che il bello venga dal niente, la bellezza nasce dal niente, rovesciando l’assioma della filosofia e dell’essere. Il bello perciò svanisce nel sogno, perde di consistenza e il fauno mette da parte il flauto, ovvero la parola poetica, il canto, e non può restituire quella bellezza.

L’apice di tale sconfitta è l’ultimo poemetto, Un coup de dés, in cui si legge che un colpo di dadi non sconfiggerà mai il caso. Tutto è legato al caso, ovvero a ciò che non ha una legge che possa essere conosciuta.

Quando infatti all’inizio parlavo della centralità di Luzi, e del suo essere il poeta dell’evento, mi riferivo a questo, alla sua capacità di rovesciare la posizione di Mallarmé, riportando il positivo.

Egli afferma, è vero, che la riuscita (quando il numero esce) non è fuori dal caso, è altresì vero che l’evento è sempre possibile. Non è impossibile.

In una poesia del 1950 Soldato, troviamo questi versi finali, molto significativi.

Fu poca cosa; poca

per non morire indegni, meno ancora

per vivere da uomini e uscire fuori dal

bando.

Ma fui certo che il bosco

non è senza via s’uscita.

Di più non era opera mia soltanto.

Il bosco non è senza via d’uscita, così come la messa al bando non è definitiva, se ne può uscire. In tal modo ha rovesciamo in positivo quell’assunto di Mallarmé. Per questo io lo considero centralissimo, incarnando il poeta che attende l’evento. Esistono molti passi in tal senso, come quando ad esempio scrive l’oscurità era raggiante, sta esprimendo lo stesso concetto: dal bosco si esce. La possibilità dell’evento c’è sempre, a mio avviso è un aspetto che definisce la sua poetica.»

V.M «Mi viene in mente un’altra poesia in tal senso, tratta da Quaderno gotico del 1947

Oscillano le fronde, il cielo invoca

la luna. Un desiderio vivo spira

dall’ombra costellata, l’aria giuoca

sul prato. Quale presenza s’aggira?

Un respiro sensibile fra gli alberi

è passato, una vaga essenza esplosa

volge intorno ai capelli carezzevole,

nel portico una musica riposa.

Ah questa oscura gioia t’è dovuta,

il segreto ti fa più viva, il vento

desto nel rovo sei, sei tu venuta

sull’erba in questo lucido fermento.

Hai varcato la siepe d’avvenire,

sei penetrata qui dove la lucciola

vola rapida a accendersi e a sparire,

sfiora i bersò e lascia intatta la tenebra.

Completamente diversa rispetto a un altro testo, compreso ne La barca del 1935, L’immensità dell’attimo

Quando tra estreme ombre profonda

In aperti paesi l’estate rapisce il canto agli armenti

E la memoria dei pastori e ovunque tace

La segreta alacrità delle specie,

i nascituri avallano

nella dolce volontà delle madri

e preme i rami dei colli e le pianure

aride il progressivo esser dei frutti.

Sulla terra accadono senza luogo

senza perché le indelebili

Verità, in quel soffio ove affondan

Leggere il peso le fronde

Le navi inclinano il fianco

E l’ansia de’naviganti a strane coste,

il suono d’ogni voce

perde sé nel suo grembo, al mare al

vento.

Entrambe complesse ma soprattutto molto diverse tra di loro. In questa seconda lirica siamo in un mondo mistico, perché effettivamente l’ermetismo ha proprio il misticismo come cifra particolare, mentre nella prima poesia siamo in un altro mondo.»

E.V «Forse andrebbe spesa qualche altra parola su Quaderno gotico, la raccolta che Valeria ha citato. Composta da 14 liriche più due è senza dubbio la sua raccolta più breve, scritta nel 1947, subito dopo la guerra. Il termine gotico è dovuto al sentimento che vuole descrivere, quello dell’amore medievale, che deve raggiungere vette altissime, proprio come quelle delle cattedrali gotiche. La verticalità di quel sentimento era centrale. Aveva vissuto la guerra e sente che c’era bisogno, dopo quegli anni terribili, di un forte sentimento di innamoramento. Per questo Quaderno gotico potrebbe definirsi un diario d’amore, in cui la presenza femminile aleggia, si avvicina alla chimera dei Canti Orfici di Dino Campana. In fondo proprio Campana era morto da poco e gli ermetici si ritrovano per dare una seconda sepoltura al poeta che era stato seppellito in una fossa comune. Si assiste perciò a una rivalutazione della poesia di Campana, dei suoi Canti Orfici, presente anche nel Quaderno gotico. Se ne avverte chiaramente l’influenza, così come della chimera, di questa presenza femminile considerata una via d’accesso a un mondo altro. Una soglia. »

V.M «Penso al 1957, una data che lungo questo percorso mi sono ritrovata più volte; 1857 con I Fiori del male, 1957 con Onore del vero di Mario Luzi e poi il 1957 nella poesia di Pasolini. In realtà ho trovato una lunga critica di Pasolini alla poesia di Mario Luzi. In una intervista del 1973 Pasolini asserisce che: «Insomma, nella terra in cui vive Luzi piove sempre o quasi. O soffia il vento o gela. Se c’è il sole è un sole insano che dà malessere. Se c’è il sereno, è un sereno allucinato, faticoso che tormenta il corpo del malato, del convalescente, del psicastenico. A questa scelta del paesaggio nel paesaggio reale corrisponde una analoga scelta, diciamo, sociologica. Abbiamo tuguri su periferie nei viali, baraccamenti, campi di profughi, osterie tristi come antri ed eccetera. I personaggi che popolano questi posti sono più che dei poveri dei miserabili, degli zingari, molto vivaci e coloriti, nella loro stravaganza sociale benché atrocemente grigi. »

E.V «Erano infatti su posizioni diverse, anche se poi Pasolini invita Luzi a pubblicare le sue poesie su Officina. C’era stima vicendevole anche se su posizioni critiche differenti.»

V.M «Nella poesia successiva di Mario Luzi, mi riferisco al periodo dal 1955 in cui ottiene una cattedra a Firenze in Letteratura Francese, ha un atteggiamento differente anche nei confronti della poesia. Lì i luoghi diventano i luoghi simboli dell’anima. Se si legge questa sua produzione si comprende la diversità, è una sorta di spartiacque. In realtà avrà anche una fase di stasi, legata probabilmente a questi suoi nuovi impegni di docenza, per poi invece tornare prolifico come sempre.»

E.V. «Quando pubblica infatti Nel Magma nel 1963 assistiamo a una sorta di rivoluzione, abbatte i toni del linguaggio, rendendolo più quotidiano e subentra il dialogo. Si struttura come una lingua mista, che lo farà litigare con Cristina Campo che gli rimprovera la mancanza della sua formalità, l’eccesso di colloquialità. »

V.M «Se ci concentriamo sul titolo stesso, Nel Magma, non possiamo non pensare al magma, a quella sostanza né liquida, né solida, un insieme eterogeneo in cui il poeta si trova all’interno.»

In conclusione

Se dovessimo tornare alla domanda inziale e capire chi sia il poeta contemporaneo, quale sia il suo ruolo ci troveremmo in difficoltà. Una sua definizione univoca è forse impossibile, così come la decifrazione del presente. Sicuramente permane la condizione agonistica e conflittuale espressa così bene da Luzi. Il problema è poi che a una perdita del ruolo del poeta corrisponde anche la perdita del pubblico e della stessa critica.

Sembra che il poeta si sia chiuso nella sua autoreferenzialità e manchi il suo contraltare critico. Esiste la pubblicità, la recensione, indici di gradimento ma non il lavoro critico, ciò che in fondo è in grado di dar credito alla poesia contemporanea.

Tutta via Pasolini diceva che la poesia è inconsumabile, in quanto non ha utile non ha un commercio, e quindi si spera che una traccia rimanga in quanto non consumata. In Italia ci sono stati due eventi traumatici per la poesia e contemporanea: nel 1975 la morte di Pasolini e nel 1979 il Festival di Castelporziano, dove tutti i poeti italiani vengono messi alla berlina.

Gli unici che in quel contesto vengono ben accettati sono gli americani, capaci di fare delle performance, anche accompagnati con la chitarra. Diverso dall’impostazione dei nostri poeti che in tal caso furono oggetto di critica, anche feroce, così la poesia contemporanea si ritrova in una forma eccessiva di autoreferenzialità. Diventa ancor più di nicchia, si concentrano sull’oscuro, su un nuovo orfismo, non ci sono più quelle condizioni storico sociali che ‘accoglievano’, stimolavano e garantivano quel minimo di consenso e di credibilità. I poeti del Novecento questo, in fondo, lo hanno sempre saputo, dal «non chiederci la parola» di Montale, al «piccolo poeta sentimentale» di Corazzini, al «sono un saltimbanco» di Palazzeschi, è tutto un declinare al negativo.

Per questo ritengo ancora più forte e significativa l’opera di Luzi, la sua possibilità dell’evento e la sua fede nella Parola: «Vola alta, parola, cresci in profondità, / tocca Nadir e Zenith della tua significazione».

Mario Luzi

Ringraziamo

Emiliano Ventura, saggista e scrittore, responsabile scientifico e della comunicazione del Premio Internazionale Mario Luzi e della Fondazione Mario Luzi fino al 2016, dove ha diretto le collane di saggistica. Suoi Mario Luzi. La poesia in teatro, Scienze e Lettere (2010), David Foster Wallace. La cometa che passa rasoterra Elemento 115 (2019), Giordano Bruno. Tempo di non essere Aracne 2021.

Valeria Magini, fondatrice e direttore di The Serendipidy Periodical, insegnante e web editor.

Vanni De Simone: intervista a un viaggiatore dell’utopia

di Gilda Diotallevi

Vanni De Simone è senza dubbio una personalità interessante, dal carattere fortemente poliedrico. Da qualche anno diventato editore, possiede infatti la casa editrice elemento115.com/, ha alle spalle una lunga carriera come scrittore, traduttore e autore radiofonico. Esperto di scrittori e pensatori utopisti della seconda metà dell’Ottocento, è considerato una autorità nel campo della letteratura cyberpunk e un profondo conoscitore della narrazione di fantascienza, che a sua volta reinterpreta con uno stile personalissimo.

Leggendo i suoi testi, riascoltando le sue interviste, si nota che dietro ogni lavoro si cela uno studio, una ricerca. Ci viene così da chiederle come si sia avvicinato alla letteratura.

VDS «A me la scrittura è sempre piaciuta. Forse è qualcosa che uno ha dentro. Da piccolo leggevo tantissimo e in qualche modo si è veicolata in altro, creando un mondo. Intorno a me, scherzando mi dicevano che avevo una faccia da poeta. Forse ero segnato dall’inizio.»

Quando è stato però che ha capito il suo tipo di scrittura

VDS «Ci ho messo tanto. Ho impiegato tempo per elaborare la mia scrittura, lungo un percorso fatto anche di rifiuti. Tra questi ultimi ad avermi toccato di più è stato quello della Ginzburg. Le avevo mandato una elaborazione della psicologia di un terrorista, di un brigatista. Lei lo ha letto, dicendomi poi “questa scrittura è falsa”. Mi ha fatto riflettere, perché in fondo tutte le scritture lo sono. Lei faceva parte di Einaudi, figura storica, con tanto di cognome importante. Quando trovai alcune stilettate dirette proprio a Natalia Ginzbrurg nei testi di Volponi, un autore che adoro, rimasi colpito! Avrei preferito che Lei mi avesse parlato del grado di scrittura, ma la falsità era una cosa che non compresi. Non ero un brigatista è vero, ma secondo questa logica solo un brigatista avrebbe potuto scrivere di brigatisti. La mia era una elaborazione inventata di una figura, di un seminarista che da prete abbandona l’abito e si unisce alle Brigate Rosse, perché per me c’erano delle vicinanze, avevano la stessa formazione culturale, ovvero l’essere tutto d’un pezzo. Anche se l’uno nel nome di Cristo, l’altro nel nome della Rivoluzione. Ma ebbi anche molti consensi. Roberto Roversi per esempio apprezzava tutto ciò che scrivevo.

Il mio romanzo Il respiro dell’Orso Bianco lo devo a Balestrini, un mio carissimo amico scomparso qualche anno fa. Consegnai la bozza del libro, tramite una redattrice di mia conoscenza, che dirigeva una collana di narrativa per Einaudi che però me lo bloccò, nonostante molti altri della casa editrice ne erano rimasti affascinati. Fu proprio dopo questo incidente di percorso che conobbi Nanni Balestrini a cui feci leggere il testo. Lui ne fu colpito e decise subito di contattare la casa editrice ‘Derive e Approdi’ per farlo pubblicare. »

Quali sono invece i testi che ti hanno ispirato?

Vanni cerca tra gli scaffali della sua grande libreria alcuni libri che ci permette di osservare. Sono segnati, studiati, eppure tenuti benissimo.

VDS «Mi piacciono i testi che possono definirsi degli esperimenti. Come David Foster Wallace, con il suo Infinite Just, ma soprattutto Jonathan Safran Foer. Libri del genere non puoi leggerli solo come racconti, sono altro. Sono opere d’arte variegate, che vanno intese su diversi livelli. E l’operazione interessante è che il testo viene buttato fuori dalla pagina scritta. É un operazione complessa, ma, a mio parere, l’unica corretta per affrontare la narrativa di questa epoca. Non si può tornare a fare raccontini del tipo: “si alzò la mattina”. Mi capita di ricevere delle email, anche per via della mia casa editrice, in cui molti dichiarano che all’improvviso si sono sentiti scrittori, che avvertivano il bisogno di esserlo. Ma non è certo così che si diventa degli autori.»

Poi sul tavolo della sua scrivania aggiunge altri testi

VDS «Beh, James Joyce è un feticcio, bellissima anche l’edizione.

Case di foglie di Mark Danielewski è un altro testo che rientra in quelle operazioni di cui parlavo, possono essere accostati tra loro, come i libri di Foer, unificati dalla teoria del post modernismo. Si innestano all’interno di questa corrente il cui inizio è stato identificato intorno agli anni cinquanta e i cui autori inizialmente erano quasi tutti americani. Ora però anche altri scrittori più attenti studiano e si avvicinano a questa corrente culturale, in grado di tener conto del cambiamento che la narrativa ha subito nel tempo.

Non è una scrittura improvvisata, possiede regole e canoni ben definiti.

Mi viene da pensare a Enzo Papetti, il cui ultimo romanzo è stato pubblicato proprio dalla mia casa editrice, che segue alcune di queste tecniche, come per esempio il citazionismo. Anche Danielewski, che ammiro, abbraccia questo stile, al punto da far sembrava il suo lavoro più un saggio che un’opera di narrativa.

Su questo però io sono d’accordo fino a un certo punto.

Mi affascina la questione della citazione, ma io l’affronto in modo molto diverso. Papetti e Danielewski, di cui vi parlavo, ne inseriscono sempre i riferimenti, da dove cioè sono state prese. Io no. Utilizzo una tecnica diversa che mi consente di fondere la citazione con il brano che sto scrivendo, anche se poi ad esempio nel mio romanzo Il racconto degli dei ho inserito tutti i nomi degli artisti citati in una pagina alla fine del libro, con stili differenti.

L’incipit di Il racconto degli dei è una frase presa dal testo di Paolo Volponi, la Macchina Mondiale, un testo geniale del 1963, in cui l’autore era riuscito a mettere insieme la crisi del mondo contadino e la nuova classe emergente della piccolissima borghesia. La macchina mondiale, all’interno di quel romanzo, era l’elucubrazione semi folle di questo contadino che oltre a stare dietro ai campi scrive un trattato di cose sconclusionate, frutto di una concezione meccanicistica e idealistica. Era davvero particolare come testo, a tal punto da spingere noi di elemento115 a chiederne i diritti alla Einaudi che non l’aveva più pubblicato, ma ce li negarono.»

Visto che lo abbiamo citato per parlare di tecniche di scrittura, le andrebbe di aggiungere qualcosa su questo suo ultimo libro Il racconto degli dei ?

Il bello di questo racconto è l’impossibilità di classificarlo all’interno di un unico genere letterario. Non è esattamente fantasy, eppure richiama alcuni elementi del cyberpunk.

VDS «Forse il testo più dichiaratamente punk è proprio l’altro mio testo Cyberpass (Synergon, Bologna 1994),

però le influenze di quel genere sono presenti anche qui. A me aveva affascinato quella corrente perché rompeva le regole della fantascienza. Anche i miei precedenti libri trattano tematiche simili. Ora in realtà non si può più parlare neanche di fantascienza, lo scrissi anche in un altro testo, essa non ha più motivo di esistere perché la realtà è andata oltre. Basta parlare con un astrofisico per rendersi conto di quanto la fantascienza sia arretrata. La scrittura di invenzione perciò deve necessariamente basarsi su altre tecniche, deve essere fatta diversamente. Non funzionerebbe più così come era impostata in passato perché la realtà, soprattutto quella scientifica, è molto più avanti della nostra fantascienza. Resta però come elemento storico, con il suo bagaglio di scrittura che ha avuto la sua importanza, il suo senso.

È pur vero che alcuni manoscritti del genere continuano ad arrivare alla nostra casa editrice, in molti declinano sul fantasy. Ma personalmente non lo apprezzo, così come non amo neanche i noir, i gialli, gli scientific fiction ovvero non mi piace entrare nel genere specifico. Se si vuole fare una scrittura cosiddetta ‘di massa’, che arrivi a tutti, allora va bene. Ma a me tutto questo non interessa. A me interessa portare aventi una ricerca letteraria, di scrittura, non il libro che vende e basta. Anche se le tirature importante ormai sono proprio difficili da raggiungere.

La narrativa va re-inventata.

Papetti, sul suo ultimo libro ha anche aggiunto il codice QR, cosa che avevo fatto anche io per un progetto iniziato in radio. Avevo presentato un lavoro sul Beowulf, un musical di un’ora e mezza circa, in tre puntate, corredato da un testo teorico che avevo composto sulla base di varie ricerche.»

Ritornando a Il racconto degli dei, oltre al fatto di non essere catalogabile dentro un solo genere letterario, mi aveva colpito per un altro aspetto; tutto il racconto mi era apparso contenesse una spiccata componente politica. 

VDS «In realtà la critica politica è proprio il centro di tutto.»

Non credo sia infatti un caso che il nome dello Stato perfetto descritto nel libro sia Utopia Reale. Ha l’intenzione di rimandare ad altro.

VDS «Non so se qualcuno l’ha identificato, ma all’ interno di questo mio romanzo c’è il racconto della caduta dei sovietici.  C’è un passaggio in particolare in cui, ovviamente romanzato, è descritto il tentato golpe che fecero. Era quella l’utopia reale, lo chiamavano socialismo reale, io l’ho chiamata Utopia reale, anche perché di socialismo non so quanto ce ne fosse.

Va detto che l’Unione Sovietica, appare un mostro ineliminabile, è caduta per responsabilità di Giovanni Paolo II e per colpa degli armamenti americani a cui i russi non riuscivano più a stare dietro. Spendevano migliaia di dollari in armamenti e nei negozi della Russia non avevano più da mangiare. Gorbacëv decise di ‘aprire’ e tutto gli è crollato addosso. E i risultati li vediamo ora. Perlomeno prima si viveva su un filo in equilibrio, la guerra fredda era stata pericolosa davvero. Ma adesso stanno giocando con le testate nucleari, con decisione sconsiderate, come quella degli Americani che hanno deciso che l’Ucraina deve entrare nella NATO. Qui la responsabilità è degli angloamericani. Gli Stati Uniti, gli australiani, gli inglesi e tutti gli alleati che, come gli italiani, non si pongono troppe domande. Giocano col fuoco. Ma a pagarne poi sono sempre le persone senza potere. E i media italiani sono embedded, arruolati, non affidabili. Trenta anni dopo siamo ancora qui ad aspettare la guerra tra americani e russi.»

Esiste una possibilità che quell’utopia reale descritta nel suo libro trovi un modo per realizzarsi o siamo destinati a non vederla mai prendere forma nella realtà.

VDS «L’utopia reale non è catalogabile, come tutto il sistema che nasce con questo nome.

É come se il volume partisse dal 1984, quando la gente si ribella, neutralizza il grande fratello, ne crea un altro, più manipolabile, ma il comando non è acquisito da uno solo ma da una schiera di Ragan (in realtà il nome l’ho preso da un altro libro, da un capolavoro di fantasy del 1700 di Robert Paltock, La Terra del Popolo Volante. La vita e le avventure di Peter Wilkins. Il libro inizia come le storie che andavano di moda allora, del marinaio che finisce su un’isola deserta, ma in questo caso l’isola nasconde altro, perché esiste gente che vola. All’interno ci sono immagini dell’epoca. Ho preso alcuni nomi da qui). Il sistema che si viene a creare con i Ragan, una sorta di sacerdoti al comando, è ancora più oppressivo e solo uno di loro, Klaatu, si rende conto della situazione (Anche il nome Klaatu è una sorta di citazione, è un omaggio a Robert Wise, il regista di Ultimatum alla terra, girato negli anni cinquanta in piena guerra fredda. Sia lui che il suo lavoro furono boicottati all’epoca. Aveva bisogno di automezzi militari per girare il film ma glieli negarono e si rivolse alla guardia nazionale, che è un esercito parallelo). Si assiste perciò alla creazione di un meccanismo di stampo oppressivo, in cui le persone vivono dentro una cappa, proprio come ora dove tutto ci viene pre-confezionato compresa la guerra. È quindi è una critica al sistema attuale. Reso ancora più invivibile dal digitale, almeno per come lo hanno concepito qui in Italia, in cui vivere nell’imbroglio continuo sembra la vera morale.

Come se ne esce in maniera poetica? Grazie al messaggio che mandò il subcomandante Marcos, che pur facendo parte della mitologia centro americana ho inserito nel racconto degli dei. (Lo lessi pubblicato sul Manifesto e ne rimasi molto coinvolto). Nel momento poi in cui facevo riferimenti alla mitologia ho pensato fosse importante inserire quella greca.»

Ricordo una bellissima presentazione proprio de Il racconto degli dei a Roma presso la libreria Le Storie con la partecipazione di Cesare Milanese. In quella occasione asserì che «Gli unici in grado di salvarsi in un mondo insostenibile sono proprio Orfeo e Euridice».

VDS «Ciò che accade nel testo è esattamente quanto accade nel racconto mitologico, in cui Orfeo si gira per vedere la sua amata e lei scompare. Euridix (protagonista del mio libro) era una extra comunitaria sfruttata per basse funzioni, che a centro punto viene presa dalla cupola di comando per essere immessa all’interno di un sistema virtuale. Uccisa, prendono la sua anima e la includono all’interno di un sistema che avrebbe dovuto espandersi in tutto il mondo.»

La riflessione a cui si giunge è proprio quella sulla manipolazione, sul controllo che viviamo, il più delle volte in maniera inconsapevole. Esiste però alla fine un elemento salvifico?

VDS «Sì, Il racconto degli dei. E gli dei in realtà sono le potenze che dovrebbero parlare tra di loro.»

Questo libro è collocato, all’interno di elemento115, la sua casa editrice, in una collana particolare ‘DeadLine’, il cui sottotitolo una narrativa capace di raccontare il presente descrive esattamente la sua idea di ‘fantastico’. Lei lo trasforma in qualcosa di concreto e tangibile, allontanandolo dalla dimensione di divertissement fine a se stesso e avvicinandolo invece a una funzione metaforica del reale. Proprio nel manifesto della sua collana si legge

[…] la realtà presenta verità così avanzate rispetto alla metafora tecnologica, da risultare indefinibile. Se ne deduce che la rappresentazione mimetica (propria dell’arte realistica) è in corto circuito, perché le sue raffigurazioni producono fotografie sempre più sfocate dei mondi che vorrebbero raccontare. Oggi la tecnologia della post-modernità ha dato invece impulso a una rappresentazione a specchio del mondo ‘esterno’, che può essere letta in termini di raffigurazione mitica degli eventi. […]

In tale ottica, il fantastico diventa concreto e tangibile quando funge da lente di ingrandimento e rifrazione dei fatti: in apparenza li deforma, ma in effetti li mette a fuoco, contribuendo a una più autentica percezione. Ma tuttavia la loro velocizzazione impedisce anche a una scrittura ‘semplicemente’ fantastica speculazioni su un qualsiasi futuro, poiché essi oggi invecchiano assai rapidamente, non riuscendo a tenere il passo con i continui rivolgimenti dell’esistente».

VDS «Il fantastico deve essere una metafora per comprendere la realtà, deve metaforizzare la realtà per renderla comprensibile ma non deve vivere di sé, deve uscire dalle pagine, dal contesto, dal tipo di narrazione. Deve far capire il reale.

Mi ricordo che contestarono molto il film di Vittorio De Sica Miracolo a Milano. Negli anni cinquanta, con la fame che c’era, viene presentato questo film con elementi fantastici. Lo stesso De Sica accettò le critiche degli amici, ovvero degli intellettuali del PC. Però visto oggi è pura poesia, contiene elementi di una tale bellezza! Era uscito dalla corrente del neorealismo di Ladri di biciclette, a favore di un certo realismo fantastico. Aveva creato qualcosa di una poesia e di un talento unici.»

Nel manifesto succitato si parla anche di Scrittura neoimmaginaria

«[…] trasfigurare la realtà stessa grazie a una scrittura che qui definiamo scrittura neoimmaginaria: questa dovrà essere il mezzo di comprensione di tale mutazione, in quanto metaforizzazione del tempo presente in funzione della comprensione dei fenomeni del mondo. Sarà una letteratura che non darà notizie dirette ma segnali, in apparenza confusi o contraddittori, perché la sua funzione non sarà di ‘informare’ ma suscitare visioni e ricreare miti. In tale ottica, la realtà corrisponde al corto circuito o al momento di fusione tra ciò che si percepisce e ciò che rimane oscuro, in una condizione di perenne penombra appena schiarita.»

VDS «È la definizione che tenta di catalogare questo tipo di poetica. Il termine in realtà è stato coniato da Cesare Milanese. Oggi la scrittura creativa è possibile se studi ed elabori opere che si muovono proprio in quella direzione. Io stesso mi stavo dirigendo verso quel genere quando invia dei testi a Francesco Bevivino. Oggi lavoriamo insieme per elemento115 ma prima lui aveva un’altra casa editrice, la Bevivino editore. La sua ragazza una volta in libreria trovò un libro che le ricordava tanto il mio e così me lo regalarono. E per me è stata una scoperta, mi resi conto che stavo lavorando su qualcosa, che esistevano autori che queste operazioni già avevano provato a farle. Mi ha così rinforzato sulle mie convinzioni, forse era giusto muovermi per quella strada. Però libri del genere sono davvero complessi e richiedono una lunga preparazione, non puoi inventarli in un mese.»

È possibile che sia stata proprio questa sua voglia di trovare qualcosa che abbia un valore, che riesca a dipanarsi da una letteratura che, forse, oggi non possa più definirsi tale a spingerla ad imbarcarsi in una nuova avventura da editore. Lei in realtà già dirigeva collane per altre case editrici, per cui il passaggio non era poi così scontato.

VDS «Essere editore è una passione. Ma è stato anche frutto di una coincidenza di più cose. Bevivino aveva chiuso la sua attività e così io mi sono fatto avanti per creare qualcosa di nuovo con lui. Io sono il responsabile legale ma chi veramente ha esperienza e competenza è proprio è Francesco, con l’ausilio di sua sorella Rossella Bevivino. E un lavoro davvero complesso, soprattutto oggi.

Io curo la collana viaggiatori per l’utopia.»

Oltre a seguire la collana ‘viaggiatori per l’utopia’, che al suo interno vanta titoli interessanti come il già citato La Terra del popolo volante di Paltock, ma anche Il Turbine Umano di King Camp Gillette e Un racconto del XX secolo. La Colonna di Cesare di Ignatius Donnelly, Lei ha curato anche tutte le traduzioni.

VDS «Sono laureato in lingue. All’inizio ho cominciato con Fiesta di Hemingway, anche se il lavoro a seguito dei tagli e dei cambiamenti operati dalla casa editrice che me lo aveva commissionato non risultava esattamente ciò che avrei voluto fare io. La traduzione è complessa, cerco sempre di rispettare l’autore e il senso del linguaggio originario, non avendo riguardo per la semplificazione a tutti i costi.

Dopo aver cominciato a fere ricerca per la casa editrice, in particolare per la collana ‘viaggiatori dell’

utopia’ che dirigo, mi sono reso conto che esiste un patrimonio immenso, databile intorno alla fine dell’ottocento americano. Anche attraverso le citazioni presenti su quegli stessi testi mi sono reso conto dell’esistenza di centinaia di autori che trattano quel genere. In realtà si rifacevano tutti ad Edward Bellamy e alla tecnica, all’epoca in voga, di tornare indietro nel tempo, proprio come nel romanzo Looking Backward: 2000-1887. Penso al testo di un grande utopista King Camp Gillette (l’inventore delle lamette, di cui abbiamo pubblicato con la casa editrice elemento115 il suo Il Turbine Umano) in cui la gente si muove in una realtà all’avanguardia, con una tecnologia totalmente inventata, ma che per certe misure assomiglia a quella dei computers e delle televisioni.

Viene descritta una scena in cui delle persone si recano in un ristorante e dal tavolo esce fuori uno schermo in cui poter ordinare. Come i ristoranti di oggi!!

Ho letto moltissimi testi di autori utopisti di fine ottocento, alcuni provando a tradurli non erano adatti, troppo farraginosi, ma altri davvero belli. Se ne potrebbe fare una biblioteca.»

Per concludere ci domandiamo che relazione possa esistere oggi tra realtà, simboli e società. Baudrillard, in uno dei suoi testi cardine del 1981 Simulacri e Simulazioni diceva che La società attuale ha sostituito il significato della realtà con simboli e segni e che l’esperienza umana è una simulazione della realtà.

VDS «Jean Baudrillard aveva ragione. È sempre più difficile dipanarsi tra la realtà delle cose e ciò che invece ‘i poteri forti’ voglio farci vedere. La sensazione è che a noi arrivi una selezione delle notizie e purtroppo anche la carta stampata non solo non ci aiuta ma è addirittura complice in tutto questo.

E il male è che in questo momento non vedo una via d’uscita. È tutto annebbiato, annacquato.

Nel mondo manca quell’elemento salvifico di cui parlavo nel testo, anzi il problema è che politicamente e socialmente si stanno polarizzando le contraddizioni.»

«Oggi siamo a un punto di svolta netto: sociale, politico, culturale. Antichi muri sono caduti ma altri se ne stanno elevando: forte è l’anelito delle donne e degli uomini a guardare oltre orizzonti ristretti. […]

C’è il bisogno e l’esigenza di guardare – simbolicamente e materialmente – verso le stelle con occhi comuni.» Vanni De Simone

Ringraziamo Vanni De Simone per il tempo e l’amicizia accordataci, Flavia Sorato per gli scatti, Natasha Chomko (postwook) per la bellissima immagine copertina.

Grazia Deledda. Viaggio tra luoghi interiori.

di Flavia Sorato

«Il rimedio è in noi», sentenziò la vecchia, «cuore bisogna avere, null’altro…»

G. Deledda, Canne al vento.

La scrittura della Deledda ha in sé un principio d’immutabilità che, prendendo forme diverse, si presenta nella sua opera come tenacia, a volte si traduce in invariabilità, a volte poi una magica eternità si combina ad un senso di tragica consapevolezza di ciò che si consuma, che non arriverà mai, ineluttabili bagni di realtà che trasmettono l’esperienza del dolore. A tutto questo si accompagna, poi, un certo senso dell’altrove, d’un’altra dimensione che assume differenti e nascoste declinazioni. Luoghi vicini e discosti, quelli della sua penna.

Gli scritti dell’autrice compongono un sistema eterogeneo che da sempre l’ha resa difficile da incasellare, fortunatamente, perché ricondurla ad uno od altro “ismo” non la potrebbe descrivere e forse non aiuta appieno nel comprendere il suo lavoro.

Buona parte della critica ha sempre additato un certo immobilismo alla Deledda, che fa riferimento ripetutamente ad alcune realtà e simboli, in uno stesso modo, ribadendo immagini, come i giunchi argentei lucenti alla luna, un colore e una presenza, la luna, che tornano spesso nelle sue opere, insieme a personaggi e scenari. Ma è questo stesso mondo, crudele, sofferente ed avvolto da incantesimi e presenze soprannaturali, che ripresentandosi ogni volta nella sua precisa sincerità riavvicina il lettore e lo lega alle parole evocatrici della scrittrice.

Accanto, però, a certe interpretazioni che si sono succedute, contrapposte, l’altrove anche è un tema che ritorna nei suoi testi, sia soprattutto perché quelle dei suoi personaggi sono ricerche di approdi interiori, sia perché di certo la questione assume molte altre sfumature ed infatti si declina su più livelli e come un filo attraversa fasi, intenzioni e scelte della scrittrice.

La Deledda, così fortemente legata ai suoi luoghi e allo stesso tempo attraversata dal desiderio d’uscire dai confini dell’isola, fin da giovane cerca di condurre il più possibile con intensità la sua vita, dedicandosi alla scrittura e circondandosi di persone legate all’ambiente letterario, alla ricerca di quel terreno fertile per coltivare sogni e speranze. In quel contesto conosce uomini con cui intesse relazioni, a volte «preda di una di quelle passioni fantastiche che avranno una meravigliosa funzione compensatoria durante tutta la sua vita». Uno dei suoi primi amori è Antonino Pau, un amico del fratello Santus: la Deledda ne è rapita tacitamente, è affascinata dalla sua cultura, lui che legge poeti, adora d’Annunzio, bello e appassionato, viaggiatore.

Ma questi rapporti della giovinezza, anche a causa della famiglia, non porteranno ad unioni stabili, visto che i genitori della ragazza auspicano posizioni sociali migliori per la figlia e lei stessa, che ormai sente il desiderio di lasciare la Sardegna, spera in qualcuno con cui poter partire una volta sposata. Ecco, allora, che un’occasione tra amici le dà la possibilità di conoscere il suo futuro marito, Palmiro Madesani, che vive e lavora a Roma, una meta da tempo sognata dalla giovane donna: così, dopo il matrimonio, la coppia salpa subito per la capitale.

Viaggio tra il soprannaturale

Un’aura ancestrale pervade le storie deleddiane. L’accostamento tra naturale e soprannaturale è così presente nei suoi libri che non possono dunque questi essere confinati nell’ambito del solo Verismo, etichetta molto spesso apposta all’autrice. È, infatti, un suo forte tratto quello di inserire e trattare l’elemento fiabesco: leggende ed elementi della tradizione sarda popolano i suoi testi, intrisi di cultura religiosa ed etnografica dell’isola. La sua potenza immaginifica attinge molto e profondamente al mondo del folklore, riuscendo a raccogliere e tramutare quella ricchezza di contenuti in un universo suggestivo e magnetico: la si tocca quell’atmosfera sospesa, prodigiosa, è come un tessuto sottilissimo che si apre e svela una notte fatta di presenze antiche, magiche. Nei libri della Deledda accade come di attraversare una soglia, le parole si fanno porta ed ogni volta la lettura diventa un passaggio, schiudendo un mondo in cui è possibile esplorare un paesaggio misterioso ed arcano.

Era il sospiro delle canne e la voce sempre più chiara del fiume: ma era soprattutto un soffio, un ansito misterioso, che pareva uscire dalla terra stessa: sì, la giornata dell’uomo lavoratore era finita, ma cominciava la vita fantastica dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti […] e i nani e le janas, piccole fate che durante la giornata stanno nelle loro case di roccia a tesser stoffe d’oro in telai d’oro, ballavano all’ombra delle grandi macchie di fillirèa, mentre i giganti s’affacciavano fra le rocce dei monti battuti dalla luna, tenendo per la briglia gli enormi cavalli verdi che essi soltanto sanno montare, spiando se laggiù fra le distese d’euforbia malefica si nascondeva qualche drago…(Canne al Vento).

Sicuramente la Deledda rimane una delle guide principali della Sardegna, dato che le descrizioni di certi luoghi riempiono le pagine della sua narrativa:

un orizzonte favoloso circondava il villaggio: le alte montagne del Gennargentu, dalle vette luminose quasi profilate d’argento, dominavano le grandi valli della Barbagia, che salgono, immense conchiglie grige e verdi, fino alle creste ove Fonni, con le sue case di scheggia e i suoi viottoli di pietra, sfida i venti e i fulmini (Cenere)

Prima bozza autografa

Una certa geografia è fortemente presente anche nei suoi scritti incentrati sul fantastico: ci si trova, ad esempio, sulle montagne del nuorese o in luoghi ai più sconosciuti, come le nurras, cavità calcaree nelle cui profondità si pensava dimorassero creature malefiche ed il diavolo stesso.

Ci si avventura in zone di confine, in castelli, santuari, si attraversano territori e ci si ferma in riva a fiumi, come il Coghinas, presso cui è ambientata una storia sarda che parla di una donna che per un amore infelice si fa trasformare in una coga, (strega o maga malefica), e dove appare il classico elemento del tesoro nascosto.

Tra fiabe e leggende trasmesse, rivisitate e riscritte con varianti, dunque, «è possibile ritrovare la Sardegna mitica della Deledda, ovvero quella terra di per se stessa leggendaria e misteriosa, dove ogni chiesa campestre, ogni rovina di castello o di chiostro, ogni villaggio, ogni cussorgia, ogni grotta, ogni dirupo, ogni montagna, ogni landa ha la sua leggenda; ma anche il mistero della favola, quel silenzio finale, grave di cose davvero grandiose e terribili, il mito di una giustizia sovrannaturale, l’eterna storia dell’errore, del castigo, del dolore umano, ossia tutti quei motivi su cui poggia la poetica della scrittrice». (Fiabe e leggende sarde, Indibooks)

Torna alla mente una storia di Stevenson Thorgunna. La donna abbandonata «un racconto d’Islanda, l’isola delle fiabe…». La distanza è tanta, la terra sarda è così diversa dalle spiagge nordiche. Ma i silenzi, la spuma che s’infrange con forza sugli scogli, i segreti sotto i ghiacci e tutta la magia che pervade quei luoghi, ricorda in qualche modo le forti passioni, i misteri e l’atmosfera di sortilegio o maleficio che la Deledda dipinge nelle sue pagine. E poi quella affinata capacità che la scrittrice ha di restituire i mondi interiori, donne e uomini che vivono con dolorosa complessità i propri moti intimi, si respira similmente in quest’opera dello scrittore scozzese, se pur con tutte le ovvie diversità.

Il racconto di Stevenson è una storia di psicologie femminili, di animi, oscuri e bianchi, di menti e di cuori che si macchiano di colpe o che riescono a salvarsi.

Si ritrova qui il tema del viaggio, un’eco di avventure lontane: la vichinga Thorgunna, una donna che esplora mari e terre da sola, arriva a Snowfelness, trasportando con sé bauli colmi di vestiti e ninnoli degni di una regina. Il titolo originale del racconto è The waif woman inizialmente pubblicato in Italia con la traduzione ‘La randagia’, che se pur meno letterale, in parte rendeva meglio quel senso del vagare e di un cammino individuale sì difficile e faticoso, ma anche immagine d’una libera non appartenenza.

Thorgunna approda in un nuovo regno e la signora del maniero, Aud, frivola e preda di avidità ed invidie, vuole stringere a sé tutti i preziosi averi della straniera. Come è possibile prevedere, proprio questa fame esagitata di ricchezze ed il bisogno di ammirazione, la porteranno su una strada oscura e solo la giovane figlia Asdis, esempio d’intelligenza che sa renderla prudente in quella dimensione che obbliga al rispetto di forze più grandi di sé, avrà la lucidità alla fine di compiere ciò che era necessario per riportare equilibrio.

Strade interiori

Ambizione, colpa, senso del peccato, commettere errori: tutti temi, questi, che costellano gli scritti della Deledda. Come anche i forti amori, spesso rincorsi e desiderati.

Da una favola ad un’altra, c’è un racconto dell’autrice che svela molto di lei e del suo rapporto con la scrittura, una malinconica piccola opera che approfondisce i motivi della vicinanza e distanza da sé stessi.

Il rifugio è una storia di un percorso interiore, della ricerca di un nuovo approdo esistenziale che possa offrire se non la salvezza, forse, un riparo vitale.

La principessa Alys vive in un bel castello, senza nulla che materialmente le manchi. Dopo aver sposato un vero e proprio principe azzurro, ideale dell’uomo che riscatta e salva dalla povertà lei e sua nonna, aveva creduto di poter vivere felicemente. Ma il tutto, ipoteticamente idilliaco e perfetto, si mostra essere sofferentemente diverso nella quotidiana realtà. Non c’è vero amore nel cuore della donna, che vive come inconsolabile assenza la mancanza di un sentimento che la vitalizzi, tanto da finire costretta in un’ovattata dimensione di noia e torpore. La sua resa, ad una vita priva di ciò che conta, di ciò che potrebbe animarla, la rinchiude in una prigione emotiva che diventa luogo dalla duplice valenza: nascondiglio e memorandum di ciò che non c’è.

Essere moglie amata, madre, padrona di tutto, non colma quello spazio percepito come posto interiormente non giusto. Alla fine, l’unico altrove in grado di poterla accogliere e dar voce alla sua natura, in cui trova casa la sua identità, è la scrittura:

e lei si rifugiò e si affondò con tutta l’anima e tutti i sensi inquieti nella sua opera: e le sembrava di scrivere quella lettera d’amore che non era riuscita ad incominciare. Lettera per uno e per tutti, che parla di chi scrive e di chi legge e non domanda nulla, ma vuole tutto, e si sfoga, e si vendica del dolore sofferto, dell’amore non avuto, ma che potrà venire, che anzi è già nell’anima della pagina creata; e supera le ingiustizie della vita, e inghirlanda coi fiori della speranza, della gioia, dell’immortalità (Il Rifugio).

Lettere nel mondo

Amore e sorte. Due grandi forze dell’universo deleddiano, presenti non solo nella sua narrativa ma anche in quello che è il grande corpus di lettere da lei scritte: l’autrice ha intessuto degli intesi rapporti epistolari nel corso della sua vita e come ben approfondisce la studiosa e docente Rossana Dedola, molte lettere forse sono ancora custodite in un qualche archivio, nel mondo, in attesa di essere scoperte. La Dedola, proprio in un suo lavoro “Grazia Deledda”. Lettere e cartoline in viaggio per l’Europa”, dà spazio ad una parte della produzione epistolare dell’autrice nuorese, che ancora non era affiorata ma che racconta molto della sua vita privata e dello sviluppo di alcune sue opere, come “Elias Portolou”, “L’edera” e “Canne al vento”.

Insieme alla variegata produzione che deriva dall’assidua collaborazione con le riviste, la cospicua corrispondenza popola e compone in buona parte l’universo della scrittura deleddiana. Di lettere ne sono state trovate tante in archivi vari e la Dedola stessa, infatti, ne ha scoperte e rintracciate alcune a Zurigo, Weimar, Vienna e suppone pure ce ne possano essere ancora d’inedite, anche in Giappone. Non v’è dubbio, in ogni caso, che quelle conosciute siano delle importanti eredità che restituiscono anche una mappa dei suoi luoghi e delle sue trasferte, in posti e città come Parigi, ad esempio: scrive nel 1910

Carissima Signora ed amica, ella ha ben ragione di credere che una gita a Parigi non può cambiarmi! Passato il momento, io sono ritornata alla mia solita vita di lavoro e sogno: la città immensa e rumorosa mi fece una grande impressione, ma ritornata a Roma ho gustato meglio la relativa quiete, la luminosità e la solennità di questa nostra eterna città sempre bella.

Solita vita di lavoro e sogno. È in quest’immagine forse, l’essenza della Deledda e della sua opera. 

Bibliografia di riferimento:

R. DEDOLA, Grazia Deledda. Lettere e cartoline in viaggio per l’Europa, Il Maestrale, Nuoro 2021.

R. DEDOLA G. DELEDDA. Gli amori, i luoghi, le opere, Avagliano, Roma 2016.

G. DELEDDA, Il rifugio, Alter Ego, Viterbo 2020.

G. DELEDDA, Canne al vento, Mondadori, Milano 2018.

G. DELEDDA, Amore lontano. Lettere al gigante biondo, 1891-1990, Feltrinelli, Milano 2010.

R. L. STEVENSON, Thorgunna, la donna abbandonata, Alter Ego, Viterbo 2018.

Se il passato non passa

di Maria Grazia Carnevale

Ciò che riempie la nostra coscienza storica è sempre una molteplicità di voci, nelle quali risuona il passato. Solo nella molteplicità di tali voci

il passato c’è…

H.G. Gadamer, Verità e metodo

La guerra della memoria

Lo scorso 10 febbraio si è celebrato il Giorno del Ricordo, istituito nel 2004 in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale (Legge n.92/2004 consultabile su http://www.gazzettaufficiale.it): il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha definito ‘un impegno di civiltà’ conservare e rinnovare la memoria di tale tragedia, riconoscendo, al contempo, che i sopravvissuti e gli esuli, insieme alle loro famiglie, hanno tardato a veder riconosciuta la verità delle loro sofferenze. Una ferita che si è aggiunta alle altre (Dichiarazione del Presidente Mattarella in occasione del Giorno del Ricordo 2022, http://www.quirinale.it). Memorie negate per anni e, quindi, da ricordare con ancora più forza.

Quasi nello stesso momento veniva pubblicata una Circolare del Ministero dell’Istruzione in cui i massacri sul confine orientale venivano equiparati alla Shoah. Vi si legge, infatti: «Il Giorno del Ricordo e la conoscenza di quanto accaduto possono aiutare a comprendere che, in quel caso, la ‘categoria’ umana che si voleva piegare e culturalmente nullificare era quella italiana. Poco tempo prima era accaduto, su scala europea, alla ‘categoria’ degli ebrei» (Nota del Miur alle Scuole: 10 febbraio 2022 Giorno del Ricordo – Opportunità di apprendimento consultabile su http://www.miur.gov.it). Praticamente immediata la smentita del Ministro Bianchi, dopo le numerose proteste: è un «errore paragonare tragedie, genera altro dolore».  Ed ancora «ogni dramma ha la sua unicità, va ricordato nella sua specificità e non va confrontato con altri, con il rischio di generare altro dolore» (Dichiarazione del Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi: 10 febbraio 2022 consultabile su http://www.miur.gov.it). Memorie negate per anni, di nuovo a rischio di rimozione.

Di cosa ci parlano il discorso di Mattarella e il comunicato di Bianchi? Di un fenomeno sempre più evidente, la trasformazione della memoria pubblica in ‘un campo di battaglia’ per usare la formula di Luisa Passerini, studiosa che ha sottolineato più volte come il XX secolo sia stato un intreccio contraddittorio di memoria e oblio (p.29, Memoria e utopia. Il primato dell’intersoggettività). Del resto, ci aveva avvisato già Paolo Jedlowski: «la memoria pubblica è la memoria della sfera pubblica, ossia l’immagine del passato pubblicamente discussa» (Introduzione). Per sfera pubblica deve intendersi naturalmente l’ambito della vita delle moderne società democratiche – sorto grosso modo nel corso del Settecento e in relazione all’ascesa della classe borghese – al cui interno i convincimenti dei cittadini a proposito di questioni di rilevanza collettiva si confrontano e si influenzano reciprocamente, modificandosi man mano contribuendo al formarsi dell’opinione pubblica attraverso argomentazioni di carattere prevalentemente razionale, suscettibili di critica, in modo tale che tutti i cittadini, in linea di principio possono partecipare al discorso (cfr. J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica). La possibilità di partecipare, però, alla formazione dell’opinione pubblica, non ci mette automaticamente al riparo dalle dinamiche di potere e dai loro pericoli, soprattutto in relazione alla scelta dei criteri di rilevanza e plausibilità degli eventi del passato.

Se la ‘memoria collettiva’ altro non è che l’insieme delle rappresentazioni sociali riguardanti il passato che ogni gruppo produce, istituzionalizza, custodisce e trasmette attraverso l’interazione dei suoi membri fra loro (p. 34, Lineamenti di una sociologia della memoria), è la struttura di potere che caratterizza un gruppo o una società a creare e stabilizzare la memoria (ivi). Ogni processo di selezione del passato implica, infatti, un’attribuzione di valore.

Del resto, già Halbwachs aveva distinto, in una prospettiva marxiana,
‘memorie dei gruppi dominanti’ e ‘memorie dei gruppi subordinati’ (La memoria collettiva), mettendoci in guardia sui tentativi di chi detiene il potere di legittimare la propria posizione o di definire identità attraverso le immagini del passato. 

S. Dalì, La persistenza della memoria 1931.

Come salvare la nostra memoria collettiva?

É sempre più evidente che «il passato non è in grado di difendersi da solo come fanno il presente e il futuro (p. 48, L’imprescrittibile) perché è stato, ma non è più». Da un lato, è temporalmente concluso (quod factum infectum non fieri amavano ripetere i Latini), dall’altro è ormai assente (e tuttavia ancora presente). Paul Ricoeur ci rammenta che «l’idea di perdita è, da questo punto di vista, criterio decisivo della passeità»: infatti, «l’oggetto del passato in quanto trascorso è un oggetto (d’amore, d’odio) perduto» (p.11, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato).  

Non è solo la Storia, in quanto disciplina a statuto scientifico, a venirci in aiuto, è altrettanto importante recuperare una dimensione etica della memoria collettiva. In fondo, riappropriarsi del passato è un’operazione salvifica, soprattutto se accettiamo la tesi di Walter Benjamin secondo cui «solo all’umanità redenta tocca interamente il suo passato» (p. 23, Sul concetto di storia). Non si tratta solo di réparer l’histoire, limitandosi a scuse pubbliche o a tardive richieste di perdono, o ancora di tribunalizzare la storia, per citare la nota espressione coniata da Odo Marquard, nell’intento di autoassolversi, bensì di riappropriarsi di essa al punto di assumersene la responsabilità. Il solo vero antidoto al ripetersi degli errori del passato.

E ciò dipende da «quanto sia grande la forza plastica di un uomo, di un popolo o di una civiltà, voglio dire quella forza di crescere a modo proprio su se stessi, di trasformare e incorporare cose passate ed estranee, di sanare ferite, di sostituire parti perdute, di riplasmare in sé forme spezzate» (pp. 8-9, Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Seconda considerazione inattuale). Anzi trova spazio e conferma nella commemorazione, in quel fare memoria insieme, allo stesso tempo pratica comunicativa e narrativa opposta all’oblio e alla rimozione.

La storia non si snoda

come una catena

di anelli ininterrotta.

In ogni caso

molti anelli non tengono.

La storia non contiene

il prima e il dopo,

nulla che in lei borbotti

a lento fuoco.

La storia non è prodotta

da chi la pensa e neppure

da chi l’ignora. La storia

non si fa strada, si ostina,

detesta il poco a poco, non procede

né recede, si sposta di binario

e la sua direzione

non è nell’orario.

La storia non giustifica

e non deplora,

la storia non è intrinseca

perché è fuori.

La storia non somministra carezze o colpi di frusta.

La storia non è magistra

di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve

a farla più vera e più giusta.

La storia non è poi

la devastante ruspa che si dice.

Lascia sottopassaggi, cripte, buche

e nascondigli. C’è chi sopravvive.

La storia è anche benevola: distrugge

quanto più può: se esagerasse, certo

sarebbe meglio, ma la storia è a corto

di notizie, non compie tutte le sue vendette.

La storia gratta il fondo

come una rete a strascico

con qualche strappo e più di un pesce sfugge.

Qualche volta s’incontra l’ectoplasma

d’uno scampato e non sembra particolarmente felice.

Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato.

Gli altri, nel sacco, si credono

più liberi di lui.

E. Montale, La Storia, 1971

R. Magritte, Memoria 1948.

Bibliografia di riferimento:

A. CAVALLI, Lineamenti di una sociologia della memoria, in P. JEDLOWSKI e M. RAMPAZI (a cura di), Il senso del passato. Per una sociologia della memoria, Franco Angeli, Milano 1991.

M. HALBWACHS, La memoria collettiva, Unicopli, Milano 1987.

J. HABERMAS, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Roma-Bari 2006.

P. JEDLOWSKI Introduzione, in M. RAMPAZI, A. L. TOTA (a cura di), La memoria pubblica. Trauma culturale, nuovi confini e identità nazionali, Utet, Torino 2013.

O. MARQUARD, A. MELLONI, La storia che giudica, la storia che assolve, Laterza, Roma-Bari 2008.

F.W. NIETZSCHE, Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Seconda considerazione inattuale, Adelphi, Milano 1994.

L. PASSERINI, Memoria e utopia. Il primato dell’intersoggettività, Bollati Boringhieri, Milano 2003.

P. RICOEUR, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, il Mulino, Bologna 2004.


 

Anna Achmatova e la memoria degli amori: Gumilëv, Modigliani, Berlin

di Gilda Diotallevi

«No, non era una bellezza. Ma era meglio di una bellezza. Non mi era mai capitato prima di vedere una donna il cui viso e tutta la persona spiccasse ovunque, anche fra le più belle, per la sua espressività, la sua autentica spiritualità, qualcosa che catturava subito l’attenzione…». Georgij Adamovič.

Anna Andreevna Gorenko, conosciuta come Achmatova, è stata una poetessa, una stella del firmamento russo, capace di attraversare tragedie, ingiustizie e difficoltà con una tempra alimentata dalla vocazione per l’amore e per l’arte. In lei infatti la passione e le parole, i versi e gli amori si confondevano fino a divenire una cosa sola. «Nei suoi versi […] la lirica autentica, il sentimento profondamente vissuto».

Le testimonianze di chi l’ha conosciuta offrono di lei un’immagine fuori dal comune, quella di una donna il cui temperamento e la cui personalità erano l’elemento centrale. Aveva occhi chiari grigio-verdi, naso particolare, frangetta scura, portamento fiero, gambe lunghissime. Era bella e ne era consapevole (Io ho indossato la gonna stretta/per apparire ancora più snella).

Così successe che mentre lei si innamorava della poesia (Ho imparato a leggere sui Libri di Lettura di Tolstoj…Ho scritto la mia prima poesia quando avevo undici anni), i poeti si innamorassero di lei. Tra i tanti suoi spasimanti ricordiamo Gulimev, il poeta a capo del movimento acmeista e suo primo marito, Blok (il suo Seroglazyi korol, il re dagli occhi grigi), un giovanissimo Modigliani, Punin, Mandel’stam.

Ma non ci si deve lasciar ingannare dalla sua biografia, perché Anna fu sì una donna affascinante ma soprattutto una talentuosissima poetessa che, come scrive Angelo Maria Repellino «Porta nella poesia russa una sintassi mormorata, un dimesso stile da camera che si avvale di un lessico semplice e giornaliero…comprime e addensa lo spazio semantico, raccorcia le prospettive dei simbolisti a dimensioni terrene…Questa parsimonia espressiva si riflette nella concisione delle immagini, composte con una grafia delicata che fa pensare ai segni della pittura giapponese».

Musa indiscussa degli artisti russi, ispirò amori e versi, Osip Mandel’stam mi guardava mentre parlavo al telefono, attraverso il vetro della cabina. Quando uscii, mi lesse quei quattro versi a me dedicati, ma dall’amore si lasciò ispirare a sua volta.

Nathan Alt’man, Ritratto di Anna Achmatova, 1915

Nel 1915 il pittore russo Natan Al’tman la ritrae e lei gli dedica alcuni versi della poesia Lasciato il bosco della patria sacra.

Come uno specchio, angosciata guardavo

La tela grigia e di settimana in settimana

Sempre più amara e strana era la somiglianza

Mia con la mia immagine nuova.

Ora non so dove sia l’amato artista,

Con cui dalla mansarda azzurra

Per la finestra sul tetto uscivo

E sull’abisso mortale lungo il cornicione

Andavo per vedere neve, Neva e nuvole,

Ma sento che le Muse nostre son amiche

D’amicizia spensierata e incantevole

Come fanciulle che non conoscono amore.

Il lungo percorso di vita di Anna sarà fortemente condizionato dalla poesia, sua unica vera vocazione, che la accompagnerà nel turbinio della sua esistenza e farà da ordito per i suoi amori.

Anna Achmatova, ritratto di Kuzma-Petrov-Vodkin

«Tutta la poesia e l’arte erano per lei – e qui usò un’espressione di Mandel’štam – una forma di nostalgia, un anelito a una cultura universale, come Goethe e Schlegel l’avevano concepita, che abbracciasse tutto ciò che era stato tramutato in arte e pensiero- natura, amore, morte, disperazione e martirio» (p. 232, Impressioni personali).

Nikolaj Stepanovič Gumilëv

Nikolaj e Anna si conobbero nel 1903 a scuola, a Carsko Celo. Lei aveva 14 anni, era già bella, alta, con occhi grandi e luminosi e capelli scuri, ma soprattutto era colta e portata per le lingue, leggeva Baudelaire in francese. «Ho imparato a leggere sui Libri di lettura di Tolstoj e a cinque anni, ascoltando la mia insegnante, ho incominciato a parlare francese. Ho scritto la mia prima poesia quando avevo undici anni». Così quando il diciassettenne Gumilëv la vide, si innamorò a prima vista. Lui, che in onore di Oscar Wilde portava un cilindro e si truccava occhi e labbra, fu folgorato da quella giovane donna che da subito cominciò ad abitare le sue poesie sotto il nome di sirena.

Eppure a tanto amore da parte di lui, corrispondeva indifferenza all’inizio, freddezza e titubanza poi, da parte di Anna, tanto da indurlo a tentare il suicidio più volte, tutte in corrispondenza dei rifiuti di lei di sposarlo. Ma alla fine qualcosa cambiò e così lei acconsentì, con una cerimonia a cui non parteciparono i familiari, scettici sull’unione.

Ti ricordi, come vicino alle valli nuvolose
abbiamo trovato una cornice,
dove le stelle, come una manciata d’uva,
cadevano rapide giù?

E non abbiamo scordato, 
benché ci sia dato l’obliar, 
quel tempo, in cui amavamo, 
quando sapevamo volare.
(N.G.)

Blok, Anna, Nikolaj

Temperamenti tanto diversi resero il loro matrimonio difficile, fatto di avvicinamenti e allontanamenti continui. Durante il viaggio di nozze visitarono Parigi, dove Anna incontrò per la prima volta Amedeo Modigliani, e poi l’Italia, la Romagna in particolare. Dopo solo sei mesi però Gumilëv che con tanto ardore aveva inseguito il sogno di avere Anna, cominciò a viaggiare in Africa, da solo. Si tradirono a vicenda, ebbero entrambi relazioni extraconiugali, e nello stesso tempo si dedicarono versi, fondarono la Ghilda dei Poeti dando vita al movimento acmeista e concepirono un figlio, Lev. Non è chiaro il tipo di rapporto che ebbero, complesso, faticoso, eppure per entrambi importante. E così, nonostante la delusione enorme di Anna nello scoprire che Nikolaj, dopo due anni di matrimonio, si era innamorato di un’altra donna, quando lui fu arrestato e fucilato (era stato accusato di aver preso parte a un complotto sovversivo monarchico) per lei cambiò qualcosa. Dallo shock di sapere Aleksandr Aleksandrovič Blok , il poeta simbolista di cui era segretamente innamorata, e il suo Nikolaj morti non si riprese mai del tutto, nonostante con quest’ultimo conducessero già due vite separate. Ma in fondo Gumilëv era stato entrale per la sua carriera artistica. L’aveva sostenuta e introdotta nei salotti culturali sia russi che francesi. Per cui non meraviglia che sia stata proprio Anna ad occuparsi del lascito di poesie, a tutelare il lavoro artistico del suo ex marito e a dedicargli alcune sue opere.

Amedeo Modigliani

Anna aveva vent’anni quando tornò a Parigi, la prima volta aveva solo conosciuto Modigliani di sfuggita al Café de la Rotonde, giusto il tempo di scambiarsi i loro indirizzi e di capire che sembravano conoscersi da sempre. Lui mentì anche sulla sua età, solo più tardi Anna seppe che aveva 26 anni e che era di Livorno. Dopo la prima grande delusione per il proprio matrimonio Anna volle infatti tornare da quell’uomo che l’aveva incantata tutto il divino scintillava in Modigliani solo attraverso una tenebra. Era diverso, del tutto diverso da chiunque al mondo. La sua voce mi rimase in qualche modo per sempre nella memoria, e che le aveva scritto lettere appassionate durante tutto l’inverno.

I ricordi di quei giorni di primavera del 1911 ci pervengono grazie alle memorie di Anna, pagine preziose, piene di poesie e promesse.

Lei è in me come un’ossessione. (A. Modigliani)


Al posto di una pacifica gioia volevamo un dolore che mordesse…
no, non lascerò il mio compagno dissoluto e tenero.
(A. Achmatova)

Lui le aveva inviato intense lettere appena dopo averla conosciuta nel 1910, mentre lei gli aveva dedicato diversi versi, ma ora che potevano rivedersi lui gli appariva incupito, cambiato. Amedeo, seppur così pieno di vita e adorato dalle donne, sembrava a colei che aveva «la capacità di indovinare i pensieri, di vedere i sogni altrui», solitario, dotato di uno spirito intenso e profondo.

Anna racconta di quanto amasse seguire Amedeo nelle sue peregrinazioni notturne, Mi portava a vedere le vieux Paris derrière le Panthéon, di notte, quando c’era la luna. Conosceva bene la città, ma una volta ci smarrimmo, di come lui le fece scoprire la vera Parigi, non quella alla moda, ma quella dei giardini di Lussemburgo in cui erano soliti camminare gli scrittori dell’Ottocento, le sale del Louvre con le bellezze egizie che avrebbero ispirato il pittore e ancora i boulevard, le osterie, i Randez-vous des cochers, i caffè degli artisti.

Talvolta sedevamo sotto questo ombrello su una panchina del giardino del Lussemburgo, pioveva, una calda pioggia estiva, vicino sonnecchiava le vieux palais à l’italienne, e noi a due voci recitavamo Verlaine, che conoscevamo bene a memoria, ed eravamo felici di ricordare le stesse poesie […]. (op.cit. p.15)

Perché anche quella Parigi in cui, secondo Anna, la pittura si era divorata ogni altra forma artistica, Modigliani e lei continuavano a pensare alla poesia, la declamavano, l’amavano. E a lui dispiaceva di non poter leggere i versi di Anna in russo, ma si ascoltavano a vicenda, parlando attraverso la lingua francese.

Sera

Mi diverte quando sei ubriaco

E nelle tue storie non c’è senso.

Un autunno precoce ha sparpagliato

Gialli stendardi sugli olmi.

Ci addentrammo in un falso paese,

ora ce ne pentiamo amaramente,

ma perché sorridiamo di un sorriso

strano e raggelato?

Al posto di una pacifica gioia

Volevamo un dolore che mordesse…

No, non lascerò il mio compagno

Dissoluto e tenero.

(da Piantaggine, scritta da Anna dopo la morte di Amedeo)

Questa relazione speciale tra i due, la loro passione proibita, fu impressa nei più audaci e meno noti schizzi a matita che ritraggono l’Achmatova nella posa della Maja Vestida e della Maja Desnuda del Goya, ritratti che Modì fece di Anna, non dal vero ma a distanza, basandosi sulla memoria di quella poetessa che non aveva mai posato per lui, ma che gli era stata di grande ispirazione. Purtroppo di tutti quei lavori, sedici nello specifico, ne resistette al tempo solo uno. Un ritratto che lei conservò gelosamente durante tutta la sua vita.

Nelle spoglie stanze che avrebbe abitato una volta tornata in Russia, quel solo disegno aleggiava come memoria di un rapporto speciale, di una vita basata sulla poesia. Lei, dipinta da un pittore che scriveva versi e amava, capiva come pochi la profondità delle parole e la vita che i versi erano capaci di imprigionare.
Non si rividero in futuro. Ma Anna non scordò mai quell’incontro, conservando di Modigliani quell’idea che non ritrovò più nelle successive descrizioni di lui, troppo romanzate, poco vivificanti. Solo nel 1958 la Achmatova scriverà di questo incontro (Le rose di Modigliani), ma è certo che la sua poesia sia stata influenzata fortemente dall’amore per Modigliani.

Probabilmente io e lui non si capiva una cosa fondamentale: tutto quello che avveniva, era per noi la preistoria della nostra vita: la sua molto breve, la mia molto lunga. Il respiro dell’arte non aveva ancora bruciato, trasformato queste due esistenze: e quella doveva essere l’ora lieve e luminosa che precede l’aurora. Ma il futuro che, com’è noto, getta la sua ombra molto prima di attuarsi, batteva alla finestra, si nascondeva dietro i lampioni, intersecava i sogni e spaventava, con la terribile Parigi baudelairiana che si nascondeva in qualche posto, lì accanto. E tutto il divino scintillava in Modigliani solo attraverso una tenebra. Era diverso, del tutto diverso da chiunque al mondo. La sua voce mi rimase in qualche modo per sempre nella memoria. (A. Achmatova, Amedeo Modigliani e altri scritti, p.11)

In realtà la Achmatova fu ritratta anche da Kuz’ma Petrov-Vodkin, Iosif Brodskij e Aleksej Batalov. Il critico d’arte Erich Hollerbach affermò che vi fosse più verità in quei pochi ritratti che nei libri di dieci critici. Ma sarà solo l’Allegoria della Notte di Modì ad accompagnarla negli ultimi anni della sua esistenza.

Amedeo Modigliani, Ritratto di Anna Achmatova 1911

Isaiah Berlin

Anna stava scrivendo il poema L’ospite del futuro quando il segretario dell’ambasciata britannica a Mosca, il trentacinquenne professore di filosofia sociale e di teoria politica all’Università di Oxford Isaiah Berlin, si presentò alla sua porta. 

Due coincidenze resero possibile questo incontro, la nostalgia di Berlin per San Pietroburgo in cui aveva passato l’infanzia

Lui rimase a lungo fuori, nella neve, respirando il buio del cortile interno, sporco e in abbandono come quando l’aveva visto l’ultima volta, ai tempi di Lenin. Passò le mani sul familiare corrimano rotto del piccolo negozio nel sottoscala, quello con l’insegna con la scritta sbagliata SHAMOVAR, dove il vecchio stagnino aveva riparato samovar e altri utensili domestici. Si sentiva sospeso tra il troppo reale passato e l’irreale presente. In una nebbia malinconica, vagò lungo la riva della Neva e poi sulla Prospettiva Nevskij.

e l’aver sentito che nelle librerie di Leningrado i libri costavano meno che a Mosca, «per via della mortalità terribilmente alta durante l’assedio e della possibilità di barattare generi alimentari con i libri» (I. Berlin, Personal Impressions, p. 217).

Proprio in una libreria degli sulla prospettiva Nevskij, dove «[…] figure mezzo morte per il freddo e la fame erano arrivate stringendo in mano capitoli strappati a vecchi libri, sperando di poterli scambiare con del cibo» (I. Berlin, Ivi),Berlin parlando con Orlov, colui che stava curando la prima edizione di poesie di Anna, scoprì che la poetessa non abitava lontano da lì e che avrebbe potuta incontrarla. Emozionato all’idea di incontrare un nome leggendario dell’epoca prerivoluzionaria, acconsentì. Fu così che Orlov e Berlin si ritrovarono di fronte all’ ex palazzo dei Conti Seremtev, chiamato Fontannij Dom, «Salimmo su per una scala ripida, buia, fino a uno dei piani superiori e fummo introdotti nella stanza di Anna. Era come se mi avessero invitato a incontrarmi con Christina Rossetti», a suonare all’appartamento numero 44. Anna dopo la separazione dal secondo marito Nikolai Punin era tornata a vivere con lui, convivendo però sia con la prima moglie di lui e la figlia, che con l’attuale moglie Margherita e il figlio. Ad Anna era destinata una stanza affacciata sul cortile, alla fine di un corridoio.

Era del tutto spoglia, non c’erano tappeti sui pavimenti né tende alle finestre, solo un piccolo tavolo, tre sedie, un armadio, un divanetto e, accanto al letto, un ritratto della Achmatova, distesa su un divano, la testa reclinata; l’opera era stata realizzata di getto da Amedeo Modigliani durante una breve visita della poetessa a Parigi nel 1911. Imponente, con i capelli grigi, uno scialle bianco gettato sulle spalle, la Achmatova si alzò a salutare il suo primo ospite da quel continente perduto. A Isaiah parve giusto inchinarsi, poiché lei aveva l’aspetto di una tragica regina.

Ma passarono solo pochi minuti prima che il figlio di Churchill urlò da sotto le finestre il nome di Berlin che, per evitare incidenti diplomatici, scappò via, salvo poi richiamare la Achmatova per scusarsi. Non si sarebbe aspettato di poterla rivedere, e invece lei, senza indugi gli disse solo «La aspetto questa sera alle nove». Non era una risposta da poco, perché lei «aveva ommesso il reato di incontrare uno straniero senza un’autorizzazione formale, e non uno straniero qualsiasi, bensì un dipendente di un governo capitalista» (op.cit. p.236). Da quel momento infatti Anna divenne bersaglio di illazioni collaborazioniste e le fu inflitta una formale scomunica da parte di Andrj Zdanov che in quel periodo era arbitro della linea cultural del partito, che l’avrebbe esclusa dal suo stesso mondo. «…degli acmeisti…È una rappresentante di quel pantano letterario reazionario senza idee, del tutto estranea alla letteratura sovietica. I temi di Anna sono esclusivamente individualistici… È la poesia della dama da salotto impazzita, che si muove tra il boudoir e l’inginocchiatoio. Il suo materiale è costituito da motivi erotici, legati ai temi della tristezza, della malinconia, della morte, del misticismo, dell’abbandono… È per metà suora, per metà sgualdrina. La sua poesia è del tutto estranea al popolo». Evidente è l’istinto sessista di una società caratterizzata da tabù erotici e smania di far misteriche l’avrebbe esclusa dal suo stesso mondo.

Ma lei pensava in modo differente, poetico. Solo dopo si venne a sapere cosa scrisse in quel frangente

Ma quanto gioiosamente

Ho sentito il suo passo

Sulle scale, il suo tocco sul campanello,

Timido come il polpastrello di un ragazzo

Che sfiori la sua prima ragazza.

Lui tornò e questa volta con Anna, che se ne rimase in silenzio, c’era una sua conoscente, un’archeologa che gli pose domande sulle università inglesi. Soltanto verso mezzanotte rimasero soli in quella stanza poco illuminata, mentre lui fumava sottili sigari svizzeri. Come in un viaggio lungo il passato, Anna cominciò a chiedere di coloro che aveva conosciuto e che ora risiedevano in Occidente. Parlò del primo marito e pianse pensando alla sua innocenza (fu giustiziato per congiura monarchica), ma con dignità perché non voleva che Berlin provasse compassione per lei. Poi «Mi lesse il Poema senza eroe, all’epoca non ancora compiuto. Già allora ero consapevole che si trattasse di un’opera geniale» e mentre declamava Requiem si interrompeva spesso e raccontava stralci di vita vera.

Era tardi, «Avevamo fatto, credo, le tre del mattino. Non accennava a volermi congedare. Io ero troppo commosso e assorto per muovermi» (Op.cit., p. 226) anche se l’arrivo del figlio di lei Lev interruppe di nuovo la loro conversazione esclusiva. Mangiarono, anche se c’era poco da offrire, e bevvero. Solo verso le quattro rimasero ancora soli. Parlarono di letteratura russa, delle loro passate relazione e si aprirono. Si conobbero senza maschere.

Un incontro speciale per Anna che, come scrisse Anatolij Najman «precisò il suo cosmo poetico e lo rinnovò completamente, mobilitò nuove energie creative». E proprio la brevità e al contempo l’intensità di quell’incontro fece scrivere alla Achmatova

Disgiunti, così, dalla terra

in altro passavamo come stelle

Lei seppe trasformare quella conoscenza, spingerla oltre nel suo immaginario sublimando l’amore in poesia  e permettere alla sua arte di essere ancora forte. Scriverà, dopo la morte di lei, Berlin «Se la mia visita ebbe un tale effetto sull’Achmatova […] ero la prima persona del mondo esterno che parlasse la sua lingua e potesse darle notizie di un mondo da cui era stata isolata da molti anni. …sembrava che vedesse in me un ospite predestinato, forse un fatidico messaggero della fine del mondo- un tragico preannuncio del futuro, qualcosa che la colpì nel profondo e può aver contribuito a un nuovo effondersi della sua energia creativa» (op.cit., p. 234).

Via il tempo, via lo spazio,

attraverso la notte bianca ho visto tutto:

il narciso nel cristallo sul tuo tavolo,

l’azzurro fumigare del sigaro.

(Nella realtà, da La rosa di macchia fiorisce)

Non dovrai su un asfalto di foglie cadute

Attendermi a lungo.

Tu ed io  nell’adagio di Vivaldi

Ci incontreremo di nuovo.

(Poema senza eroe e altre poesie, Einaudi 1966)

Nero e puro distacco

Che io sopporti al pari di te.

Perché piangi? Dammi meglio la mano,

prometti di ritornare in sogno.

Noi siamo come due monti…

non ci incontreremo più in questo mondo.

Se solo, quando giunge mezzanotte,

mi mandassi un saluto con le stelle.

(In sogno, in La rosa di macchia fiorisce)

Dall’altra parte Berlin, intervistato da Dalos circa i suoi sentimenti per Anna rispose «No, non mi facevo fantasie», ma la ammirava, ne era affascinato e aveva a lungo nutrito verso di lei un senso di colpa. Quello per aver peggiorato la sua situazione con il suo paese, di aver contribuito al boicottaggio della sua arte e alla persecuzione della polizia segreta a cui Anna fu piegata.

Si sono amati per una notte, ma senza pretese, con la più totale consapevolezza della fugacità di quell’incontro. Eppure proprio la resistenza di Anna a dimenticare le permise di aprirsi di nuovo alla passione, alla scrittura.

La porta che tu hai aperto per metà

Mi manca la forza di chiuderla

Dopo quella sera si rividero altre due volte, a distanza di anni. La prima fu il 3 gennaio del 1946, quando Berlin si recò di nuovo da lei per consegnarle una copia di Il Castello di Kafka, in inglese, e una raccolta di poesie di Sitwell, lei gli regalò volumi delle sue poesie con delle dediche, una delle quali riportava una citazione tratta dal Poema senza eroe,

Nessuno bussa alla mia porta, solo lo specchio sogna di uno specchio,

e la quiete sta a guardia della quiete. 4 gennaio 1946.

Il perché l’amore fosse necessario per la sua arte lo troviamo in un suo verso, nel ciclo di poesie Cinque

Fin dai miei giorni più antichi non i piaceva

Che si avesse pietà di me,

ma con una goccia della tua pietà

vado in giro come il sole in corpo.

Vado e faccio miracoli,

lo vedi perché?

Anna visse amori e passioni che seppe tradurre in una poesia, alimentata da ricordi e astrazioni universali. In una lettera di Boris Pasternak datata 26 luglio 1946, scopriamo come fosse ancora vivido l’effetto dell’incontro con Berlin l’anno precedente e di come potesse farsi motore della sua, seppur silente, produzione artistica.

«Quando l’Achmàtova è stata qui una parola su tre…riguardava lei. E in maniera così drammatica e misteriosa! Una notte ad esempio, in taxi, di ritorno da una serata, era al tempo stesso raggiante e stanca e aveva già quasi la testa tra le nuvole, quando mi sussurrò in francese Notre ami… Alla fine i suoi amici…cominciarono…ci descriva Berlin. Seguì il mio elogio e solo dopo incominciò il vero dolore della Acmàtova…».

Ci incontrammo in un anno inconcepibile,

quando languiva l’energia del mondo,

tutto era lutto, tutto piegava sotto la sventura,

ed erano fresche soltanto le tombe.

Così quando ti invocò la mia voce,

cosa facessi io stessa non capivo.

(Da La rosa di macchie fiorisce, p. 253)

Ci scegliemmo un anno sbagliato,

anche di questo non ci diede pace.

Dio mio, era forse una colpa?

E il destino di chi ci è toccato?

Meglio non essere al mondo,

il Cremlino del cielo ci spetterebbe,

di diventare come uccelli, come fiori,

eppure saremo noi- io e te.

Bibliografia di riferimento:

A. AKMATOVA, Amedeo Modigliani e altri scritti, SE, Milano 2004.

A. AKMATOVA, Le rose di Modigliani, Il Saggiatore, Milano 1982.

A. AKMATOVA, Poema senza eroe e altre poesie, Einaudi, Torino 1966.

I. BERLIN, Impressioni personali, Adelphi, Milano 1989.

G.DALOS, Innamorarsi a Leningrado, Donzelli, Roma 2007.

B. NOSSIK, Anna e Amedeo, Odoya, 2015.